Arturo Graf

"Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo vol. II"

CAPITOLO XII. Trajano.

Dante trova Trajano fra l'anime beate che nel cielo di Giove ricevono premio e sono glorificate per avere amata ed amministrata la giustizia nel mondo. Un imperatore non battezzato, fatto partecipe della felicità degli eletti, non è certo la meno strana fra le immaginazioni e le favole di cui siamo venuti discorrendo sin qui, o discorreremo in seguito. La storia autentica nulla ricorda che faccia parer degno di tanta grazia Trajano; anzi narra di fatti che avrebbero dovuto renderne odiosa alla Chiesa la memoria in perpetuo; giacchè egli fu persecutore dei cristiani, e in molte cronache del medio evo si fa espresso ricordo di ciò, e, con certa alterazione di verità, si dice che dalle persecuzioni desistette più tardi per consiglio e per intercessione di Plinio il Giovane. Si sa inoltre ch'egli fu dedito al vino un po' più dell'onesto, e non rifuggì da certi amori, in quel tempo non meno latini che greci. Di ciò Dione Cassio non sembra fargli gran carico; ma Gregorio Magno, se l'avesse saputo, l'avrebbe senz'alcun dubbio lasciato stare all'inferno, d'onde, secondochè la leggenda racconta, con perseverantissime preci gli venne fatto di trarlo. Più delle sue colpe si ricordavano le sue virtù, e in particolar modoil grande amore della giustizia. Alessandro Neckam esprimeva un comune giudizio dei tempi suoi quando diceva a tale proposito:

Trajanum superis aequat clementia summa.

La leggenda comincia a lavorare intorno a Trajano già sino dal terzo secolo. Molti atti di bontà gli sono attribuiti de' quali egli non ebbe merito, e di cui altri rimane spogliato in suo beneficio. Chi più vi scapita è Adriano. Così la fantasia, coadiuvando la storia nel perpetuare ed accrescere la buona riputazione di Trajano, preparava la via alla

leggenda celebre della redenzione di lui dall'inferno. Il documento più antico in cui questa leggenda si trovi riportata è la Vita che del santo papa Gregorio scrisse Paolo Diacono, come sembra, in Roma stessa, corrente l'anno 787. Ecco in breve la sostanza di tale racconto. Trajano partiva per una spedizione guerresca, seguito da numeroso esercito, quando una vecchia vedova, cui era stato ucciso ingiustamente il figliuolo, gli si fece incontro domandando giustizia. Trajano prometteva di esaudirla quando fosse tornato; ma, ripreso da lei di tal negligenza, si fermò, e non volle più oltre procedere finchè non le ebbe fatta ragione. Passando un giorno San Gregorio per il Foro Trajano, vide le testimonianze e udì narrare la storia di quella giustizia, onde cominciò a lacrimare per la pietà e a pregare Iddio che volesse usare la sua misericordia verso quell'ottimo principe. Così giunse al sepolcro di San Pietro, dove continuando a pregare si assopì, e nel sonno ebbe per rivelazione che la sua preghiera era stata esaudita; ma perchè si guardasse da indi in poi di pregare per chi era morto senza battesimo, ebbe a soffrire il castigo della sua tracotanza. che Paolo Diacono abbia composta una Vita di San Gregorio è certo, poichè egli stesso ne fa poi ricordo nella Historia Langobardorum, e che la Vita scritta da lui sia quella medesima che, sotto il suo nome, è venuta sino a noi non si può ragionevolmente mettere in dubbio, sebbene sia stato da parecchi negato. Ma non è men vero che sono da considerare come una interpolazione i capitoli 17-23, dove si narrano i miracoli più insigni di Gregorio, tra gli altri quello della salvazione di Trajano. Tale racconto contraddice formalmente a quanto lo stesso Paolo Diacono afferma in questo medesimo scritto, che, cioè, San Gregorio avrebbe agevolmente potuto fare miracoli, se gli si fosse offerta occasione. Questa interpolazione dev'essere del resto assai antica, giacchè si ritrova in presso che tutti i manoscritti.

Nel IX secolo la leggenda è raccolta da Giovanni Diacono, che la narra nella Vita Sancti Gregorii Magni da lui composta. Questo racconto, confrontato col precedente, presenta alcuneparticolarità e differenze notabili, ma mostra di derivare da una medesima fonte con quello. Paolo, o l'ignoto interpolatore del suo scritto, non dice d'onde attinga; Giovanni accenna espressamente a documenti scritti e divulgati per le Chiese d'Inghilterra: Legitur etiam penes easdem Anglorum Ecclesias, ecc. Poi nel suo racconto comincia a prendere maggiore svolgimento il dialogo fra la vedova e Trajano, dialogo che non mancherà mai nei riferimenti posteriori della leggenda, e di Trajano non si dice che, provveduto alla

vedova, mandasse sciolti i rei, com'è narrato nella scrittura di Paolo, e non si accenna a nessuna punizione inflitta dal cielo a Gregorio. Nella breve Vita di questo pontefice pubblicata anonima dal Canisio il miracolo è similmente narrato, e con le stesse parole quasi di Giovanni Diacono. Tuttavia scostandosi da costui in sul principio del racconto, l'autore di essa ricorda che Trajano perseguitò ferocemente i cristiani, e dice che San Gregorio lo trasse bensì dall'inferno, ma non però gli aperse le porte del paradiso. Più antico di questi sarebbe il racconto contenuto nella omelia De iis qui in fide dormierunt(XVI), attribuita a San Giovanni Damasceno, se veramente questo padre ne fosse l'autore. Ma che non sia dimostra fra l'altro quanto in un luogo di esso racconto si afferma, cioè che il miracolo era noto in tutto l'Oriente e in tutto l'Occidente, cosa che Giovanni Damasceno non avrebbe potuto affermare a mezzo del secolo VIII, quando nel IX vediamo Giovanni Diacono non conoscere ancora altre fonti della leggenda che la relazione sparsane per le Chiese d'Inghilterra.

Questa leggenda, di cui abbiamo veduto la prima forma e le testimonianze più antiche, era destinata ad avere per tutto il medio evo una grande e crescente celebrità. Parecchie ragioni cooperavano a procacciarle favore; anzi tutto la qualità dei personaggi che vi sono introdotti; da una parte un imperatore romano, dall'altra un pontefice famosissimo e che porse argomento d'altre leggende alla fantasia popolare; poi la stessa curiosità della favola; finalmente la esemplarità sua. In tempi di fede assai viva, quando le coscienze erano senza posa affaticate, o almeno molto spesso ricorse dal pensiero dell'altra vita, e l'uomo era del continuo richiamato alla considerazione delle mille pratiche e de' mille espedienti onde poteva giovarsi per conseguire l'eterna salute, la storia di un principe pagano, a cui era fatta grazia di uscire dall'inferno e di salire tra i beati, non poteva non trovare avidi ascoltatori e ricordatori fedeli. Quale prova più trionfale della efficacia della preghiera, che, secondo la bella espressione di Dante, fa forza alla stessa divinità, e quale più chiara dimostrazione che l'esercizio di una sola virtù può ricomprare tutta una vita di colpe? Ileggendarii abbondano di esempii d'uomini sceleratissimi che riuscirono a salvarsi, o perchè in mezzo a tutte le sceleraggini loro durarono devoti di Maria, o perchè con un atto di pietà o di giustizia interruppero il corso delle loro nequizie. Oltre a ciò la storia di Trajano, a cui un atto di giustizia acquista il cielo, poteva essere ricordata come esempio illustre a quanti hanno in terra il grave carico di reggere i popoli e di amministrar la giustizia. Il medio evo

ebbe dello stato un concetto essenzialmente etico, e pose la giustizia primo fondamento della politica.

Legem servare, hoc est regnare.

dice Vipone in uno de' suoi Proverbii composti nel 1027, o 1028, e dedicati ad Enrico III. Dante pone in Giove i principi che esercitarono la giustizia, e Calandre avverte nella sua Cronaca rimata degl'imperatori:

Tant faz je les princes savoir

Que nus n'a tresor ne avoir

S'il n'a justise et verite.

Però è da meravigliare che quello esempio della giustizia di Trajano non si trovi ricordato in alcuno di quei trattati di cui ebbe copia il medio evo, intesi a instituire i principi nella virtù e nelle dottrine del buon governo, come sarebbero il De regimine principum di Egidio Colonna, e il De regimine rectoris di Fra Paolino Minorita. Ma nel poema francese di Girart de Roussillon, composto fra il 1330 e il 1348, si narra il fatto della giustizia di Trajano, e si dice espressamente che il valoroso Gerardo, il quale nell'esercizio di tutte le virtù cercava di seguire gli esempii degli uomini eccellenti, come Romolo, Giulio Cesare Augusto, non dimenticò quello che aveva lasciato al mondo Trajano:

Trop bien li sovenoit de Trajain l'emperiere.

Dopo il riferimento fattone da Giovanni Diacono, che dovette scrivere la sua Vita di San Gregorio tra l'872 e l'882, noi non troviamo, per lo spazio di quasi tre secoli, altra testimonianza della leggenda di Trajano, sino a giungere a quella che si trova nel Polycraticus di Giovanni Sarisberiense, finito di scrivere nel 1159. Questo è un fatto molto importante, perchè dimostra che la nostra leggenda stentò gran tempo a ottenere il favore che poi più tardi le fu così universalmente consentito, e non si diffuse da prima fuori di quella Inghilterra d'onde Giovanni Diacono l'aveva ricevuta, e dove ora la vediamo novamente raccolta ed esposta da uno scrittore celeberrimo.

Giovanni Sarisberiense, dopo aver dichiarato di porre Trajano al di sopra di Cesare, di Augusto e di Tito, entra a narrare la leggenda in questa forma: "Ut vero in laude Trajani facilius aquiescant, qui alios ei praeferendos opinantur, virtutes ejus legitur commendasse sanctissimus papa Gregorius, et fusis pro eo lachrymis inferorum compescuisse incendia, Dominoremunerante in misericordia uberi justitiam, quam viduae flenti exibuerat Trajanus. Quum enim memoratus Imperator jam

equum adscendisset, ad bellum profecturus, vidua apprehenso pede illius, miserabiliter lugens, sibi justitiam fieri petiit, de his qui filium ejus optimum et innocentissimum juvenem injuste occiderant. Tu, inquit Auguste, imperas, et ego tam atrocem injuriam patior? Ego, inquit imperator, satisfaciam tibi quum rediero. Quid, inquit illa, si non redieris? Successor meus, ait Trajanus, satisfaciet tibi. Et illa: Quid tibi proderit si alius benefecerit? Tu mihi debitor es, secundum opera mercedem recepturus. Fraus utique est nolle reddere quod debetur. Successor tuus injuriam patientibus, pro se tenebitur. Te non liberabit justitia aliena. Bene agetur cum successore tuo, si liberaverit se ipsum. His verbis motus imperator, descendit de equo, et causam presentialiter examinavit, et condigna satisfactione viduam consolatus est. Fertur autem beatissimus Gregorius Papa tamdiu pro eo fudisse lachrymas, donec ei in revelatione nunciatum sit Trajanum a poenis inferni liberatum sub ea tamen conditione, ne ulterius pro aliquo infedeli Deum sollicitare praesumeret".

In questo racconto si nota anzi tutto il maggiore svolgimento dato alle ragioni con cui la vedova stringe Trajano a farle pronta giustizia: esso è senza dubbio dovuto allo stesso Giovanni Sarisberiense, il quale, discorrendo, in quella parte del suo libro, della epistola indirizzata da Plutarco a Trajano, e del buon reggimento degli stati, trovò opportuno d'insistere alquanto più sulla virtù capitale del principe, che è la sollecita amministrazione della giustizia. Quanto al rimanente del racconto Gaston Paris crede che Giovanni Sarisberiense l'abbia composto traendone gli elementi, così dal racconto di Paolo, come da quello di Giovanni. Ma su ciò si può muovere un dubbio. Giacchè Paolo e Giovanni derivano da una fonte comune i loro racconti, non avrebbe potuto da questa medesima fonte derivare il suo Giovanni Sarisberiense? Sarebbe così più semplicemente spiegato il fatto dei riscontri di concetti e di parole che Gaston Paris viene notando. Ai tempi in cui Giovanni Sarisberiense scriveva è molto probabile che in qualche chiesa d'Inghilterra si conservassero ancora le relazioni antiche a cui Giovanni Diacono accenna, per modo che non fosse necessario ad uno scrittore inglese l'andare ad attingere in libri di stranieri la notizia del miracolo; e d'altra parte mi ripugna di ammettere che l'autore del Policratico, uso a conversare coi classici, volesse torsi la briga di confrontar fra di loro due scritture quali sono quelle di Paolo e di Giovanni, e studiarsi di scegliere in ciascuna di esse le parole che meglio gli si affacevano.

Se alcuni tra i narratori che vengono dopo si attengono alla versione di Giovanni Diacono, come fanno, fra gli altri, l'autore degli Annales Magdeburgenses, Giovanni Bromyard, Teodoro Engelhusio, Gotofredo da Viterbo,il numero di coloro che seguitano la versione di Giovanni Sarisberiense è di gran lunga maggiore. Quella per contro di Paolo Diacono ebbe pochi seguaci, benchè lo scritto che la contiene fosse conosciutissimo. Tuttavia da essa par che tragga principio quanto in alcuni racconti di tempo posteriore si narra di un castigo toccato a San Gregorio, poichè di un castigo sì fatto Giovanni Diacono e Giovanni Sarisberiense non dicono parola. La narrazione di Paolo è inoltre recata per intero da Bonino Mombrizio nella Vita Sancti Gregorii papae, la quale fa parte del suo Sanctuarium. Il racconto di Giovanni Sarisberiense fu da Elinando inserito nella sua cronaca, d'onde Vincenzo Bellovacense lo recò nello Speculum historiale. Gli è probabilmente dopo essere entrata in questa celebre compilazione, e per suo mezzo, che la leggenda ottenne maggiore diffusione ed entrò nel numero delle finzioni più famose del medio evo. Dalla cronaca di Elinando, o dallo Speculum di Vincenzo, passa la favola nel Fiore di filosofi, attribuito contr'ogni ragione a Brunetto Latini, e poi dal Fiore passa nel Novellino. L'autore del Dialogus creaturarum che, come Dante, pone il fatto di Trajano fra gli esempii di umiltà, cita,(cap. LXVIII), per una delle due versioni che reca, Elinando: Helinandus in gestis Romanorum narrat. Venuto in sulla prima balza del monte del Purgatorio Dante trova una ripa di marmo candido e adorno, dove sono con arte mirabile intagliati alcuni solenni esempii di umiltà, e con la scena dell'Annunziazione, e con quella di Davide danzante davanti all'arca santa, quella ancora di Trajano e della vedova. I versi impareggiabili in cui tale scena è ritratta, benchè cogniti a tutti, vogliono essere riportati per intero.

Quivi era storïata l'alta gloria

Del roman principato, il cui valore

Mosse Gregorio alla sua gran vittoria:

Io dico di Traiano imperadore;

Ed una vedovella gli era al freno,

Di lagrime atteggiata e di dolore.

Intorno a lui parca calcato e pieno

Di cavalieri, e l'aquile nell'oro

Sovr'esso in vista al vento si movieno.

La miserella intra tutti costoro

Parea dicer: "Signor, fammi vendetta

Di mio figliuol ch'è morto, ond'io m'accoro".

Ed egli a lei rispondere: "Ora aspetta

Tanto ch'io torni". E quella: "Signor mio,"

Come persona in cui dolor s'affretta,

"Se tu non torni?" Ed ei: "Chi fia dov'io

La ti farà." E quella: "L'altrui bene

A te che fia se il tuo metti in obblio?"

Ond'egli: "Or ti conforta, che conviene

Ch'io solva il mio dovere, anzi ch'io mova:

Giustizia vuole e pietà mi ritiene".

Della seconda parte della leggenda dov'è narrata la salvazione di Trajano, qui il poeta non fa che un cenno; ma egli poi trova, com'è noto, l'anima dell'imperatore in Giove, tra quelle che hanno premio di maggior gloria.Il racconto che Benvenuto da Imola introduce nel suo Commento, al c. X del Purgatorio, lascia dubbio se provenga dallo Speculum, oppure dal Polycraticus.

Nei varii documenti passati in rassegna sin qui abbiamo veduto la leggenda, o almeno la prima parte di essa, conservare la forma sua primitiva; ma già molto prima di Dante, prima ancora, senza dubbio, dello stesso Giovanni Sarisberiense, il lavoro di lenta e progressiva alterazione che a mano a mano viene trasformando tutte le leggende, era cominciato anche dentro di questa. Nella Kaiserchronik, composta, com'è noto, verso il mezzo del XII secolo, i lineamenti principali della leggenda rimangono immutati, ma la narrazione si allarga e si arricchisce di alcuni particolari curiosi. Precede l'elogio di Trajano,

Trâjânus was ein helt kuone

unde milde genuoge:

egli giudicava con pari giustizia il signore e il servo, non accettava doni, e puniva di morte chiunque tentasse corromperlo con ricchezze;

er hete ein kuniclîch leben.

Un giorno vennero messi ad annunziare a Trajano che i Normanni avevano uccise le sue genti, erano penetrati nelle terre dell'impero, rubando e incendiando, e tenevano il mare con le loro navi. Trajano

raccolse il suo esercito per passare il mare; in quella che stava per mettere il piede nella staffa ecco farglisi incontro una vedova che con alte strida gli domanda giustizia. Segue il consueto dialogo; ma in esso, più che in altri racconti non si vegga, spiccano l'arditezza della vedova e l'umiltà di Trajano: quella minaccia all'imperatore l'eterno castigo, questi prega la vedova di lasciarnelo andare. Vinto poscia dalle ragioni di lei, egli scavalca, fa cercare il colpevole per tutta Roma e Laterano, lo fa condurre alla sua presenza. Costui non è senza scusa: egli ha ucciso il figliuolo della vedova per vendicare il proprio fratello che da quello gli era stato morto. Ma tale scusa non è ammessa per buona da Trajano, che dice al reo: Se t'era stato ucciso il fratello, tu dovevi ricorrere a me, dappoichè i Romani mi hanno scelto a loro giudice. Tu hai sostituito il tuo al mio giudizio. Dopo di ciò fa decapitare l'uccisore, e presenta il capo alla vedova che loda e benedice l'imperatore. Questi allora si rimette in cammino, passa il mare, sconfigge i Normanni, fa prigione il loro re e torna glorioso e trionfante in Laterano. Segue la narrazione del miracolo operato a intercessione di San Gregorio, e qui appajono nella leggenda alcune particolarità nuove sulle quali tornerò or ora.

Una delle variazioni presentate dal racconto della Kaiserchronik non è senza importanza: il figliuolo della vedova non è più il giustissimo ed innocentissimo giovane delle versioni più antiche; ma è egli stesso un omicida; e Trajano puniscel'uccisore di lui, non tanto perchè si sia lordato le mani di sangue, quanto perchè si arrogò di farsi giustizia da sè, recando offesa per cotal modo alle prerogative imperiali. Il motivo dell'azione di Trajano è più politico che morale, e con esso assai malamente può conciliarsi la presentazione che del capo del secondo uccisore è fatta alla vedova. La leggenda è dissestata, e le varie sue parti non si raffrontano più come prima. In questa medesima forma è essa narrata da Heinrich von München, il quale segue verso a verso il racconto della Kaiserchronik.

Ma a tale punto una variazione di molto maggior rilievo, di cui si hanno testimonianze del mezzo del secolo XIII, appare nella leggenda. Dacchè la fantasia e degli eruditi e del popolo si era venuta rappresentando Trajano come un tipo perfetto di principe giusto, voleva la logica consueta della leggenda, e richiedeva in certo qual modo il sentimento morale, che si esagerasse la gravità della prova per far più bella la vittoria del principe e più luminoso l'esempio. Nella tradizione più antica Trajano, con piegarsi ai prieghi della vedova non incorre in danno alcuno,

ma solo ritarda la sua mossa contro ai nemici. L'uccisore ch'egli punisce gli è estraneo, ed anzi nel racconto della Kaiserchronik è reo anche verso di lui. La leggenda fa un salto e mostra a un tratto nella persona dell'omicida lo stesso figliuolo di Trajano. La nuova versione appare qua e là diversa, quando con una, quando con altra movenza, ma nella forma sua più comune svolge il seguente fatto: Il figlio di Trajano, trascorrendo col cavallo per la città, uccide involontariamente il figliuolo della vedova; Trajano vuol punire il suo proprio figliuolo di morte; ma richiestone da colei, a lei lo concede, perchè le sia in luogo di quello che ha perduto. Questa versione si trova nella cronaca di Giacomo Twinger di Könighofen(XIV sec.) nella Cronica von der hilliger Stat Cöllen(versione tedesca degli Annales Colonienses maximi) nelle Vite dei Santi di Hermann von Fritslar, nel commento in prosa allo Speculum Regum di Gotofredo da Viterbo, in uno dei due racconti compendiati da Giacomo da Voragine, in uno dei due compendiati nel Dialogus creaturarum, nel Commento di Jacopo della Lana, nel Romuleon, nella Cronaca di Giacomo da Varignana, nella Historia Imperialis di Giovanni da Verona, nel Commento di Guglielmo Capello al Dittamondo, in certe redazioni più recenti dei Mirabilia.

Di una versione strettamente affine a questa, ma nella quale, con più rigorosa giustizia, Trajano faceva eseguire nella persona del proprio figliuolo la pronunziata sentenza sono rimaste alcune scarse vestigia. In una romanza spagnuola del secolo XIII si leggono questiversi:

Acuérdate de Trajano

En la justicia guardar,

Que no dejó sin castigo

Su único hijo carnal:

Aunque perdonó la parte,

El no quiso perdonar.

Essi hanno un assai curioso riscontro nel racconto del Novellino secondo la lezione del cod. Panciatichiano-Palatino, dove si dice: "Lo Imperadore rivenne lo malificio; trovò che llo suo figliuolo l'avea morto correndo lo cavallo isciaghuratamente. Fecene giustizia et non volse pregho, poi cavalcoe et isconfisse li nimici".

Ma qui accade avvertire un fatto, il quale per la storia della leggenda nostra non è senza importanza. La versione testè esaminata, dove il figliuolo dell'imperatore è dato in compenso alla vedova, appare già nel

Dolopathos latino di Giovanni di Alta Selva, salvo che qui del principe giusto non si dice che sia Trajano, ma solamente un re dei Romani, quidam Romanorum rex. Lo stesso silenzio quanto al nome fu osservato nel Dolopathos francese d'Herbers. Ora Giovanni d'Alta Selva compose il suo libro negli anni fra il 1184 e il 1212, e potrebbe nascer dubbio se la storia che egli racconta, e che altri poi attribuiscono a Trajano, non fosse in principio del tutto estranea a questo imperatore. Ma tale dubbio può essere facilmente dileguato confrontando il racconto suo con quello di Giovanni Diacono, giacchè il riscontro evidente di alcuni luoghi mostra che noi qui abbiamo veramente dinnanzi l'antica leggenda di Trajano, tuttochè profondamente variata e scompagnata dal nome di costui.

Corrente dunque il XII secolo la leggenda circolava sotto tre diverse forme: quella del Polycraticus, quella della Kaiserchronik, quella del Dolopathos. La seconda ebbe poca fortuna; molta n'ebbero per contrario la prima e la terza; e questa, forse perchè ricevuta in libri di minore autorità, palesa, a fronte di quella, maggior tendenza alla variazione. In un racconto di Enenkel l'unico figlio di Trajano stupra una fanciulla; la madre di costei lo accusa e chiede giustizia. Trajano, sopraffatto dal dolore, ma risoluto di compiere il dover suo, si strappa i capelli e la barba, parla teneramente, ma fermamente al figliuolo, gli annunzia la morte che lo aspetta. Indarno s'inframmettono gli uomini di corte; indarno la vedova dice di voler per denari rinunziare alla sua vendetta; Trajano si rimane nel suo proposito; ma poi con un sottile ragionamento si persuade che senza tor la vita al figliuolo può soddisfare alla giustizia togliendogli gli occhi; e poichè padre e figlio sono una carne, fa strappare un occhio al figlio e l'altro a sè. Questa variante nacque senza dubbio, come fu già notato dal Massmann, per influsso della nota storia di Zaleuco, che, narrata primamente da Valerio Massimo, trovasi ripetuta in numerose scritture del medio evo.

Ma mentre varia nel modo che si è veduto laprima parte della leggenda, dov'è narrata la giustizia di Trajano, varia anche la seconda, dov'è narrato il miracolo; e come in quella si esagera il contrasto morale, così in questa si esagera il meraviglioso. Non saprei dire chi sia stato primo a narrare il nuovo miracolo a cui accenno; ma lo riferirò con le stesse parole di Jacopo della Lana, che commentando il noto luogo del canto X del Purgatorio così lo racconta: "Elli si legge che al tempo di san Gregorio papa si cavò a Roma una fossa per fare fondamento d'uno lavorio, e cavando li maestri, trovonno sotto terra uno monumento, lo

quale fu aperto, e dentro era in fra l'altre ossa quello della testa del defunto, ed avea la lingua così rigida, carnosa e fresca, come fusse pure in quella ora seppellita. Considerato li maestri che molto tempo era scorso da quello die a quello, che potea essere stato seppellito lo detto defunto, tenneno questa invenzione della lingua essere gran meraviglia, e publiconno a molta gente. Alle orecchie di san Gregorio venne tal novità, fessela portare dinanzi, e congiurolla da parte di Dio vivo e vero, e per la fede cristiana, della quale elli era sommo pontefice, ch'ella li dovesse dire di che condizione fu nella prima vita. La lingua rispuose: io fui Traiano imperadore di Roma, che signoreggiai nel cotale tempo, dappoi che Cristo discese nella Vergine, e sono all'inferno perch'io non fui con fede. Investigato Gregorio della condizione di costui per quelle scritture che si trovonno, si trovò ch'elli fu uomo di grandissima giustizia e misericordiosa persona; e tra l'altre novelle trovò, che essendo armato e cavalcando con tutte le sue milizie fuori di Roma, andando per grandi fatti una vedovella, ecc.". Francesco da Buti ripete un po' più in breve questo stesso racconto; e il miracolo si trova inoltre narrato nel Fiore di filosofi, nel Novellino, nel già citato commento allo Speculum regum di Gotofredo da Viterbo, altrove. Ma esso non è nuovo tra le finzioni ascetiche, e prima di apparire nella leggenda di Trajano aveva già avuto, senza dubbio, una lunga storia. Di San Macario si racconta che andando una volta per il deserto trovò un teschio, il quale, interrogato da lui, rispose, e disse che al mondo era stato pagano, e gli diè contezza dell'inferno dov'era relegata l'anima sua. Werner Rolewing narra quanto segue: "Circa annum domini ut puto .M.CC. in Vienna repertum fuit caput cujusdam defuncti, lingua adhuc integra cum labiis, et loquebatur recte. Episcopo autem interrogante qualis fuisset in vita, respondit: Ego eram paganus et judex in hoc loco, nec unquam lingua mea protulit iniquam sententiam, quareetiam mori non possum, donec aqua Baptismi renatus, ad coelum evolem, quare propter hoc hanc gratiam apud Deum merui. Baptizato igitur capite, statim lingua in favillam corruit et spiritus ad Dominum evolavit". Fra i miracoli della Vergine se ne trovano due che narrano un fatto in tutto simile, salvo che il teschio è non di pagano, ma di cristiano, e aspetta non il battesimo, ma la confessione.

Del modo onde San Gregorio fu tratto a intercedere per l'anima di Trajano si narra diversamente nelle diverse relazioni della leggenda. I racconti più antichi di Paolo e di Giovanni accennano oscuramente a qualche opera d'arte in cui fosse istoriato il fatto, e che sarebbesi veduto nel Foro stesso di Trajano. Negli Annales

Magdeburgenses(Chronographus Saxo) composti in sul finire del XII secolo, ciò è detto più chiaramente: "Nam in ejus foro, ubi cuncta Traiani insignia facta espressa sunt, inter cetera hoc quoque mira celatura depictum est, quod properanti sibi ad proelium, ecc.". I Mirabilia nominano l'Arcus Pietatis, dinnanzi al Pantheon. In un commento alla Divina Commedia, il quale è in sostanza tutt'uno con quello di Jacopo della Lana, si dice che San Gregorio vide la Storia di Trajano dipinta in un tempio. In altri racconti si dice che San {regorio lesse la storia di Trajano, oppure che se ne rammentò.

Già nella Vita di San Gregorio scritta da Paolo Diacono si fa cenno di un castigo inflitto da Dio a quel pontefice per aver osato d'intercedere per l'anima di un pagano, ma non si dice qual fosse. Nei racconti posteriori anche di questo si volle avere più sicura notizia. Gotofredo da Viterbo narra che, in punizione della sua petulanza, Gregorio fu così malamente percosso dall'angelo che gli convenne poi andar zoppo gran tempo. Fazio degli Uberti sa soltanto che Gregorio non fu dopo sano. Nel Fiore di filosofi si dice che "Dio l'impuose penitenza o volesse istare due dì in purgatorio, o sempre mai malato di febbre e di male di fianco. Santo Grigorio per minore pena disse che volea stare sempre con male di febbre e di fianco". Nella Kaiserchronik l'angelo annunzia a Gregorio che la sua prece è esaudita, che l'anima di Trajano gli sarà data in custodia sino al dì del giudizio, ma che in pena della sua tracotanza dovrà soffrire di sette diverse malattie e poscia morire; e come gli annunzia così succede. Qui si ha un riflesso di qualche altra leggenda ascetica.

La leggenda di Trajano, considerata così nella sua forma più antica, come nella più recente, ha parecchi riscontri fra le storie e le leggende dell'antichità e del medio evo. Di atti di severa giustizia compiutida padri nella persona de' proprii figliuoli son troppi esempii, e non accade qui di riportarne alcuno in particolare; ma un qualche parallelo si può trovare anche al racconto di Paolo e di Giovanni. Niceforo Patriarca(m. nell'828) narra il seguente fatto avvenuto sotto il regno di Eraclio I. Certo Vitulino viene a contesa con una vedova sua vicina; nel tafferuglio uno dei figliuoli di costei rimane ucciso dai servi di quello. Recando con sè le vesti insanguinate del figlio, la donna va a Costantinopoli, incontra l'imperatore per via, ferma il cavallo per le redini, e mostrando le spoglie dell'ucciso domanda giustizia. Lo imperatore risponde di volerci pensare. Dopo alcun tempo viene a Costantinopoli anche Vitulino, e l'imperatore, esaminata la cosa, lo fa morire. Un fatto in tutto simile a quello narrato

nella prima versione della leggenda si trova anche narrato di quel Saladino, il cui nome fu così popolare nel medio evo. Qui probabilmente non d'altro si tratta che di una semplice trasposizione.

Tale è, considerata nel suo svolgimento e nelle varie sue forme, la leggenda di cui il medio evo venne circondando il nome di Trajano; ma dal detto sin qui non si rileva nulla che valga a spargere un qualche lume sulle origini e le ragioni di essa. Nel secolo VIII, o al più tardi nel IX, ritenuto apocrifo il racconto attribuito a Paolo Diacono, essa ci si mostra già interamente costituita; ma noi non sappiamo nè in qual tempo, nè dove sia nata, nè quali idee, o quali sentimenti abbiano influito nella sua formazione. Non sarà fuor di luogo il soffermarsi alquanto a fare anche di ciò qualche indagine, sebbene non sia possibile il venire ad altre conclusioni che di semplice probabilità.

Anzi tutto è da notare che nè Gregorio di Tours, nè Isidoro di Siviglia, il quale da alcuno, benchè a torto, si pretese fosse stato discepolo di San Gregorio, nè Beda, dicono nulla che neanche dalla lontana accenni alla leggenda, sebbene tutti e tre parlino con molta ammirazione, e qual più, qual meno diffusamente, del gran pontefice. Il silenzio di Gregorio di Tours e d'Isidoro di Siviglia non proverebbe, per ragioni che or ora vedremo, che la leggenda non fosse già nata; ma non si potrebbe dire altrettanto del silenzio di Beda, se da altra banda non si vedesse Beda aver taciuto, non il solo miracolo operato in benefizio di Trajano, ma tutti gli altri ancora che si leggono nelle posteriori Vite di San Gregorio.

La leggenda quale si ha nei racconti primitivi, è evidentemente composta di due parti, l'una delle quali narra l'atto di giustizia compiuto da Trajano, l'altra narra ilmiracolo della redenzione di Trajano dall'inferno. Di queste due parti la prima è indubitabilmente più antica, e nulla prova che abbia origine cristiana; la seconda è molto più recente, e la sua origine cristiana è manifesta. Ciò è provato ancora dagli stessi racconti di Paolo e di Giovanni, dove si dice che, passando per il foro Trajano, San Gregorio apprese, o ricordò, l'atto di giustizia dell'imperatore, e dove poi il fatto stesso è narrato, secondo dice Giovanni, sicut a prioribus traditur. Tutto ciò importa l'esistenza di una tradizione da lungo tempo fermata ed universalmente conosciuta. Questa tradizione, che nei racconti citati vedesi legata a un qualche monumento del Foro Trajano, esistente ancora senza dubbio, ai tempi in cui Giovanni Diacono scriveva, doveva essere nata in Roma stessa, dove risaliva forse a tempi molto remoti. Non è improbabile che la sorgente

prima di essa sia un passo delle Istorie di Dione Cassio, il quale narra di Adriano un fatto molto simile a quello attribuito poscia a Trajano. La sostituzione del nome di questo a quello è cosa normalissima, secondo i processi generali della leggenda; ma nel caso particolare, tenuto conto della riputazione crescente di Trajano, appar quasi necessario. Se non che nel racconto di Dione non trovandosi nulla che spieghi certe particolarità della leggenda svolta e cresciuta, quali sarebbero la presentazione di Trajano a cavallo, circondato dalle sue milizie, e in sul punto di partir per la guerra, e il fatto stesso per cui si fa chiedere giustizia dalla vedova, per aver ragione di tutta la tradizione bisogna ricorrere ad altro. E gli è qui che si trae in mezzo la testimonianza antica di quelle scolture nelle quali tutto il caso sarebbe stato raffigurato, e in presenza delle quali fu di esso informato, o si rammentò San Gregorio. Un bassorilievo rappresentante Trajano vittorioso, cinto dai suoi cavalieri, e con la figura muliebre di una provincia sottomessa inginocchiata dinnanzi al cavallo, figurazione simbolica tutt'altro che insolita, suggerì senz'alcun dubbio le nuove finzioni. Una congettura sì fatta, proposta già da parecchi, oltrechè fondata nelle stesse testimonianze degli scrittori, è ancora sotto ogni rispetto plausibile. Ma il Foro Trajano, che, in parte almeno, si conservò sino al secolo VIII, andò poscia soggetto a tali distruzioni, che nell'XI e nel XII non se ne ricordava più nemmeno la situazione precisa. Il bassorilievo in cui il popolo vedeva rappresentata la storia di Trajano e della vedova, sparve insieme col resto; ma poichè la leggenda era già formata, e la tradizione pertinacemente la custodiva, il popolo stesso, senza dubbio, cercò tra le rovine della sua città, un altro monumento, a cui novamente legarla. Ed ecco introdursinella leggenda l'Arco della Pietà, di cui fanno ricordo recensioni meno antiche dei Mirabilia. Può darsi che il nome di Arcus Pietatis fosse dato al monumento dopo appunto che la leggenda si fu ad esso legata; ma si vuol notare tuttavia che in Roma sembra esservi stato anche un altro arco dello stesso nome.

Sin qui della prima parte della leggenda; ma che si ha a dire della seconda? dove e perchè prese essa nascimento? Notisi anzi tutto che la credenza ivi espressa che un pagano possa esser salvo, non è così singolare come potrebbe a primo aspetto parere. Senza voler risalire sino ad Origene e ad alcuni de' suoi seguaci, da cui fu considerata possibile persino la redenzione del diavolo, più e più scrittori ecclesiastici si possono ricordare, che, come Glica, Gabriele di Filadelfia, e Giorgio Coresio tra' Greci, credettero i dannati potessero essere liberati per le

preghiere dei fedeli. Secondo la leggenda Santa Tecla liberò dall'inferno la propria madre Falconilla. Dante pone in paradiso anche il pagano Rifeo, e Ugo da San Vittore, che fu uno dei teologi più studiati dal poeta, dice che a Dio non può mancar modo di salvare coloro che, senza peccato, vissero prima di Cristo. Il popolo che non si spaventa delle difficoltà teologiche, va anche più oltre, e fa uscir dall'inferno e introduce in paradiso tali che di tanta grazia non pajono in nessun modo meritevoli. Mi basterà ricordare ciò che nel noto fabliau francese si narra del giullare che perde, giocando con San Pietro, tutte le anime dell'inferno, alla cui custodia era stato preposto, ed entra poi con loro in paradiso; e ciò che la fiaba popolare racconta della madre pessima di San Pietro, la quale sarebbe con l'ajuto del figliuolo riuscita a salvarsi, se, per non poter soffrire che con lei si salvassero anche gli altri dannati, non avesse stancata la misericordia di Dio.

Gaston Paris crede che la seconda parte della leggenda possa trarre la origine da un fatto veramente accaduto. Non è improbabile, dice l'illustre critico, che San Gregorio, ricordando le virtù di Trajano, abbia provato vivo rincrescimento della perdizione di un così giusto principe, abbia pregato per lui, ed abbia avuto una visione nella quale gli parve di udire una voce dal cielo che gli annunziava esaudita la sua preghiera. Certo un caso sì fatto non potrebbe dirsi nuovo nella storia dell'ascetismo cristiano, nè la sentenza dallo stesso San Gregorio pronunziata nel quarto libro dei suoi Dialoghi, che per gli infedeli non si deve pregare, sarebbe argomento sufficiente per escluderne in tutto la possibilità. Tuttavia la congettura mi sembra poco probabile. Se Gregorio Magnoavesse veramente avuto una visione di tale natura, prima che in qualsivoglia altro luogo sarebbesi risaputo in Roma, nè in Roma poi, dove l'altra leggenda di Trajano era nata, se ne sarebbe così facilmente perduta memoria. Ora Giovanni Diacono dice esplicitamente di desumere il suo racconto da documenti divulgati per le Chiese d'Inghilterra, e soggiunge poi che mentre i Romani aggiustavano fede a tutti gli altri miracoli che si narravano del santo pontefice, di questo della redenzione di Trajano(de hoc quod apud Saxones legitur) dubitavano fortemente. Gli è dunque in Bretagna che ragionevolmente si deve cercare l'origine della seconda leggenda; e quando si pensi che gli Angli andavano debitori a San Gregorio della loro conversione al cristianesimo, e che la venerazione per tanto benefattore doveva necessariamente accrescersi come più si spandeva e si invigoriva la fede, non parrà strano che a costui fosse tra essi, attribuito un nuovo miracolo, che le

altre genti conobbero e ammisero solo più tardi. Dico tra essi e non da essi; giacchè dell'atto di giustizia per cui andava famoso in Roma il nome di Trajano nulla potevano sapere i nuovi convertiti, mentre non lo potevano ignorare l'apostolo Agostino e i compagni suoi che venivano da Roma. Dire con sicurezza in quale occasione e per quali motivi il miracolo sia stato immaginato non è possibile; ma se si ponga mente alle condizioni in cui fu fatta quella missione, all'interesse che i missionarii potevano avere di mostrare con un esempio luminoso quale fosse la potenza spirituale di un pontefice, e di mostrare ciò particolarmente a re barbari con l'esempio di un principe pagano salvato, per le preghiere di un pontefice appunto, dall'inferno, si potranno forse scorgere alcune delle ragioni della finzione. Se non che tutto ciò è semplice congettura, e potrebbe anche darsi che la finzione avesse origini molto più umili, e si dovesse tutta alla fantasia di qualche Sassone pellegrino, che recatosi a Roma, piena la memoria delle virtù e dei miracoli di San Gregorio, udita colà narrare la leggenda di Trajano, ne togliesse argomento di un nuovo miracolo, e riportasse quindi ogni cosa nel suo paese natale.

La leggenda di Trajano diede molto da pensare ai teologi; ma non è questo il luogo di entrare in un minuzioso esame delle loro opinioni. Già nei racconti di Paolo e di Giovanni si accenna ai dubbii che essa suscitava negli animi. San Tommaso e Abelardo ammettevano il miracolo, lo ammetteva Santa Brigida, lo ammettevano i teologi deputati dal Concilio di Basilea(1431-1443) ad esaminare le famose Rivelazioni di questa santa. Altri recisamente lo negavano, come lo negarono poi il Bellarmino e il Baronio. Coloro stessi poiche l'ammettevano discordavano quanto al modo del suo compimento e circa la sorte toccata a Trajano; e chi credeva che quest'imperatore non fosse veramente mai andato all'inferno, ma fosse stato serbato alle preghiere di San Gregorio; chi lo credeva in inferno tuttavia, ma pensava che per misericordia di Dio egli non vi patisse più i tormenti a cui sono soggetti tutti gli altri dannati; chi lo credeva bensì uscito dall'inferno, ma non ammesso in paradiso; chi finalmente diceva che, richiamato miracolosamente in vita, egli era stato battezzato da San Gregorio, e, morto poi la seconda volta, era senz'altro salito alla gloria celeste. Questa è l'opinione di Guglielmo di Auxerre e di Dante, il quale fa dir di Trajano all'aquila simbolica in Giove:

dallo inferno u' non si riede

Giammai a buon voler, tornò all'ossa.

Questa opinione poteva essere confortata e confermata da molti esempii di casi simili narrati nei leggendarii. Fra i miracoli della Vergine figurano assai spesso storie di peccatori che, morti impenitenti, e dannati, furono per la intercessione di lei richiamati in vita, e, fatta debita penitenza, poterono salvarsi. Gioverà finalmente ricordare che San Gregorio, il quale, secondo un'altra leggenda famosa del medio evo, nacque di amori incestuosi e diventò marito della propria sua madre, ricomprato con asprissima penitenza e con l'esercizio di ogni virtù il suo involontario peccato, riuscì a salvare, oltre alla madre e a sè stesso, anche il padre dannato.

Altre leggende intorno a Trajano nell'occidente d'Europa non si sono formate; ma in Rumenia le gesta del conquistatore della Dacia diedero argomento, come anche quelle di Aureliano, a canti popolari epici, i quali, disgraziatamente, non furono insino ad ora da nessuno raccolti. Sia qui notato di passaggio che il noto apologo dell'animale senza cuore, apologo che risale insino ad Esopo, e in varie forme si trova narrato in molte scritture del medio evo, è nei Gesta Romanorum riferito a Trajano.

I Mirabilia, descrivendo i monumenti principali del Foro di Trajano uniscono insieme i nomi di questo imperatore e di Adriano suo successore: "Palatium Traiani et Adriani pene totum lapidibus constructum et perornatum, diversis operibus laqueatum, ubi est columpna mirae altitudinis et pulchritudinis cum celaturis historiarum horum imperatorum, sicut columpna Antonini in palatio suo. Ex una parte fuit templum Traiani, ex alia divi Adriani". Abbiam veduto da altra banda, come la leggenda di Trajano si formasse a spese di Adriano: in grazia di questa connessione sia lecito di notare qui il poco che la leggenda venne immaginando intorno a questo secondo imperatore.

In una versione inglese dei Gesta Romanorum si racconta la seguente storiella, in più altri modi narrata altrove. Adriano fa un editto che ogniuomo non più valido alle armi emigri dall'impero, e, se trovato nell'impero sia messo a morte. Un figliuolo nasconde il padre, de' cui ammaestramenti giovandosi diventa il più savio consigliere dell'imperatore. Accusato da' suoi nemici riceve dall'imperatore l'ordine di venirsene il dì seguente insieme col suo maggiore amico, il suo maggior conforto, il suo maggior nemico. Per suggerimento del padre si presenta col cane, col figliuolo, colla moglie. Costei lo accusa d'aver trasgredita la legge; ma l'imperatore gli perdona.

Un'altra storia si legò al nome di Adriano, ed è quella del filosofo Secondo. Costui essendo ancora giovanetto, aveva udito dire in iscuola non trovarsi al mondo femmina onesta. Tornato dopo molti anni in patria, vuol provare l'onestà della madre. A mezzo di una fantesca la fa richiedere d'amore, e colei, che non lo riconosce, acconsente. Dorme con lei una notte, senza commettere peccato, e la mattina si scopre. La madre muore di vergogna, e Secondo, per espiare la propria imprudenza, risolve di serbare il silenzio per tutto il tempo che gli resta a vivere. Adriano venuto in Atene, ode parlare di lui, lo va a trovare, lo interroga; ma, nè per blandizie, nè per minacce, può indurlo a parlare. Ordina a un cavaliere di condurlo, per mostra, al patibolo, ma di troncargli veramente il capo se, vinto dal timore, rompa finalmente il silenzio. Secondo va al patibolo e non profferisce parola. Trajano allora, preso d'ammirazione, lo prega di rispondere per iscritto ad alcune sue domande, al che il filosofo accondiscende.

Questo racconto, di cui non si conosce l'origine, appare primamente in un testo greco, d'onde passa in versioni latine, francesi, italiane, spagnuole, ecc. Esso godette durante tutto il medio evo della più grande celebrità. Di Secondo, filosofo di Armenia, non altro si sa se non il poco che ne dice Filostrato nelle Vitae Sophistarum: Suida lo confonde con Plinio Secondo il Giovine. Un dialogo fra Adriano ed Epitetto, somigliante al precedente, non passò ch'io sappia nelle letterature del medio evo. La letteratura inglese possiede, in verso e in prosa, un dialogo, indicato come opera di San Giovanni Evangelista, dove un fanciullo, per nome Ypotis, istruisce l'imperatore Adriano nelle verità della fede cristiana.

CAPITOLO XIII. Costantino Magno.

Costantino, primo imperatore cristiano, doveva in ispecial modo richiamare l'attenzione dei posteri e provocare la leggenda. Con lui cominciava un'era nuova nella storia della Chiesa e dell'impero, con lui pareva finalmente assicurato, e per sempre, il trionfo della verità sull'errore, adempiute, o almeno avviate al loro adempimento finale e glorioso, le promesse antiche di una rigenerazione della umana famiglia. Il cristianesimo cessava di essere una pura forza morale, e diventava ancora una forza politica, attaa tramutare tutti gli aspetti della vita della umanità. I cristiani da lui favoriti ebbero un sentimento assai vivo del rivolgimento che si veniva operando sotto i loro occhi, e questo

sentimento parrebbe quasi che la leggenda avesse voluto significar per figura, narrando di Sant'Elena che ritrova e trae novamente alla luce il santo legno della croce, rimasto sepolto per secoli sotto alle zolle del Calvario. Il cristianesimo che ha già vissuto sì gran tempo occulto, come un germe fecondo affidato alla terra, lascia finalmente le catacombe, e si espande libero e rigoglioso alla vista del sole.

Costantino, onorato, in qualità d'Augusto, nei templi dei pagani, fu posto nel novero dei santi dalla Chiesa d'Oriente; sua madre è venerata sugli altari dovunque sono adoratori di Cristo. Filostorgio racconta che una statua del glorioso imperatore, la quale sorgeva sopra una colonna di porfido a Costantinopoli, era adorata dal popolo, e di questo culto fa cenno anche Teodoreto(m. nel 547). Nel medio evo si credeva ancora di possedere, e si conservava come una preziosa reliquia, la spada di Costantino. Atelstano, re d'Inghilterra, la ebbe in dono, chi dice da Ugo re di Francia, chi dall'imperatore Enrico, chi dall'imperatore Ottone I; sotto lo stesso re Atelstano un conte di Warwyck, per nome Gidone, uccise con essa un gigante Calubrando. Nel pomo della spada era rinchiuso uno dei chiodi che servirono a crocifiggere Cristo. Nel popolo la memoria di Costantino era conservata da molte chiese, o da altri monumenti che, a torto od a ragione, si credevano costruiti da lui.

Le prime leggende sorgono intorno alla culla di Costantino, anzi già involgono i suoi genitori Costanzo ed Elena. Il luogo della sua nascita, del quale non si aveva certa contezza, e il modo del suo nascimento, su che si avevano più disparate opinioni, esercitarono per tempo le fantasie, e porsero il tema a parecchie finzioni e a parecchi racconti romanzeschi: e se in questi, ajutando le oscurità della storia, volentieri si ammise che Elena non fosse unita a Costanzo con legittimo nodo, e che Costantino fosse un figliuolo naturale, si può credere che non avvenisse senza la cooperazione di quella curiosa tendenza che mostra spesso nelle sue leggende il popolo a dare agli uomini insigni illegittimi natali.

Nel Contes dou roi Coustant l'Empereur(XIII secolo) si narra di Costanzo, padre di Costantino, la seguente curiosa istoria. Un imperatore di Bizanzio, a nome Muselins, vagando una notte con alcuni suoi cavalieri per la città, s'imbatte in un uomo, il quale, occupato in pregar Dio, chiede alternatamente ad alta voce due grazie, l'una all'altra contraria: la prima, che gli faccia sgravare felicemente la moglie,soprappresa dalle doglie del parto; la seconda, che non conceda a costei di partorire. L'imperatore interroga lo sconosciuto, il quale

risponde la sua contradditoria preghiera essergli stata suggerita dalla scienza astrologica ch'egli possiede, e che gli mostra quali sieno i buoni e i maligni influssi degli astri, e quale il punto del tempo propizio o infausto al nascere. Soggiunge poscia d'avere ottenuto che il suo figliuolo nasca in punto felicissimo, e che però questi sposerà la figlia dell'imperatore e gli succederà nel dominio. L'imperatore sdegnato si parte; poi manda un suo cavaliere a involare il bambino. Avutolo, gli fende il ventre dallo stomaco all'ombelico, dopodichè si accinge a strappargli il cuore; ma, ad istanza del cavaliere nol fa, e ordina che così mezzo morto, sia gettato nel mare. Il cavaliere, cui non regge l'animo di eseguire il crudele comando, depone il bambino davanti la porta di un convento, e quivi lo lascia. I frati, trovatolo ancora vivo, lo portano all'abate, e questi, fa chiamare i medici, e domanda loro quanto vogliano per curarlo e guarirlo. I medici chiedono cento bisanti, l'abate ne offre ottanta. La cura riesce a bene, il bambino guarisce, e l'abate lo battezza ponendogli nome Costante(Coustans) in considerazione degli ottanta bisanti che gli era costato. Il fanciullo cresce in bellezza. Si dà caso che l'imperatore viene a conoscerlo e a sapere chi egli è. Risolve novamente di farlo morire, e dovendo partire per una spedizione contro i suoi nemici, gli dà una lettera da recapitare al governatore di Bizanzio, la qual lettera contiene una sentenza di morte. Prima di recapitarla il giovinetto entra nel giardino imperiale e vi si addormenta. La figliuola dell'imperatore lo vede, se ne innamora, legge la lettera, e pensando di salvare il giovane e di soddisfare in pari tempo al suo amore, a quella un'altra ne sostituisce, scritta da lei, con la quale s'ingiunge al governatore di fare sposare al giovane la principessa. Il governatore obbedisce agli ordini. L'imperatore, al suo ritorno, trova il matrimonio già celebrato, e allora, rinunziando ai suoi tristi propositi, riconosce Costante per figliuolo. Più tardi Costantino, figlio di Costante, diede a Bizanzio il nome del padre.

Abbiamo qui un esempio della tendenza che ha la leggenda a propagarsi in linea ascendente e in linea discendente, verso gli antenati, e verso la progenitura dei suoi eroi; tendenza che così vigorosa si manifesta nei cicli epici. Il nome di Costanzo è assai spesso scambiato con quello di Costantino e di Costante; ancora si confonde spesso Costanzo Cloro con Costanzo figliuolo di Costantino.

Non so a quale leggenda accenni Nennio nel seguente passo della sua Historia Britonum: "Quintus Constantius ConstantiniMagni Pater fuit, et

ibi moritur, et Sepulchrum illius monstratur juxta urbem, quæ vocatur Cair Costaint, ut literæ quæ sunt in lapide tumuli ejus ostendunt; et ipse seminavit tria semina in pavimento superdictæ Civitatis, ut nullus pauper in ea remaneret unquam, et vocatur alio nomine Mirmantum".

Veniamo ad Elena e al nascimento di Costantino. Suida, il quale fiorì, come pare, nel X secolo, dice nel Lexicon(s. v. Κωνσταντῖνος ὁ μέγας) che il fondatore di Bizanzio nacque di madre oscura, e che il padre lo riconobbe a certi segni, e lo designò imperatore, posti in disparte gli altri figliuoli, che aveva avuti da Teodora. Egli accenna assai più che non narri; ma dalle sue parole si rileva l'esistenza di una tradizione, secondo la quale Costantino, nato d'illegittimi amori, avrebbe vissuto alcun tempo lungi dal padre, ignorato, o dimenticato da lui, e ne sarebbe poi stato riconosciuto, in forza di certi casi che non son ricordati. Suida soggiunge di non voler ripetere le favole che di Costantino aveva narrate Eunapio, parendogli che sconvenissero a tant'uomo. Eunapio nacque {el 347, e sarebbe importante di poter rintracciare sino a lui alcuna tradizione circa i natali di Costantino; ma nei frammenti che delle storie di lui ci son pervenuti non si trova più nulla intorno a questo imperatore. Lo storico pagano Zosimo, il quale scriveva a Costantinopoli verso il 434, dice che Costantino nacque da commercio che Costanzo ebbe con una donna non onesta, e non isposata da lui secondo la legge: prima di Zosimo, Eutropio s'era contentato di dire che Costantino aveva avuto origine da un più oscuro matrimonio, e Sant'Ambrogio aveva indicata la condizione della madre dicendo costei ostessa, stabularia. Quest'ultima particolarità, di cui non pare sia fatto cenno negli scrittori bizantini, riappare poi più tardi negli svolgimenti della leggenda. Una tradizione di tale natura non poteva essere fortuita, nè di origine in tutto fantastica; essa doveva aver principio nel vero. La storia di Sant'Elena è ne' suoi cominciamenti assai oscura. Si ammette comunemente ch'ella sia nata a Drepano, città di Bitinia, in umile condizione, e che sposata da Costanzo, divenne madre di Costantino, e fu poi ripudiata dal marito, innalzato da Diocleziano alla dignità di Cesare. Ma si capisce che lo stesso Costantino prima, poi gli scrittori, specialmente quando cominciò a formarsi la leggenda che attribuiva a Sant'Elena la gloria immortale d'aver ritrovata la croce, siensi studiati di far dimenticare certi fatti, o di colorirli altramente. Tuttavia la tradizione antica che Costantino fosse figliuolo spurio di Costanzo non si perdette; anzi passò d'Oriente in Occidente, dove porse argomento a nuove leggende. Essa è riportata nel Chronicon paschale, ma è formalmente contraddetta da TeofaneIsaurico e da

Cedreno.

La gloria d'aver dato i natali a Sant'Elena fu ambita da varie province e città. In Oriente Edessa, Drepano, la Giudea; in Occidente Treviri, la Bretagna e l'isola di Sardegna se la disputarono. Treviri andava superba di parecchie reliquie insigni da Sant'Elena appunto, come si credeva, donate alla sua Chiesa. La leggenda della invenzione della croce, di cui io non intendo discorrere di proposito, antichissima di origine, è narrata nel secolo VIII da Cinevulfo, nel IX da Almanno, nell'XI o XII da Ildeberto Cenomanense, se pur così s'ha da credere, nel XIII dal Voragine, ecc. Come più questa cresceva e si diffondeva, più si sentiva il bisogno di purgare la tradizione di quanto potesse direttamente o indirettamente offuscare la riputazione della Santa; e da prima se ne levò ogni imputazione di mal costume, poi si sostituirono al concubinato le legittime nozze, finalmente si fece della povera stabularia la figlia di un re. La tradizione che faceva Sant'Elena nativa di Treviri, era già formata nel IX secolo, giacchè il citato Almanno la riporta, ed ebbe poi, più particolarmente in Germania, molto favore. La Kaiserchronik racconta che Costanzo sposò in Treviri la regina Elena, dalla quale ebbe un figliuolo adorno di molte virtù, che fu Costantino. Costanzo avrebbe poi voluto ripudiarla; ma vinto dallo amore del figlio, le mandò ambasciatori e la invitò a raggiungerlo in Roma. Elena, sdegnata, da prima rifiutò; ma poi si lasciò piegare dalle ragioni e dalle istanze di Costantino, e andò a Roma, ove le fu fatto solenne ricevimento.

Ma prima forse di questa tradizione un'altra ne era sorta, la quale, prendendo senza dubbio argomento dalla dimora di Costantino in Bretagna, fece nativa di questo paese, poi anche figlia di un re Choel(Cloel, Coclo, Hoel, ecc.), la madre di Costantino. Tale tradizione deve essere nata nel paese stesso al cui nome si lega; ma riappariscono in essa alcuni dei dubbii più antichi, che già si trovano nella tradizione greca, circa alla qualità delle relazioni passate fra Costanzo ed Elena, in quanto che alcuni scrittori fanno di costei la legittima sposa, altri la concubina di quello. Giacomo da Voragine conobbe così questa, come l'altra tradizione; giacchè, dopo aver riferito ciò che di Sant'Elena racconta Santo Ambrogio, soggiunge; "Alii vero asserunt et in quadam chronica satis authentica legitur, quod ipsa Helena fuit filia Clohelis regis Britonum, quam Costantinus(l. Constantius) in Britaniam veniens, cum esset unica patri suo, duxit uxorem, unde insula post mortem Clohelis sibi devenit. Hoc et ipsi Britones attestantur, licet alibi legatur, quod

fuerit Trevirensis".

Enenkel non dice di dove Elena fosse; dice solo che ella era la più bella delleventi donne dell'imperatore Costanzo, e che Costantino fu il frutto del loro illegittimo commercio. Ma le due tradizioni testè ricordate ebbero nella leggenda svolgimenti più larghi e più romanzeschi. In un racconto latino d'ignoto autore, d'incerta età, essa si lega a una sequela di casi avventurosi che io riferirò brevemente. Ai tempi di Costanzo imperatore, una vergine per nome Elena, di nobile famiglia Trevirense, venne a Roma, trattavi dal desiderio di visitare i santuarii degli apostoli. Un giorno, traversando il ponte sul Tevere, Costantino s'imbatte in lei, che andava con altri pellegrini alla sua via, e vedutala bellissima, subitamente se ne innamora, e ordina ad alcuni suoi satelliti di seguirla, e di significare al padrone della casa ove albergava che a nessun modo la lasciasse partire sinch'egli non ne avesse fatto il piacer suo. I suoi comandamenti sono osservati. I pellegrini, compagni di Elena, adempiuti i voti, si partono; ella, accusata di furto dal padron della casa, è trattenuta in custodia. L'imperatore si affretta a compiere il suo divisamento; trovata la fanciulla sola e senza difesa, la sforza; ma prima di partirsi da lei, sentendo alcuna pietà de' suoi pianti, le fa dono di una fibula preziosissima e di un anello di gran valore. Rimasta incinta, Elena non ardisce di più fare ritorno in patria, e si ritrae a vivere con alcuni cristiani dabbene, provvedendo col lavoro delle mani al proprio sostentamento. Venuto il termine, essa dà alla luce un bambino, cui pone nome Costantino, celando a tutti quello del padre. Il fanciullo, educato dalla madre, vien su bellissimo d'aspetto, pieno d'ogni buon costume, benvoluto da tutti. In quel tempo si combatteva tra l'imperatore dei Romani e l'imperatore dei Greci una furiosissima guerra. Avvenne che due ricchissimi mercanti, nei quali l'imperatore dei Greci aveva piena fiducia, e a cui soli era lecito approdare per ragione dei loro commerci in Grecia, trovandosi in Roma, s'imbatterono un giorno in Costantino, che era allora d'età di circa dieci anni. La sua leggiadria, i suoi modi li fecero meravigliare. Interrogatolo, e saputo dei casi suoi, essi tosto si accordarono in un divisamento, dalla esecuzione del quale parve loro di dover trarre grandissimo guadagno; ed era, che avrebbero preso con sè il fanciullo, l'avrebbero condotto in Grecia, presentatolo a quell'imperatore come il figlio dell'imperatore Costanzo, offerta in nome di costui la pace, e chiesta pel giovinetto la mano della principessa di Grecia. Con la dote di costei si arricchirebbero, e in pari tempo farebbero danno e scorno ai nemici dei Romani. I mercanti conducono Costantino

nella propria casa, lo vestono onorevolmente, lo educan fra gli agi, tanto che il figliuolo non siricorda più della madre; la quale, perduto l'unico suo conforto, passa i giorni nel pianto. Trascorsi tre anni e più, i mercanti, stimando giunto il tempo da porre in opera il loro pensiero, partono con le lor navi e, insieme con Costantino, giungono al porto dei Greci. Quivi approdati, vestono il giovane d'abiti regali, e mandati innanzi i lor messi, vanno al palazzo dell'Imperatore, che fa loro solenni accoglienze. La frode è coronata di pieno successo, e Costantino sposa la principessa, la quale è assai contenta di lui, com'egli di lei. In capo di certo tempo, passato tra feste e tripudii, i mercanti, avuta la ricchissima dote, chieggono licenza di tornare a Roma, e partono insieme con gli sposi, non ostante le lacrime e i funesti presentimenti del vecchio imperatore e della sua donna. Corso già molto mare, ed essendo prossimi alla regione dei Romani, i mercanti pensano di condurre a termine la loro perfidia, e sbarazzarsi degli sposi, di cui non altro agognano che i tesori. Approdano a un'isola deserta e selvaggia, e sotto pretesto di volervi passare la notte, scendono in terra, ed alzano un padiglione, e preparano un letto, dove, di nulla sospettando, i giovani vanno a coricarsi; poi, quando questi sono immersi nel sonno, uccisa la loro famiglia, essi salpano l'ancore e proseguono rapidamente il viaggio. Destatisi la mattina seguente, e trovatisi soli, i due giovani si danno in preda alla disperazione, e Costantino svela tutto il tradimento alla sposa, che non per questo cessa d'amarlo; ma certi naviganti, che per buona ventura si trovavano a passare in vicinanza dell'isola, li raccolgono, e, celando quelli per prudenza i nomi e i casi loro, li conducono al porto dei Romani. Giunti a Roma, vanno in traccia di Elena, la quale, riconosciuto non senza qualche fatica il figliuolo, abbracciata la nuora, piangendo lacrime di tenerezza, passa dal più inconsolabile lutto alla più viva letizia. L'imperatrice di Grecia aveva dato di nascosto alla figliuola, poco prima d'accomiatarla, un giojello preziosissimo, col quale, se mai per alcun caso ella avesse a trovarsi in angustie, potesse sopperire ai proprii bisogni. Questo giojello è da lei consegnato alla suocera, la quale, vendutolo, con parte del denaro che ne ritrae mette su un'osteria, e decentemente si vive insieme con la nuora e col figliuolo. Questi intanto, seguendo l'indole sua e la nobiltà della natura, si dà alla professione dell'armi, e in poco tempo s'acquista grandissima riputazione. Viene il giorno natalizio dell'imperatore. Costanzo, volendo festeggiarlo secondo il consueto, convoca i senatori, i tribuni, i centurioni, i militi, bandisce giostre e tornei. Costantino ne porta la palma su tutti. Meravigliato,

l'imperatore lo chiama asè, gli domanda chi sia, e non tenendosi pago delle sue risposte, ordina che conduca in sua presenza anche la madre e la sposa. Le donne, vestite dei migliori panni che s'abbiano, sono condotte a palazzo. L'imperatore le interroga alla lor volta, e tanto stringe Elena, che questa finalmente promette di tutto svelargli. Dopo alcun giorno in fatti, presi con sè l'anello e la fibula, torna alla sua presenza, e racconta la propria storia, mostrando, a testimonio del vero, i donativi imperiali. Costanzo si persuade che sì mirabili casi non sieno seguìti senza la volontà del cielo; abbraccia Elena, riconosce il figliuolo, manda ambasciatori all'imperatore di Grecia, e punisce i mercanti come si meritano. Ordinata e aggiustata ogni cosa, celebra solennemente, per la seconda volta, le nozze del figliuolo colla principessa di Grecia, e stabilisce che gli sposi debbano succedergli nell'impero romano, a quello stesso modo che dagli ambasciatori venuti appositamente da Oriente si stabilisce che essi debbano succedere nell'impero dei Greci. Così fu che Costantino riunì sul suo capo le due corone dell'Occidente e dell'Oriente.

Non mi soffermo ad esaminare le particolarità di questo racconto, nè a discutere il suo intendimento, se tant'è che ne abbia qualcuno; ciò che più importa di far notare si è, parmi, il suo carattere essenzialmente romanzesco, e il difetto di ogni nesso storico, difetto che si fa scorgere sin dal principio. Di storico veramente altro non v'è che i nomi di Costanzo, d'Elena e di Costantino; a questi sostituite altri tre nomi quali che sieno e il racconto procederà al medesimo modo, senza che sia bisogno di farvi la più piccola mutazione. Esso si appoggia solamente in tre punti, non alla storia, ma alla tradizione, in quanto che fa Elena nativa di Treviri, e Costantino spurio; e narra di Elena che mise su osteria, ricordatosi certamente il suo autore della stabularia di Sant'Ambrogio. È curioso anzi a tale proposito che non vi si dica nulla di un matrimonio seguìto, dopo il riconoscimento, fra Costantino ed Elena. Giunto al termine della sua storia l'ignoto autore accenna ad altre leggende circa Costantino, ma rimanda chi le vuol conoscere ai libri che le narrano. Letto il racconto, nasce spontaneamente nell'animo un dubbio: queste finzioni furono esse sino dall'origine loro congiunte coi nomi di Costanzo, di Elena e di Costantino, o furono ad essi aggregate solamente più tardi, quando già, unite o separate, avevano circolato un tempo nella tradizione orale e nella letteratura, servendo ad altri personaggi, o storici, o fantastici?

Anzitutto è da avvertire che il racconto anonimo testè analizzato, è

bensì il più prolisso, ma non il solo, e molto probabilmente non il più anticodocumento in cui quelle finzioni sieno rapportate a Costantino e ai suoi genitori. Giovanni da Verona, di cui più volte già ebbi a citare la inedita Historia Imperialis, le raccoglie e ad essi nel medesimo modo le riferisce, salvo che di Elena fa, secondo l'altra tradizione notata di sopra, non una nobile fanciulla di Treviri, ma la figliuola del re Cloel di Bretagna. All'una e all'altra delle due tradizioni occidentali circa la patria di Elena quelle finzioni dunque si legarono; ma è in sommo grado probabile che, in principio, nè all'una, nè all'altra, esse andarono congiunte. Il racconto assai compendioso di Giovanni da Verona passa nel Catalogus Sanctorum di Pietro de Natalibus e di quivi nella versione italiana della Legenda aurea che va sotto il nome di Nicola Manerbi. Nel Dittamondo di Fazio degli Uberti la favola è pure ricordata, ma in forma così sommaria e stroncata, che chi non ne avesse notizia altrimenti, non verrebbe a capo d'intenderla. D'onde Fazio abbia attinto rimane dubbio; ma si raccosta ancor egli ai precedenti nel fare Elena figliuola di Coel. Giacomo da Acqui narra egli pure la favola; ma nel suo racconto Elena è figliuola del re di Treviri. Questi varii racconti, sebbene tutti si accordino nella sostanza, pure presentano, così fra di loro, come per rispetto al racconto pubblicato dall'Heydenreich, alcune differenze già notate da altri, e di cui io debbo contentarmi di accennare qui solamente due o tre fra le principali. In tutti Elena è cristiana sin dal principio. Non battezzata ancora, essa va a Roma, tratta dal desiderio di vedere la città degli apostoli, e contro il volere del padre: in vesti di ancella, secondo Pietro de Natalibus; per comandamento degli stessi apostoli Pietro e Paolo ricevuto in sogno, secondo Giacomo da Acqui; perchè inferma, secondo Fazio degli Uberti. Ancora secondo Giacomo da Acqui il padre di Elena si chiamava Flavio, il Re di Bizanzio Valerio, onde fu che Costantino si chiamò per tre nomi Flavio Valerio Costantino: vendute le gemme della nuora, Elena va ad abitare in un magnifico palazzo rimpetto a quello dell'imperatore, e quando le par giunto il tempo opportuno svela a costui spontaneamente il suo secreto. Giovanni da Verona, Pietro de Natalibus e Nicola Manerbi dicono ancor essi che Elena e gli sposi comprarono un palazzo e menarono nobile vita: tutti affermano che Costanzo sposò Elena, particolarità importante, taciuta, come s'è veduto, dall'Anonimo. Forse da un attento studio comparativo delle differenze che i varii racconti presentano si potrebbe trarre qualche argomento a congetturare in quale di essi sia contenuta la versione più antica. Ma un tale studio condurrebbe assai lungi, e il fruttoche se ne avrebbe sarebbe

assai scarso.

Ben più giova osservare come nella favola sieno due parti distinte, l'una intercalata nell'altra, le quali non hanno necessaria connessione fra loro, ma possono agevolmente separarsi, e furono senz'alcun dubbio separate in principio: l'una, che narra della violenza fatta da Costanzo ad Elena, del nascimento di Costantino, del riconoscimento finale; l'altra che narra della frode ordita dai mercanti. Quella certo assai prima di questa fu legata ai nomi di Costantino e dei suoi genitori, e un documento assai antico ne fa testimonianza. In una narrazione greca del martirio di Sant'Eusigno di Antiochia, scritta, secondochè si può ragionevolmente presumere, non dopo l'VIII secolo, è introdotto il santo in persona a raccontare il seguente caso. Nel tempo che era ancora tribuno militare, tornando Costanzo vittorioso da una spedizione contro i Sarmati, ebbe a sostare in una locanda, dove trovò una fanciulla pagana, bellissima, per nome Elena. Giacque con lei, e nel partirsi le regalò un peplo di porpora. Tornato a Roma, dopo alcun tempo Costanzo fu incoronato imperatore. Non avendo avuto dalla sua moglie legittima altri figliuoli che un fanciullo imbecille, egli commise ai senatori di cercargliene uno bello e intelligente da lasciare per suo successore. Per evitare dissidii e gelosie i senatori mandano a cercare tale fanciullo fuori di Roma. I messi giungono allo stesso albergo ove anni prima s'era fermato Costanzo, e dove Elena, rimasta gravida di lui, aveva dato alla luce un figliuolo bellissimo e di svegliato ingegno, fatto allora già grandicello. Mentre essi si stanno a tavola, il fanciullo salta sopr'uno dei loro cavalli. Per punirlo della sua tracotanza uno dei messi gli dà uno schiaffo; ma allora la madre dice a costui: Non lo percuotere, perchè è figlio dell'imperatore; e reca in prova di quanto dice il peplo donatole da Costanzo. Meravigliati, i messi tornano col fanciullo a Roma, il quale è dal padre riconosciuto per figlio, e istituito erede dell'Impero. Niceforo Callisto, il quale fiorì, come è noto, nel XIV secolo, reca nella Historia ecclesiastica un racconto da lui senza dubbio attinto a fonte molto più antica, nel quale la parte storica è assai più copiosa che non nel racconto posto in bocca a Sant'Eusigno, ma che, ad ogni modo, ha con esso assai stretta attinenza. Costanzo giace con la figlia del suo ospite a Drepano, mentre, per commissione degli imperatori Diocleziano e Massimiano, va a procurare la pace coi Persiani, coi Parti, coi Sarmati, ed altri popoli, che recano grave danno all'impero. La fanciulla rimane incinta. In quella notte medesima Costanzo vede in sogno il sole sorgere dall'oceano occidentale. Raccomanda all'ospite suo di aver curadel

bambino che sarà per nascere, e donato un peplo alla fanciulla, si parte. Dopo alcuni anni, già fatto Augusto, Costanzo manda ai Parti nuovi ambasciatori. Questi giungono a Drepano, e per un caso molto simile a quello narrato da Sant'Eusigno, riconoscono Costantino, la cui qualità è anche qui confermata dal peplo. Istruito della cosa, Costanzo fa venire a Roma il figliuolo e la madre; ma poi, per mettere quello al sicuro da ogni possibile insidia della imperatrice Teodora, lo manda a stare con Diocleziano in Nicomedia. Colà Costantino è educato nel palazzo imperiale, e abbraccia il cristianesimo.

Ma la leggenda si trova ricordata o indicata anche altrove. Negli atti greci di Sant'Artemio si fa dire a Giuliano l'Apostata che Costantino era nato da una donna volgare, in nulla dissimile dalle meretrici, quando Costanzo non era ancor Cesare. Nella Contextio gemmarum di Eutichio, vescovo di Alessandria(m. 940), si narra che Costanzo sposò Elena in Mesopotamia, e che Elena era già stata convertita al cristianesimo da Barsica, vescovo di Roa, e che Costantino la lasciò gravida e se ne tornò a Bizanzio. Quest'ultimo fatto, il quale mal si concilia con l'altro del matrimonio, riporta senza dubbio alla tradizione più antica, dove Costanzo avuta, senza nessun impegno da parte sua, la fanciulla, se ne va poi liberamente. In Occidente Sant'Ambrogio, già citato, e Sant'Aldelmo, non narrano la leggenda, ma vi alludono. Nella orazione recitata l'anno 395 per la morte di Teodosio alla presenza di Onorio, Sant'Ambrogio dice di Sant'Elena: "Stabulariam hanc primo fuisse asserunt, sic cognitam Constantio seniori qui postea regnum adeptus est. Bona Stabularia quae tam diligenter praesepe Domini requisivit". Per Sant'Aldelmo Elena è già di Bretagna, ma non ancora una principessa, anzi una concubina: "Dum Constantinus Constantii filius in Britannia ex pellice Helena susceptus sceptris imperii potiretur".

Ricapitoliamo e concludiamo. La leggenda che fa nascere Costantino d'illegittimo commercio, e narra del suo riconoscimento da parte del padre, dopo molti anni, per virtù di certi casi e di certi segni, leggenda che forma una delle due parti del racconto dell'Anonimo, è greca di origine, e risale, come dalle parole di Santo Ambrogio par che si possa legittimamente dedurre, sino al quarto secolo. Tale leggenda è molto diffusa in Oriente, dove si svolge, e si arricchisce via via di elementi romanzeschi; ma passa poi anche in Occidente, e qui, meno cognita e popolare, o si offusca, o si piega a nuove tendenze. Mentre nella tradizione orientale Elena è una ostessa, nella tradizione occidentale

assorge a poco a poco al grado di patrizia e di regina. Sant'Ambrogio ricorda la opinione di coloro che credevano Elena essere stata una stabularia; ma questa opinioneegli sembra più inclinato a respingere che ad accogliere. Sant'Aldelmo nel secolo settimo traspone già i fatti in Bretagna; e di Elena dice bensì che fu concubina di Costanzo, ma non fa motto della sua condizione: nell'VIII Cinevulfo ignora, o tace che Elena fosse Britanna. Più tardi Elena appare come figlia di un re; ma la tradizione antica del suo concubinato la perseguita ancora, come si vede dalle asserzioni contraddittorie degli scrittori rammentati di sopra. Anzi la tenacità di quella tradizione dà luogo nella nuova leggenda che si viene formando a incongruenze curiose. Almanno nel secolo IX, così comincia a narrare la vita della Santa: "Beata igitur Helena, oriunda Trevirensis, tantae fuit nobilitatis secundum honestatem et dignitatem praesentis vitae, ut pene tota ingentis magnitudinis civitas computaretur in agrum sui praedii". Soggiunge che il palazzo magnifico di lei esisteva ancora a' suoi tempi incorporato nella chiesa di San Pietro Apostolo, e non gli pare impossibile ch'ella traesse la origine da Elena greca, cui superava grandemente di pregio. Poi, senz'avvedersi della contraddizione gravissima, volgendosi a parlare di Costanzo, esce in queste precise parole: "Interim dum ille feliciter et fortiter administraret belli negotia, comperta incomparabili nobilitate, pulchritudine et potentia Helenae in oculis Domini tam beatae, meditabatur ejus obtinere coniugium, desiderans si forte posset, ex ea suscipere filium, multaque illam, licet in officio concubinali, tractavit reverentia ed honestate, cor regis in hoc Domino reparante". Data a Elena la nobiltà del sangue, doveva sentirsi il bisogno di anticipare il tempo della sua conversione, o di farla nascere a dirittura cristiana. Già un esempio di ciò ci mostra in Oriente il racconto di Eutichio; un'altra tradizione orientale racconta che Elena, la quale era nativa di Edessa, fu, sino dall'infanzia, convertita al cristianesimo dal vescovo di quella città. In pari tempo si dovette pensare a mutare la scena dei fatti, e a togliere ad Elena la mala taccia di concubina, divenuta incomportabile con la nobiltà del suo lignaggio e col fervore della sua fede. Elena, Britanna, o Trevirense, va a Roma per ragion di pietà, ed è quivi forzata dall'imperatore. Tale è la forma della leggenda, tale il grado di svolgimento a cui essa si mostra pervenuta nel racconto dell'Anonimo, e in quelli di Giovanni da Verona e di Giacomo da Acqui. Che qui noi siamo in presenza dell'antica tradizione orientale combinata con nuovi elementi, e piegata, in parte, a nuove fantasie, non si può dubitare, chè a troppi segni vien fatto di riconoscerla per quella

medesima. Basti qui rilevare una particolarità caratteristica. Mentre Giovanni da Verona, Giacomo da Acqui, Pietro de Natalibus e Nicola Manerbi dicono che Elena, col figlio e la nuora, andò ad abitarein un sontuoso palazzo e si diede a vivere nobilmente, l'Anonimo dice invece che Elena comperò una casa e si mise a fare l'ostessa: ora è questo un particolare evidentemente derivato dalla tradizione orientale, e la sua presenza può, sino ad un certo punto, dare argomento alla congettura che la versione dell'Anonimo sia più antica che non quella degli altri narratori. Ma qui si vuole insistere sopra un fatto già più sopra avvertito. La tradizione che, senza badare alle differenze delle particolari versioni, ho chiamata orientale, nota a Sant'Ambrogio, nota forse a Sant'Aldelmo, non sembra essere stata molto diffusa in Europa, dove per lungo tempo non se ne trova più fatto ricordo. La dimenticanza in cui essa si giacque agevolò senza dubbio di molto il sorgere delle tradizioni occidentali che fecero Elena Britanna o Trevirense, e sempre di nobilissima prosapia; il che non sarebbe così facilmente accaduto se si fosse avuta in memoria la fanciulla pagana trovata da Costanzo in un albergo, secondo il racconto di Sant'Eusigno, o la figlia dell'ospite di Drepano, di cui parla Niceforo, o solamente la stabularia di Sant'Ambrogio. Parecchi storici parlano della figlia del re Cloel, o della principessa di Treviri, moglie, o concubina di Costanzo, assai prima di Giovanni da Verona, e di Giacomo da Acqui, e dello stesso Anonimo, di cui del resto non si può con precisione assegnare l'età; ma non ve n'ha nessuno che faccia il più piccolo cenno di una leggenda circa la nascita e il riconoscimento di Costantino. Quando questa leggenda ricomparisce nelle scritture dell'Occidente, ricomparisce congiunta con un'altra finzione del tutto estranea ad essa; e questo connubio non può essere l'opera della fantasia popolare, ma bensì quella di un favoleggiatore solitario a cui occorse di conoscere, o a Costantinopoli, o in alcuna scrittura greca, o forse anche in alcuna scrittura latina andata perduta, o rimasta ignota sin qui, la tradizione orientale.

La finzione nuova che si aggrega alla leggenda di Costantino, è da questa al tutto indipendente in origine. Essa si trova separata, e porge l'argomento alla Storia o Leggenda di Manfredo imperadore di Roma. Se si trovi anche in altre letterature del medio evo oltre l'italiana, e se in questa medesima ve ne sieno stati altri racconti oltre a quello qui ricordato, non si può nè negare nè affermare, ma non è punto improbabile. Finalmente la leggenda complessa, quale si ha nell'Anonimo e negli altri, forma il soggetto dell'Urbano attribuito al

Boccaccio, e della storia di Selvaggio che si legge nel Libro Imperiale, mutati per altro i nomi dei personaggi, ampliata la tela del racconto, alterati in qualche parte gli avvenimenti.

Come s'è veduto, Giovanni da Veronadice di attingere il suo racconto da una Historia Britonum, e Giacomo da Acqui dice di attingere il suo da una Cronica Trevirensis. Che è da credere di tali asserzioni? Le citazioni di fonti false, o immaginarie, sono così frequenti negli autori del medio evo, che il dubbio circa la loro autenticità è, generalmente parlando, sempre legittimo. Nota il Coen che di quante opere posson cadere sotto la designazione di quei titoli non ve n'ha nessuna che contenga la leggenda in discorso. Alcune ricerche infruttuose da me fatte a tal uopo in Germania e in Inghilterra avvalorerebbero l'opinione che nessuno storico inglese o tedesco la narrò mai. Da altra banda, nel caso particolare, non v'è ragione di mettere in dubbio l'autenticità delle citazioni di Giovanni e di Giacomo, ma specialmente di Giovanni, il quale in questa parte è molto esatto. Se non che nulla vieta di credere che essi abbiano avuto tra mani storie interpolate, e interpolate forse qui in Italia stessa, in pochi codici, d'onde la interpolazione non ebbe tempo, o non ebbe occasione di propagarsi. Giovanni e Giacomo avrebbero in sostanza narrata una leggenda italiana credendo narrare una leggenda inglese o tedesca. Ho detto una leggenda italiana; ecco in breve le ragioni che mi fanno propendere a crederla tale.

1º Per tutto il tempo che precede l'apparizione della leggenda complessa narrata dall'Anonimo e dagli altri, noi non troviamo nell'Occidente d'Europa che un solo scrittore il quale mostri di conoscere la tradizione orientale che poi entra a far parte di quella, e questo scrittore è un arcivescovo di Milano, Sant'Ambrogio. 2º Dei tre manoscritti che si conoscono, contenenti il racconto dell'Anonimo, due sono in Germania, conservati, l'uno nella Biblioteca Regia di Dresda, l'altro nella Biblioteca del Ginnasio Albertino di Freiberg(Sassonia); ma noi non ne conosciamo l'origine: il terzo si conserva a Roma nella Chigiana. 3º Gli altri autori che narrano la leggenda sono tutti italiani. 4º La finzione avventizia che in tutti questi racconti si trova intrecciata con la tradizione più antica non occorre separatamente che in un racconto italiano. 5º La leggenda complessa, riferita ad altri personaggi, non si trova che in narrazioni italiane.

Ma lasciamo oramai questo tema, che ci ha trattenuti anche troppo, e volgiamoci ad altre parti della ricca e varia leggenda costantiniana.

Nei racconti passati a rassegna sin qui Costantino, figlio di madre cristiana, è naturalmente cristiano sin dalla nascita; ma se la ingenua leggenda popolare, non d'altro curante che di piegarsi agl'impulsi del sentimento e della fantasia, poteva a questo modo mentir sul viso alla storia, altre leggende meno ingenue, e meno disinteressate, dovevano andar più caute, e adoperare in modo che la storiapotesse in qualche parte almeno confermare le loro menzogne. Queste leggende racconteranno come Costantino si convertì alla religione di Cristo, e circonderanno questa conversione di fatti mirabili che per molti secoli terrannosi in conto di storia autentica ed incontrastabile.

Non tocca a me rifare la storia dell'avvenimento memorabile che s'intitola dalla conversione di Costantino, dire quanta parte nel cristianesimo di questo imperatore abbia avuto il sentimento e quanta la politica, discutere la significazione di certi suoi atti, come l'editto di Milano, la convocazione del concilio di Nicea, la ingiusta persecuzione onde ebbe a dolersi Sant'Atanasio. Tutto ciò porse già da gran tempo, e porgerà ancora argomento a controversie da cui è difficile escludere in tutto lo spirito di parte, ed è interamente estraneo al proposito mio: io non debbo far altro che notare le infondate credenze e le finzioni a cui la conversione di Costantino, sino da tempo assai antico ebbe a legarsi, avvertendo che insisterò meno su quelle che hanno carattere assai più di simulazioni storiche, fatte, starei per dire, a caso pensato, che non di vere e proprie leggende.

Ma prima di procedere oltre soffermiamoci a considerare un fatto che non è fuori del nostro tema. Costantino non fu propriamente, secondo la leggenda, il primo imperatore cristiano. Ebbi già occasione di avvertire come dovesse essere un naturale istinto della coscienza cristiana questo di far comparire cristiani quanti più imperatori fosse possibile. Già Augusto aveva adorato il bambino redentore; già Tiberio, Tito e Vespasiano avevano ricevuto il battesimo. Filippo, l'uccisor di Gordiano, avrebbe abbracciato il cristianesimo, stando a quanto narrano Eusebio, San Gerolamo, Orosio. Un tal fatto è assai poco credibile, e diede luogo a molti dispareri; ma il medio evo lo tiene in conto di verità dimostrata, almeno nell'Occidente d'Europa. Certo una così fatta leggenda avrebbe meritato assai più Alessandro Severo, che nel suo Larario teneva, insieme con le immagini di Apollonio di Tiana e di Orfeo, anche quelle di Abramo e di Cristo. Nè parve abbastanza farlo cristiano; si volle ancora farne un precursore di Costantino nel donare liberalmente alla Chiesa. In

Oriente tali leggende non ebbero fortuna. Efremio, che fiorì nella prima metà del XIV secolo, dice che Filippo avrebbe voluto entrare nel grembo della Chiesa di Cristo, ma i pastori di questa lo respinsero; e già prima Costantino Manasse(XII secolo) aveva affermato Costantino essere il primo imperatore cristiano. In Occidente la cristianità di Filippo si provava con testimonianze e con fatti. Secondo Giacomo Malvezzi al tempo di Filippo, cristianissimo imperatore, fu dedicata in Brescia la chiesa di San Pietro. Ma anche altri imperatori cristiani si ricordavano. A detta di Calendre, Adriano apprese le verità del cristianesimo inun libro datogli da un Cadrasto, discepolo degli apostoli, e Pompeo Pio, cioè Antonino Pio, fu istruito nella fede dal filosofo Giustino. A detta di Armannino Giudice il primo imperadore il quale fu cristiano fu uno ch'ebbe nome Giovanni.

Il fatto da cui prende le mosse la storia della conversione di Costantino è la famosa apparizione della croce, narrata da Eusebio, il quale afferma d'averne udito il racconto dalla bocca dello stesso imperatore. Se l'uno o l'altro di essi abbia mentito non è qui luogo d'andar ricercando: il fatto certo si è che, accingendosi contro Massenzio al cimento delle armi, Costantino tolse per insegna, e fece dipingere sugli scudi dei suoi soldati il così detto monogramma di Cristo. Sulla significazione di un tale atto non insisto: avverto solamente che il segno addimandato monogramma di Cristo si trova già parecchi secoli prima del cristianesimo, che si ha qualche ragione per credere ch'esso sia stato in origine un simbolo del sole, e che Costantino professò un culto pel Sole, come tra l'altro si rileva dalle monete. Checchessia di ciò, la leggenda medievale, o piuttosto una delle versioni di essa, mentre ricorda esattamente il miracolo dell'apparizione, e narra del labaro e del santo segno dipinto sugli scudi, perde di vista altri fatti di storia più consistente, e sostituisce ad essi le sue proprie finzioni. Non è più contro le milizie di Massenzio che Costantino, fatto sicuro dell'ajuto del cielo, va a combattere, ma bensì contro barbari invasori; e la pugna avviene, non più sulle sponde del Tevere, ma su quelle del lontano Danubio. Ottenuta la vittoria, Costantino, già cristiano d'animo, si fa catechizzare e battezzare da San Silvestro, e manda sua madre Elena a Gerusalemme a cercar della croce. In un sermone a torto attribuito a Beda, e su cui avrò da tornare, si fa accadere il miracolo, non solamente quando Costantino era già battezzato, ma ancora dopo che ebbe fondata Costantinopoli, e contro i Saraceni minaccianti la nuova città. Altri, narrando altrimenti, cercavano di dare spiegazione di altri fatti. In certe leggende francesi già citate si

legge a questo proposito: "Or donques iassoice que Constantin eust eue si noble victore par la vertu du signe de la croix, touteuoies il ne fist force ne diligence d'enquerir de la vertu de ce signe, dont il aduint tantost aprez qu'il deuint si meseau et si corrompu qu'il estoit horrible a regarder". Ed ecco qui l'addentellato per la leggenda famosa che narra di Costantino lebbroso, battezzato e guarito da San Silvestro, leggenda religiosa e politica di capitale importanza, che s'impose in singolar modo alla storia, e pesò non poco sui destini dell'umanità.

L'opinionedi coloro che credono Costantino non mirasse ad altro che a farsi della Chiesa un'utile ancella, pecca, senz'alcun dubbio, di esagerazione; ma, nullameno, v'è in essa molto del vero. Chi dagli editti di tolleranza, e poi, via via, delle nuove leggi, traeva più visibile beneficio era, non già l'imperatore, ma la Chiesa; e mentre questa, dalla sua stessa condizione di beneficata era costretta a dar prova di deferenza e di sommessione, quegli era vie più sollecitato ad esercitar su di lei un ufficio di patronato che, per quanto fosse benevolo e rispettoso, pur tuttavia riteneva sempre, e non poteva non ritenere, molti dei caratteri della sovranità. La Chiesa fece il poter suo per uscire al più presto da quell'incomodo ed umiliante stato di soggezione, e la leggenda si provò a far dimenticare che ci fosse mai stato: secondo la leggenda il beneficato da prima fu Costantino, e non la Chiesa; e quanto egli poi fece in favore di questa, e quanto più s'immaginò che avesse fatto, non fu altrimenti considerato che come un atto e una prova della sua riconoscenza.

La leggenda a cui qui accenno è molto antica e formata di più parti; ma non tutte queste parti sono antiche egualmente. Vediamola anzitutto nella sua forma piena e matura, quale si ha, per esempio, nella Legenda aurea, e poi ricercheremo le sue origini, ed esamineremo le sue attinenze e le sue variazioni.

Nel c. XII della Legenda aurea Giacomo da Voragine racconta la leggenda di San Silvestro. Comincia, secondo il solito, con dare l'etimologia del nome del santo, e passa poi a dire dei suoi genitori, di un primo miracolo da lui operato, della sua esaltazione al papato, e di alcune altre cose che non importano ora al nostro soggetto. Seguita la leggenda costantiniana. Costantino perseguita i cristiani, e in punizione di ciò è colpito da una incurabile lebbra. I pontefici degl'idoli gli consigliano di fare un bagno di sangue di bambini. Tremila creaturine son raccolte a tal uopo; ma mentre Costantino s'avvia al luogo preparato per

il bagno, ecco farglisi incontro le madri, co' capelli disciolti, e con pianti e con strida. Commosso, Costantino fa fermare il carro che lo conduce, e dice agli astanti: la dignità del popolo romano, la quale nasce dal fonte della pietà, non permettere che si compia un atto così disumano; meglio essere per lui morire, salvando la vita a tanti innocenti, che vivere ingiustamente per la morte loro. Dopo ciò fa restituire i bambini alle madri, e queste accomiata con doni. Tornato al palazzo, la notte seguente vede in sogno San Pietro e San Paolo, che si diconomandati da Cristo per insegnare a lui, in premio dell'addimostrata pietà, il modo di racquistar la salute. Faccia venire a sè Silvestro, il quale per paura delle sue persecuzioni si sta nascosto nel monte Soratte, e Silvestro gli mostrerà una piscina in cui immergendosi tre volte sarà guarito d'ogni infermità. Quand'abbia ottenuta la grazia, distrugga i templi degl'idoli, restauri le chiese di Cristo, e creda in lui. Svegliatosi, Costantino manda i suoi militi a cercar di Silvestro, e inteso da lui chi fossero i due che gli erano apparsi nel sonno, si fa catechizzare, e dopo aver digiunato una settimana, e liberati i prigioni, riceve il battesimo, dalle cui acque salutari è incontanente guarito. Allora per sette giorni consecutivi promulga ogni giorno una legge in favor della Chiesa e della fede; e la prima è che nella città di Roma Cristo sia adorato qual vero Dio; la seconda, che chiunque bestemmia Cristo sia punito; la terza, che chiunque fa ingiuria a un cristiano perda la metà del suo avere; la quarta, che il Pontefice romano sia da tutti i vescovi riconosciuto per capo; la quinta, che chiunque ripara in una chiesa sia tenuto immune; la sesta, che nessuno possa costruir chiese dentro le mura di una città senza averne ottenuta licenza dal vescovo; la settima, che alla edificazione delle chiese si consacri il decimo dei possedimenti imperiali. L'ottavo giorno l'imperatore va alla chiesa di San Pietro, accusa le sue colpe, e dovendosi porre le fondamenta della nuova basilica, prende a cavare con le proprie mani la terra, e ne leva sulle proprie sue spalle dodici sporte. La madre di lui Elena, udite tali nuove, da Betania, dove si trovava, gli scrive, lodandolo d'avere rinunziato alla religione degli idoli, ma biasimandolo, perchè, invece di adorare il vero Dio degli Ebrei, si è dato ad adorare un uomo crocifisso. Costantino risponde, invitandola a condurre seco i dottori ebrei, perchè possano disputar coi cristiani, e così si veda chi ha la ragione e chi il torto. Elena viene, conducendo i suoi dottori in numero di centosessantuno, fra cui ce n'ha dodici che di eccellenza vincono tutti gli altri. A questi si oppongono Silvestro e i suoi chierici, e giudici della disputa sono eletti di comune accordo due gentili,

assai giusti e onorati uomini, per nome l'uno Cratone, l'altro Zenofilo. Dopo lunga ed ostinata contesa, rimasto vittorioso Silvestro, Elena, gli Ebrei, i giudici, e molt'altri si convertono al cristianesimo. Passati alcuni giorni, i pontefici annunziano a Costantino che certo drago, il quale abitava in una profonda cavità della terra, dacchè egli si era fatto cristiano uccideva ogni giorno con l'alito piùdi trecento persone. Costantino chiede consiglio a Silvestro; questi, dopo un'apparizione dello Spirito Santo, scende con due compagni per centocinquanta gradini nella caverna, e lega con un filo, e suggella col segno della croce la bocca del drago, che aspetterà laggiù il ritorno di Cristo. Dopo di ciò tutto il popolo di Roma si converte alla vera fede. Il racconto di Giacomo da Voragine si ferma a tanto, ma altri racconti, su cui tornerò fra breve, soggiungono che Costantino, per mostrar vie meglio la gratitudine sua, e per lasciar più libera la Chiesa, cedette a Silvestro Roma e tutto l'Occidente, con le insegne imperiali, e passò in Oriente, dove ricostruì Bizanzio, e dal suo nome la chiamò Costantinopoli.

La leggenda narrata dal Voragine si trova più o meno diffusamente riferita, nei Leggendarii di Pietro de Natalibus, di Bartolomeo da Trento, di Bonino Mombrizio, e d'altri, entra a far parte delle leggende di Sant'Elena e della invenzione della Croce, è ripetuta, o ricordata, sin oltre il XVI secolo, da un infinito numero di scrittori. Giovanni d'Outremeuse sa persino indicare il giorno preciso in cui Costantino ammalò della lebbra, che fu l'ultimo del mese di Decembre dell'anno 311. Qualcuno poi aggiunge che a Costantino, guarito da Silvestro, rimase in fronte una piccola macchia di lebbra a cagione di certo idolo ch'egli continuava ad aver caro dopo la sua conversione: distrutto l'idolo, la macchia disparve. La leggenda, a narrar la quale si spendono nella Kaiserchronik non meno di 2800 versi, porse anche argomento a misteri. Dante le dava pienissima fede.

Nella leggenda complessa, testè riferita, sono, come ho detto, più parti, le quali non hanno tutte la stessa origine e la stessa antichità. La prima riflette la malattia, il battesimo, la guarigione di Costantino. In essa non solo si narrano alcune cose che non si trovano confermate dalla storia, ma parecchie ancora che alla storia contraddicono formalmente. Costantino non fu mai ammalato di lebbra, e non si fece battezzare da San Silvestro in Roma, ma in un castello presso a Nicomedia, poco tempo prima della sua morte, da Eusebio, vescovo ariano. Così, conformemente al vero, affermano Cassiodoro nella Historia tripartita,

San Gerolamo e Sant'Isidoro di Siviglia nelle lor Cronache, Sant'Ambrogio, Prospero Aquitano, Fredegario, ed altri più recenti. In Oriente Eusebio, Socrate, Sozomene, Teodoreto, dicon del pari che Costantino ricevette il battesimo solamente negli ultimi giorni di sua vita in Nicomedia: alcuni spiegano un così lungo ritardo con dire che desiderio di Costantino sarebbe stato di farsi battezzar nel Giordano.

La legenda che fa Costantino battezzato e guarito da San Silvestro comparisce già, prima dell'anno 530, negli Acta Silvestri, giudicati apocrifi nell'Opus Carolinum, dove CarloMagno confutò le decisioni del secondo concilio di Nicea. Di questi atti esiste una versione greca, la quale procacciò la diffusione della leggenda in Oriente. Il Döllinger crede che la intera finzione, evidentemente romana di origine, sia sorta verso il finire del secolo V, o in sul principiare del VI, e indica del suo ritrovamento alcune ragioni molto plausibili. "L'avvenimento più importante e decisivo, egli dice, dell'antichità, la conversione del dominatore del mondo al cristianesimo, in qual altro luogo mai avrebbe dovuto succedere se non nella stessa metropoli? Al supremo gerarca civile il supremo gerarca ecclesiastico aveva dovuto aprire le porte della Chiesa. Non si poteva credere che il pio Costantino, il figliuol di Sant'Elena, il fondatore dell'impero cristiano, avesse lasciato spontaneamente trascorrere l'intera sua vita senza ricevere il battesimo, rinunziato al benefizio dei sacramenti, operato in guisa da non meritare nemmeno il nome di cristiano". Questi presupposti della coscienza cristiana erano già di per sè sufficienti a far nascere la leggenda; ma v'era pur qualche fatto che poteva venir loro in ajuto. In Roma si mostrava un Battisterio di Costantino, forse così chiamato in origine perchè fatto costruire da lui: il popolo doveva facilmente immaginarsi ch'esso così si chiamasse perchè Costantino v'era stato battezzato. Alcuni casi del pontificato di Simmaco, la contestazione fra il clero e Teodorico, dovettero favorire il nascimento di una leggenda che tendeva ad assicurare il primato e la inviolabilità del romano pontefice. Eusebio, ed altri dopo di lui, raccontano che Costantino, essendo infermo, andò a far certa cura di acque termali, prima di ricevere il battesimo in Nicomedia, e questa notizia può aver dato occasione a quanto la leggenda racconta della lebbra e del bagno di sangue.

Sant'Aldelmo, lo Pseudo-Beda, il Liber Pontificalis, narrano la leggenda del battesimo romano, che, passata in Oriente, è quivi accolta e difesa da parecchi scrittori, fra gli altri da Teofane Isaurico, morto nell'817, o

818, e da Cedreno. Il racconto storico e vero si ritiene allora una calunniosa invenzione, oppure si cerca di conciliarlo con la leggenda, ammettendo che, dopo essere stato battezzato da San Silvestro, Costantino, inclinatosi all'arianesimo, si facesse ribattezzare da Eusebio vescovo di Nicomedia. Ma una conciliazione così fatta, di cui può vedersi a mo' d'esempio un ricordo nella Cronaca di Eccardo Uraugiense, composta verso il 1100, è dai più risolutamente respinta. Parlando di Costantino, Gotofredo da Viterbo dice nella particola XXII del Pantheon, e X della Memoria sæculorum:

Baptizavit eum Silvester, idemque fatemur;

Arrius hunc post hec corrupit, et inde dolemus,

Scismate namque suo conmaculavit eum.

Hoc fuit in villa, quam rite vocant Aquilonam,

Quando rebabtizatus fedaverat ipse coronam:

Scripta tripertita testificantur ita.

E Fazio degli Uberti:

Nell'acqua dela fe bis fu costui

Lavato.

Finalmente è da ricordare un'altra, ma meno diffusa e meno importante leggenda, secondo la quale Costantino sarebbe stato battezzato dal papa Eusebio, leggenda evidentemente immaginata per far vacillare con la uguaglianza dei nomi la tradizione storica che Costantino diceva battezzato da Eusebio di Nicomedia. In appoggio di tale leggenda s'era foggiata ed attribuita a quel pontefice una decretale, che esisteva ancora nel XII secolo, ma che poi sembra sia andata perduta. Questa leggenda, fra gli altri, accetta anche Pietro de Natalibus.

Alla conversione di Costantino, Giovanni Colonna fa immediatamente succedere la conversione dei Romani. Ricevuto il battesimo, Costantino fece un discorso ai senatori e al popolo, udito il quale e popolo e senatori gridarono: Qui Christum negant male pereant, quia ipse est verus deus. Et iterum iube qui thurificant diis urbi pellantur. Ma Costantino rispose, la fede non potersi imporre con la forza, anzi dover essere spontanea. Qui abbiamo senza dubbio una reminiscenza di quelle concioni che, se si deve prestar fede ad Eusebio, più di una volta Costantino tenne al popolo. Ma nella leggenda comune si narra, come abbiam veduto, di una disputa fra i dottori ebrei e Silvestro, dopo la quale molti si convertirono al cristianesimo. Questa disputa è già riferita nei documenti più antichi

della leggenda; la stessa conversione di Elena si fa dipendere da essa. Noi abbiamo veduto altre leggende fare Elena cristiana sin dalla giovinezza; ma oltre che Eusebio dice esplicitamente Elena essere stata convertita dal figlio, la leggenda che veniva raccogliendo e inventando i titoli di benemerenza della Chiesa e le prove della gratitudine di Costantino, non poteva concedere che costui avesse ricevuto l'inestimabile benefizio della fede, anzichè dalla Chiesa, dalla propria sua madre. Del resto una disputa consimile si ha nella leggenda di Barlam e Josafat, dove Barlam dimostra a dottori caldei, greci, egizii ed ebrei la falsità delle loro religioni.

Il miracolo del drago si trova già nei racconti più antichi, e ha molti, ma molti riscontri nell'agiografia cristiana. Nelle numerose narrazioni che se ne hanno si trova spesso qualche variazione rispetto al riferimento più antico. Amalrico Augerio dice, per esempio, negli Actus Pontificum, che il drago aveva ucciso seimila persone, e che San Silvestro lo legò cum catenis aereis et fortissimis ferris. La Kaiserchronik pone il drago in un monte Mendel(Mendelberg); Simeone Metafraste, Corrado di Würzburg, altri, nel Monte Tarpejo, e qualcuno vi fu che volle anche narrare come il drago fosse venuto a Roma. I Mirabilia e la Graphia ricordano la leggenda di San Silvestro e del drago immediatamente dopo quella di Curzio, e ciò diede forse occasione a confondere l'una con l'altra, comefa Armannino Giudice nella Fiorita. Infernus era il nome, così della voragine di Curzio, come della caverna in cui si credeva che San Silvestro avesse rinchiuso il drago. Senza dubbio in origine la leggenda altro non fu che un'allegoria, dove il drago stava a rappresentare il paganesimo, o fors'anche il demonio vinto e reso impotente dal santo pontefice. Come in molt'altre religioni e mitologie, così ancora nel cristianesimo il drago, o il serpente, rappresenta il principio del male e delle tenebre; nelle tradizioni religiose ed epiche di tutti i popoli lo spirito del male prende volentieri la forma di serpente o di drago, e come uccisori di serpenti e di draghi sono celebrati gli dei e gli eroi. Arimane assume forma di drago, e così ancora molto spesso il diavolo. Apollo uccide il serpente Pitone, Odino uccide Fafnir; Giasone, Rustem, Siegfried, Sigurd, Siegmund, Beowulf, Tristano, Gilles de Chin, altri eroi senza numero uccidono draghi. Secondo una leggenda talmudica anche Salomone vinse un drago. La leggenda di San Giorgio prese origine, senz'alcun dubbio, da qualche pittura o altra rappresentazione allegorica. Eusebio racconta che Costantino si fece ritrarre col segno della passione sopra il capo e col diabolico drago precipitante nel mare. Nella Vita di San Silvestro, scritta

da Simeone Metafraste, il drago è rappresentato come una divinità in onor della quale i gentili celebravano esecrandi misteri. La leggenda fu nel medio evo fra le più celebri: Tommaso di Stefano, detto il Giottino, ne fece soggetto di un affresco nella cappella di San Silvestro in Santa Croce. Tutta del resto, la leggenda di San Silvestro ebbe grandissima celebrità: verso il 1280 Corrado di Würzburg la tolse ad argomento di un poema di 5220 versi.

Narrata la conversione di Costantino al modo che abbiam veduto, e confermata con tanti miracoli la verità del cristianesimo, si doveva necessariamente credere che la falsa religione non fosse più tollerata nell'impero; e, in fatti, le storie, traviate dalla leggenda, raccontano che Costantino fece chiudere, o addirittura abbattere, i templi degl'idoli, e arricchì con le spoglie loro le chiese, molte delle quali egli stesso veniva con lodevole zelo innalzando. Ora, sebbene in ciò qualche cosa di vero vi sia, molto ancora si esagerò. Si attribuì a Costantino la costruzione delle sette chiese più antiche di Roma, e, in generale, di ogni altra chiesa di cui si ignorassero le origini; si ricordavano i doni ch'esse avevano ricevuto da lui.

L'ultima parte della leggenda complessa che abbiamo esaminata sin qui narra della cessione che di Roma e dell'impero d'Occidente fece Costantino al Pontefice, e della traslazione della sede imperiale a Bizanzio. La favola celebre della donazione, laquale è assai più una falsificazione storica che non una leggenda, e di cui non mi spetta parlare di proposito, dev'essere stata immaginata in Roma, fra il 750 e il 754, quando i papi, avversarii acerrimi della dominazione longobardica, cominciarono a nutrire il pensiero di sostituire l'autorità propria a quella degl'imperatori d'Oriente, la quale oramai altro non era che un'ombra. S'inventò allora il famoso Edictum Constantini, tante volte citato dai papi in sostegno delle lor pretensioni, tante volle impugnato dai loro avversarii. Costantino abbandonava Roma affinchè il papa potesse esercitarvi più liberamente l'alto suo ministero, e partendo, poneva in sua balìa tutto l'impero d'Occidente, e gliene trasmetteva l'insegne, e quella corona che, così si dirà più tardi, egli aveva dallo stesso pontefice ricevuta. In Roma si mostrava il luogo dove l'imperatore e il papa s'erano baciati e separati. Tutti conoscono i versi in cui Dante deplora la donazione ond'ebbe principio il pervertimento della Chiesa; ma altri infiniti la deplorarono al par di lui: secondo una tradizione che credo tedesca, il giorno in cui Costantino cedette Roma al Pontefice si udì in

cielo una voce a gridare: Oggi nella Chiesa è stato infuso il veleno.

Lasciata Roma, Costantino va a fondare Costantinopoli. Intorno a questa fondazione parecchie leggende si raccolsero, le quali non tutte s'accordano con la favola papale nel darne le ragioni. Nella Kaiserchronik si dice che Roma essendo afflitta dalla fame Costantino prese la risoluzione di partirsi con molti dei suoi e lasciare la città al papa. Nel Chronicon Salernitanum si racconta che Costantino, lasciando per divina ispirazione la città di Roma alla Chiesa, si mise in mare insieme con la moglie, coi figli, con tutti gli ottimati e con l'esercito, diretto a Bizanzio. Spinte da una burrasca, due navi approdarono in Ischiavonia, e ottenutane licenza dagli abitanti, i Romani fermarono loro stanza in Ragusa. Ma non potendo soffrire l'oppressione dei Ragusei, tornarono indi a non molto in Italia, e vennero a Melfi, onde poi furono detti Amalfitani. Parecchi scrittori ecclesiastici narrano che Costantino erasi da prima accinto a ricostruir Troja; ma una voce del cielo lo ammonì di non voler ciò fare, e allora egli si volse a Bizanzio, o, secondo taluni, prima a Calcedonia, poi a Bizanzio. Giraldo Cambrense dà come ragione del divieto divino l'infame vizio della sodomia di cui Troja anticamente sarebbe stata infetta. Manasse racconta che avendo Costantino cominciato a edificare la città di Calcedonia, sopraggiunsero alcuni grandi uccelli, i quali rapirono le pietre e le portarono a Bizanzio. In certe Vitae Cæsarum inedite, Gianmichele Nagonio dice che Costantino tentò di edificare una città, prima nell'agro Sardico, poi nella Troade, daultimo presso Calcedonia; ma quivi alcune aquile rapirono le funi con cui gli architetti stavano spartendo l'area e le portarono a Bizanzio.

Secondo altre tradizioni Costantino fu mosso a costruire, o per dir meglio, a ricostruire Bizanzio, da certa visione ch'egli ebbe, e che si trova narrata da parecchi. Ecco, in succinto, la narrazione che ne fa Sant'Aldelmo. Una notte, Costantino, che già si trovava nell'antica Bizanzio, vide in sogno una vecchia decrepita, e che all'aspetto pareva quasi morta. Così comandandogli San Silvestro, Costantino la pregò di sorgere, e quella, alle sue parole, si mutò in una bellissima e fiorente fanciulla. Costantino compiacendosi in lei, la vestì della propria clamide, e le pose in capo la corona imperiale sfolgorante di gemme; e udì la madre Elena dirgli: Costei sarà tua, e non morrà sino che duri il mondo. Costantino, destatosi, non intendendo il sogno, comincia per la preoccupazione dell'animo, e per la troppa frugalità a macerarsi, finchè, trascorsa una settimana, preso da nuovo sopore, vede in sogno San

Silvestro che così gli parla: "La vecchia decrepita è questa stessa città di Bizanzio, la quale è tutta ormai una ruina. Sali in su quel tuo cavallo su cui, battezzato, visitasti in Roma i santuarii degli Apostoli e dei martiri, prendi nella destra il tuo labaro, e fitta la punta di esso in terra, allenta il freno al cavallo, e lascia che vada dove l'angelo di Dio sarà per condurlo. Tu, lungo la traccia che lascerà in terra la cuspide del vessillo, farai costruire le nuove mura, e rinnovellerai la città, e la chiamerai col tuo nome, e di tutte l'altre città la farai regina". Costantino, svegliatosi, offre doni a Dio, si comunica, esegue punto per punto il comandamento di San Silvestro, e costruisce la città, che dal suo nome fu detta Costantinopoli. Lo stesso, salvo qualche leggiera diversità, narra Guglielmo di Malmesbury, citando Aldelmo. Un'altra leggenda, più semplice, narrava che Costantino, mentre camminando, tracciava la pianta della nuova città, era preceduto da un angelo. Più di un prodigio fece intendere che la nuova città era serbata ad alti destini: alcuni narravano che al porre della fondamenta era apparsa la Fenice. Nessuna città si costruì poi nel mondo che l'eguagliasse in magnificenza: Nicolò Casola così racconta di Costantino e di Costantinopoli nella sua Storia di Attila: "Il se fist batisier e fu granz ensuit e nos vos avons conte et puis s'en ala en Grece. E portoit davant luy la saint croiz et toz cels qe a la sainte cristientez voloient venir et vindrent furent sauvee de cois(sic) e de voir e li autre furent danez e destruit.Il menoit avec lui si grant chevalerie e si gran people qe la ou il venoit nuls ne li ousoit contradire. Il fu sire e empereour en Grece. Il s'en aloit en(en) Bisançe, et illec s'arestoit, illec il fist une citez la plus belle et la greignor e la plus riche que de lors en avant fust faite ou secle. Il la apeloit de son nom Constantinople. Qe vos diroge? illec fist il son empire, e le tint de par l'apostoille de Rome e fu li pais apelle Romanie por ce qe li Romains i remestrent". Attingendo a non so quali fonti Bertran de Paris de Rouergue dice che Costantino consumò nella edificazione di Costantinopoli centovent'anni;

Cen vint an obret c'anc als no fet.

La leggenda narra inoltre qual modo tenesse Costantino per far rimanere a Costantinopoli i patrizii romani, vogliosi di tornarsene a Roma. Prima di condurli a combattere contro i Persiani, dice Michele Glica, egli si fece consegnare da loro le anella, e queste mandò a Roma, fingendo che i mariti ingiungessero alle proprie mogli di venirli a raggiungere. Vedute le anella dei mariti le donne obbedirono, e vennero

a Costantinopoli, dove Costantino fece costruire palazzi in tutto simili a quelli di Roma, così che quegli furono contenti di rimanere. Codino narra questa medesima favola, e dice che grande fu la meraviglia dei maestri delle milizie e dei patrizii quando, tornati a Costantinopoli, vi trovarono le famiglie e le case loro. Altre leggende narrano di un'altra astuzia volta al medesimo fine. Costantino aveva promesso ai patrizii di ricondurli a Roma. Instando essi perchè la promessa fosse loro osservata, egli fece venire da Roma grande quantità di terra, e sparsala per le piazze di Bizanzio(secondo altri sul suolo di un'isola), e convocati poscia i patrizii, si dichiarò sciolto dall'obbligo suo giacchè essi trovavansi sulla terra di Roma.

Nella Kaiserchronik questo fatto è legato con l'altro delle anella: in un testo italiano esso è narrato come segue: "....... e per ch'elli(Costantino) avea giurato ai suoi baroni e promesso di ritornare in terra di Roma, consappiendo che altrimenti nol voleno seguitare, fece torre le navi e caricare della terra di Roma, e fecela ispargere per le piazze, e propriamente per una, ed ivi fece suo parlamento, e disse come elli era sciolto del sacramento il quale egli avea lor fatto conciossia cosa ch'elli era in terra di Roma, e sapiate c'allora si votò Roma di molta buona gente".

Nel citato sermone indebitamente attribuito a Beda si narra, come già notammo, che quando Costantino ebbe costruita Bizanzio, i Saraceni mossero contro di lui per combatterlo, e che egli, rassicuratodall'apparizione della croce, venne con esso loro a battaglia, e ne uccise moltissimi. Giovanni Lydgate ricorda nella sua versione metrica del trattato del Boccaccio De casibus virorum et feminarum illustrium una statua equestre tutta di bronzo, che sorgeva in Costantinopoli, e rappresentava Costantino con una spada meravigliosa in mano in atto di minacciare i Turchi.

Se le leggende di Costantino esaminate sin qui hanno tutte, qual più qual meno, un appiglio nella storia, altre ve ne sono in tutto e per tutto immaginarie, le quali non hanno con lui nessuna necessaria attinenza, e non s'intende come e perchè siensi legate al suo nome. Queste riflettono più particolarmente la sua vita privata di marito e di padre, ad eccezione di una, che riferirò per la prima, nella quale egli comparisce ancora come uomo pubblico, e più propriamente come legislatore. Nel Fiore di virtù la nota leggenda di Licurgo, che fece giurare agli Spartani di osservar le sue leggi fino a che egli fosse tornato, è attribuita a Costantino, e

narrata ne' seguenti termini: "Della virtù della constantia si legge nelle storie romane ch'el re Constantino aveva ordinate certe lege al populo le quali gli pareva troppo duro observare, et lo re pensava pure di fare che il populo l'observassi perchè erano legge forte et giuste, et disse al populo: Io voglio che giuriate d'osservare questo legge infino alla mia tornata: in questo mezo io voglio andare et parlare a nostri iddei, et pregargli che vi concedino licentia di mutarle secondo el vostro volere. Et udendo questo el populo si gli giurò d'observare. Et allora lo Re si partì et non tornò mai più acciocchè le leggi non si potessino ronpere, ma sempre si observassino. Et quando egli venne a morte comandò che il suo corpo fussi arso e facto in polvere et fussi gittato al vento accio che il populo non si credessi mai essere absoluto di quello sacramento che hauea facto se il corpo del re fussi stato riportato nella città. Et così fu facto come lui comandò".

Nel Roman du Comte de Poitiers si racconta in assai strano modo come Costantino si ammogliò. Costantino è nipote di Nerone, trattenuto prigioniero dall'ammiraglio di Babilonia. Egli vuole andare a liberare lo zio; ma prima crede necessario di ammogliarsi, affinchè non manchi un erede all'impero. Spedisce trenta messaggieri i quali debbono percorrere tutte le terre soggette alla corona dusques en la mer Betée, e avvertire tutti i cavalieri, re, principi, conti e duchi, che vengano a Roma, senza fallo, entro la quindicina, recando ciascuno con sè la sorella o l'amica, purchè sia vergine. All'ordine di Costantino accorrono re e baroni congrandi cavalcate e sfoggiata magnificenza. Tanta gente capita a Roma,

Que les rues encortinées

Furent à grant anui passées.

La città è piena di festa e di sollazzo:

Li palais sambloit embrasés

De cierges c'on ot alumés

Cil haut borgois ont dras de soie.

Ains mais à Rome n'ot tel joie.

Le fanciulle venute alla gara sono in numero di trenta. Costantino, il quale giura per il suo droit signor St. Pierre, le fa entrar tutte

Dedens le fort lor principar

Que fist rois Juliiens César,

e ordina loro di spogliarsi ignude a fine di poter fare la sua scelta

Par jugement et por otroi.

Alla prima che ricusi taglierà il capo. Le fanciulle, vergognose e spaurite, obbediscono tremando, ed egli le bacia in bocca una per una. Loretta, che

Dame ert de Boulogne la crasse,

tra tutte la più bella e cortese, prima d'ogni altra domanda di potersi rivestire, ed è prescelta da Costantino, il quale ammira non meno la modestia che la bellezza di lei, ma dice, in pari tempo, che tutte l'altre terrebbe assai volentieri, se fosse lecito il farlo. Si passano in feste quindici giorni, e i baroni fanno ritorno alle case loro. Ma giunge allora Sansone il Forte, insieme con sua sorella e cento cavalieri. Costantino trova costei più bella assai di Loretta, e, tutti andando d'accordo, la sposa, e Loretta sposa Sansone. I due matrimonii si celebrano nella chiesa di San Pietro, e seguono altre feste, finite le quali, Costantino parte da Roma con un poderoso esercito, prende Babilonia, libera Nerone, occupa Gerusalemme, e conquista tutto il paese sino all'Albero Secco. Costantinopoli gli apre le porte: Parise, figliuola del morto imperatore dei Greci, s'innamora di Guido, siniscalco di Costantino, e lo sposa. Guido diventa imperatore di Costantinopoli, e Costantino se ne ritorna a Roma.

Ed ecco qui comparire una curiosa leggenda, la quale senza essere in nessun modo connessa con la favola precedente, narra delle sciagure domestiche di Costantino: Costantino fu ingannato dalla moglie, ma prese dell'inganno aspra ed esemplare vendetta. Può darsi che tale leggenda sia stata in una certa misura provocata dalla storia. È noto che Costantino fece morire il proprio figliuolo Crispo ad istigazione dell'imperatrice Fausta, che l'accusò di averla voluta sedurre; scoperta più tardi la falsità dell'accusa, egli fece morir lei soffocata in un bagno: ma alcuni padri raccolsero una tradizione, secondo la quale Fausta, convinta di adulterio, sarebbe stata esposta in un monte alle fiere. Tuttavia è ben più probabile che la leggenda sia stata immaginata, o almeno appropriata a Costantino, in forza di quella tendenza a denigrare il sesso più debole che è così largamente espressa in tutte le letterature del medio evo, e per cuisi fecero apparire come ingannati, traditi, scornati da donne, uomini insigni, quali, per non citare altri esempii, Aristotile e Virgilio. Nella leggenda nostra l'imperatrice, di cui non è detto il nome, tradisce il marito con un vile e mostruoso gobbo; scoperta la

tresca, Costantino li fa entrambi morire. Di questa favola occorre frequente il ricordo nei poeti del medio evo. Bertran de Paris dice nel già citato ensenhamen che, per dispetto di quello inganno, Costantino lasciò Roma e se ne andò a Bizanzio. Egli rimprovera al giullare Guordo d'ignorare quella storia:

De Costanti l'emperador m'albir

Que no sabetz com el palaitz major

Per sa molher pres tan gran deshonor,

Si que Roma 'n volc laissar e gurpir;

E per so fon Constantinobles mes

En gran rictat, car li plac que bastis,

Que cen vint ans obret c'anc als no fe;

E jes d'aisso non cug sapiat re.

Guiraut de Cabreira fa al giullare Cabra lo stesso rimprovero:

De Costanti

Non sabs c'on di.

Nell'Auberi le Bourguignon si legge:

Par femme sont maint homo abatu:

Rois Constantine, qui tant estoit cremus,

En fu hounis, ce aues vous seu,

Par Segucon, qui moult ot court le bu;

Ce fu uns nains petis et moscreus;

.VII. ans la tint, ains qu'il fust parcheu.

La leggenda è inoltre ricordata nel Tristan, nel Le Blasme des Fames, nella Bible Gulot. Enenkel la racconta nel suo Weltbuch con alcune particolarità che non si veggono altrove accennate, e che probabilmente, son frutto della sua fantasia. Costantino commette ad un suo cancelliere di far coniare monete con l'effigie imperiale ad esempio di Augusto. Il cancelliere aveva un fratello sbilenco, ma molto ardito, il quale abitava in un sottoscala. Costui riesce ad ottenere i favori dell'imperatrice, e la loro tresca dura finchè viene all'orecchio di Costantino. Questi li coglie sul fatto; trafigge con la spada la donna e calpesta lo sbilenco sotto i piedi del suo cavallo. Il cancelliere, udita la morte del fratello, fa coniar monete rappresentanti un uomo in atto di trafiggere una donna, e ciò a fine di perpetuare l'infamia di Costantino, poi si parte dal regno.

Enenkel dice che in Roma si vedeva un gruppo di pietra il quale rappresentava Costantino a cavallo in atto di calpestare lo sbilenco: questo mi dà naturalmente occasione a parlare del Caballus Constantini di cui feci già altrove ricordo.

Col nome di Caballus Constantini, ma non con questo nome soltanto, si designava nel medio evo la statua equestre di Marc'Aurelio, che si vede ora dinnanzi al palazzo del Senatore in Campidoglio, ma che per più secoli sorse nella piazza di San Giovanni in Laterano. La prossimità della chiesa costruita da Costantino fu causa, senz'alcundubbio, che alla statua si desse quel nome, e in grazia del nome essa, sola di tutte le statue equestri di Roma, giunse intera, o quasi, insino a noi. Il nome di Equus o Caballus Constantini era ancora in uso ai tempi di Paolo II, come risulta da certi mandati di pagamento per restauri fatti alla statua negli anni 1466 e 1467. Ai tempi di Andrea Fulvio si dubitava se la statua fosse di Marc'Aurelio, o di Lucio Vero, ma gli è probabile che il popolo continuasse a chiamarla di Costantino. Enenkel non è il solo a dire che la statua fosse di pietra; Giovanni d'Outremeuse afferma il medesimo, e dice che essa era stata portata da Costantinopoli a Roma. Bartolomeo della Pugliola sa che la statua è di metallo, ma incorre in un ben più grave errore, se, come non pare che possa dubitarsi, nel seguente passo della sua Cronica intende parlare della statua di Marc'Aurelio. "Clemente III di Roma fu fatto Papa, il quale fece il Chiostro del Monastero di San Lorenzo fuori delle mura di Roma, e fece un palazzo molto alto in Laterano, e molto ornato. Ancora fece un cavallo grandissimo di rame". Clemente III tenne la sedia pontificale dal 1187 al 1191.

Il presunto Cavallo di Costantino comparisce più di una volta nelle storie della città. Giovanni XIII(965-972) vi fece appendere un prefetto pei capelli. Nelle feste che si celebrarono in Roma l'agosto del 1347, quando furono conferite a Cola di Rienzo le insegne tribunizie, il Cavallo di Costantino ebbe la parte sua: "Ibi fuit equus Domini Constantini Imperatoris de metallo coopertus de varo, ita artificialiter ordinatus, quod ex naribus egrediebatur vinum et aqua continuo, et nemo videbat quomodo poneretur". Ciò che qui si dice della statua coperta di vajo in occasione di pubbliche feste, rende intelligibile un luogo del Roman de Rou, dove Wace racconta che Roberto I, duca di Normandia, vide a Roma la statua di Costantino e le fece dono di un manto:

Costentin vit, ki ert a Rome,

De quiure fait, en guise de home,

Cheual a de quiure ensement,

Ne muet pur pluie ne pur vent.

Pur la hautece et pur le honur

De Costentin l'empereur,

En ki num l'image est leuce

E par ki num est apelee,

La fist d'un mantel afubler,

Del plus riche qu'il pot trouer.

Ma già i Mirabilia e la Graphia negano che la statua sia di Costantino: "Lateranis est quidam caballus aereus qui dicitur Constantini, sed non est ita, quia quicumque voluerit veritatem cognoscere hoc perlegat". E soggiungono la seguente singolarissima istoria. Al tempo dei consoli e dei senatori, un potentissimo re dell'Oriente, venne inItalia, e assediata Roma dalla parte del Laterano, afflisse i Romani con asprissima guerra. Allora un cavaliere di molta prudenza e valentia propose ai consoli e ai senatori di liberare la città, a patto che, condotta l'impresa a buon fine, gli si dessero in premio 30000 sesterzii, e gli si ergesse una statua. Accettata da quelli l'offerta, egli raccomandò loro di armarsi, e di tenersi, verso la mezzanotte, pronti ad ogni suo cenno. Per più notti consecutive aveva egli veduto quel re venire per suoi bisogni corporali appiè di un albero, ed ogni volta una civetta che su quello si stava, s'era messa a cantare. Uscito di città all'ora opportuna, sopra un cavallo senza sella, trovò il re, e rapitolo a forza, non curando i seguaci di lui ch'erano poco discosto, si volse verso la città: i Romani, da lui chiamati, uscirono alla lor volta, ed ebbero allora sui nemici facile vittoria. Al cavaliere fu mantenuta la promessa; gli si fece la statua, e sul capo del cavallo si pose la immagine della civetta, e sotto le zampe quella del re, ch'era di piccola persona. Il nome del cavaliere non è indicato. Ranulfo Higden descrive la statua allo stesso modo. La supposta immagine della civetta posta sul capo del cavallo altro non è che il ciuffo dei crini annodati in fra gli orecchi. La figura del re nano, che più non si vede al luogo suo, rappresentava certamente un qualche popolo soggiogato. Questa figura, di cui più non s'intendeva nel medio evo il vero significato, fu senza dubbio cagione che s'immaginasse la storia narrata da Enenkel, accennata dagli altri.

Il capitolo XIV del Libro delle Storie di Fioravante contiene un racconto che concilierebbe il nome di Costantino con la narrazione dei Mirabilia.

Costantino è assediato in Roma da Dinasor, figlio del re di Sassonia. In una battaglia i Romani hanno la peggio, e Costantino stesso è scavalcato. Alcuni fuggiaschi s'imbattono in un pastore, che, saputo della rotta, li forza a seguirlo sul campo. Trovato quivi il cavallo di Costantino, gli monta sopra, va incontro a Dinasor, lo tragge a forza di sella, e prigioniero lo conduce in Roma; poi torna addietro e con un bastone sconfigge e volge in fuga tutti i Saracini. Se ne va allora alle sue faccende, ma non trova più nè i buoi, nè le vacche, i quali aveva lasciato per andare a combattere. Torna a Roma, ed è con gran festa accolto da Costantino, il quale da indi in poi lo tiene molto onorevolmente con sè. "E sì fecie venire i migliori orafi di tutta cristianità, e fecie fare uncavallo di metallo, e fecievi far su il villano col bastone in mano e co' calzari legati in piè, e ogni cosa fecie fare di metallo, e il cavallo fecie fare senza sella. Ecchì va a Roma sillo potè vedere, e vedrà sempre che 'l mondo si basterà". Non è improbabile che questo racconto sia stato messo insieme per far concordare fra loro le varie tradizioni; ad ogni modo, tanto in esso, quanto in quello dei Mirabilia, e nell'altro di Enenkel, abbiamo nuovi esempii di leggende nate da falsa interpretazione di monumenti.

Ranulfo Higden dice che la statua era detta di Teodorico dai pellegrini, di Costantino dal volgo, di Marco o di Quinto Curzio dai chierici. Forse la ragione di quella prima denominazione non è da cercare molto lontano. È noto che Carlo Magno fece togliere da Ravenna, per portarla in Aquisgrana, una statua equestre metallica di Teodorico. Tale statua rimase, qual che ne fosse il motivo, in Pavia, dove fu lungamente tenuta in gran pregio e chiamata con lo strano nome di Regisol. Essa molto rassomigliava a quella di Marc'Aurelio. Qualche pellegrino, che veniva da Pavia, cominciò forse a chiamare, per ragione della rassomiglianza, Cavallo di Teodorico quello che più comunemente in Roma si chiamava Cavallo di Costantino. Ranulfo narra di Quinto Curzio la nota storia di Marco, e anche con essa pone in relazione il Cavallo; mentre, come abbiam veduto, attribuisce a Marco la storia narrata nei Mirabilia.

Il nome di Costantino si trova impegnato in parecchi altri racconti favolosi e romanzeschi, nel Koenig Ruother, nella storia di Seghelijn van Jerusalem, nei Reali di Francia, nella Storia di Fioravante. Nel Koenig Ruother, poema composto verso la fine del XII secolo, si narra come Rotari(Ruother), re di Bari e di Roma, al quale obbedivano settantadue re, riuscì ad avere in isposa la figlia di Costantino, che puniva di morte

chiunque glie la chiedesse. Da quelle nozze nacque Pipino, padre di Carlo Magno. Questo racconto ha strettissima relazione con quello della Vilkinasaga, dove, per altro, l'azione è sostenuta da altri personaggi, a cui solamente più tardi debbono essere stati sostituiti quelli del poema tedesco. Nel poema neerlandese di Seghelijn van Jerusalem, questo eroe sposa Florette, figliuola di Costantino, trova insieme con lei la croce, diventa imperatore, uccide inconsapevole il padre e la madre, si fa eremita, e dopo quindici anni di penitenza in un deserto è eletto pontefice sotto il nome di Benedetto I. Questa storia deriva senza dubbio da fonte francese. Era naturale che si volessero far risalire certe genealogie sino a Costantino, per certi rispetti, il più illustre fra gl'imperatori. Nei Reali di Francia, nel Librodi Fioravante, nella Flocents Saga si narra come Fiovo (Flovent), figlio, o nipote di Costantino, fuggito da Roma per avervi ucciso un uomo di grande affare, conquistò la Francia, fece battezzare tutto il popolo, e fu stipite dei Carolingi e di altri lignaggi illustri.

Sulla morte di Costantino ben poche notizie raccolse la leggenda. Giovanni d'Outremeuse lo fa morir di veleno; secondo la cronaca di Giovanni di Londra(cod. dell'Herald's College) il suo corpo fu trovato a Cair Segeint da Eduardo I nel 1383, lo che riporta ad un'altra leggenda già indicata di sopra e riguardante, o Costanzo padre, o Costanzo figlio di Costantino.

Trasportando a Costantinopoli la sede dell'impero Costantino aperse per Roma l'era della decadenza, e i posteri, di ciò consapevoli, più di una volta ne lo biasimarono. Già in alcuni versi antichissimi riportati in un precedente capitolo si deplora il trasferimento degli antichi onori di Roma ai Greci. Quando risorse in Occidente l'impero, Costantinopoli dovette essere considerata come un'usurpatrice, e l'operato di Costantino dovette parere a molti illegittimo e dissennato. Gotofredo da Viterbo, nella seconda metà del XII secolo, esce contra di lui in questa invettiva:

Hunc alienigenam sibi Roma creavit alumnum,

Cui dedit imperii solium per secula summum,

Qui quasi morte ream post viduavit eam.

Fraude dolo procores subtraxit ab Urbe Latinos,

Et quasi captivos mox esse coegit Achivos,

Constituens Romam rebus et arte novam.

Transtulit imperium, Danais dedit ipse favorem,

Dans alienigenis, quem Roma tenebat honorem,

Romula destituens, Grecula regna colens.

Spurius hic fuerat, quem pretulit aurea Roma;

Interimens dominum, fertur rapuisse coronam;

Cum foret ante bona, nunc fama mala volat.

Non fuit augustus: minuit, non auxit honorem;

Roma suis studiis fertur caruisse decore,

Pressaque perpetuo Roma caduca dolet.

Costantino aveva data a Roma la fede, ma le aveva scemata la sovranità: il danno quasi compensava il beneficio.

CAPITOLO XIV. Giuliano l'Apostata.

La critica più recente ha risollevato il nome dell'imperatore Giuliano, prostrato nella polvere dalla esecrazione di cinquanta generazioni di credenti. Se noi non possiamo lodare la sua disavveduta ed intempestiva politica, specialmente poi quando la paragoniamo con quella accortissima ed opportuna di Costantino, se non possiamo non deplorare l'errore che gli fece credere possibile la restaurazione di un ordine di cose irrevocabilmente condannato a sparire, possiamo tuttavia scorgere ed apprezzare le cause molteplici che lo fecero tale quale egli fu, e riconoscere, con imparziale giudizio, ch'egli fu illuso assai più che colpevole, e che, ad ogni modo, l'infamia che lo incolse è di troppo sproporzionata alla colpa. Le concordi testimonianze di scrittori cristiani quali San Gregorio Nazianzeno, Filostorgio, Rufino, Socrate, mostrano che Giuliano, se non impedì, come avrebbe potuto, che altri commettesse violenze in suo nome, non usò egli stesso violenza ai cristiani, e che, conformementeai suoi principii di tolleranza e di universale benevolenza, egli cercò di attirare novamente all'antica religione i seguaci di Cristo più con argomenti morali che con provvedimenti politici, più con lo scherno che col rigore; magnanima moderazione in chi aveva la forza, ed era continuamente da mille stimolato a farne abuso. Non si può negare che, negli ultimi tempi del suo regno, egli, indispettito della lunga ed ostinata resistenza, non abbia alquanto aggravata la mano sopra coloro che frustravano le speranze da

lui con lungo amore nutrite; ma gli è pur vero che la Chiesa, nel tempo del suo maggiore rigoglio, avrebbe da lui potuto apprendere quella solenne e santa verità, troppo spesso da lei dimenticata, che le credenze religiose non debbono essere imposte, e che una religione cessa di essere tale dal momento che non è spontaneamente professata.

Da altra banda, non si può pretendere che la Chiesa, massime nascente, facesse di Giuliano quel medesimo giudizio che la critica spassionata ed imparziale dei giorni nostri ne viene ora facendo. La Chiesa cominciava appena a raccogliere il frutto della sua lunga ed operosa perseveranza, e a godere la pace comperata col sangue dei martiri, quando, col salire di Giuliano al trono, si vide repentinamente decaduta dal nuovo suo stato, e minacciata di nuovi e forse maggiori pericoli. Certo, nel fondo degli animi viveva la fede che Cristo non lascerebbe perire la sua sposa, e che il trionfo della verità fosse irrevocabilmente segnato nei decreti della provvidenza; ma non si sapeva quanto fosse per durare quell'era nuova di prove, e queste dovevano ora tornar più amare ad uomini che avevano già gustata una serena e placida securtà, e in cui la reazione, che moveva dall'alto, offendeva, non più solamente un sentimento, ma ancora un diritto acquistato e riconosciuto. La reazione stessa doveva considerarsi come un ultimo tentativo degli spiriti tenebrosi per rovesciare la Chiesa di Cristo, e risprofondare nell'errore il mondo, e l'uomo, che se ne faceva promotore, doveva apparire come un loro vicario, e come un figlio predestinato della perdizione. Storici e padri della Chiesa dovevano chiudere gli occhi a quanto potesse naturalmente spiegare, o scusare in parte i fatti, per non veder altro che un'opera di meditata e diabolica iniquità, e Giuliano doveva apparire negli scritti loro, e passar poi alla posterità più remota col nome infame di Apostata.

La leggenda, che s'affrettò dietro ai passi di Costantino, doveva affrettarsi ancor più dietro a quelli di Giuliano; e condotta, com'era, e governata da un solo pensiero, riuscire più unita e più omogenea, sebbene non tanto copiosa. Essa nacque vivo ancora il protagonista; e i lineamenti suoi principali già siveggon fermati nei primi che la riferirono. In una perduta Vita di San Basilio, scritta da Elladio, vescovo di Cesarea, essa era già probabilmente quale si vede nelle orazioni famose di Gregorio Nazianzeno, poi si allargava e variava passando in altre scritture ed altri autori, nella Vita di San Basilio, attribuita ad Anfilochio, nelle Storie di Rufino di Aquileja, di Filostorgio, di Socrate, di Sozomene,

di Teodoreto, nei cronisti bizantini, latini, volgari, ecc. Nel secolo VI se ne facevano due romanzi in siriaco. Come più scende e più la fiumana ingrossa. L'esecrazione e l'orrore, invece di temperarsi col passar del tempo, imperversano e crescono tuttavia. La coscienza cristiana del medio evo, assai più che non quella dei primi tempi, preoccupata del diabolico, assai più angustiata e più cupa, tende a far emergere dall'uomo il mostro, e ad annerirne più sempre la vita. Giuliano quasi fa spallidire Nerone. Nel poema De inventione Sanctae Crucis, attribuito a Ildeberto Cenomanense, si dice di lui:

Hic Costantino subiit, corvinus ovino:

Hic lupus, hic agnus; hic Rex pius, illo Tyrannus;

Hic datus est bellum fidei, paleisque flagellum:

Quondam promissus grano, nunc tundere missus;

In Judam siquidem Draco, spondens praelia pridem,

Hunc presignavit, hunc pertulit, hunc stimulavit.

Et vitiis totus constans et crimine fotus,

Jam quasi portentum, jam Daemonis est monimentum.

E così di seguito per molti altri versi, fra' quali anche questi:

Sed depravatur Julianus, sed cruciatur,

Sed debucchatur, sed anhelat, sed superatur

Hic vir inhumanus, hic pessimus, hic Julianus.

Nelle due già citate omelie di Gregorio Nazianzeno i fatti principali, parte storici, parte leggendarii, che si riferiscono sono i seguenti. Giuliano e Gallo suo fratello, serbati da Costanzo all'impero, sono educati in corte, attendono in particolar modo allo studio della dottrina cristiana, e abbracciano lo stato ecclesiastico. Ma in Gallo la fede è sincera, mentre è mentita in Giuliano; di che si ha prova nella costruzione di certo tempio dai due fratelli intrapresa in comune, dove l'opera del primo riesce a bene, ma non così quella del secondo. Gallo è creato Cesare, e Giuliano comincia a coltivare studii perversi, e a odiare i cristiani; il quale odio si fa maggiore e si palesa senza ritegno quando, morto Gallo, egli è a sua volta innalzato alla dignità di Cesare. Ottenuto l'impero, il tristo si abbandona interamente a' suoi malvagi istinti e non serba più misura nell'empietà. Una croce coronata gli appare miracolosamente nelle viscere di una vittima, ma non per ciò egli si ravvede; dedito alle arti inique della magia, scende, in compagnia di un

filosofo o mago, in una orrenda spelonca per consultare i demonii, i quali poi, spaventato alla lor vista, volge in fugacon un segno di croce. Perseguita i cristiani, favorisce gli Ebrei, e vuole sia ricostruito il lor tempio, il che da varii prodigi è impedito. È incerto chi uccidesse Giuliano, e varie credenze corsero a tale riguardo; ma, ad ogni modo, la morte sua fu una punizione del cielo. Nella omelia XXI(c. 33) Gregorio dice essergli stato riferito da alcuno come la terra non volesse ricevere, ma rigettasse, il corpo di Giuliano, sorte toccata, com'è noto, a molti altri insigni scelerati. Non ho bisogno di ricordare che Gregorio fu compagno di studii di Giuliano, e poi avversario acerrimo. Le due omelie, in cui egli dichiara di voler esporre, non tutte, ma solo alcune sceleraggini di Giuliano, riboccano d'odio, e tradiscono un animo assai mal preparato a recar delle cose sereno e giusto giudizio.

Nessuno dei fatti narrati o accennati da Gregorio di Nazianzo si perde nei racconti di tempo posteriore: ma tutti, qual più, qual meno, vanno soggetti a certe alterazioni, le quali, com'è naturale, tendono sempre ad esagerarne la gravità, a farne spiccare vie più gli aspetti caratteristici. È una delle operazioni capitali della leggenda questa di far rilevare, di sopra un dato fondo di notizie o di credenze, certe parti più importanti. Che alle favole più antiche altre poi se ne dovessero aggiungere mano mano s'intende di leggieri. Giuliano ebbe veramente nella gerarchia ecclesiastica il grado di lettore, grado che importava il conferimento degli ordini inferiori, e se alcuna particolarità della sua vita si poteva dimenticare, non si dimenticava già questa, che tanto aggravava e faceva più esecrabile la sua apostasia. Anzi, per aggravarla ancor più, si disse ch'egli era stato monaco, ed aveva un tempo fatta la vita del chiostro. Questo errore muove, senza dubbio, da Socrate e da Sozomene, i quali dicono che Giuliano, prima di dichiararsi, conduceva vita monastica. Nel Passio di San Fabiano si legge che Giuliano fu da Pimenio presbitero ordinato suddiacono della Chiesa Romana, e nel Passio dei Santi Giovanni e Paolo lo stesso Giuliano dice come avesse ottenuto il chiericato, e come avrebbe potuto, qualora gli fosse venuto in talento, salire ai supremi onori ecclesiastici. La Kaiserchronik giunge a dire ch'egli fu cappellano del papa.

Giuliano fu veramente dedito alle pratiche superstiziose della teurgia neoplatonica; ma le accuse atroci che gli si mossero contro non hanno fondamento di sorta, e convengono assai meglio a Massenzio che non a lui. La favola degli dei bugiardi, o dei demonii, volti in fuga con un segno

di croce, è ripetuta da molti storici, così antichi, come del medio evo; se non che alcuni di questi, come per esempio Eccardo Uraugiense, seguendo la tradizione piùantica, raccontano che tal caso seguì quando egli, già adulto, e smanioso d'impero, vagava per la Grecia in cerca di responsi; mentre altri, come Sicardo e Giacomo da Voragine, lo pongono ai tempi della sua fanciullezza, con l'intenzione senza dubbio di mostrar lui sino dalla più tenera età in commercio coi diavoli. Già Gregorio Nazianzeno dice che i demonii avevano promessa a Giuliano la signoria di tutto il mondo. In uno dei due romanzi siriaci ricordati di sopra, Giuliano, il quale è amico di un mago per nome Magno, stringe un patto col diavolo, che gli promette tale signoria per cent'anni. Giacomo da Voragine ed altri raccontano che Giuliano, movendo contro i Persiani, spedì un demonio in Occidente per averne certo responso, ma che, trattenuto a mezzo il viaggio per dieci giorni consecutivi da un monaco che passò tutto quel tempo in orazione, il demonio dovette tornarsene addietro senza avere eseguita la commissione. La guerra mossa alla Chiesa si fece più strettamente dipendere dalle relazioni che Giuliano aveva con gli spiriti delle tenebre. Quando, essendo ancora fanciullo, o già adulto, Giuliano volse in fuga i diavoli col segno della croce, il maestro, o il jerofante, gli disse causa della lor fuga essere non il timore, ma l'esecrazione in che avevano quel segno. Fatto imperatore, dice Giacomo da Voragine, volendo egli perseverare nell'esercizio dell'arti diaboliche, procacciò che il segno della croce fosse, quanto più era possibile, cancellato e distrutto, e perseguitò i cristiani, temendo che altrimenti i diavoli non sarebbero per obbedirgli. Di orribili pratiche di magia osservate da Giuliano, di donne sparate per ispecularne i visceri, di bambini trucidati, parlano già gli scrittori più antichi: Giovanni Colonna dice nel Mare historiarum che si trovarono arche ripiene di teschi umani e pozzi colmi di cadaveri. Tali pratiche non erano estranee ai costumi dei tempi: Ammiano Marcellino racconta che nell'anno 363, regnante appunto Giuliano, fu uccisa in Roma una donna per iscrutarne le viscere.

Ciò che San Gregorio racconta della tentata, ma non riuscita ricostruzione del tempio di Gerusalemme, è similmente ripetuto da molti: Gotofredo da Viterbo così enumera nella particola XI della Memoria sacculorum i prodigi avvenuti in quella occasione;

Templa tremunt, pavimenta ruunt et tigna sub illis

Ignibus e celis pereunt exusta favillis,

Exiliunt lapides, area sola manet.

Igneus extemplo globus est emissus in illos

Incendens homines vestes caput atque capillos,

Astantesque viri iure cremantur ibi.

Hec ne fortuitu mala provenisse putentur

Signa crucis confixa sibi gestare videntur

Gestant Iudei corpore signa dei.

Ma le imputazioni che sin qui abbiamo veduto fatte a Giuliano non erano ancora pari all'odio che le provocava e le suggeriva; nuove e più vergognose colpe gli si dovevano addebitare.L'imperatore che, volgendo in beffa la dottrina evangelica della povertà, aveva spogliato dei loro averi le chiese, doveva ben parer degno agli occhi dei credenti del nome infame di ladro, ed era naturale che dello spogliatore pubblico si facesse anche un ladro privato. Questa formidabile accusa negli storici più antichi, per quanto inveleniti essi sieno, non è neppure accennata, e non saprei dire quando nè dove primamente sia sorta; ma certamente abbiamo anche qui uno di quei casi di arbitraria appropriazione di racconti già popolari a persone cui essi innanzi erano interamente estranei, che sono così frequenti nel mondo delle leggende. Si trattava di addossar nuove colpe a Giuliano; se si trovava una storia che paresse in qualche modo acconcia all'uopo, si prendeva e si trasponeva di pianta. Giovanni da Verona e Giacomo da Voragine narrano, attingendo dalla Summa de officiis di Giovanni Beleth, che una ricca matrona, angustiata da esazioni e vessazioni, dovendo partire, pose gran copia d'oro in tre vasi di terra, e questi, coperto l'oro di cenere, diede a Giuliano, ch'era monaco, in apparenza, di santa vita, perchè glieli custodisse, con questa condizione che, s'ella tornasse, glieli restituirebbe fedelmente, se non tornasse, elargirebbe il denaro ai poveri. Partita la matrona, Giuliano toglie l'oro dai vasi, e vi mette altrettanta cenere. Quella tornata in capo a certo tempo, Giuliano le restituisce i vasi; accusato da lei d'averne sottratto l'oro egli nega, e afferma d'averle restituito ciò che ha ricevuto, poi abbandona il convento, e facendo uso delle male acquistate ricchezze si procaccia fautori e ottiene il consolato. Ora, storie simili a questa sono molto frequenti in tutte le letterature. Del resto la favola è narrata di Giuliano anche nella Kaiserchronik, ma con qualche diversità, come vedremo tra breve, nella Cronaca di Sicardo, nel Polychronicon di Ranulfo Higden e altrove. Giovanni di Garlandia vi fa allusione in un luogo del suo poema De triumphis Ecclesiae.

È naturale che nella leggenda Giuliano divenga assai più aspro ed inumano persecutore dei cristiani che veramente non fu. Nel più antico dei due romanzi siriaci testè ricordati egli è rappresentato quale un persecutore ferocissimo sin dal principio del suo regno. L'Alte Passional, che spende in narrare la sua vita circa seicento versi, dice ch'egli ne fece morire moltissimi. In un mistero francese del XIV secolo lo stesso Giuliano così ricorda ai suoi la persecuzione esercitata contro ai seguaci di Cristo:

. . . . . pour vostre loy

Essaucier, ce savez vous bien,

ay renoncie a crestïen;

Et savez bien a quel martire

je fas morir ceulx que j'oy dire

Qui delaissent la loy paienne

pour tenir la loy crestïenne;

Et croy que qui penser voulroit,

esmerveillermoult se pourroit

Des orribles tourmens et paines

qu'a plusieurs personnes humaines

Ay fait souffrir, qui ne vouloient

croire en Jupiter, ains tenoient

Que loy crestïenne vault miex.

Vous l'avez véu a voz yex

Quieulx tourmens fis je a Quirrace,

a Gordïan et a Privache.

C'est horreur de les raconter;

et si vous dy bien sanz doubter

Quanque de tieulx gens trouveray,

mourir a martire feray;

Il n'y ara pas de deffault.

Nel Gallicanus di Hrotsvita, nella Rappresentazione di San Giovanni e Paolo di Lorenzo il Magnifico, Giuliano fa la solita figura del tiranno tormentatore dei Cristiani.

Naturalmente ancora si doveva esagerare l'empietà di Giuliano:

Ranulfo Higden ne reca un esempio assai curioso. "Item apud Antiochiam vasa sacra et pallas altaris colligens sordibus ani sui foedavit; mox vermes inde scaturientes posteriora Juliani adeo corroserunt ut quoad viveret liberari non posset". Poi ne reca uno del prefetto di lui: "Ejus quoque praefectus dum super vasa ecclesiae mingeret dixit - "Ecce in quibus vasis Mariae filio ministratur!" - et repente os ejus versus est in anum ejus, et egestionis organum effectum est". Con l'empietà di Giuliano e con le sue tristi conseguenze si pose in relazione la festa della purificazione della Vergine. In una delle tante raccolte dei miracoli di costei si legge: "Julianus imperator, cum inceperat prius esse humanus et catholicus, postea factus est hereticus et crudelis et ita inhumanus quod, ut creditur, propter eius perfidiam et crudelitatem tellus exaruit, seges pauca, messis nulla et inedia atque fames magna fiebat, unde immensa hominum multitudo subito mortua cadebat". La Vergine allora fu larga agli uomini del suo soccorso, e in ricordanza di ciò s'instituì la festa della purificazione.

Nella Kaiserchronik la leggenda di Giuliano è narrata per disteso in 503 versi, con alcune particolarità curiose che non si riscontrano altrove: prima di passar oltre fermiamoci alquanto ad esaminarne il racconto. Si comincia con dire come Giuliano acquistò il regno. Una onorata matrona romana aveva allevato Giuliano come suo proprio figliuolo. Rimasta vedova, ella gli consegnò tutto il suo avere, perchè glielo dovesse rendere a tempo opportuno; ma quando lo ridomandò, Giuliano negò d'aver nulla ricevuto. Indarno la povera donna ricorse al papa, nella cui corte, mercè l'oro non suo, Giuliano aveva acquistato l'affetto di molti; ridotta all'indigenza ella dovette, per guadagnarsi la vita, mettersi a fare la lavandaja, impastare il pane, e cucinare per gli altri. Recatasi una sera a lavar certi panni nel Tevere, trovò nell'acqua un idolo, che i pagani avevano tratto colà perchè i cristiani non lo distruggessero, e a cui essi facevano preghiera ogni mattina. La donna prese a lavare e a battere i panni sopra il capo dell'idolo; ma il diavolo che in esso avevaricetto, la pregò di non fargli quello sfregio, le disse che egli era il dio Mercurio, e le insegnò in che modo avrebbe potuto ricuperare il suo tesoro. Seguendo il ricevuto consiglio, la matrona tornò dal papa, e accusò Giuliano, che dello stesso papa era cappellano, e domandò giustizia. Il papa impose a Giuliano di giurare; ma la donna chiese che il giuramento si facesse in presenza e nel nome del dio Mercurio. Concedutole quanto chiedeva, Giuliano, insieme con molti principi, si recò al luogo indicato, e introdusse la mano nella bocca dell'idolo, che subitamente

stringendogliela provò esser vera l'accusa. L'idolo trattenne Giuliano a quel modo fino alla sera, e quando tutti gli altri furono partiti, lo rilasciò, e in compenso della sofferta vergogna gli promise l'impero, con che egli rinnegò la fede cristiana, e si diede anima e corpo a Mercurio. Morto l'imperatore, il diavolo cominciò a correre tra i Romani, e a suggerir loro di eleggere Giuliano; e i Romani, credendo che il consiglio venisse loro dal cielo, così fecero. Eletto imperatore, Giuliano tolse dal Tevere l'idolo di Mercurio, e ordinò che tutti l'adorassero: due duchi, per nome, l'uno Paolo, l'altro Giovanni, avendo rifiutato di obbedire, furono per volere del tiranno martirizzati. Dopo ciò, Giuliano con un poderoso esercito passò in Grecia, e giunse presso a un convento, di cui era abate san Basilio, ed essendo le sue genti strette dalla fame mandò a dire all'abate che gli provvedesse vettovaglie. San Basilio, non avendo altro, mandò cinque pani d'orzo; ma Giuliano indignato, promise che al suo ritorno farebbe morire lui e i suoi frati, e devasterebbe il paese; dopodichè si partì. Grande fu la costernazione e il turbamento dei monaci quando riseppero le minacce di Giuliano, e San Basilio pregò molto fervidamente di ajuto la Vergine. Giuliano aveva fatto martirizzare un principe chiamato Mercurio, perchè cristiano, e San Basilio l'aveva fatto seppellir nel convento. Ivi stesso si conservavano la lancia e lo scudo del martire. La Vergine Maria apparve a San Basilio e lo riconfortò; poi a un suo comando San Mercurio balzò fuor dal sepolcro, imbracciò lo scudo, brandì la lancia, montò a cavallo, e raggiunto Giuliano gli trafisse con un colpo il ventre. Giuliano cadde morto: il suo cadavere è a Costantinopoli, immerso nella pece e nello zolfo, e vi starà fino al dì del giudizio. Mercurio rientrò nella sua tomba, e San Basilio vide la lancia ancor bagnata di sangue. Giuliano regnò due anni e cinque mesi; tutta la cristianità si rallegrò della sua morte, e l'anima sua fu trascinata dai diavoli all'inferno.

Come si vede, in questo racconto la storiadella vedova che affida a Giuliano il suo tesoro è notabilmente diversa da quella che abbiamo più sopra esaminata. Le fonti a cui può aver attinto l'autore della Kaiserchronik non sono conosciute, ma è certo che le varianti della favola non sono opera sua. Un racconto, che in molte parti riscontra perfettamente col suo, si trova nel secondo romanzo siriaco, ancor esso, come il primo, composto probabilmente nel secolo VI, e ad ogni modo contenuto in un manoscritto che è sicuramente del VII. Eccone in breve la sostanza. Giuliano ha frodato il patrimonio ad Eleutera, figlia di Licinio, che già era stato avversario dell'imperatore Costanzo. In qual modo ne la frodasse non si sa, perchè al romanzo manca il principio. Eleutera accusa

Giuliano all'imperatore; ma quegli giura sul crocifisso e sull'ostia d'essere innocente, talchè Costanzo minaccia dell'ira sua chiunque sarà tanto ardito di rinnovar quell'accusa. Un giorno, entrata in una chiesa, Eleutera vi si addormenta, e dorme sino a notte: destatasi, ne esce sola, e mentre va per via, piangendo la sua sciagura, ecco venirle innanzi un demonio, che le promette di farle riavere quanto ha perduto, purchè ella ottenga dall'imperatore di far prestare a Giuliano un nuovo giuramento, in presenza della statua che sta a custodia del pubblico oriuolo. Egli allora, il demonio, ghermirà lo spergiuro, e più non lo lascerà finchè non abbia tutto confessato. Eleutera, col favore dell'imperatrice, ottiene da Costanzo che quel nuovo esperimento si faccia. Udita la cosa, Giuliano ne informa il suo amico Magno il negromante, e tutt'e due, di notte tempo, vanno a trovare la statua. Appena vede comparire Giuliano, il demonio comincia a gridare, accusandolo di furto e assicurandolo che avrebbe fatta palese a tutti la sua tristizia; ma il mago riesce ad ammansarlo, tanto che da ultimo quegli promette a Giuliano di farlo signore di tutta la terra, a patto che gli offra incenso e lo adori. Giuliano acconsente, e tornato dopo tre giorni, come dal demonio gli era stato prescritto, in compagnia di Magno, questi fa comparire gran moltitudine di diavoli, che Giuliano, spaventato, volge in fuga facendosi il segno della croce, ma che, richiamati da Magno, tornano con a capo Satana. Giuliano si prosterna dinnanzi ad essi. Satana ricorda ai suoi com'egli fosse già signore di tutto il mondo, come Costantino avesse rinnegata la fede dei padri, come per racquistare il perduto egli intende conferire la dignità imperiale a Giuliano, che regnerà cento anni. Proclamato imperatore Giuliano sacrifica, e i diavoli si prosternano dinnanzi a lui. La notte seguente Magno e Giuliano vanno a un tempio di Belzebub, fuori le mura della città, e quivi sventrano una schiavache avevano condotta con sè, le traggon vivo di corpo un bambino di nove mesi, evocano gli spiriti sotterranei, poi ripongono il bambino nel ventre della madre e con incenso e legno di alloro abbruciano i due corpi sopra l'altare. Eleutera insiste intanto perchè Giuliano presti il novo giuramento; ma insorta una guerra coi barbari, l'imperatore affida a Giuliano il comando de' suoi eserciti. Questi, con l'ajuto dei demonii, trionfa, e, morto Costanzo, è fatto imperatore. Dopo ciò la storia racconta alcuni fatti, in parte meravigliosi, i quali già molto tempo innanzi avevano lasciato intendere quale mostro d'iniquità dovesse essere Giuliano.

Anche qui dunque, come nella Kaiserchronik, la storia della frode si lega strettamente a quella delle diaboliche promesse. Senza dubbio

l'intera leggenda nacque in Oriente, d'onde, passata in qualche racconto latino, si diffuse per l'Occidente; ma qui si scisse, si alterò, e una delle sue parti, la storia del furto, stette da sè, come abbiam veduto nei racconti di Giovanni da Verona e di Giacomo da Voragine. Tuttavia, l'avventura dell'idolo che morde la mano di Giuliano può darsi che sia d'invenzione del poeta tedesco, non trovandosene cenno altrove: nei Mirabilia si ricorda bensì, per incidente, che Giuliano fu ingannato da un idolo, ma non si spiega in che consistesse l'inganno. Eccone il passo: "Ad sanctam Mariam in fontana templum Fauni, quod simulacrum locutus est Juliano et decepit eum". La prova della mano introdotta a testimonio della verità nella bocca dell'idolo, ha, del resto, numerosi riscontri. Nel portico della chiesa di Santa Maria in Cosmedin, a Roma, si vede ancora una ruota di pietra forata, che s'immaginò opera magica di Virgilio, o fu chiamata Bocca della Verità, perchè si credette un tempo che chi, giurando il falso, introduceva in essa la mano, non poteva più ritirarnela. Secondo la leggenda, Virgilio fabbricò anche un serpente di metallo che mordeva la mano agli spergiuri. Di immagini che in varii altri modi scoprivano l'altrui colpa si trovano molti ricordi. Codino parla di una statua munita di quattro corna, la quale girava tre volte intorno a se stessa se avvicinata da un uomo che avesse la sposa infedele, e di una statua di Venere che alle donne impudiche faceva scoprire le parti vergognose. Non sono rare le leggende in cui si narra di sante immagini che fecero testimonio della verità: molto più raro certamente quelle in cui tale officio è commesso al diavolo. Lutero racconta nei Tischreden la storia di un soldato che, frodato da un oste, riuscì ad avere il suo mercè la testimonianza del diavolo in giudizio.

Quanto alla promessa d'impero che il demonio fece a Giuliano, l'autore della Kaiserchronik nonè solo a parlarne; una promessa simile è ricordata anche da Martino Polono, da Gobelino de Persona, da Giovanni d'Outremeuse, da altri.

Ciò che nella Kaiserchronik, e in altre innumerevoli scritture, si narra di San Basilio, e della morte miracolosa di Giuliano per opera del santo martire Mercurio, non è punto accennato dagli scrittori più antichi. Gregorio di Nazianzo si contenta di dire che sulla morte dello scelerato varie voci erano corse; nel V secolo Socrate ricorda il racconto, andato perduto più tardi, di un Callisto, secondo il quale Giuliano sarebbe stato ucciso da un demone, fine solita poi di chi vendeva l'anima al diavolo. Altri dubitava se l'uccisore fosse stato un uomo od un angelo. Teodoreto,

ricordando le varie opinioni accreditate circa la morte di Giuliano, non dice verbo, nè di San Basilio, nè di San Mercurio. Eutropio che, secondo afferma egli stesso, prese parte alla spedizione di Persia, dice che Giuliano fu ucciso da uno dei nemici, e ciò è ripetuto da Orosio e da altri. Il sofista Libanio, suo amico e panegirista, asserisce ch'egli fu ucciso dagli stessi cristiani ch'erano nel suo esercito. Parecchi poi narrano la visione di un Didimo e la predizione di un monaco Giuliano riguardanti la morte del malvagio imperatore. Nel IX secolo la leggenda di San Mercurio probabilmente non era ancora passata in Occidente, giacchè Floro, diacono di Lione, non ne fa cenno nell'Hymnus in Natale Sanctorum Joannis et Pauli, dove, quanto alla morte di Giuliano, accoglie una delle tradizioni meno meravigliose e meno accette al medio evo.

La leggenda di San Mercurio uccisore di Giuliano appare per la prima volta nella vita di San Basilio attribuita ad Anfilochio. Quivi si narra che San Basilio andò co' suoi compagni incontro a Giuliano quando questi, passando con l'esercito in Persia, si fermò a Cesarea. Avendogli Giuliano detto: O Basilio, io ti superai nella filosofia; San Basilio rispose: Così fosse che tu operassi da filosofo; e gli offerse tre pani che aveva recati con sè. Giuliano, stimando quell'offerta un insulto, ordinò che fosse dato in cambio al sant'uomo del fieno, e giurò che al ritorno farebbe radere al suolo la città. San Basilio fece note a' suoi concittadini le minacce dell'imperatore, e li esortò a tutte raccogliere insieme le loro ricchezze, affine di placarlo offerendogliele quando fosse tornato. Ordinò in pari tempo che tutto il clero ed il popolo salissero sul monte Didimo, ov'era una chiesa in onore della Vergine, e vi stessero tre giorni in digiuno e in orazione. Una notte, mentre si esegue il suo comandamento, San Basilio vede in sogno la Vergine sedente in un trono sul monte, inmezzo a numerosa milizia celeste, e ode com'ella ordina a San Mercurio, che tutto armato le compare dinnanzi, d'andare ad uccidere Giuliano. In quella medesima notte ha tale visione anche il sofista Libanio. Destato, San Basilio, con un solo compagno, scende in città, va al luogo dov'era seppellito il martire Mercurio, e non vi trova più nè il corpo nè l'armi sue. In capo di sette giorni Libanio stesso viene ad annunziare la morte di Giuliano, si converte alla vera fede, e diventa compagno di San Basilio.

Questa leggenda nacque senz'alcun dubbio in Oriente, e l'intendimento suo principale è la glorificazione di San Basilio, che ha, come s'è veduto, non piccola parte nel miracolo. Tuttavia essa non può dirsi interamente nuova, perchè utilizza e trasforma in parte una

tradizione sicuramente più antica, ma molto meno diffusa. Sozomene racconta che un familiare di Giuliano, essendo in viaggio per raggiungere il suo signore in Persia, si addormentò in una chiesa, e vide in sogno molti apostoli e profeti, ragunati a consiglio, dolersi delle molte ingiurie da Giuliano recate alla Chiesa, e discutere dei provvedimenti da prendere contro di lui, e in capo di certo tempo due di essi, confortati gli altri a star di buon animo, partirsi dal consiglio; poi, il dì seguente, in un altro sogno, vide tornare quei due e annunciare ai compagni che Giuliano era stato ucciso. L'idea che suggerì questa finzione si è che uno scelerato come Giuliano non poteva morire di morte naturale, anzi non poteva morire nemmeno di una morte preordinata dalla provvidenza in forma, direi, generica e comune; ma doveva morire per diretta intromissione, e per fatto personale di qualche abitatore del cielo, mandatario, in certo qual modo, di tutta la celeste famiglia, ed esecutore delle sue vendette. Affidare pertanto a profeti e ad apostoli, a preparatori cioè, ed a fondatori della Chiesa, il còmpito di levar dal mondo chi aveva posto ogni studio a distruggere appunto la Chiesa, era, a tenore di leggenda, pensiero sommamente logico, ma forse troppo alto e troppo sottile perchè dalla comune dei credenti potesse essere facilmente compreso. Si ristrinse allora l'orizzonte della finzione. L'ordine di uccidere Giuliano si fece venire dalla Vergine, in luogo a lei sacro, per le preghiere di un popolo a lei devoto, in occasione di un particolare pericolo minacciato questa volta, non alla Chiesa propriamente, ma ad una città, e il carico della vendetta si affidò a un martire, le cui ossa quella città custodiva come preziosa reliquia, e che, essendo stato morto per ordine di Giuliano, pareva naturalmente indicato per quell'ufficio, e compieva in un tempo la propria vendetta el'altrui. Oltre a ciò, questa poetica e paurosa immaginazione di un morto che esce di sepoltura, riveste l'armi sue, balza a cavallo, e insegue il suo nemico finchè non l'abbia raggiunto ed ucciso, doveva cattivar gli spiriti e perpetuarsi facilmente nella tradizione. Essa ci si perpetua in fatti, e passata in Occidente, entra nella vivace famiglia delle leggende celebri. Martino Polono, Vincenzo Bellovacense, Giacomo da Voragine, Gobelino de Persona, Eccardo Uraugiense, l'autore dello Speculum exemplorum, cent'altri, la ripetono; ma dipartendosi spesso, come ben si può intendere, dalla tradizione primitiva. Così i più tralasciano di dire che la nuova della morte di Giuliano fu recata in Cesarea da Libanio, particolarità evidentemente immaginata per acquistare maggior credito a tutta la favola. In certo racconto latino si dice che la Vergine domandò

prima agli angeli che le stavano intorno chi volesse andare ad uccidere Giuliano, e nessuno di essi rispondendo, ella comandò le si facesse venire Mercurio. Nel Chronicon Paschale la morte di Giuliano è narrata nel seguente modo. Una notte, in sogno, costui vedo un uomo vestito d'abito consolare ferirlo con un colpo d'asta in un tabernacolo, nella città di Ctesifonte. Destato, si trova ferito sotto l'ascella e muore dicendo: O Sole, tu hai ucciso Giuliano. Quella notte medesima San Basilio vide nel cielo aperto Cristo comandare a Mercurio di uccidere Giuliano e Mercurio obbedire. Giuliano aveva San Basilio in grande stima, e si giovava de' suoi consigli e gli scriveva spesso. San Basilio fu pregato dal clero di non divulgare ciò che aveva veduto. Giovanni Damasceno narra, attingendo da Elladio, che San Basilio si pose a pregare dinnanzi a un dipinto in cui era figurata la Vergine insieme con San Mercurio, e che così stando in orazione vide improvvisamente sparire l'immagine del santo, e ricomparire poco dopo con l'asta insanguinata. Di solito si dice che quando succedette il miracolo Mercurio era morto e seppellito da pochi giorni soltanto; secondo Giacomo da Varignana invece egli era già morto da molti anni. Chi veramente fosse questo San Mercurio, e se sia mai esistito, non si sa. Certo, esso fu più conosciuto in Oriente che in Occidente. Narra Matteo Paris che dinnanzi ad Antiochia i crociati furono soccorsi da San Giorgio, da San Demetrio e da San Mercurio, che con un esercito scesero dai monti circostanti. E forse perchè non abbastanza conosciuto in Occidente, alcuni scrittori che riportarono la leggenda gli sostituirono quel Giuda che ajutò Sant'Elena a ritrovare la croce, più noto sotto il nome di San Ciriaco. Michele Glica prova che il preteso miracolo di San Mercurio altro non è che una favola. Del resto, di morti cheuscirono dal sepolcro per compiere alcuna opera, e che vi tornarono, l'opera compiuta, sono infinite leggende.

Non so a quali fonti attinga l'Anonimo Magliabechiano quando dice che Giuliano morì fulminato in Roma. Altri, confondendo Giuliano con Valeriano, fecero morire l'Apostata scorticato da Sapore, re di Persia. Narra Agatia Scolastico, nella sua continuazione delle Istorie di Procopio, che Sapore fece scorticare e salare Valeriano, e la pelle di lui, conciata e tinta in rosso, ordinò fosse appesa in un tempio a perpetua vergogna dei Romani. Circa il mille, Benedetto di Sant'Andrea racconta che Giuliano fu scorticato, e la sua pelle servì a coprire il trono dei re di Persia. Gotofredo da Viterbo fa toccare tal sorte all'Apostata già morto per mano di San Mercurio; ma Sicardo, riferita la leggenda di San Ciriaco, un'altra ne soggiunge, secondo la quale Giuliano sarebbe stato scorticato vivo.

Altri ripetono questa favola accomodandola a modo loro. Qui può essere inoltre ricordato ciò che Valerio Massimo racconta di Cambise, il quale fece scorticare un mal giudice, e della pelle di lui coperse la sedia giudiziaria, affinchè l'esempio stesse in memoria ai successori. Fazio degli Uberti pare che accenni ad una versione meno truculenta della leggenda quando di Giuliano l'Apostata fa dire a Roma:

E di costui questa novella udío,

Che poi che da Sapor fu vinto e morto,

Il cor si sperse per disdegno rio.

Quanto alle parole pronunziate da Giuliano morendo, è noto che vi è disparere tra gli scrittori. Alcuni narrano ch'egli, avventando il proprio sangue verso il cielo, gridò: Vicisti Galileae, vicisti! altri che gridò: Saziati, o Nazareno!. Ma quella prima versione rimase più popolare, e si ritrova nella Legenda aurea, nell'Alte Passional, nella Rappresentazione di San Giovanni e Paolo, ecc. Secondo Floro, Giuliano gridò:

Ebibe nunc nostrum quem quaeris, Christe, cruorem,

Atque avidus leto jam satiare meo.

Gotofredo è il solo che, insieme con queste, ponga in bocca di Giuliano parole di pentimento e di preghiera:

O Nazarene, vincis, rex magne, minorem;

Ecce triumphanti proprium tibi reddo cruorem;

Parce michi misero, parcere namque soles.

Giuliano ebbe sepoltura degna di sè. Chi dice che dalla sua tomba usciva un insopportabile fetore; chi, come abbiam veduto, che il suo corpo era immerso nella pece e nello zolfo. Nel già più volte ricordato mistero francese i diavoli lo portano all'inferno anima e corpo; e vi fu persino chi volle sapere quale fu all'inferno il suo castigo. Nell'Eulogium si legge: "Tradunt enim antiqui quod sicut Herodes cum prole sua propter occisionem Johannis cruciantur tempore perpetuo, sic Julianus cum tota parentela sua in inguine(igne?) cruciantur in aeternum". Dante non conosce nè tal pena, nè tal dannato.

CAPITOLO XV. Gli autori latini

Se gl'imperatori, buoni o tristi, che avevan governato il mondo, combattuta o favorita la Chiesa, empiuta Roma dei monumenti del loro

fasto e della loro potenza, dovevano, in una età essenzialmente fantastica, porgere argomento alle numerose leggende che siam venuti esaminando sin qui; ad altre, non men numerose, lo dovevan porgere gli autori latini; quegli autori, nelle cui pagine immortali pareva che vivesse ancora e fremesse, insieme con la lingua, la grand'anima di Roma, e i cui libri dispersi nella barbarie, quasi assi galleggianti di nave sfasciata, furono pressochè unico mezzo e strumento di salvezza alla naufragata coltura. Gli edifizii sontuosi innalzati dai Cesari, o giacevano nella polvere, o ingombravano di moli rovinose la devastata città; ma i libri dettati dai poeti e dagli storici, dai retori e dai filosofi, serbavano intatto il primitivo splendore, e soli ormai potevano fare piena e sicura testimonianza di quel glorioso passato di cui il tempo veniva più sempre cancellando i vestigi e accrescendo la nominanza. Essi erano la voce viva e imperitura di Roma; per essi i tardi nepoti venivano a conoscere le proprie origini e favellavano con l'antichissima progenitrice.

Una storia della varia fortuna delle lettere classiche, e più particolarmente delle latine, nella età di mezzo, dalle invasioni barbariche sino al Rinascimento, si desidera già da gran tempo, e tornerebbe di massimo giovamento agli studii medievali; ma sinora non altro s'è fatto in questa parte che illustrare alcuni speciali argomenti, e raccogliere materiali per chi sia da tanto di mettere insieme, e condurre a termine l'edifizio. Lungi da me il pensiero di volere in queste pagine sopperire comechessia al difetto, o anche di voler recare a quello studio un copioso contributo di notizie al tutto nuove. Non sarebbe questo il luogo da ciò, e il mio intendimento dev'essere, non tanto di dir cose nuove, quanto di raccogliere insieme quelle, note o ignote che sieno, che meglio valgano a dare una idea generale del modo onde nel medio evo furono studiati e giudicati gli scrittori romani, e servano come di fondo alle trattazioni speciali di cui verrò formando i capitoli che seguono.

Consideriamo prima di tutto le condizioni del fatto sotto l'aspetto più generale. Roma, come potenza politica ed intellettuale, o non esiste più, o esiste trasformata profondamente: i libri degli scrittori suoi, salvo le alterazioni più o meno gravi che possono avervi prodotte l'incuria e l'ignoranza dei copisti, o la temerità ingenua degl'interpolatori, sono rimasti tali e quali. Essi continuano a vivere, ma in un mondo che non è più il loro: figli della coltura pagana, essi trovansi smarriti in un mondo rimbarbarito, e per giunta cristiano. Ciò è quantodire che la loro fortuna non può più essere quella stessa di prima, e che i giudizii recati sopra di

essi debbono necessariamente risentirsi della mutata condizione della civiltà e delle credenze. Tra gli scrittori latini e pagani da una parte, e la barbarie e il cristianesimo dall'altra c'è opposizione e incompatibilità. La barbarie, che in questo caso è più particolarmente ignoranza, dà luogo agli errori di giudizio e alle pazze immaginazioni; il cristianesimo, costituito nella Chiesa, personificato negli scrittori ecclesiastici, sollecito della estirpazione delle false credenze, dà luogo alla riprovazione morale. I libri e gli scrittori pagani sono frantesi, travisati nella leggenda, dannati. Pur tuttavia un sentimento d'invincibile e quasi inconscia ammirazione sussiste per essi, e l'ignoranza non giunge in tutto a sformarli, e la fede non riesce ad ucciderli.

Giudicare equamente la politica che la Chiesa tenne di fronte alla coltura pagana non è cosa agevole, e i più si lasciano in così fatto argomento traviare dalla passione. Voler sostenere che la Chiesa non nocque a quella coltura è tanto assurdo quanto il non voler riconoscere che la Chiesa doveva per sua propria istituzione combatterla. Lo spirito del paganesimo era tutto nei poeti ch'esso aveva inspirati, nelle arti che aveva suscitate e nodrite; e l'attrattiva dell'errore, per se stessa quasi irresistibile all'uomo decaduto e nato nella colpa, era fatta maggiore del pericoloso lenocinio della bellezza. San Paolino di Nola in una epistola ad Ausonio pone in rilievo il contrasto ch'è tra la fede cristiana e il culto della poesia dei gentili; e quanti altri, prima e dopo di lui, non sentirono e non espressero quel contrasto medesimo! A rigor di logica non si poteva essere buon cristiano e compiacersi in pari tempo della lettura di Virgilio o di Ovidio. Ciò nullameno, e mentre durava ancora la lotta fra la Chiesa crescente e il decadente paganesimo, e dopo, quando la Chiesa potè posare in sicura vittoria, sempre si trovò chi attese allo studio delle lettere classiche, e chi quello studio venne commendando altrui. Gli apologeti vi attesero per una imperiosa necessità del loro ufficio: San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Girolamo, Sant'Agostino, consigliarono, con varie cautele e restrizioni, la lettura degli scrittori pagani. Ma a questi, altri esempii di contraria natura, e in gran numero, si possono contrapporre; Teofilo, il celebro vescovo di Alessandria, distruggeva quanti libri gli venivano alle mani, Gregorio Magno faceva guerra sino alla grammatica.

Questa incertezza del sentimento cristiano di fronte all'antica coltura ed ai suoi monumenti si perpetuò nel medio evo, così che riesce molto difficile dire quanto la Chiesa abbia in quella età nociuto, quanto abbia

giovato alle lettere classiche. Chele ragioni della decadenza erano, in parte, anteriori ai tempi in cui la Chiesa cominciò ad operare con qualche efficacia in mezzo alla società pagana, è riconosciuto da chiunque sia in grado di recare in tale argomento un imparziale giudizio; e da altra banda si vuol considerare che tutto, o quasi tutto quanto pervenne sino a noi delle lettere latine fu conservato per la diligenza dei chierici. Si ammiravano le bellezze immortali di cui ridevano le pagine di quegl'insigni antichi artefici del pensiero e della parola, ma se ne temevano le dolci lusinghe. Lo spirito maligno, che nel sorriso di una bella donna, in una coppa di vin generoso, nel profumo di un fiore, sapeva preparare formidabili insidie, poteva bene servirsi di un esametro di Virgilio, o di un coriambo d'Orazio per invescare le anime. Molti allora, di fronte agli autori della classica antichità, si trovarono nella condizione stessa di spirito di un amante timorato, combattuto fra il desiderio della passione e l'orror del peccato. Pietro Damiano(988-1072), il gran restauratore della monastica disciplina, dice in un suo sermone: "Olim mihi Tullius dulcescebat, blandiebantur carmina poetarum, philosophi verbis aureis insplendebant, et Sirenes usque in exilium dulces meum incantaverunt intellectum"; nelle quali parole par che trepidi ancora un dolce ricordo e un rimpianto di gaudii perduti. In altri l'abito dell'ascetica austerità, l'indole cupa e morosa, l'angoscioso pensiero dell'eterna dannazione, mettevano sospetti più gravi e più tristi paure, che si esprimevano con parole di contumelia e di esecrazione. Nel VII secolo Sant'Andoeno chiama scelerati Omero e Virgilio; nel X, Leone, abate di San Bonifacio e legato apostolico, rispondendo alle accuse d'ignoranza che i vescovi della Gallia avevano nel sinodo di Reims mosso agli ecclesiastici romani, dichiara in una epistola ai re Ugo e Roberto di Francia che i vicarii e i discepoli di San Pietro non vogliono avere a maestri Platone, Virgilio, Terenzio e gli altri del filosofico bestiame. Ranulfo Glaber racconta nella sua Cronaca la storia di un grammatico di Ravenna, per nome Vilgardo, molto studioso e sollecito degli antichi autori, al quale una notte apparvero alcuni diavoli sotto le spoglie di Virgilio, di Orazio e di Giovenale, e lo ringraziarono della diligenza ch'egli adoperava intorno ai loro scritti, e gli promisero di farlo, dopo morto, partecipe della propria lor gloria. Invanito per tali promesse, egli cominciò a dire molte cose in pregiudizio della vera fede, tanto che fu dannato per eretico. Allo stesso modo assumeva il diavolo la figura ora di questa, ora di quella antica divinità. Il fatto sarebbe avvenuto ai tempi della dominazione longobardica; e se da una parte dimostra quali sensi

di esecrazione gli scrittoripagani inspirassero nei più credenti, dimostra dall'altra come qualcuno ancora vi fosse che, innamorato dell'opere loro, ne sognava la gloria. Sant'Odone, abate di Cluny, fu trattenuto dal leggere le poesie di Virgilio da certa visione che ebbe, in cui gli parve vedere un vaso bellissimo di fuori e dentro pieno di serpenti, i quali uscitine presero a circuirlo. Egli intese che i serpenti erano le false dottrine dei poeti, e il vaso il libro di Virgilio. Di Ugo Augustodunense, a mezzo dell'XI secolo abate di Cluny, racconta Elinando che un giorno, dormendo, sognò d'avere sotto il capo una gran moltitudine di serpi. Destatosi, sollevò il capezzale, e trovò che v'era sotto un antico volume di Virgilio, gettato il quale, potè riposare tranquillamente.

Alcuni più tolleranti consideravano lo studio delle lettere come affatto inutile a chi aveva nelle Sacre Carte, e nei dogmi della Chiesa la certa e inconcutibile verità; altri lo giudicavano invece dannoso al buon costume e alla fede. Nello Speculum exemplorum si racconta che San Francesco lanciò una formidabile maledizione contro un suo discepolo, che, senz'avergliene chiesto licenza, ordinò uno studio in Bologna. Tu vuoi, diss'egli al colpevole, distruggere l'ordine mio. Io desiderava e voleva che ad esempio del mio Signore i miei fratelli pregassero più che non leggessero. Il povero maledetto incontanente infermò, e stando nel letto fu miracolosamente privato della vita da una gocciola ignea e sulfurea piovuta dal cielo, la quale perforò il suo corpo e il letto insieme. Il diavolo ne portò via l'anima. Nella Satira X Jacopone da Todi prorompe in queste parole:

Tal è, qual è, tal è:

Non c'è religione.

Mal vedemmo Parisi,

Che n'ha destrutto Ascisi;

Con la lor lettoria

L'han messo in mala via.

I Domenicani, a dir vero, a dispetto della propria regola, la pensavano diversamente, e Jacopo Passavanti era da' suoi superiori mandato a studiare a Parigi. De' suoi studii profani fanno copiosa testimonianza gli esempii tratti dalle storie e dalle favole antiche e introdotti nello Specchio della vera penitenza, sovrattutto nella redazione latina.

Se le regole di alcuni ordini monastici vietavano la lettura degli scrittori

pagani, le regole di altri ordini, non solo la permettevano, ma della trascrizione dei codici facevano un obbligo espresso. Gli è a questo modo che i monaci del X, XI e XII secolo resero alla coltura servigi indimenticabili. Se non fossero state le grandi abazie, dove si tenevano scuole di grammatica, e si custodivano gelosamente quanti libri si potevano avere, non uno forse degli scrittori latini sarebbe giunto insino a noi. Invece di biasimare i monaci perchè non considerarono gli scrittori pagani a quel modo stesso che possiamo considerarli noi, bisogna lodarli d'aver saputo conciliare inqualche misura l'amor delle lettere col sentimento religioso, contraddicendo alcuna volta, nonchè allo spirito, alla lettera stessa delle regole monastiche, e vedere in questo fatto una prova della grande attrattiva che gli antichi volumi serbavano nel medio evo, e dell'attitudine che gli uomini di quella età avevano ancora a gustarne le profane bellezze. Non mancò mai chi apertamente consigliasse la lettura dei classici, e molti che palesemente la biasimavano e la sconsigliavano altrui, se ne giovavano poi per proprio conto, e andavan superbi di potere ostentare negli scritti la erudizione e l'eleganze attinte negli antichi volumi. Più d'uno fu mosso a scrivere dall'esempio e dalla riputazione di questo o di quell'antico. I poeti, gli storici, i filosofi si trovano continuamente ricordati, e le sentenze e le opinioni loro citate e commentate; e ciò non solo in opere di argomento profano, ma ancora, ed anzi più, in quello di argomento religioso, e di spirito più particolarmente ecclesiastico, nei trattati teologici ed ascetici, nei libri di educazione, negli scritti polemici. E non è una delle cose meno curiose in tali opere trovare appunto citati gli scrittori pagani insieme coi Padri, i libri loro insieme con la Bibbia. Veggansi, per un esempio tra mille, gli Ammaestramenti degli Antichi di Bartolomeo da San Concordio, frate predicatore. Delle loro sentenze morali si facevan raccolte, che sotto il nome di Flores o Flosculi s'inserivano poi dove venivano in taglio, come, per non moltiplicare nemmeno qui gli esempii, si può vedere nello Speculum historiale di Vincenzo Bellovacense. Seneca, Cicerone, Giovenale, persino Orazio, si citano col nome onorato di ethici; spesso si trovano riportate le loro sentenze senza nessuna indicazione di nome, ma accompagnate semplicemente dalle parole: Ethicus ait. Nel Liber moralizationum historiarum dell'Holkoth, su quarantasette moralità che lo compongono moltissime traggono l'argomento da scrittori pagani, e più particolarmente da Cicerone, Seneca, Tito Livio, Ovidio, Giovenale, Plinio, Solino, Valerio Massimo. Certo, molto spesso chi cita non conosce del suo scrittore altro che il nome, o qualche detto ricevuto di seconda, o

di terza mano; ma spessissimo ancora le citazioni sono tratte direttamente dai testi. Ad ogni modo il fatto che più importa qui si è, non la molta o poca, esatta od inesatta conoscenza degli scrittori classici, ma il grande rispetto e la grande ammirazione che si ha e si dimostra per essi. La loro riputazione di sapienza e di veridicità è universale. Guglielmo d'Hirschau(m. 1091) riferisce la opinione di alcuni che fondavano tutta la dottrina dei quattro elementi sopra un verso di Giovenale, di quel Giovenale a cui lo stesso Dante non osava contraddire senza scusarsene. Tale essendo la riputazione degli scrittori latini, molti, per acquistar credito all'opereloro, dovevano porre innanzi e fingere fonti latine; specie chi scrisse allora di cose naturali ebbe in costume di spacciare sotto i nomi di Plinio, di Solino, di Eliano, le favole più stravaganti. Verrà un tempo in cui poeti cristiani, come Brunetto Latini, Dante, Fazio degli Uberti, prenderanno a guida di simbolici viaggi scrittori pagani, e con la scorta loro ammaestreranno, narreranno, descriveranno fondo a tutto l'universo. Alcuni di questi saranno già entrati nel regno dei cieli; altri, che non ebber battesmo, ma furono senza peccato, si sottrarranno all'inferno e si porranno in luogo distinto, scevri da pena e onorati. Onorio Augustodunense, il quale fiorì nella prima metà del XII secolo, e fu uomo di chiesa, come tutti quasi i dotti d'allora, dice nel suo trattato De animæ exilio et patria, sive de artibus, che l'esiglio dell'anima altro non è se non l'ignoranza, la patria, per contro, il sapere. Dall'esiglio si ritorna in patria per una via lungo la quale sono dieci città: Grammatica, Retorica, Dialettica, Aritmetica, Musica, Geometria, Astronomia, Fisica, Meccanica, Economia. Nella prima insegnano Donato e Prisciano, nella seconda Cicerone, nella terza Aristotile, nella quarta Boezio, nella quinta discepoli di costui, nella sesta Arato, nella settima Igino e Giulio Cesare, nella ottava Ippocrate; nella nona e nella decima non appare nessun particolare maestro.

Quale che potesse essere la naturale ostilità della Chiesa contro agli scrittori pagani, il sentimento di ammirazione da questi inspirato empieva gli animi, e non permetteva che certe condanne passassero interamente dal concetto alla pratica. In uno dei suoi scritti dice San Bernardo: "Omnes placuerunt Deo in vita sua, vitæ meritis, non scientiæ. Petrus, et Andreas et filii Zebedæi, ceterique condiscipuli omnes, non de schola rhetorum philosophorumque assunti sunt". Ma poi soggiunge: "Videar forsitan nimius in suggillatione scientiæ, et quasi reprehendere doctos, ac prohibere studia literarum. Absit". Non si dimentichi inoltre che una certa tradizione classica e pagana, assai difficile a distruggere in

tutto, sopravviveva, dove più, dove meno, nelle province d'Europa soggette un tempo alla dominazione di Roma. Essa ricompariva qua e là nella letteratura popolare, si perpetuava in certe credenze e costumanze, si manifestava in certe propensioni dello spirito, e, senza che altri se ne avvedesse, riusciva a mitigare certi contrasti, faceva parere l'antico mondo, qual era rappresentato negli scrittori, meno estraneo, meno disforme. Ciò avveniva più che altrove in Italia, dove, meglio che altrove, s'era conservato l'antico spirito latino, tanto che Ottone di Frisinga si meravigliava di trovare in Lombardia la lingua, la urbanità, la sapienza dei Romani, e dove in rozzissimi canti popolari del XI e del XII secolo abbondano le reminiscenze di Roma, delle sue glorie, delle sue divinità.Questo persistere di una tradizione più viva e più gelosamente custodita lascia intendere in parte perchè il Rinascimento avesse principio in Italia, e dall'Italia si diffondesse nella rimanente Europa. Le scuole di grammatica e di retorica non cessarono mai interamente, nè qui, nè fuori, e, benchè molto mutate, pure per diritta filiazione si legavano, risalendo di secolo in secolo, alle antiche scuole dell'impero. Ma il vincolo più forte e più efficace tra l'antica e la nuova età, tra il mondo pagano e il mondo cristiano, era quella bella e vigorosa e trionfale lingua latina, che non fu meno operosa nella conquista delle terre e dei popoli di quello fossero state le armi dei legionarii, e che la Chiesa aveva consacrata, affidandole il solenne deposito delle verità della fede, e facendola strumento augusto della preghiera. Per lungo tempo essa disputa ai volgari nascenti e formantisi il mal certo dominio; poi, quando questi hanno digià ottenuta la vittoria, non si ritrae dal popolo se non a rilento, e non muore, ma si lega sempre più intimamente a tutto il pensiero dei tempi, e, segno massimo della vita nei linguaggi, seguita ad alterarsi e a variare, docilmente piegandosi a tutte le necessità, procedendo con la storia di pari passo. In latino si scrive, in latino si prega, in latino si predica; rozzi canti latini corrono tra il popolo. Strano a dire, la lingua latina non diventa veramente lingua morta se non quando comincia il Rinascimento. La Chiesa parla lo stesso linguaggio degli antichi poeti, i metri che avevano servito a celebrare Giove e Venere, servono ancora a celebrare Cristo e Maria. Come l'unità della lingua, che è vincolo atto a tener moralmente congiunte per secoli più parti di un popolo disgregato politicamente, non avrebbe anche in questo caso, a dispetto di ogni altro contrasto, fatta palese la sua efficacia, e ajutato a raccostare il lettore cristiano allo scrittore pagano, e agevolata la conciliazione dell'antico e del nuovo spirito? La lingua latina

era, insieme con gli scrittori latini, quanto di meglio sopravvanzava del dissipato retaggio di Roma: leggendo, parlando, scrivendo il latino, l'uomo del medio evo poteva sentirsi cristiano e romano ad un tempo. Ciò spiega perchè in quella età siasi data tanta importanza agli studii grammaticali. Nè qui è da considerare la sola lingua latina. Quanto nel medio evo potesse far meglio e più profondamente sentire la partecipazione alla vita dell'antica Roma, e vie più stringere i legami tra i nepoti e gli antenati, doveva tornare in beneficio degli scrittori pagani, con abbreviare in certo qual modo le distanze, promuovere le simpatie, levare i sospetti. Il diritto romano, almeno in Italia,non era mai caduto in dimenticanza; anzi sembra che nella tradizione e nella pratica di esso non siavi stata interruzione mai. Nella prima metà dell'XI secolo, Vipone, cappellano di Corrado II e di Enrico III imperatori, lodava l'usanza che si aveva in Italia di fare istudiare ai giovani il giure. Chi invocava e praticava la legge romana doveva considerare come illustri concittadini suoi gli scrittori di Roma, e compiacersi in loro.

Questo stesso Vipone dice in uno dei suoi Proverbia:

Notitia literarum lux est animarum;

parole che certamente pajono strane in bocca di un ecclesiastico, il quale non avrebbe dovuto ammettere che ci fosse altra luce dell'anime fuor di quella della parola divina che raggia dalla Sacre Carte. Ma è indubitato che quelle parole esprimevano un sentimento comune a molti, comprovato da altre testimonianze infinite. Pietro di Blois scriveva verso il 1170 a un professore dell'Università di Parigi: "Priscianus et Tullius, Lucanus et Persius, isti sunt dii vestri". Ben più strano del resto deve parere che la cognizione degli scrittori classici, posseduta da un uomo di chiesa, potesse porgere argomento di grandissima lode ad altri, lui morto. Nell'epitafio di certo ecclesiastico italiano per nome Guido, morto probabilmente nel 1095, si leggono, tra gli altri, anche i seguenti versi:

Leto Widonis moriuntur dicta Platonis,

Leto Widonis doletur opus Ciceronis,

Leto Widonis tacuerunt facta Maronis,

Leto Widonis cessavit musa Nasonis.

Pitagoras, Socrates, Plato, Tullius et Maro vates

Quicquid senserunt, quicquid cuncti docuerunt,

Hauserat hic totum, placet ergo fundere votum:

Liber ab inferno regnet cum rege superno.

Non perchè cristiano, non perchè ministro della Chiesa, non perchè giusto osservatore della legge divina, sembra qui questo Guido meritevole del regno dei cieli all'anonimo epigrafista, ma perchè copioso di poetica vena, ma perchè eloquente, ma perchè erudito nell'antica sapienza.

In ogni tempo del medio evo gli ecclesiastici più riputati studiarono nei classici, e chi volesse moltiplicare gli esempii potrebbe facilmente riempierne un volume. Sant'Aldelmo, nato verso il 640, conosceva molto bene gli autori latini, come del resto chiaramente appare dai suoi scritti; e il suo biografo Faricio dice di lui: Latinæ quoque scientiæ valde potatus rivulis. Degli ecclesiastici della corte di Carlo Magno non è mestieri fare particolareggiato ricordo. Nel secolo X Raterio, vescovo di Verona, leggeva con amore i poeti; intorno al 1061 Benzone vescovo di Alba, nel Panegyricus ritmicus dedicato a Enrico III imperatore, nomina Virgilio, Lucano, Stazio, Pindaro, Omero, Orazio(noster Horatius) , Quintiliano, Terenzio, molto compiacendosi nella ostentazione del proprio sapere. Gonzone da Novara(sec. X), accusato e deriso dai monaci di San Gallo per avere usato un accusativo dove ci voleva un ablativo, scrive per difendersi una lunga epistola ai monaci di Reichenau, nella quale fa pompadi tutta la sua erudizione. In quel medesimo secolo, Vulgario, prete napoletano, usa metri insoliti, sparge di grecismi, infarcisce di classiche reminiscenze le sue poesie latine. Nella scuola claustrale di Paderborn si leggevano Virgilio, Lucano, Stazio, l'Iliade compendiata da Pindaro Tebano. Gerberto spiegava ai suoi discepoli Virgilio, Lucano, Terenzio, Giovenale, Stazio, Persio. A tutti questi chierici, e ad altri molti che si potrebbero ricordare, la poesia classica doveva sembrare, come ad Alcuino, un vino inebbriante, d'altro sapore certo, ma non men gradito al palato che il miele delle Sacre Scritture. In generale, nei secoli IX e X, che, del resto, sono giustamente considerati come i più tenebrosi di tutto il medio evo, l'antichità fu amata e studiata e conosciuta assai più di quanto comunemente si creda. Ratieri da Verona dichiarava di non voler promuovere ai sacri ordini nessuno che non avesse qualche letteraria coltura. Nel secolo seguente, e negli altri che precedono il Rinascimento, lo studio delle lettere classiche va mano mano crescendo.

Ma i classici non solamente si studiavano, si imitavano ancora; e gli epici antichi servivano di modello agli epici nuovi, e i lirici ai lirici, alcuna volta con danno grave del sentimento cristiano così camuffato di vesti

non sue. Come imitassero i dotti della corte di Carlo Magno è noto abbastanza. Nella seconda metà del IX secolo il Franco Otfrid, educato, come si crede, nella scuola celebre di Fulda, e discepolo di Rabano Mauro, era mosso a scrivere il suo poema di Cristo, oltre che dall'esempio di Giovenco, di Aratore, di Prudenzio, da quello ancora di Ovidio, di Lucano, di Virgilio. L'autore del Waltharius imitava Virgilio in argomento profano, ma altri facevano lo stesso in argomento sacro; Hrotsvitha imitava Terenzio. Più tardi Bernardo di Chartres imiterà Lucrezio, presso che ignoto al medio evo, Giovanni Sarisberiense imiterà Ovidio, altri, senza numero, imiteranno quando l'uno, quando l'altro degli antichi scrittori, e spesso ancora parecchi insieme. Non di rado l'imitazione passa il segno, e persevera quando dovrebbe cessare, introducendo in soggetti sacri nomi, epiteti, immagini sconvenientissimi. Questa usanza era del resto assai antica. Circa il mezzo del IV secolo, Aquilino Giovenco chiama Cristo proles veneranda Tonantis. Alcuino chiama i santi cives Olympi, gens diva Tonantis; nella Vita Caroli Magni del Poeta Sassone si trova nominata la musa, Febo è detto initium mundi totius et anni, e il l. V comincia col verso:

Pangite iam lacerae carmen lugubre Camenae.

Altri così fatti esempii, come pure di emistichi, di versi, d'intere sentenze, tolti da' poeti latini e introdotti in iscritture, sia di argomento sacro, sia di profano, sono a dirittura innumerevoli. Le favole e i miti classici sono conosciuti universalmente, e gli scrittori nonsi lasciano fuggir l'occasione di ricordarli, di adoperarli anche, come esempii, a proposito di qualche ammaestramento morale. Alcuni fra i più reputati, come Alano de Insulis, Giovanni d'Hauteville, Alessandro Neckam, Giovanni Sarisberiense, ecc., hanno della favola antica cognizione amplissima e veramente meravigliosa. In un poemetto latino del X secolo pubblicato dal Niebuhr son nominati Venere, le Parche, Nettuno: in un altro del secolo XII, conservato in un codice Vaticano, Ganimede ed Elena contendono della loro bellezza. Nelle Geste dei Pisani a Majorca di Lorenzo da Verona(XII sec.), e nell'Eulistea di Bonifacio, da Verona ancor esso(XIII sec.), si trovano parecchie reminiscenze di mitologia classica. Dei Goliardi non fa d'uopo discorrere.

Se alcuna storia famosa dell'antichità, per esempio quella di Edipo, con la quale riscontra in tante parti la nota leggenda di Gregorio Magno, si fosse conservata, variando più o meno, anche tradizionalmente, è dubbio; ma non è d'uopo ricordare come durante tutto il medio evo si

rifacessero in lingue volgari le storie di Troja, d'Alessandro Magno, di Ercole, di Giasone, l'Eneide, la Farsaglia, la Tebaide. L'ignoto Romolo, Galfredo, Ugobardo Sulmonense, Maria di Francia, altri, rimettevano in circolazione le vecchie favole di Esopo e di Fedro. In pari tempo le traduzioni si moltiplicavano: nel XIII secolo Riccardo d'Annebaut in Francia giungeva sino a mettere in versi le istituzioni di Giustiniano.

Ci furono nel medio evo uomini che possedettero dell'antichità classica una conoscenza veramente meravigliosa, come Giovanni di Salisbury, il primo fra tutti, Giuseppe Iscano, Guntero, autore del Ligurinus, Bernardo Silvestro, Alano de Insulis, Vincenzo Bellovacense, nel cui solo Speculum Naturale si citano trecentocinquanta autori. Ma oltre che la conoscenza loro è, per dir così, tutta esteriore, e si ferma alla lettera, e non penetra lo spirito dell'antichità, non ve n'ha quasi nessuno che, parlando degli scrittori classici, non cada in errori gravissimi, e alcuna volta a dirittura ridicoli. Giovanni Sarisberiense fa due distinte persone di Svetonio e di Tranquillo, e Vincenzo Bellovacense divide similmente in due Sofocle, confonde in un solo i due Seneca, fa di Cicerone un capitano d'eserciti, scrive Scalpurnus invece di Calpurnius. Altri, meno eruditi, incappavano in ispropositi ancor più solenni. Alard de Cambray, autore del Traité sur les moralités des philosophes, credeva che Tullio e Cicerone, Virgilio e Marone fossero persone diverse; e, quanto a Cicerone, lo stesso errore aveva già commesso Ermoldo Nigello. Ranulfo Higden chiamava Plauto rhetor et doctor.

Dove tali errori erano possibili, la fantasia, che volentieri si esercita intorno alle cose di cui l'uomo non ha cognizione retta e sicura, aveva buon giuoco. I grandi scrittori dell'antichità, presenti sempre alla memoria del medio evo, non potevano sottrarsi al suo potere. Si avevano i libri loro, ma s'ignoravanomolte particolarità della loro vita, e quanto maggiore era l'ammirazione che si professava per essi, tanto più irresistibile doveva essere la tentazione di supplire con la finzione al vero che s'ignorava. Spesso ancora una immaginazione popolare, un concetto morale espresso in forma di parabola, o altrimenti, si legava al nome di alcuno di quegli illustri, senz'altro motivo che il desiderio di procacciare alla immaginazione o al concetto, mediante quel connubio, più larga diffusione e maggior credito. Gli è a questo modo che Socrate, Platone, Ippocrate, Aristotile, Virgilio, ed altri, di cui farò parola a suo luogo, entrarono in leggende, più o meno, secondo i casi, confacenti al loro carattere, e non è a stupire se tra le fantasie che si spacciarono, alcune

se ne trovano assai stravaganti. Omero passa generalmente per un mentitore, il quale, o non conobbe a dovere, o travisò i fatti della guerra trojana. Socrate in greco vuol dire osservatore di giustizia. Le due mogli che egli aveva lo picchiarono un giorno per modo che poco mancò non ci lasciasse la vita. Allora riparò con alcuni discepoli in un luogo campestre, e quivi scrisse di molti libri. Nella novella 61 del Novellino(testo Gualteruzzi) Socrate è fatto di Roma, e il consiglio della città commette a lui di rispondere a certi ambasciatori di Grecia che domandavano dispensa dal tributo. Nei Gesta Romanorum e altrove, si racconta che l'imperatore Claudio diede la propria figliuola in isposa a Socrate, a condizione che se quella fosse poi morta, egli, Socrate, si sarebbe tolta la vita. Alcun tempo dopo la celebrazione del matrimonio, la figliuola di Claudio inferma gravemente; ma, seguendo i consigli di un vecchio, Socrate la guarisce, ed è dall'imperatore colmato di ricchezze e di onori. Platone, il cui nome vuol dire compito, si piaceva molto nei luoghi deserti, e quando piangeva la sua voce si udiva due miglia lontano. Egli fu uno degli otto maggiori medici dell'antichità. Era ricchissimo. Diogene andò un giorno alla casa di lui, e trovativi letti sfarzosi, cominciò coi piedi imbrattati di fango a insudiciarne le coltrici di porpora; poscia, partendosi, disse a Platone: Così la tua superbia è abbattuta da un'altra superbia. Allora Platone si ritrasse insieme coi suoi discepoli in un luogo deserto e pestilenziale, "acciò che l'asprità del luogo rompesse la volontà della lussuria della carne". Morì, secondo alcuni, per non aver saputo risolvere certo enigma che gli era stato proposto. Aristotile vuol dire perfetto in bontà. Da alcuni Aristotile fu creduto figlio del diavolo, ma egli non fece contro alla teologia: morendo volle fossero seppelliti con lui i suoi libri, dei quali si servirà l'Anticristo. Alcuno diceva che eglifosse morto per non aver potuto intendere il fenomeno del flusso e del riflusso del mare: giacchè, diss'egli, io non posso comprendere te, tu comprendi me; e si gettò nell'acqua. Non fa mestieri di ricordare qui la famosa storia di Aristotile innamorato, nè la leggenda parimente notissima d'Ippocrate. Tolomeo il Cosmografo è creduto un re, errore di cui facilmente si scopre la causa.

Degli scrittori latini sarà parlato nei capitoli seguenti: qui basterà riportare qualcuna delle stranezze che si spacciarono intorno ai meno celebri. Sallustio era un gran signore non meno ricco che sapiente e valoroso. Cornelio Nepote, poco noto del resto nel medio evo, sapeva tutti i linguaggi. Macrobio, del cui sepolcro andava superba la città di Parma, notissimo nel medio evo pel suo commento al Somnium

Scipionis, vestì sempre di bianco, ecc. Tanto del resto i filosofi, quanto i poeti pagani, erano generalmente tenuti in conto di astrologi, e non pochi passarono per maghi. Che a qualcuno dei libri loro si attribuissero virtù meravigliose, non deve parere troppo strano: nella Eneide si ricercarono oracoli; Enea Silvio Piccolomini racconta che la lettura di Quinto Curzio guarì Alfonso di Aragona re di Napoli da una grave malattia.

Un'altra fantasia la quale merita d'essere qui ricordata, era quella che consisteva nell'attribuire qualità di cristiano al tale o tale altro antico scrittore. Di questa vedremo in seguito alcuni esempii assai notabili. Essa, oltre che soddisfaceva un sentimento assai naturale in chi non poteva cessar di ammirare i pagani illustri, riusciva praticamente assai utile, spuntando l'avversione della Chiesa, e togliendo gli scrupoli alle coscienze timorate. La Chiesa non poteva più ragionevolmente vietare, nè i credenti dovevano più temere, la lettura di uno scrittore antico, quando questo scrittore passava per cristiano. Le leggende in cui tale fantasia si figurava erano di leggieri credute, nè la Chiesa aveva poi grande interesse a sbugiardarle, chè anzi a lei doveva tornare gradito che fra i pagani più celebri si moltiplicassero i testimoni della verità. In ogni tempo insigni scrittori ecclesiastici ammisero che, assai prima della venuta di Cristo, alcuni pagani eletti poterono, per divina grazia, avere come un presentimento della redenzione, e una anticipata conoscenza delle maggiori verità della fede. Giustino Martire, nell'Apologia prima, rappresenta Socrate, Platone ed altri filosofi dell'antichità quali cultori e seguaci dell'unica verità. Sant'Ambrogio, Sant'Agostino, San Giovanni Crisostomo pensarono che Socrate fosse salvo. San Tommaso ammetteva che parecchi tra i filosofi pagani avessero avuto la fede implicita. Chi più si avvantaggiava di questi sentimenti era Platone, verso le dottrine del quale tanti Padri si sentirono istintivamente attirati. Sant'Agostino ribatte in un luogo del trattato De Civitate Dei, la opinione di coloro che credevano Platone avesseconosciuto Geremia, o lette le scritture dei profeti, la quale opinione aveva egli stesso precedentemente seguitata; ma dice che il filosofo greco divinò la Trinità. Una divinazione così fatta fu poi ammessa anche per Aristotile. Pietro di Blois credeva ancora che Platone avesse studiato le scritture, e attintane la verità che nella dottrina di lui si ritrova. Nelle Quaestiones pubblicate dal Gretser sotto il nome di Anastasio Sinaita si dice, con riferimento alla visione di certo Scolastico, che Platone fu salvo, e così ancora si disse di Aristotile. Anche Abelardo ammetteva che molte verità

del cristianesimo fossero state note in anticipazione ai filosofi antichi. In un poema di Pietro di Vernon(XII sec.), intitolato dal Roquefort Les enseignements d'Aristote, il filosofo di Stagira ammaestra Alessandro Magno nella fede cristiana. Nel Dit d'Aristotle di Rutebeuf, Aristotile ammaestra Alessandro Magno invocando la Vergine. Di Socrate non si fa un cristiano a dirittura, ma si dice che morì perchè non voleva adorare gl'idoli. Cristiano invece fu fatto Giuseppe Flavio, e cristiani Virgilio, Seneca, Lucano, Stazio, Plinio il Giovane, Silio Italico, come per alcuni vedremo più particolareggiatamente in seguito. Claudiano fu fatto cristiano da Sant'Agostino e da Orosio. La dottrina cristiana si trova in Macrobio secondo Abelardo. In un Mistero francese Tiberio tiene consiglio sulla questione della divinità di Cristo, in favore del quale parlano Terenzio, Boccaccio, Giovenale. Molti antichi avevano annunziato l'incarnazione del Verbo e la nascita del Redentore.

Ma anche chi non credeva alla ortodossia degli antichi scrittori aveva modo di scusare, ed anzi di rendere plausibile la lettura dei libri loro, immaginando che in questi fossero nascoste, sotto il velo delle favole e sotto i poetici ornamenti, profonde ed ottime verità morali. Il pensiero e il sentimento cristiano inclinano spontaneamente all'allegoria e al simbolo. Sin dalle origini, l'arte delle catacombe è tutta simbolica; la liturgia ecclesiastica è un complicato sistema di allegorie e di simboli. Assai presto nelle Scritture si distinsero due sensi, il letterale ed il mistico, suddiviso quest'ultimo in anagogico, allegorico, morale. Secondo Occam gli Evangeli avevano quattro sensi, istorico, allegorico, tropologico ed anagogico. Esagerandosi sempre più questa tendenza, si finì con interpretare allegoricamente tutta la storia e tutta la natura, concepite oramai non altrimenti che come un immenso sistema di segni e di simboli del soprassensibile. Allora la poesia fu considerata anzi tutto come un linguaggio più sottile e più nobile, il cui principale ufficio consisteva in velare di acconce forme le auguste verità teologiche e morali. Per Alano de Insulis la poesia è una verità recondita celata sotto una corteccia di menzogna. Sul limitare del Rinascimento Dante e il Petrarca credono ancora chelo spirito della poesia stia essenzialmente nell'allegoria. L'alto concetto che universalmente si aveva della sapienza dei pagani, doveva indurre a credere che nei versi loro fossero chiuse le più sublimi dottrine. Di tale credenza vedremo alcuni esempii più oltre: qui basterà ricordare che Dante e il Petrarca e il Boccaccio intendevano nella Eneide anche un senso allegorico, e che Dionigi da Borgo San Sepolcro, monaco agostiniano, volgeva a senso tropologico parecchi

scrittori pagani, tra gli altri Virgilio, Ovidio, Seneca.

I poeti, cui si attribuiva tanta recondita sapienza, ragionevolmente non si sarebbero più dovuti distinguere dai filosofi, e in fatto molto spesso incontra che sotto il nome comune di filosofi, si trovino compresi tutti gli scrittori pagani. Nel Romans de tous les philosophes, Alars de Cambray pone tra i filosofi Terenzio, Lucano, Persio, Orazio, Giovenale, Ovidio, Sallustio, Virgilio, Macrobio, e in simile modo si trovano mescolati coi filosofi i poeti e gli storici, in molti di quei numerosissimi trattati del medio evo, dove si pretende di dare il fiore dell'antica sapienza. In altri per contro si nota una certa tendenza a raccogliere solamente i detti e gli esempii di quelli che più precisamente possono addimandarsi filosofi. Chi non era troppo inclinato a scorgere per entro ai versi dei poeti una risposta allegorica, non poteva, specie se di sentimento religioso un po' austero, non fare una certa differenza tra poeti e filosofi, e porre questi sopra quelli in dignità. Non accade esaminare ora quale contegno la Chiesa tenesse di fronte alla filosofia antica: esso non fu sempre di una maniera; ma ciò che si può dire in generale si è che la prova filosofica ripugna all'indole del cristianesimo, ch'è tutto fondato sulla fede. Sant'Agostino, che fu da prima molto infervorato per la filosofia, finì che vi rinunziò, e dichiarò i filosofi greci essere assai più meritevoli di riso che di confutazione, e disse che la sola vera filosofia era la vera fede. Atanasio il Grande confessava che, come più egli si sforzava di speculare sulla divinità di Cristo, meno la intendeva, e ammoniva di credere senza cercar le prove. Nel 1228 Gregorio IX rimproverava ai dottori della Università di Parigi di essere piuttosto teofanti che teologi, e li esortava a non adulterare il verbo divino con le finzioni dei filosofi. San Bernardo chiama i filosofi vani e curiosi, e cent'altri li giudicano nel medesimo modo e anche peggio. A voler far troppo il loico si correva pericolo di perder l'anima, come prova la storia di quello scolare che, dopo morto, apparve al suo maestro con una cappa tutta coperta di sofismi indosso, storia francese narrata anche dal Passavanti. Ma, daaltra banda, era già stato riconosciuto sino dai primi apologeti, che la filosofia pagana conteneva parecchi germi di verità, ed è indubitato che il pitagoreismo, il platonismo, lo stoicismo hanno col cristianesimo qualche notabile relazione. Abelardo poteva giungere a dire che il cristianesimo altro non è che un volgarizzamento delle dottrine esoteriche dei filosofi antichi. Platone e Aristotile pagani governano il pensiero cristiano, e di loro, e degli altri antichi sapienti si parla con la più profonda ammirazione: non di rado si trovano ad essi attribuite sentenze tratte dalle Sacre Scritture.

Nel XII e nel XIII secolo la riputazione dei filosofi, e più specialmente di Aristotile, cresciuta oltremisura, offusca quella dei poeti; i Cornificiani, contro di cui Giovanni Sarisberiense scrisse il Metalogicus, disprezzavano i classici, e ogni altro studio che non fosse di logica e di dialettica. Nella Bataille de septs arts di Enrico d'Andely la Grammatica, raccolti i suoi campioni, Omero, Claudiano, Donato, Persio, Prisciano, e altri poeti, va a combattere contro la Logica e Aristotile.

Ma ciò che più monta qui di notare si è una certa distinzione di carattere morale fatta tra i filosofi e i poeti, tra coloro che avevano divinato qualche parte della verità rivelata e coloro che avevano rivestito di tutte le seduzioni dell'arte gli errori del gentilesimo. Abelardo, così largo verso i filosofi, era severissimo contro i poeti. Una delle miniature che nel manoscritto originale accompagnavano l'Hortus deliciarum della Badessa Herrad di Landsperg(XII secolo) era, a tale proposito, molto istruttiva: e dico era, giacchè quel manoscritto credo sia andato distrutto nell'incendio della Biblioteca di Strasburgo, dove si conservava. In quella miniatura erano rappresentate, tra due cerchi concentrici, da sette donne, contraddistinte da opportuni emblemi, le sette arti. Dentro al cerchio minore una figura sedente in trono e coronata rappresentava lo Spirito Santo, tra le mani del quale un breve con la scritta: Omnis sapientia a Deo est. Soli quod desiderant facere possunt sapientes. La corona, sopra la quale tre teste figuravano l'Etica, la Logica, la Fisica, recava l'iscrizione Philosophia. Alla destra dello Spirito Santo si leggeva: Septem fontes sapientie fluunt de philosophia qui dicuntur liberales artes; alla sinistra: Spiritus sanctus inventor est septem liberalium artium que sunt grammatica, rethorica, dialectica, musica, arithmetica, geometria, astronomia. Sott'esso erano figurati Socrate e Platone con la seguente scritta: Naturam universe rei queri docuit Philosophia; Philosophi primum ethicam, postea phisicam, deinde rethoricam docuerunt; Philosophi sapientes mundi et gentium clerici fuerunt. Fuori dei due cerchi che rappresentavano il dominio delle sette arti quattro figure erano designate quali Poete vel magi spirito immundo instincti. A ciascuno parlava nell'orecchio un corvo, figura del demonio, inspiratore di perverse dottrine. Li accompagnava la scritta: Isti immundisspiritibus inspirati scribunt artem magicam et poetriam idest fabulosa commenta. Ma questi ed altri tali giudizii, i quali movevano da una fede troppo angusta ed ombrosa, non potevano prevalere contro il sentimento dei più, contro l'uso e la tradizione. Le favole dei poeti serbavano tanta attrattiva che, da sè sola avrebbe potuto vincere ogni ripugnanza

religiosa e morale; ma la ingegnosa leggenda veniva in ajuto, e con pietose menzogne procacciava la conciliazione dei poeti e della Chiesa, ed apriva ai pagani le porte del cielo.

CAPITOLO XVI. Virgilio.

Infra tutti i poeti dell'antichità il più celebre, il più ammirato nel medio evo è Virgilio, e la leggenda sua è, tra quante se ne formarono intorno agli scrittori pagani, la più complessa e meravigliosa; meravigliosa per modo e, a primo aspetto, così disforme dall'uomo a cui si è avvinta, così contraria a tutto quanto sappiamo di lui, che a più d'uno venne dubbio non essere il Virgilio di cui vi si narra, quello stesso che fu in ogni tempo salutato principe della poesia latina, ma un altro, di tutt'altri tempi, e di tutt'altra condizione. Ora un tal dubbio non è più guari possibile. Certo, molti dei fatti riferiti nella leggenda appartennero in origine ad altri personaggi leggendarii, coi quali si può dire che il Virgilio favoloso siasi in una certa misura confuso; ma il medesimo incontra in molt'altre leggende di uomini illustri, ed è indubitato che nella intenzione di tutta intera la favola, il Virgilio operatore di prodigi è quel medesimo che fu famigliare di Augusto e scrisse l'Eneide. E gli è questa identità per l'appunto che conferisce alla favola tanta attrattiva e tanta importanza, e muta in degno soggetto di studio e d'indagine scientifica quanto altrimenti non sarebbe che pascolo a una oziosa curiosità.

Si noti anzi tutto una cosa. La leggenda virgiliana non è nella storia delle fantasie e delle finzioni cui porsero argomento, nell'età di mezzo, gli scrittori pagani, un fatto unico, e nemmeno un fatto che mostri insoliti caratteri, od abbia nelle origini sue alcunchè di straordinario. Molti altri antichi scrittori patirono nella leggenda trasformazioni simili a quella cui andò soggetto Virgilio, sebbene per nessun altro la trasformazione sia proceduta tant'oltre. Ma la differenza sta solamente nel grado, nella quantità, non nella qualità; in fondo il fenomeno è sempre lo stesso; e si può dire con piena sicurezza che tutti gli antichi scrittori sarebbero stati trasformati in quella stessa misura che Virgilio, se tutti, nel medio evo, si fossero trovati nelle condizioni in cui egli ebbe a trovarsi. Ciò posto, rimane esclusa ogni idea d'arbitrio. La leggenda virgiliana è pur sempre, come ogni altra leggenda, frutto dellafantasia; ma questa fantasia non lavora nel vuoto ed a caso, anzi si appoggia da ogni banda alla tradizione, ai fatti, alla vita reale; il Virgilio taumaturgo non è più il

Virgilio poeta, ma discende da questo, e a questo pur sempre ritorna, e se l'uno non avesse scritto l'Eneide, non si sarebbe attribuita all'altro la fabbrica della Salvatio Romae. Nella leggenda di lui, come in ogni altra leggenda consimile, si trova ancora, senza dubbio, del fortuito, dell'accidentale, ma in cotal forma tuttavia che il fortuito e l'accidentale è sempre contenuto dentro alla necessità generale, e starei per dire storica dell'intera finzione. In questo caso, come in cent'altri, bisogna ricordare che la leggenda è una fiorita della storia.

Chi si fa a narrare della fortuna di Virgilio nel medio evo deve porre studio a due fatti, e cioè, prima alla celebrità impareggiata ed alla ammirazione di cui egli fruì in quella età, poscia alla successiva formazione della leggenda. La celebrità di Virgilio è quella che porge al nascere della leggenda la occasione principale, come la opinione del suo ineguagliato e più che umano sapere le porge, presso che sempre, la base. Nella leggenda stessa sono da sceverare più parti, le quali differiscono tra loro, non solamente per la diversità dello spirito che le informa, e per la varia natura delle finzioni in che si esplicano, ma ancora per la diversità delle cause da cui traggono l'origine. Anzi tutto è da distinguere la parte che più propriamente concerne Virgilio profeta e quasi cristiano, da quella che più propriamente concerne Virgilio mago, e in questa seconda parte sono da sceverare due diverse e contrarie tendenze, secondochè Virgilio è considerato in essa come mago benefico che usa di una scienza giusta e legittima, tuttochè soprannaturale, oppure come mago maligno, stretto in riprovevole colleganza con le potestà tenebrose. In generale questa seconda tendenza si manifesta posteriormente alla prima, e segna la degenerazione della leggenda. Gli è quasi superfluo avvertire del resto che le finzioni della prima parte della leggenda, spesso si compongono e si legano con quelle della seconda.

Nella storia pertanto delle vicende a cui va soggetto Virgilio nel medio evo, sono quattro diversi temi di studio che vogliono essere successivamente esaminati: 1º la riputazione dello scrittore e la fortuna delle opere di lui; 2º la leggenda di Virgilio profeta di Cristo; 3º la leggenda di Virgilio mago; 4º la degenerazione della leggenda virgiliana.

Nelle poche pagine serbate al presente capitolo io non posso dar luogo ad una tale trattazione del primo tema quale dall'importanza sua sarebbe richiesta, e però, per quanto vi si riferisce, rimando il lettore al primo volume dell'opera del Comparetti, doveesso è trattato con tale

un'ampiezza di dottrina, e con tanta sicurezza di critica da disanimar chicchessia dal ritentare la difficile impresa. Mi contenterò pertanto di alcuni cenni più necessarii.

La fortuna di Virgilio nel medio evo è intimamente connessa con quella degli studii profani, ed è, in sostanza, la stessa di tutti gli altri scrittori latini, salvo che, primeggiando egli su tutti, ed essendo, in certo qual modo, il più autorevole e legittimo rappresentante dell'antica coltura, in lui, e nell'opere sue, viene a sperimentarsi più risoluto quel contrasto degli spiriti, quell'urto di simpatie e di avversioni, in che il medio evo cristiano si travaglia di fronte all'antichità pagana. Durante ancora il miglior tempo di Roma la gloria di Virgilio aveva oscurato quella di tutti gli altri poeti, e quello passato, e sopravvenuta la decadenza, non era punto venuta meno; che anzi, sebbene ormai fossero in tutto mutate le condizioni della coltura, e venisse mancando sempre più la retta e viva intelligenza dell'arte antica, egli tuttavia soprastava alle tenebre che salivano, ed era universalmente considerato quale colonna della scuola, maestro sommo di grammatica e di retorica, principe d'ogni sapere. Con tale riputazione massima acquistata mentre ancor sussisteva il mondo romano, Virgilio passa nel medio evo, e la conserva, e per alcuni rispetti l'accresce: egli è fra tutti gli scrittori pagani il più letto. Le ragioni di tale fortuna sono certamente parecchie. In parte è da dire che il medio evo seguitava obbediente la tradizione, in parte che esso serbava ancora aperto il senso alle lusinghe di quell'arte squisita e sovrana; ma, senza dubbio, alla riputazione del poeta conferiva ancora in grande misura il soggetto stesso dell'Eneide, l'opera maggiore di lui. L'Eneide è l'epopea di Roma. Sia qual esser si voglia il giudizio che di essa reca la critica, nessuno potrà negare che in uno dei suoi maggiori difetti, quello che le viene dalla origine essenzialmente erudita, o dall'essere, come altri dice, epopea artificiale anzichè naturale, non istia pure la ragione precipua della sua vera grandezza. L'Eneide è l'epopea di una matura civiltà e di una società venuta nel pieno rigoglio della sua vita storica, di una società che con piena coscienza di sè e vivo sentimento degli alti destini a cui è chiamata, celebra se medesima e le origini proprie. In nessun'altra epopea del mondo si trova una simile fusione delle memorie supposte di un popolo, con l'attuale e vivo pensiero di esso. Si disse che nella Eneide fanno difetto, insieme con lo spirito popolaresco, anche gli elementi della tradizione popolare; su ciò non è possibile, credo, far certo giudizio; ad ogni modo è innegabile che l'idea reggitricedi tutto il poema è un'idea altamente nazionale, l'idea romana per eccellenza. Nel

medio evo, quando Roma ridiventa centro a tutta la vita dei tempi, il poeta che aveva cantato le origini dell'eterna città, e celebrato quell'Enea che dalla Provvidenza era stato eletto a padre dell'impero, e a preparare il santo luogo al successor di S. Pietro, non poteva non esser fatto segno di culto speciale; e quando Dante lo sceglie a guida nella prima parte del meraviglioso suo viaggio, noi intendiamo di leggieri che tale dimostrazione di onore è da lui data, non solo al profeta supposto di Cristo, ma ancora al poeta sapiente che narrò i gloriosi principii di Roma, di Roma, sede dell'impero, culla della Chiesa.

Chi volesse ricercare nelle letterature del medio evo, e più specialmente nella latina, le prove dell'ammirazione di cui godette allora Virgilio, si porrebbe a un lavoro senza fine, tante sono le reminiscenze, tanti sono gli esempii manifesti d'imitazione che si trovano per entro agli scrittori. Qualche esempio della irresistibile attrattiva che le poesie di lui esercitavano sugli animi abbiamo già veduto nel capitolo precedente, alcun altro ne vedremo in seguito. La imitazione amorosa di esse comincia già nella letteratura latino-ecclesiastica più antica, sussistente ancora l'impero, e si prosegue poi per tutto il medio evo. I poeti della corte di Carlo Magno imitavano, oltre all'Eneide, anche l'ecloghe e le Georgiche. Di tratto in tratto i vecchi scrupoli della coscienza cristiana si palesavano anche contro di esse, e si ripetevano i biasimi già espressi da San Gerolamo, ma più per mostrare l'irresolutezza degli spiriti, il contrasto della fede e del sentimento, che non per venire a qualche effetto nella pratica. Alcuino sconsigliava ai suoi giovani discepoli la lettura di Virgilio, ma era egli stesso un discepolo del poeta pagano, e in parecchi suoi scritti le reminiscenze virgiliane non iscarseggiano. Del resto due ragioni concorrevano a mitigare l'avversione che altri, come cristiano, potesse avere contro Virgilio; la prima, che da molti veramente si credeva avere il poeta annunziata nella quarta sua ecloga la venuta di Cristo redentore; la seconda, che era opinione non meno diffusa l'Eneide contenere, sotto il velo dell'allegoria, sublimi verità morali. Abbiamo già veduto come la coscienza cristiana si giovasse di questi due espedienti, supposizione di una fede più o meno esplicita negli scrittori, interpretazione allegorica delle opere loro, per giustificare lo studio delle lettere classiche. L'interpretazione allegorica dell'Eneide si comincia a fare dagli stessi pagani e si seguita poi dai cristiani; l'altre opere di Virgilio contengono anch'esse arcane e riposte verità. Il cristiano Fabio Planciade Fulgenzio, non posteriore, come sembra, al VI secolo, nello strano suo scritto intitolato De continentia Vergiliana,si fa dichiarare, in

una maniera di visione, dallo stesso Virgilio, il soggetto proprio dei dodici libri dell'Eneide, il quale è la rappresentazione della vita umana e il figurato trionfo della sapienza e della virtù sull'errore e sulle passioni. Bernardo di Chartres e Giovanni di Salisbury serbano presso a poco la medesima interpretazione, e la serba ancora Dante, e la serbano in pieno Rinascimento Leon Battista Alberti e Cristoforo Landino. Poteva pertanto, senza incorrere in troppo solenne stravaganza, il famoso gesuita Hardouin, che dichiarava apocrife presso che tutte le antiche scritture, affermare nel secolo XVII l'Eneide essere fattura di un benedittino del trecento, e l'avventuroso viaggio di Enea figurare il viaggio di S. Pietro a Roma.

Virgilio regnava sovrano nelle scuole dove si attendeva agli studii di grammatica e di retorica, e fuori di quelle scuole, a chi si piccava di più peregrino sapere, porgeva argomento di speculazioni che usurpavano il nome di filosofiche. Letto, commentato, interpretato, Virgilio personificava in sè, non solo la grammatica e la retorica, ma tutto ancora il sapere dei tempi. Già Macrobio lo celebra come autore enciclopedico, tanto profondo nella scienza quanto ameno d'ingegno. Donato assicura che egli attese allo studio della medicina e della matematica, e pieno di ogni scienza lo dice Servio. Questa riputazione di onniscienza vien via crescendo nel medio evo, e se per Dante Virgilio è il savio gentil che tutto seppe, e il mar di tutto il senno, nel Dolopathos è il maestro amoroso e prudente che col suo sapere educa e in pari tempo salva il discepolo.

La grande opinione che si aveva del sapere di Virgilio conferiva naturalmente a rafforzar la credenza che il poeta avesse presentito alcun che della venuta di Cristo. Nè, in fatti, si poteva ammettere che un uomo qual egli era, versato in tutte le discipline più arcane, fosse rimasto interamente al bujo di un avvenimento che doveva rinnovare il mondo. Aggiungasi che una comune tendenza degli spiriti portava ad ammettere, come già notammo, che non pochi fra gli antichi, o per una speciale grazia del cielo, o per virtù del proprio ingegno, avessero indovinato qualche parte della verità bandita poi dal cristianesimo, e questa parrà certo ragione più che sufficiente a spiegare come i versi sibillini della IV ecloga, dove si parla della nascita di un fanciullo divino e del rinnovamento del mondo, potessero essere considerati quali una profezia circa la nascita di Cristo e il diffondersi della nuova fede. "L'autorità somma", dice il Comparetti, "di cui godeva Virgilio come

scrittore di un sapere straordinario, come primo fra gli antichi poeti ed anche come il migliore sotto il rapporto del buon costume, feceimpressione su molti teologi cristiani, i quali trattarono a fidanza con lui meglio che con altri poeti pagani, e non isdegnarono citar la sua parola, sia in appoggio di taluni grandi principii del cristianesimo, sia a dimostrare che egli era fra i pagani colui che meglio a queste verità si era avvicinato". Lattanzio ammette che Virgilio abbia annunziata la venuta di Cristo. Nella Oratio ad Sanctorum coelum, l'imperatore Costantino, o forse Eusebio sotto il nome di lui, si studia di provare che nella quarta ecloga Virgilio ha veramente profetizzato quella venuta; e tale opinione, contraddetta da San Girolamo, e più tardi da Sant'Isidoro, è accolta da Sant'Agostino. Prudenzio fa suoi in parte i versi famosi contenenti il vaticinio. Nel medio evo quella opinione è universalmente accettata, e Virgilio, insieme con la Sibilla e coi profeti, comparisce nei Misteri, specialmente della Natività, a fare contro la Sinagoga testimonianza della divinità di Cristo. In un mistero latino, dell'XI secolo, il Praecentor dice a Virgilio:

Vates Maro gentilium

Da Christo testimonium.

E Virgilio risponde:

Ecce polo demissa solo nova progenies est.

Se non che la supposta profezia dava luogo a due diverse opinioni, secondochè si credeva fatta dal poeta inconsapevolmente, in virtù di una ispirazione divina della quale il poeta stesso altro non era che il recipiente passivo, oppure si credeva fatta da lui con piena consapevolezza, e come credente. A quella prima opinione, che è, come vedremo, la seguitata da Dante, si lega un'altra curiosa credenza, secondo la quale San Paolo avrebbe pianto sulla tomba del grand'uomo, lamentando di non essere giunto in tempo per convertirlo. In certo inno che, durante ancora il secolo XV, si usava di cantare in Mantova ad onor di San Paolo, sono i seguenti versi, che esprimono il dolore dell'apostolo:

Ad Maronis mausoleum

Ductus, fudit super eum

Piae rorem lacrymae;

Quem te, inquit, reddidissem,

Si te vivum invenissem,

Poetarum maxime!

Secondo l'altra opinione Virgilio fu egli stesso cristiano. Giovanni d'Outremeuse, che ne fa anche un legislatore dei Romani, giunge a dire che egli annunziò ai senatori la venuta e la passione di Cristo, insegnò la dottrina della Trinità a certi egiziani, affermando la propria fede, e si fece battezzare in punto di morte. Ma molto prima, senza dubbio, vi furono spiriti, i quali non seppero capacitarsi, che il buono e gentile Virgilio non fosse salvo. Bellissima, e a tale riguardo molto istruttiva, è la leggenda che si narra in una vita di San Cadoco, diversa da quella pubblicata dai Bollandisti(24 Gennajo). Una volta San Cadoco, il quale fiorì nel V secolo, era in compagnia di San Gilda sulla riva del mare. Egli teneva sotto il braccio il volume di Virgilio, nel quale erasolito di ammaestrare i suoi discepoli, e piangeva in silenzio. Perchè piangi? gli chiese San Gilda. Piango, rispose quegli, perchè l'autore di questo libro che io amo, e mi porge così vivo diletto, è forse dannato alle pene eterne. Senz'alcun dubbio, soggiunse San Gilda. Dio non giudica questi favoleggiatori diversamente dagli altri uomini. In quel punto medesimo una folata di vento involò il libro e lo lanciò nel mare. Grande fu la costernazione di San Cadoco, il quale fece voto di non più mangiare nè bere finchè non gli fosse rivelato qual sorte serba Iddio a coloro che nel mondo cantarono come cantano gli angeli nel cielo. Preso dal sonno, egli udì una voce soave che diceva: Prega, prega per me; non istancarti di pregare, affinchè io possa celebrare in eterno cantando la misericordia del Signore. Il giorno seguente il santo ritrovò nel corpo di un salmone il libro di Virgilio, e il poeta senza dubbio fu salvo. Non mancò, del resto, chi giudicò Virgilio un vero pagano e un figlio del diavolo. Abbiam veduto già quali fantastici terrori il suo volume potesse inspirare: Enenkel dice di lui:

er was ein rechter heiden;

an rechtem glouben was er blint;

er was gar der helle kint.

Egual fortuna toccò ad Aristotile, da alcuni giudicato salvo, da altri irremissibilmente dannato.

Se per un processo normale, e quasi necessario, della coscienza cristiana Virgilio poeta pagano si trasforma in un profeta di Cristo, per un processo consimile dello spirito romantico e fantastico che domina tutta quanta la vita nel medio evo, il poeta si trasforma in mago. La base su cui si fonda tutta la favola della magia di Virgilio è la grande opinione che si ha del costui sapere. Per questo rispetto è da dire che nella tela

amplissima delle finzioni virgiliane non v'è discontinuità, e che tutte, in ultima analisi, si possono ridurre a uno stesso principio, ch'è quello della impareggiabile celebrità di Virgilio. Mi duole di dovermi qui scostare dalla opinione del Comparetti, il quale troppo recisamente separa, a mio credere, quella ch'egli chiama la leggenda letteraria di Virgilio da quella che dice popolare, alla quale ultima solamente attribuisce le finzioni tutte che riguardano il mago. "Chi domandasse", sono le sue proprie parole, "se di per sè solo il tipo scolastico di Virgilio dovesse senz'altra occasione, per trasformazione naturale e per associazione d'idee, cambiarsi in quel tipo di mago che poi descriveremo, io non esiterei a rispondere di no. Che l'antico savio si cambi in mago è fatto di cui rari sono gli esempi, e quando accade ha luogo per puro cambio di nome e in modo momentaneo; nonv'ha antico che arrivi mai a quel largo e completo ciclo di leggenda biografica che ebbe il Virgilio mago". Qui v'è luogo a più di una osservazione, e non ispiacerà, spero, al lettore, che io mi vi soffermi alquanto, essendo la questione di non picciol momento pel tema che ci occupa. Che nessun antico abbia avuto mai il largo ciclo di leggenda biografica che ebbe Virgilio è fatto innegabile, e che in parte si spiega con la maggiore nominanza di questo, in parte con altre ragioni a cui verrò fra poco; ma non mi pare si possa con egual sicurezza sostenere che il tipo scolastico di Virgilio non avrebbe potuto per semplice trasformazione naturale, e per associazione d'idee, cambiarsi nel tipo di Virgilio mago, chè anzi credo si debba francamente affermare il contrario. Una naturalissima associazione d'idee portò sempre gli spiriti nel medio evo a confondere in uno il mago ed il savio, giacchè qualunque scienza eccedesse allora i termini della più comune coltura, si stimava magia, non solo dagl'intelletti più grossi, ma da quelli ancora più intendenti e più colti. Gerberto, Ruggiero Bacone, Alberto Magno furono tenuti in conto di maghi, e degli antichi troviamo aver corso la medesima sorte nel medio evo, oltre ad Apollonio Tianeo, la cui leggenda presenta non pochi tratti di somiglianza con quella di Virgilio, anche Platone, Aristotile e forse altri. Nel Libro Imperiale abbiam veduto trasformato in grande negromante lo stesso Giulio Cesare. Nel Romans d'Alixandre si parla di una colonna eretta da Platone in Atene, la quale colonna, alla cento piedi, aveva in cima una lampada che rischiarava tutta la città. Questo Platone fantastico, profeta anch'egli di Cristo, come abbiam veduto, e operatore di meraviglie, è un perfetto parallelo di Virgilio profeta e mago, salvo che la leggenda di lui rimane per così dire in embrione, mentre quella di Virgilio si svolge e si accresce. Di Aristotile si

narrava, come ho già accennato, che volle sepolti con sè i suoi libri, e perchè nessuno più potesse giovarsene, rese il proprio sepolcro inaccessibile, storia narrata poi con qualche diversità anche di Virgilio. Qui pure la leggenda prende argomento dalla gran fama del sapere di Aristotile, a cui nel medio evo, quasi che le opere da lui veramente composte non paressero a quella fama adeguate e sufficienti, altre strane scritture, secondo il gusto dei tempi, si attribuivano. Il Mandeville racconta nel favoloso suo libro che sul sepolcro di Aristotile i gentili avevano alzato un altare e ogni anno vi celebravano una festa, stimando di avere da lui la sapienza. Qui si tratta, non di leggenda popolare, ma di letteraria,giacchè ogni sospetto di leggenda popolare è escluso dal nome stesso di Aristotile. Il poeta tedesco Rumeland nomina Platone, Aristotile, Ippocrate e Virgilio quali maestri di meraviglie.

Senza punto uscire dalla tradizione letteraria, qualunque reputato scrittore poteva giungere ad assumere carattere di mago, ma più, o meno, secondo che mille diverse ragioni, o la fortuna portavano. A mio credere, nel caso di Virgilio era assai difficile che, o prima o poi, il gran concetto che si aveva del sapere del poeta non desse luogo alla opinion di magia. Quanto della sua dottrina si leggeva negli scrittori più antichi, in Macrobio, in Servio, in Donato, predisponeva a tale credenza. Nel c. III della Vita Donato mostra Virgilio provveduto di una cognizione pressochè miracolosa dei pregi e dei difetti degli animali; Apulejo afferma che nell'ecloga VIII Virgilio mostra amplissima conoscenza delle pratiche di magia. Il nome stesso del poeta pareva ai fantastici etimologi del medio evo contenere la indicazione di una sterminata dottrina, e Marone si faceva venire dal mare, cui quella dottrina era pari in vastità. I prodigi che, secondo antiche testimonianze, avevano accompagnato la nascita di tant'uomo, dovevano ancor essi sollecitare gli spiriti a mettere costui sempre più in alto, in una sfera a sè, dotandolo di virtù e di potenze negate alla comune degli uomini, giacchè in tempi di grande scadimento intellettuale quei prodigi dovevano parere soverchi se intesi solo a segnare la nascita di un grande poeta, ma convenienti a qualcosa di più straordinario e di men naturale. Il medio evo non era più in grado di intendere perchè alla nascita di un semplice poeta, e fosse pure il principe dei poeti, dovesse turbarsi l'ordine di natura, mentre gli doveva parer ragionevole che ciò accadesse nascendo colui che sulla stessa natura avrebbe poi esercitato il suo meraviglioso potere. Il nome della madre Maja, quello supposto di Majus o Magius, avo materno di Virgilio, nome che avrebbe anche assunta la forma Magus, potevano facilmente

far nascere l'idea che nella famiglia del poeta ci fosse come una tradizione di magia; e il sesto canto dell'Eneide, dove si descrive la discesa di Enea all'Inferno, doveva contribuire ancor esso ad accreditare sempre più la credenza che Virgilio avesse relazione col mondo degli spiriti, e dell'opera degli spiriti potesse a suo talento giovarsi. Si sapeva inoltre che, prima di morire, egli aveva lasciato l'ordine di bruciar l'Eneide; e poichè in tempi di barbarie intellettuale non è agevole intendere, che un poeta voglia distruggere l'opera propria per non avere in essa raggiunto la vagheggiata perfezione, doveva nascere il dubbio che con quell'ordine Virgilio avesse voluto privare la posterità della conoscenza de' suoi mirabilisecreti, cosa questa, come abbiam veduto, esplicitamente affermata di Aristotile, ma affermata anche di altri maghi gelosi del proprio sapere. Già appo gli antichi era venuto in uso di aprire, in casi dubbii, i libri di Virgilio, e di considerare come un responso il primo passo in che il lettore si abbattesse; e questa pratica, conosciuta sotto il nome di Sortes Virgilianae, fu conservata nel medio evo, insieme con altre pratiche simili, alle quali si facevano servire le Scritture e le Vite dei Santi. Tutti questi fatti e queste ragioni mi pare dovessero aver forza sufficiente a far nascere, dentro la stessa tradizione letteraria, la leggenda di Virgilio mago, sebbene per condur poi questa al grado di svolgimento che in effetto raggiunse, fossero necessarii, come or ora vedremo, fatti e ragioni d'altra natura.

Quale fosse il tipo di Virgilio per cotal modo formatosi nella tradizione letteraria mostra il Dolopathos di Giovanni di Alta Selva, di cui fu pubblicato or sono pochi anni, il primitivo testo latino. Questo romanzo altro non è, come è noto, che una versione del popolarissimo racconto dei Sette Savii, ma con proprie particolarità, fra cui la introduzione di Virgilio nella favola come uno dei personaggi principali. Il contenuto di esso è, in brevi parole, il seguente. Dolopathos, re di Sicilia ai tempi di Augusto, e sposo di una figliuola di Agrippa, ha un figlio per nome Luscinio, la cui educazione affida a Virgilio, famosissimo poeta, il quale, nativo di Mantova in Sicilia, fioriva in Roma a quel tempo. Virgilio comincia ad insegnare al discepolo i primi elementi del sapere, compone per esso un libretto in cui, in forma compendiosissima, è raccolta tutta la dottrina delle Sette Arti, gli fa conoscere certe regole in virtù delle quali, osservando i pianeti, e i mutamenti dell'aria, può conoscere qualunque cosa avvenga nell'universo, e nulla insomma gli lascia ignorare di quanto egli sa. Fatto pari al maestro, il discepolo, usando dell'acquistata sapienza, conosce i secreti pensieri degli uomini, e in grazia di tale

conoscenza scampa da grave e imminente pericolo; ma questo passato, un altro già ne prevede Virgilio, il quale a scongiurarlo, impone al discepolo, che si accinge a far ritorno nella casa paterna, di serbare il più rigoroso silenzio fino a che egli stesso, Virgilio, non l'abbia raggiunto. Il nuovo pericolo doveva venire dalla stessa matrigna di Luscinio, la quale Dolopathos, perduta la prima moglie, aveva di fresco sposata. Luscinio osserva il comandamento del suo maestro. Giunto in corte del padre non pronunzia parola checchè gli si dica. La nuova regina, innamoratasi di lui, lo conduce nelle sue stanze, sotto pretesto di volerlo togliere al suo ostinato silenzio,e gli confessa la propria passione. Respinta dal giovane, ella, indispettita, lo accusa di averle voluto usare violenza, di che sdegnato altamente il padre lo vuol far morire. Ma per sette giorni consecutivi sette savii, raccontando ciascuno ogni giorno una novella, riescono a ritardare l'esecuzione della sentenza, finchè sopraggiunto l'ultimo giorno Virgilio proscioglie il giovane dall'obbligo del silenzio, e fatta palese la verità, la regina è bruciata viva. La storia seguita dopo ciò narrando la morte di Dolopathos e di Virgilio, la venuta di Cristo, la conversione di Luscinio, che prende nel battesimo il nome di Prisco, e lasciato per sempre il regno, se ne va in pietoso pellegrinaggio a Gerusalemme. L'autore chiude il racconto pregando il lettore di non pensare ch'egli abbia scritte cose incredibili od impossibili, e invitando chi ciò pensasse a dire egli stesso come potessero i maghi di Faraone mutar le verghe in serpenti, e far uscire dalle paludi le rane, e mutar l'acque del Nilo in sangue, come potesse la Pitonessa suscitar Samuele, e come Circe mutare in bruti i compagni di Ulisse.

Qui Virgilio non è ancora il facitor di miracoli e il fabbricator di telesmi della leggenda più matura, ma presenta già molti dei caratteri del mago, e di magia sa più particolarmente quanto l'autore narra di lui morente, che per tal modo strinse nel pugno quel suo libretto, ove tutta era chiusa la dottrina delle Sette Arti, che nessuno fu poi buono a strapparnelo. Anche questa favola avrà più tardi svolgimenti curiosi, come vedremo. Giova intanto notare che il carattere mostrato qui da Virgilio si è quello dell'uomo virtuoso che adopera la scienza sua e il più che naturale potere in difesa della virtù e della giustizia, carattere che poi lungamente conserva nella leggenda, e che solo poteva accordarsi con la riputazione di lui, quale dalla tradizione letteraria era stata consacrata. E che qui noi ci troviamo veramente di fronte alla tradizione letteraria non può nascer dubbio; anzi tutto perchè quella introduzione di Virgilio in un racconto che aveva già la sua forma fissata tradisce a

primo aspetto l'arbitrio letterario, mentre attesta una volta di più la celebrità del poeta; poi ancora perchè il monaco autore del libro si rivela ad ogni passo uomo sufficientemente provveduto della comune coltura del tempo suo. Il Comparetti fa giustamente osservare che nel Dolopathos "il concetto di Virgilio ci si presenta in quell'ultimo gradino dell'idea letteraria che più si approssima al livello popolesco", ma, in pari tempo, che è tanto reale la conoscenza che l'autore di esso ha di Virgilio "che la cornice cronologica dell'opera sua è stata da lui inventata, secondo richiedeva l'introduzione diun tal personaggio in essa". Il suo tipo di Virgilio è quale poteva risultare "dall'idea scolastica, veduta dal punto di vista liberamente fantastico del romantismo", talchè sotto quella figura così travestita del poeta "c'è il Virgilio delle scuole medievali, il Virgilio dei grammatici e degli autori di compendii delle sette arti".

Quando il Comparetti recava tali giudizii conosceva del Dolopathos la sola versione francese fatta nel XIII secolo da Herbers, e inclinava a credere che il testo latino, di cui il Mussafia aveva già fatto conoscere l'esistenza, potesse essere una riduzione del francese. Ch'esso sia, non riduzione, ma originale, è ora fuori di dubbio, e la composizione sua si può con molta probabilità far risalire all'anno 1184 o 1185, che è quanto dire ad un tempo in cui la leggenda di Virgilio mago propriamente detta, non era ancora largamente diffusa in Europa. Il Virgilio del Dolopathos non mostra d'aver ricevuto in nessun modo gl'influssi della leggenda popolare, la quale anzi, a più di un segno, si vede essere stata interamente ignorata dal monaco di Alta Selva. Per non allungar troppo il discorso mi basterà di recarne una sola, ma convincentissima prova. La leggenda popolare, d'accordo con la tradizione letteraria, colloca il sepolcro di Virgilio in Napoli, dove porge argomento a più di una favola; Giovanni d'Alta Selva dice invece che l'urna d'oro che raccoglieva le ossa di Virgilio, fu da Luscinio posta in quella Mantova di Sicilia di cui il poeta era nativo. Gli è inutile di andare a ricercare per quale strano errore Giovanni d'Alta Selva ponesse Mantova in Sicilia; ma ciò prova abbastanza ch'egli non conobbe la leggenda popolare, di cui quella parte appunto dove si parla della sepoltura di Virgilio, ebbe tale notorietà che nel XII secolo un trovatore di Provenza poteva fare intendere che parlava di Virgilio con solo dire:

. . . . . cel que jatz on la ribeira

lai a Napols.

La tradizione letteraria poteva dare il Virgilio del Dolopathos, ma poteva anche dare, e diede probabilmente, un Virgilio più meraviglioso e più simile al Virgilio mago della leggenda. Su di ciò avrò a tornare quanto prima; ma facciamoci ora a considerare la leggenda in una nuova sua fase, che è quella della immaginazione popolare, e vediamo quali nuove finzioni essa ci presenti, e sino a che punto meriti il predicato di popolare, e sia da distinguere e da separare dalla tradizione letteraria. Le finzioni che più rigorosamente si tengono dentro i limiti di questa, o non si localizzano, oppure derivano da sorgenti, dirò così, non localizzate: nascono un po' qua un po' là, fluttuano nell'ambiente letterario del tempo, e non escono,in generale, dai libri. Ma ecco che ad un tratto noi vediamo penetrare nella leggenda una forte corrente di finzioni nuove, le quali mostrano fra loro una certa continuità, si distinguono per certi caratteri speciali e spiccati, e provengono da un unico luogo. Questo luogo è Napoli, ed esse costituiscono quella che più particolarmente il Comparetti addimanda leggenda popolare di Virgilio. Vediamo anzi tutto quali sieno le finzioni in discorso; la storia loro ci presenta, fra l'altre, questa singolarità, che, nate in Italia, esse sono, assai prima che da Italiani, raccolte e divulgate per l'Europa da stranieri.

Corrado di Querfurt, nella già citata sua epistola ad Arnoldo di Lubecca, scritta nel 1194, ne riferisce parecchie. Corrado aveva ricevuto dall'imperatore Arrigo VI suo signore, l'ordine di smantellar Napoli, ciò che fu da lui puntualmente eseguito. Nella citata epistola egli accenna al fatto, e dice come a scongiurarlo non avesse giovato certa ampolla in cui, per arte magica, Virgilio aveva rinchiusa una immagine della città da lui fondata. I Napoletani tenevano quel talismano in gran conto, e credevano che durando esso intero, nessun danno poteva incogliere la loro città. Corrado che afferma d'averla avuta tra mani, soggiunge che l'ampolla aveva forse perduta la sua virtù in causa di una piccola fenditura che vi s'era fatta. Ma nella città di Napoli altri miracoli di Virgilio si vedevano: un cavallo di bronzo che mentre durava nella sua integrità aveva virtù di preservare i cavalli dal fiaccarsi la groppa; una mosca pure di bronzo che teneva lontane da Napoli tutte le mosche; una porta detta Ferrea, dietro la quale Virgilio aveva chiuso tutti i serpenti, copiosissimi in quella regione, la quale porta egli, Corrado, aveva temuto di distruggere, dubitando che i serpenti non uscissero a molestare di bel nuovo la popolazione; un macello in cui la carne si serbava fresca lo spazio di sei settimane; una statua di bronzo con l'arco teso, la quale, prima che certo villano le facesse scoccar la freccia, frenava le eruzioni

del Vesuvio. Corrado fa anche ricordo dei bagni costruiti da Virgilio in vicinanza di Baja, i quali guarivano da tutte le infermità; e delle ossa di Virgilio, custodite nel Castel dell'Ovo, dice che, esposte all'aria, avevano virtù di far turbare il cielo, sconvolgere il mare, e provocare improvvisa procella, cosa da lui medesimo sperimentata.

Gervasio di Tilbury, il quale fu a Napoli nel 1190, parla ancor egli di Virgilio e dei miracoli da lui operati in pro' di quella città, nei suoi Otia imperialia, scritti nel 1212. Egli omette le favole del palladio della città e del cavallo di bronzo, riportate da Corrado, ma altre ne narra, dacostui ignorate, o taciute, mentre nel riferire le rimanenti s'accorda col suo predecessore, salvo qualche variante di maggiore o minore rilievo, su cui non importa che io mi trattenga altrimenti, ma che dimostra come l'uno e l'altro scrittore attingesse direttamente dalla tradizione popolare, mutevole sempre ed incerta. Le favole da lui riferite, e di cui non si trova traccia nell'epistola di Corrado, riguardano due teste di marmo pario poste da Virgilio ad una delle porte della città, l'orto di Virgilio sul Monte Vergine, e la famosa Grotta di Pozzuoli. Quanto al primo miracolo l'autore assicura di averne fatto sperimento egli stesso. La testa di destra aveva aspetto ilare e ridente, quella di sinistra addolorato e torvo; chi, varcando la porta, passava a destra, menava a prospero fine tutte le sue faccende; chi per contro passava a sinistra, scapitava in tutte le cose sue e rimaneva defraudato d'ogni speranza. Nell'orto di Virgilio, posto fra aspri dirupi sul Monte Vergine, erano molte qualità di erbe, fra cui l'erba Lucia(herba Lucii), che aveva virtù di restituire la vista alle pecore cieche; ivi stesso era una statua di bronzo con una tromba in bocca, la quale respingeva le ceneri e i vapori vomitati dal Vesuvio. Nella Grotta di Pozzuoli, in grazia dell'arte matematica di Virgilio, nessun nemico poteva nuocere all'altro.

Nei racconti di Corrado di Querfurt e di Gervasio di Tilbury, Napoli ci si presenta come un gran focolajo di leggende virgiliane; ma se questi due scrittori furono i primi a diffondere largamente per l'Europa quelle favole, non furono però i primi a conoscerle e a registrarle. Nel suo Polycraticus, messo in luce nel 1159, Giovanni di Salisbury, il quale aveva viaggiato tutta l'Italia, narra per disteso la storiella della mosca di bronzo, non senza alcune particolarità importanti, su cui mi converrà ritornare, e nel 1180 allude alla medesima storiella l'autore di una poesia satirica contro gli ecclesiastici. Alessandro Neckam nel suo trattato De naturis rerum, compilato, secondo ogni probabilità fra il 1180 e il 1190, ricorda, oltre al

macello che conservava illesa la carne, alcuni altri miracoli operati da Virgilio, de' quali non si trova fatto il benchè minimo cenno nè da Corrado, nè da Gervasio, il che dimostra quanto la leggenda fosse copiosa, e lascia luogo al dubbio che di altre finzioni, per non essere state raccolte da nessuno scrittore, siasi perduta ogni traccia. Egli dice che essendo Napoli infestata da infinite sanguisughe, Virgilio la liberò immergendo in un pozzo una sanguisuga d'oro, e soggiunge che dopo molti anni, estratta questa dal pozzo, l'antico flagello ricominciò ad affliggere la città; parla poi dell'orto di Virgilio, cinto da un muro di ariaimmobile, e di un ponte aereo di cui il poeta si serviva a suo senno. Ricorda i bagni di Salerno e di Montepulciano, da lui costruiti, e del macello dice che per virtù di certa erba postavi da Virgilio, la carne che v'era stata rinchiusa cinquecento anni fu trovata freschissima ed ottima al gusto, mentre Corrado non parla che di sei settimane, e Gervasio non fissa nessun termine di tempo, e attribuisce la virtù miracolosa ad un frusto di carne dallo stesso Virgilio chiuso in una parete del macello. Finalmente, cosa di non poca importanza in tale argomento, Alessandro Neckam è, degli scrittori di quella età le cui opere sono insino a noi pervenute, il primo a riportare la tradizione che faceva costruire da Virgilio la Salvatio Romae, di cui ho lungamente parlato a suo luogo.

Alessandro Neckam non pare che sia mai stato a Napoli, e nemmeno in Italia; ma appunto per ciò la sua testimonianza ha un valore particolare, perchè prova che la leggenda di Virgilio mago, se non era ancora così universalmente nota come ebbe ad essere poi, tuttavia era già uscita dall'Italia, e per raccoglierla non era più necessario di venir sino a Napoli. Corrado di Querfurt e Gervasio di Tilbury non narravano dunque cose in tutto nuove, ma cose ancora imperfettamente e da pochi conosciute. La sua testimonianza, del resto, si accorda pienamente con quella più antica di Giovanni di Salisbury, e con quelle più recenti di Corrado e di Gervasio, per mostrar Napoli teatro principalissimo della operosità magica di Virgilio, giacchè, se si tolgono i bagni di Montepulciano, il ponte aereo, di cui non è detto dove fosse, e la Salvatio Romae, le altre meraviglie sono da lui tutte collocate in Napoli.

Ma a questo punto può nascere un dubbio. Le leggende che pongono in Napoli le meraviglie operate da Virgilio sono esse stesse napoletane, oppure sono leggende nate un po' qua e un po' là per l'Europa, le quali solamente localizzano in Napoli i fatti che narrano? c'è veramente una leggenda popolare di Virgilio, o le favole che di lui si narrano altro non

sono che immaginazioni di letterati? La opinione del Comparetti, che fermamente crede ad una leggenda popolare napoletana, raccolta e poi diffusa dagli scrittori in Europa, ma distinta e indipendente dalla tradizione letteraria, fu impugnata da Guglielmo Vietor, ma, secondo ch'io penso, in parte almeno, a torto. La leggenda napoletana popolare ci fu, ma non fu per avventura così sciolta dalla tradizione letteraria come sembrò al Comparetti, e non è provato che sia stata tutta popolare sin dalle origini, mentre alcuna particolare finzione potè nascere nell'ambiente letterario e passarquindi a dimesticarsi tra il popolo.

Esaminiamo un po' più attentamente la questione.

Corrado di Querfurt parla come testimonio oculare di alcune almeno delle meraviglie che descrive; egli dice di avere avuto tra le mani l'ampolla, in cui Virgilio aveva per arte magica chiusa una immagine della città, e di essere stato spettatore della turbazione degli elementi che provocavano le ossa del poeta esposte all'aria: Gervasio di Tilbury si fa narrare da un arcidiacono napoletano, Giovanni Pignatelli, la favola delle due teste di bronzo ricordata pur ora. Ma tanto Corrado, quanto Gervasio, non sono scrittori nelle cui parole si possa avere gran fede, giacchè, non solo essi accettano alla cieca, e rinarrano qualsiasi fanfaluca più stravagante, ma spesso ancora mentiscono per conto proprio nel modo più grossolano e palese. A rigore può dunque nascere il dubbio che Corrado siasi sognata l'ampolla magica, della cui esistenza egli è, del resto, unico mallevadore, che Gervasio abbia inventato il suo colloquio coll'arcidiacono Giovanni Pignatelli, e forse l'arcidiacono stesso, e che nè l'uno nè l'altro abbia mai veduto nè il famoso macello, nè il cavallo di bronzo, nè la Porta Ferrea, nè l'altre meraviglie di cui raccontano, per la ragione semplicissima che tali meraviglie non esistevano altrove che nelle favole in cui se ne parlava, e che, per ipotesi, avevano potuto essere immaginate da uomini i quali non conoscessero Napoli altrimenti che di nome. Ora, se alcune almeno di tali meraviglie non fossero veramente esistite in Napoli, bisognerebbe senz'altro rinunziare alla congettura di una leggenda popolare: giacchè, se le favole di origine letteraria ed erudita possono reggersi da sè, senz'altro appoggio, nella fantasia, le finzioni veramente popolari amano di legarsi a qualche cosa di reale, e il più delle volte anzi traggono appunto la origine da una realtà, sotto l'impero di una credenza, o di un sentimento, malamente veduta o malamente interpretata. Il Vietor dice a tale proposito: noi non dobbiamo considerare le singole leggende

"come legate, in generale, a capi d'arte napoletani, ma bensì come fondate sul concetto che i letterati avevano del soprannaturale sapere di Virgilio, specialmente in matematica e in medicina". A questa affermazione se ne può contrapporre un'altra più probabile e più legittima, e dire che quella grande opinione del sapere di Virgilio, scontrandosi con certi capi d'arte esistenti in Napoli, dava origine a quelle leggende. E l'esistenza di alcuni almeno tra i capi d'arte in discorso non si può ragionevolmente mettere in dubbio. Il cavallo di bronzo esisteva veramente, e la testa di esso conservasi ancora nel Museo Nazionale di Napoli. Le due facce di pietra, ricordate di sopra, un vecchio scrittore napoletano che fioriva nella prima metàdel XVI secolo, Giovanni Scoppa, assicura di averle vedute. I bagni di Pozzuoli furono un tempo celebri per tutta l'Europa. E per la stessa ampolla descritta da Corrado si ha qualche buona ragione di credere che non fosse cosa di pura invenzione.

Ma altre ragioni si possono addurre in appoggio dell'opinione del Comparetti, circa l'esistenza di una leggenda popolare e napoletana di Virgilio. Supponiamo per un momento che tale leggenda non sia mai esistita: ecco, subito viene alle labbra una domanda: com'è che la leggenda letteraria, nata non si sa dove, ma certamente in luoghi diversi, inventata non si sa da chi, ma certamente da parecchi, giacchè in nessuno degli scrittori citati sin qui trovasi intiera, come va che così ostinatamente si rivolge a Napoli, e fa Napoli sede di tutte le sue meraviglie? Perchè, risponde il Vietor, nella Vita di Virgilio si leggeva che il poeta andava assai di rado a Roma, e a Napoli attendeva a' suoi studii di matematica e di medicina, e quivi era stato sepolto. La ragione è assai debole. Più che alla Vita si sarebbe posto mente all'Eneide, dove Roma si vede stare in cima a tutti i pensieri del poeta; e se la leggenda letteraria fosse proceduta tant'oltre, quant'era mestieri, le finzioni concernenti Virgilio mago si sarebbero senza dubbio legate alla città da lui celebrata nell'immortale poema. Si guardi inoltre all'indole comune delle leggende che fanno capo a Napoli; uno solo è il pensiero che le inspira. In esse tutte Virgilio apparisce quale il protettore, il genio tutelare di quella città; e un tal fatto, quanto riesce naturale a chi ammette l'esistenza di una leggenda popolare formatasi appunto in Napoli, altrettanto deve parere strano a chi non ammette altra leggenda che la letteraria, parto di fantasie interessate alla maggior glorificazione di Virgilio, ma indifferenti alla salute di una città che forse nemmen conoscevano. La preoccupazione costante della sicurezza e della prosperità di Napoli, così

manifesta in tutte le finzioni ricordate di sopra, par tanto più caratteristica, quanto più si vede scemare nelle finzioni di tempi posteriori, dove la potenza magica di Virgilio non solo si esercita sopr'altro teatro, ma spesso ancora è adoperata con tutt'altri intendimenti e volta a tutt'altri fini. A ragione dice però il Comparetti la parte più antica della leggenda di Virgilio mago dover essere "l'idea di un protettorato che Virgilio esercitò in vita sua sulla città di Napoli". Che se noi vogliamo andare a cercare la ragione e l'origine di tale idea, non dobbiam molto dilungarci per questo, e il Comparetti ben si appone senza dubbio quando afferma "che la presenza a Napoli del sepolcro di Virgilio,è uno dei fatti principali che spiegano la permanenza del nome di lui nelle tradizioni del popolo napoletano". Una opinione d'ignota origine, ma riferita sino dal 1136 da Alessandro di Telese, secondo la quale, in premio di quel distico che comincia Nocte pluit tota, Virgilio ebbe in feudo da Augusto Napoli e la Calabria, contribuiva per parte sua a confermare quella idea del protettorato.

Il sepolcro di Virgilio in Napoli godette nell'antichità di grandissima nominanza. Stazio lo chiama un tempio, e vanto di Napoli lo stima ancora nel V secolo Sidonio Apollinare. È assai probabile che tale nominanza continuasse lungo il medio evo, e che in Napoli si mostrasse un sepolcro, a ragione o a torto detto di Virgilio. Fatto sta che a mezzo del XII secolo le ossa del gran poeta, o quelle che per tali passavano, erano ricercate come preziosa reliquia. Giovanni di Salisbury parla di un Ludovico, da lui conosciuto, il quale dopo molte vigilie e digiuni e fatiche, avrebbe voluto in premio del suo inutile esilio, riportare in Francia, non lo spirito, ma le ossa di Virgilio. Gervasio di Tilbury narra per disteso il fatto accennato appena da Giovanni, ma aggiungendovi, senza dubbio di suo capo, molte particolarità romanzesche. Certo maestro inglese, uomo di straordinario sapere, ottiene dal Re Ruggiero di Sicilia di potersi impadronire delle ossa di Virgilio in qualunque luogo del regno si trovino. Va a Napoli, scopre per arte magica il sepolcro del poeta, sconosciuto al popolo, e vi trova, insieme colle ossa un libro di arte notoria. Ma il popolo, pensando alla speciale affezione che Virgilio aveva avuto per la città, temendo che dalla sottrazione delle ossa di lui possa venirgli qualche gran danno, non vuole gli sieno tolte, e solo concede al maestro il libro. Richiesto costui che cosa volesse fare dell'ossa, risponde che voleva per incantesimi forzarle a rivelargli tutto il sapere di Virgilio. Le reliquie del poeta furono messe in un sacco e custodite dietro una grata di ferro nel Castello di mare, o Castello dell'Ovo. Gervasio assicura di

aver veduto alcuni estratti del libro. In questo racconto è certa la domanda delle ossa, probabile la ragione di essa, ma falsa certamente l'asserita ignoranza del popolo napoletano circa il luogo dove era, o si credeva sepolto il poeta. Ad ogni modo esso concorre a provare che tra il popolo Virgilio passava già per una specie di genio tutelare e benefico, e questa credenza appunto era quella che dava origine alla leggenda.

Ma l'esistenza della leggenda popolare si conferma ancora per altre prove e per altre testimonianze. Cadente il secolo XIV, Bartolomeo Caracciolo, detto Caraffa, cavaliere napoletano, compose unaCronaca di Partenope, per dichiarazione dello stesso autore compilata sopra diverse cronache. Egli narra le favole riguardanti Virgilio, non perchè vi creda, ma per non fraudare la fama de lo ingeniosissimo Poeta, o vera o falsa. Attinge, per sua stessa confessione, da Gervasio, da un Alessandro, che non può essere altri che Alessandro Neckam, del cui trattato De naturis rerum è tuttavia da credere che egli conoscesse solamente una redazione alterata e interpolata, ma ancora, e questo vuol essere notato, dalla bocca stessa del popolo. Ciò non può essere posto in dubbio, giacchè, non solo nelle favole ch'egli ha comuni con Gervasio e con Alessandro si notano alcuni particolari che appartengono evidentemente ad una tradizione propria e speciale, alquanto diversa da quella raccolta dagli scrittori; ma ancora, nelle favole che egli è solo a riportare, l'origine napoletana e il carattere popolaresco sono così patenti che non so come si potrebbero con qualche apparenza di ragione negare. Valgano quali esempii quella del pesciolino fatto intagliar da Virgilio sopra una pietra nel luogo denominato appunto Pietra del Pesce, per benefizio del qual talismano Napoli fu poi sempre copiosa di pescagione, e l'altra del giuoco di Carbonara ordinato dal medesimo Virgilio. La esistenza della leggenda popolare conferma inoltre il medesimo scrittore quando dice che la Grotta di Pozzuoli era dal volgo addimandata Grotta di Virgilio(dal volgo, non dai letterati), e quando infine, scusandosi delle molte favole riferite sul conto del poeta, avverte: "Io potria del dicto Virgilio dicere multe altre cose, le quali ho sentito dicerese de tale homo, ma perchè in major parte mi pareno favolose, et false, non ho voluto al tutto implire la mente de li homini de sogni". E si ponga mente che qui l'autore parla, non di cose lette, ma di cose udite dire. In sul finire del secolo XIV c'era dunque in Napoli una leggenda popolare di Virgilio, e s'inganna a partito il Vietor quando asserisce che tale leggenda cominciò solo a spargersi tra il popolo napoletano nel principio del secolo presente. Come spiegare il fatto? come credere che della leggenda viva e rigogliosa in Napoli circa

il 1380, non ci fosse nemmen vestigio due secoli innanzi, quando Corrado di Querfurt e Gervasio di Tilbury la raccolsero? d'onde vi sarebb'essa venuta? come ci si sarebbe diffusa? Per ispiegare il fatto, chi non ammette la esistenza di una leggenda popolare primitiva, e la continuità della tradizione, deve necessariamente ricorrere ad una ipotesi assai meno fondata e plausibile, e dire che la leggenda sia passata, in successo di tempo, dal dominio letterario nel dominio popolare. Assolutamente parlando, un fenomeno di tal sorta non è per nullaimpossibile, e ce ne ha degli esempii; ma nel caso presente non so in qual modo avrebbe dovuto seguire. Quando la leggenda apparisce per la prima volta nella letteratura napoletana, il popolo di Napoli già la conosce. Bisognerebbe dunque dire che questo popolo la ricevesse dalla letteratura straniera, e più particolarmente dalla latina, di carattere, essenzialmente erudito. Quanto una tale congettura possa dirsi probabile ognuno giudichi da sè. Ma pure, ammessa in principio la cosa come possibile, non s'intende perchè il popolo dovesse innamorarsi di quella leggenda, il popolo che si suppone ignaro, o non curante del nome di Virgilio, e a cui naturalmente non avrebbe dovuto garbare gran fatto che finzioni straniere si sovrapponessero qua e là a' suoi monumenti, intorno ai quali egli doveva pure avere, come ogni altro popolo ha, le sue vecchie credenze e la sua tradizione costituita.

La fede nella potenza tutelare e benefica di Virgilio è il principio di cui si genera la leggenda popolare, ma in pari tempo è l'anello che unisce questa leggenda alla tradizione letteraria. I due fatti, non solo non si escludono, ma anzi il primo suppone il secondo, e tutt'a due a vicenda s'illustrano. Se non fosse stata la tradizione letteraria, e se in questa tradizione non si fosse continuamente ravvivata la memoria e magnificato il nome di Virgilio, non sarebbe nato nel popolo quel sentimento di affettuosa ammirazione che, fecondato dalla fantasia, genera le leggende. Si può tener per fermo che quanti forestieri colti giungevano in Napoli nel tempo che la leggenda prese a formarvisi, domandavano di vedere, tra l'altre meraviglie della città, anche la tomba di quel Virgilio che fu non solo il principe dei poeti, ma ancora il maggiore dei savii, e uno dei profeti di Cristo. La tomba di lui diveniva segno di pietosa venerazione, non altrimenti che se fosse stata di un santo; e come nella ingenua credenza dei tempi le tombe dei santi erano considerate palladii delle città, così ancora fu considerata la tomba di Virgilio, e come i santi si mutavano in protettori, così qui si mutava in protettore il poeta. Giustamente dice il Comparetti: "Il popolo adunque

non faceva altro a Napoli se non trarre conseguenze materiali dal concetto che i letterati d'allora si formavano di Virgilio, e questo era tale che i letterati stessi non si maravigliavano di quei racconti". E che la primitiva leggenda della magia di Virgilio venga fuori in certo qual modo dalla tradizione letteraria prova ancora il carattere di questa magia, dove, in tempi di cupa superstizione, nulla appar di diabolico: solamente più tardi, nella leggenda degenerata, Virgilio è messo in relazione congli spiriti delle tenebre.

Ma al concetto di Virgilio mago la tradizione letteraria sarebbe giunta anche da sè, e forse abbiamo la prova in mano che veramente vi giunse. Gli è difficile credere che così non avvenisse in un tempo in cui sapere e magia sonavan quasi sinonimi; e il Comparetti separa troppo, mi sembra, la leggenda popolare dalla tradizione letteraria, che così potentemente aveva contribuito a farla nascere. La leggenda in questo caso non fa che accelerare e rendere più intensi certi processi della tradizione. Nel medio evo, tra pensiero popolare e pensiero letterario o erudito, non v'è quella sostanziale disparità, e quella separazione profonda che solo appartengono a tempi d'illuminata coltura, dominati dallo spirito critico; e nella letteratura di quel tempo entrano liberamente e si adagiano le più bizzarre fantasie e le più insensate credenze della tradizione popolare. Non solo, quando la leggenda popolare di Virgilio è già nota e divulgata per l'Europa, noi vediamo crescere una leggenda puramente letteraria di lui, la quale non esce dai libri, e può, in una certa misura, dirsi provocata da quella; ma sino dalle origini possiamo vedere qualche segno di una leggenda letteraria che spontaneamente si forma. In una biografia del poeta, contenuta in un codice Marciano del secolo XV, si dice che Virgilio fu gran mago e molto atteso all'arte magica, come dimostra quell'ecloga: Pastorum musa Damonis et Alphesiboei. Qui la fama della magia di Virgilio riposa dunque non sui telesmi da lui costruiti, ma solamente sugli scritti. Alessandro Neckam, detto, come s'è veduto innanzi, di alcune mirabili cose operate da Virgilio, descrive la Salvatio da lui attribuita al poeta. Ora, come si è mostrato a suo luogo, la Salvatio, la cui leggenda non pare sia di origine popolare, non fu attribuita a Virgilio se non molto tardi, e tale attribuzione si deve senz'alcun dubbio ad un letterato. Se questi sia lo stesso Alessandro, od altri più antico, nessuno è che possa dire con sicurezza, e così non si può nemmen dire se essa sia stata provocata dalla leggenda popolare, o sia sorta spontanea. Giovanni di Salisbury è il primo che racconti la favola della mosca di bronzo, ma nel suo racconto essa ha un carattere

manifestamente letterario che va poi perdendo più tardi. Ecco in fatti le sue parole: "Fertur vates Mantuanus interrogasse Marcellum, quum depopulationi avium vehementius operam daret, an avem mallet instrui in capturam avium, an muscam informari in exterminationem muscarum. Quum vero quaestionem ad avunculum retulisset Augustum, consilio ejus praelegit ut fieret musca, quae ab Neapoli muscas abigeret, et civitatem a peste insanabili liberaret". Quelle reminiscenze di Marcello e di Augusto accennano assai più adorigine letteraria che popolare; ma può darsi benissimo che la finzione, sorta da prima in Napoli come un prodotto letterario, passasse poi nel popolo, e si sciogliesse dai nomi, non abbastanza noti al volgo, di Augusto e di Marcello. Fatto sta che Corrado e Gervasio non li ricordano nemmeno.

La leggenda di Virgilio mago, fatta com'era per piacere agli spiriti creduli e fantastici, che è quanto dire alla quasi totalità degli uomini di quel tempo, incontrò in Europa favore grandissimo, e venne crescendo rapidamente. Le favole che la componevano erano di tal natura, che, ricevute nelle menti, altre subito ne suscitavano simili a sè, nè perchè una generazione così fatta dovesse cessare eravi ragione, altra da quella che fosse per nascere dalla sazietà, e dal volgersi del pensiero ad altro indirizzo. L'elenco delle meraviglie attribuite a Virgilio s'allunga smisuratamente. Già Elinando, copiato da Vincenzo Bellovacense, parla di una torre costrutta dal poeta, la quale, quando vi si sonavano le campane, oscillava seguendo il moto di quelle, miracolo da lui posto in dubbio per questa ragion solamente che al tempo di Virgilio le campane non erano ancora inventate. In Napoli stessa alcune favole nuove è probabile che prendessero nascimento; altre forse si trasformarono. Quella che narra dell'ovo consacrato da Virgilio e chiuso dentro un'ampolla, dal quale dipendeva la sorte del Castello dell'uovo e della intera città, è senza dubbio la stessa già narrata con qualche diversità da Corrado di Querfurt. Se non che la leggenda di nuova formazione, la quale non è più popolare, ma letteraria, palesa sin dal principio una curiosa tendenza, e molto significativa, che è di scostarsi da Napoli per far capo a Roma. Tal fatto conferma sempre più le origini popolari della leggenda che diremo napoletana. Nelle opere numerosissime in cui, dopo il secolo XII, si accoglie, in tutto o in parte, la leggenda virgiliana, si continua a far ricordo delle meraviglie onde le finzioni più antiche avevano dotato Napoli, ma le meraviglie nuove che s'inventano vanno per lo più ad accrescere il numero di quelle per cui andava famosa Roma. Durante questo nuovo periodo della leggenda si vengono a legare

a Virgilio non poche finzioni, le quali innanzi erano appartenute ad altri, o si trasportano a Roma alcune di quelle che già erano appartenute a Napoli. Io non istarò a riferire tutte queste strane immaginazioni, chè l'angustia dello spazio non mel consente, e, da altra banda, non se ne leva un grande costrutto; ma ne ricorderò rapidamente alcune delle principali.

In molte di esse Virgilio conserva il suo carattere di genio tutelare e benefico, ed esercita l'arte sua in benefizio di Roma come giàl'aveva esercitata in benefizio di Napoli. Virgilio accese a Roma un fuoco, il quale ardeva costantemente, e a cui veniva a scaldarsi senza nessuna spesa la povera gente. Lo custodiva una statua di rame con un arco teso, la quale recava scritto in fronte: Se alcun mi percuote io tiro. Avendola un tale percossa, quella scoccò la freccia, che spense il fuoco per sempre. Ancora fece Virgilio a Roma quattro grandi statue di pietra, e le pose in cima a quattro torri, a rappresentare le quattro stagioni, e ogni volta che, una stagion finita, un'altra ne cominciava, la statua che rappresentava la stagion passata, gettava a quella che rappresentava la nuova una palla di ottone, e così si conosceva appuntino quando le stagioni mutavano. Fece parimente due statue di rame che il sabato si lanciavano alternativamente una palla. A Virgilio fu inoltre attribuita la fattura di quella statua che portava scritto sul dito Percute hic!, come pure quella dei due cavalli di bronzo che nel Circo di Tarquinio Prisco eccitavano i cavalli alla corsa, e la fabbrica del Colosseo. Ma l'opera principale di Virgilio in pro di Roma era la Salvatio, sia che questa si facesse consistere in un edifizio in cui erano raccolti i simulacri delle nazioni soggette, o in uno specchio custodito in una torre. Di questa meraviglia, avendone io già parlato distesamente, non faccio qui altre parole.

Una menzione particolare si meritano i telesmi costruiti da Virgilio in servizio della verità e della giustizia. Il più celebre è quello della così detta Bocca della verità, di cui ho già fatto ricordo. Chi, giurando il falso, introduceva in quella bocca la mano, non poteva più ritrarnela; ma una donna seppe con certa sua astuzia render vana la prova. Nei Faictz merveilleux de Virgille la bocca si trasforma in un serpente di rame che ha la stessa virtù. In una Histoire des Pisans, scritta in francese nel secolo XV, e conservata nella Biblioteca di Berna, si parla di due colonne, opera di Virgilio, in cima alle quali apparivano le immagini di tutti coloro che avessero rubato o fornicato. Giovanni d'Outremeuse dice che Virgilio fece a Roma un uomo di rame a cavallo, con una grande bilancia in

mano, utilissimo ai mercanti. In un piatto della bilancia si poneva la mercanzia che si voleva vendere e nell'altro si poneva il prezzo. Quando questo aveva raggiunto il giusto valor della merce, il piatto che lo conteneva subito traboccava.

Ma la leggenda che si allarga in pari tempo si altera. L'immagine di Virgilio, che nelle finzioni più antiche appare nella luce più pura, in alcune delle nuove finzioni comincia adoffuscarsi. Un primo sintomo di tale offuscamento si ha nelle immaginazioni in cui si vuole spiegare la origine della scienza magica del poeta, e nelle quali si appalesa il progressivo sfiacchirsi della tradizione letteraria. Nella leggenda primitiva il bisogno di tale indagine non si sente ancora; la magia di Virgilio, scevra di qualsiasi reità, è il portato naturale del suo alto sapere. Per nessuna delle sue opere mirabili Virgilio ricorre all'ajuto di potenze malvage; a lui basta la cognizione delle proprietà delle cose, basta il suo sapere di astrologia, di matematica, di medicina. Ma un tale concetto della magia di Virgilio era destinato irremissibilmente a corrompersi in mezzo ad una società ignorante o superstiziosa, propensa a scorgere in qualunque cosa paresse trascendere i termini della natura, l'opera di potestà tenebrose ed inique, e che la stessa scienza considerava come cosa diabolica.

Giustamente osserva il Comparetti che se "nella sua prima forma napoletana, la leggenda di Virgilio non poteva parlare di arti diaboliche, perchè ripugnava al sentimento popolare dei Napoletani il credere che la loro città andasse debitrice ad arti siffatte di tutti quei pretesi benefizi, e se Virgilio, figurando in essa come protettore di Napoli, non poteva essere posto in una luce poco onorevole per lui e per la città, tutto ciò non aveva ragione di essere quando la leggenda uscendo di Napoli si diffuse in Europa".

A poco a poco la taumaturgia onesta di Virgilio doveva mutarsi in riprovevole necromanzia, e questa si doveva immaginare acquistata da lui nel modo che nella comune credenza reputavasi consueto. Ed ecco farsi in mezzo la idea volgare del libro in cui il poeta avrebbe imparati tutti i secreti dell'arte sua. Già Gervasio di Tilbury parla, come abbiam veduto, di un libro di arte notoria trovato dentro la tomba di Virgilio, ma non ne dice altro, e quel libro poteva essere opera dello stesso Virgilio, come il ristretto delle Sette Arti ricordato da Giovanni di Alta Selva. Questa era una notizia troppo vaga, che non soddisfaceva abbastanza la curiosità, e non andò molto che se ne parlò più esplicitamente. Nel

poema anonimo tedesco di Reinfried von Braunschweig si narra una strana storia di un gran negromante per nome Zabulon, il quale, dimorando sul Monte della Calamita, aveva letta nelle stelle la venuta di Cristo milledugento anni prima che accadesse, e per impedirla aveva scritto parecchi libri di negromanzia e di astrologia, delle quali scienze egli era inventore. Poco tempo prima che Cristo nascesse, Virgilio, uomo di singolare virtù, saputo di questo mago e delle sue arti, navigò alla volta del Monte della Calamita, e mercè l'ajuto di uno spirito potè impadronirsidei tesori e dei libri di lui. Venuto il termine prescritto la Vergine partoriva Gesù. In questo racconto, il quale comparisce anche in un altro poema tedesco, il Singerkriec uf Wartburc, i fini che muovono Virgilio, il quale serba in parte il carattere suo leggendario di profeta di Cristo, sono in tutto lodevoli; ma in altri non è già più così. Heinrich von Müglin narra in una sua poesia come Virgilio, con molti nobili signori, partì da Venezia sopra una nave tratta da due grifoni. Giunta la nave al Monte della Calamita, Virgilio trova chiuso in una fiala un demonio, il quale, a condizione d'essere posto in libertà, gl'insegna come possa impadronirsi di un libro di magia che si trova in una tomba. Avuto il libro ed apertolo, Virgilio vede comparirsi davanti ottantamila diavoli, e comanda loro di costruirgli subito una buona strada, dopo di che se ne torna tranquillamente coi suoi compagni a Venezia. Sul punto di partire Virgilio invoca la Vergine, e durante il viaggio egli e i compagni si raccomandano a Dio; qui, se non abbiam più il profeta, abbiamo ancora l'uomo devoto, ma l'alterazione doveva proceder più oltre. Enenkel dice che il poeta, il quale altro non era che un figlio dell'inferno, imparò le arti della magia liberando dodici diavoli chiusi in un fiasco.

Nel Virgilius inglese, il quale è una versione piuttosto libera dei Faictz merveilleux de Virgille, Virgilio ottiene il libro magico da uno spirito ch'ei libera trovandosi a studiare nella città di Toledo, ove ponevansi nel medio evo le scuole classiche di magia. Avuto il libro, Virgilio riesce a far rientrare lo spirito nell'angusto suo carcere con quell'astuzia medesima che si vede usata da un pescatore in un racconto delle Mille e una Notte, intitolato Il pescatore ed il Genio. Anche in Italia, sebbene la tradizione classica vi durasse alquanto più pura, nacquero intorno alla origine della magia di Virgilio immaginazioni simili alle precedenti. Bonamente Aliprando fa studiare il poeta in Milano, in Cremona, in Grecia,

Dove de ogni scienza se imparava,

e d'onde

A Mantova ritornò scienzato;

ma poi narra come si facesse portare da Roma a Napoli il suo libro di negromanzia dal discepolo Milino, il quale, avendolo aperto viaggio facendo, contro il divieto del suo maestro, vide comparire gran moltitudine di spiriti, a cui ordinò di selciare la strada che appunto conduce da Roma a Napoli. Bartolomeo Caracciolo dice(c. XXXII) che Virgilio imparò quanto seppe nel libro di un gran filosofo Chironte, da lui trovato dentro una grotta del Monte Barbaro, dove il detto Chironte era sepolto. Nel suo racconto l'avventura non presenta nulla di diabolico: in Napoli l'antica riputazione diVirgilio durava ancora e non permetteva che il pervertimento della leggenda procedesse troppo oltre.

Ma una ben curiosa finzione che viene a legarsi alle precedenti è quella che mostra San Paolo desideroso di acquistare il libro magico che Virgilio aveva voluto sepolto con sè. Geloso del proprio sapere, Virgilio aveva provveduto a che esso non potesse trasmettersi ad altri. Questo sentimento di gelosia è dalla leggenda attribuito anche ad altri illustri dell'antichità; per esso Ippocrate uccise il proprio nipote, per esso volle Aristotile, come abbiamo già veduto, che con lui fossero sepolti i suoi libri. Secondo l'autore della Image du monde San Paolo,

Qui moult sot dos ars de clergie,

Ainz qu'il créust le filz Marie,

tanto cercò che trovò un sotterraneo, illuminato da una lampada e da due ceri accesi, nel quale nessuno osava addentrarsi, tanto la via che vi conduceva era tenebrosa ed angusta, piena di vento e di tuono. San Paolo si spinse innanzi tanto che potò vedere Virgilio, seduto in cattedra, un cero a destra, un cero a sinistra, ammonticchiati tutto intorno i suoi libri, molto belli e pomposi. Il poeta ne teneva stretto uno nella mano destra, come per singolare amore, e davanti a lui era un arciere con l'arco teso, puntata la freccia alla lampada. In sulla entrata del luogo erano due uomini di rame, di orrido aspetto, i quali, con due gran magli di acciajo martellando senza posa contro terra, impedivano che altri passasse. San Paolo riuscì a chetare i due martellatori, ma allora l'arciere, scoccata la freccia, mandò la lampada in pezzi, e incontanente tutto si ridusse in cenere. Questo racconto è tutto formato di elementi tratti di qua e di là da altre leggende: l'arciere che spegne la lampada l'abbiam già trovato in una storia dei Gesta Romanorum, le statue martellatrici che stanno a custodia di ponti o di castelli sono frequentissime nei romanzi cavallereschi.

Non è a meravigliare se, data alla magia di Virgilio una origine diabolica, si vede il poeta cominciare a usar di quest'arte in modo men retto e men lodevole. Nella leggenda primitiva Virgilio non adopera l'arte sua altrimenti che per giovare altrui. Non solo egli non se ne serve in vantaggio proprio, ma si astiene da ogni ciurmeria magica, da ogni dimostrazione frivola o inutile di potere. Nella leggenda degenerata lo si vede qualche volta fare atti o burle da giocoliere. Bonamente Aliprando racconta come il poeta, trovandosi con un suo compagno ospitato in una povera casa, non avendo di che cenare, fece che uno spirito gli recasse le vivande dalla mensa di Augusto, il quale ebbe a meravigliare vedendosele sparire dinnanzi. Giovanni d'Outremeuse dice che Virgiliousava di fare a' suoi banchetti molti varii e mirabili giuochi. Ma la leggenda che più manifesta l'alterazione del concetto in cui da prima il medio evo tenne Virgilio, è quella divulgatissima che narra dell'inganno fattogli da una donna e della vendetta ch'egli ne prese. In essa non solo la magia, ma ancora i costumi di Virgilio sono mostrati sotto una luce assai sfavorevole, giacchè il timido poeta, quegli che per la sua ritrosia meritò di chiamarsi parthenias, v'è rappresentato come un seduttore, il quale ha il castigo che si merita. Si vuol osservare tuttavia che le ragioni di questa favola non sono da cercare solamente nell'alterazione cui era andata soggetta la figura leggendaria di Virgilio, ma ancora in quel sentimento di ostilità contro la donna che è così diffuso nel medio evo, e in quella, direi, quasi idea fissa degli scrittori ascetici e non ascetici di considerare le donne, la cui prima progenitrice aveva distrutta la felicità sulla terra, come esseri pieni di ogni malignità e di ogni frode, insidiatrici irresistibili degli uomini, causa di mali infiniti in questo mondo e della eterna dannazione nell'altro. Ora, la prova migliore e più persuasiva che si potesse dare della potenza delle loro seduzioni e della sottigliezza delle arti loro si era di mostrar colti ai lor lacci uomini insigni per virtù o per sapere, un medico come Ippocrate, un filosofo come Aristotile, un mago come Virgilio.

Narra dunque la favola che Virgilio, innamoratosi della figliuola dell'imperatore, la sollecitò perchè volesse accondiscendere alle poco oneste sue brame. Colei fece mostra di consentire, e disse al poeta di trovarsi la notte, alla tale ora, appiè di certa torre, dove ella lo avrebbe fatto entrare per una finestra, tirandolo su in un canestro. Non mancò alla posta Virgilio, ed entrato che fu nel canestro, la fanciulla si mise a tirarlo in su; ma tiratolo un tratto, legò la fune, e se n'andò pe' fatti suoi, lasciando il povero innamorato sospeso in aria. La mattina seguente

tutta Roma corse a vedere così nuovo spettacolo, con iscorno massimo del buon savio, il quale ricondotto a terra, pensò a trarre di così grave ingiuria adeguata vendetta. E subito, ricorrendo alle arti sue, fece sì che in Roma furono spenti tutti i fuochi, e annunziò al popolo che nessuna più potrebbe aver fuoco nella città se non andasse a prenderne sulla stessa persona e nelle parti più secrete della figliuola dell'imperatore. E così come a lui piacque bisognò si facesse. La malcapitata fanciulla fu posta in piazza e a spese del suo pudore rifornì di fuoco la città.

Non mi soffermo ad esaminare piùda vicino questa notissima favola, la quale ebbe nel medio evo grandissima voga, ricorre frequentissima in tutte le letterature di quella età, e trovasi rappresentata assai spesso dalle stesse arti figurative, e persin nelle chiese. Avvertirò solamente, cosa che fu già notata dal Comparetti, essere essa manifestamente composta di due parti diverse, di diversa origine, e che in alcuni racconti compajono anche disgiunte. L'avventura del canestro, prima forse che a Virgilio, si trova attribuita ad Ippocrate, e la vendetta consistente nello spegnimento dei fuochi si trova, parecchi secoli prima che se ne facesse autore Virgilio, narrata di un mago Eliodoro vissuto nel secolo VIII in Sicilia. Le varianti sono, com'è naturale assai numerose. Un fatto strano, ma che dimostra appunto come la leggenda sia composta di parti eterogenee, si è che Virgilio nella prima di esse, lì dove patisce la burla, non si palesa per nessun segno quel potentissimo mago che poi si mostra nella seconda. Non è questa del resto la sola avventura d'amore che si attribuisca al poeta; nei Faictz merveilleux de Virgille si racconta come, abbandonata la propria moglie, egli ebbe l'amicizia della figlia del sultano di Babilonia.

Nullameno Virgilio comparisce ancora in parecchie finzioni quale un patrocinatore della morale e del buon costume, e, più particolarmente, quale un nemico degli adulteri. Nei Faictz merveilleux si racconta ch'egli fabbricò una statua, e la sospese alta nell'aria, di modo che quei di Roma non potevano aprire uscio o finestra senza vederla, e aveva tale virtù che toglieva alle donne ogni disonesta voglia, del che quelle furono assai malcontente, e si adoperarono con la moglie stessa di Virgilio perchè distruggesse l'incanto. Nei Gesta Romanorum si racconta certa storia di un soldato, che la moglie e un suo amante chierico cercano di far morire per arte magica, ed è salvato da un negromante. In una redazione tedesca dei Gesta questo negromante è Virgilio. In un racconto di Hans Sachs Virgilio si trova alla corte del re Artù. Il re, sospettando della

fedeltà della moglie, chiede al poeta di volerlo chiarir del suo dubbio. Virgilio fabbrica per arte magica un ponte di tal virtù che gli adulteri passandovi sopra cascano inevitabilmente nell'acqua. In una festa bandita da Artù, cascano in acqua, al passare del ponte, molte dame e molti cavalieri, ma lo passano senza impedimento la regina e un cavaliere di cui Artù sospettava. La costoro innocenza è così dimostrata. Il solenne anacronismo di questa favola non deve parere troppo strano: in altri racconti si fa vivere Virgilio sotto il re Servio Tullio, o sotto l'imperatore Tito.

La leggenda primitiva e popolare di Virgilio non abbraccia che alcuni anni della vitadel poeta e propriamente quelli spesi a dotare di opere mirabili di pubblica utilità la sua diletta città di Napoli. Per il rimanente la leggenda non osava ancora sostituirsi alla tradizione letteraria. Le finzioni che la costituivano avevano certo già molto del fantastico, ma queste finzioni medesime, ricevute per vere dagli scrittori, erano, in certo qual modo, contenute dentro un contorno e una cornice di verità storica, e il mago in esse non occultava il poeta. Ma allargandosi sempre più la leggenda, come in ogni luogo e sempre è tendenza costante delle leggende, le finzioni vennero a poco a poco occupando, se così mi si lasci dire, tutto intero il quadro della vita del poeta, la stessa cornice si nascose sotto la esuberanza loro, e il poeta sparì interamente dinnanzi al mago. Vengon fuori allora alcune nuove biografie, interamente fantastiche, le quali abbracciano tutta la vita di Virgilio, dalla nascita alla morte, ma di vero non ricordan più nulla o quasi nulla. Tali sono la biografia che Giovanni d'Outremeuse introduce nel primo volume del suo Myreur des histors, e quella contenuta nel libretto famoso intitolato Faictz merveilleux de Virgille.

Per dare un'idea dello spirito che governa il racconto di Giovanni d'Outremeuse, il quale asserisce che la vita di Virgilio fu scritta da Cicerone e da Ovidio, basterà dire che in esso l'autor dell'Eneide è figliuolo di Geda, sorella di Pompeo, e di Gorgilo, re di Bugia in Libia e fratello del re Gregorio che fu console di Roma. I Faictz merveilleux de Virgille godettero di molta celebrità, e furono tradotti e pubblicati in inglese, in olandese, in tedesco; una versione islandese è rimasta inedita. In questo libro Virgilio, al cui nascimento tutta Roma tremò, è figlio di un cavaliere di Remo, figlio di Remo e nipote di Romolo, e della figliuola di un senatore di nobilissimo lignaggio. Della fama poetica e delle opere di lui non vi si trova neppure un cenno. Riesce utile a tale

proposito il confronto fra queste biografie assolutamente romanzesche e quella contenuta nel rozzo poema di Bonamente Aliprando. In essa Virgilio è bensì il mago della leggenda, ma è ancora

Filosofo e poeta di grandezza,

autor della Bucolica, della Georgica, della Eneide.

Giovanni d'Outremeuse, l'anonimo che compose i Faictz merveilleux e il traduttore inglese di questi raccontano in modo assai diverso la morte di Virgilio. Quegli, raccogliendo favole già note, accozzando, amplificando, narra assai per disteso una storia che io raccolgo qui in brevi parole. Virgilio aveva con molto artificio costruita una testa di rame, la quale rispondeva a tutte le suo domande. Consultatala una volta intorno la propria salute, quella lo avvertì di ben guardarela sua testa. Virgilio, frantendendo la risposta, credette si trattasse di ben custodire la testa magica, si espose nel mese di luglio all'ardore del sole, e fu colto da una congestione cerebrale, che in capo di due anni lo condusse al sepolcro. Sapendo prossima la sua fine Virgilio volge l'anima a Dio, mette in iscritto tutta la fede cattolica, e prepara ogni cosa per la sua morte. Costruisce un gran vaso di terra e di cenere, e vi pone dentro terra preparata, e molte erbe di così fresca natura, che, senz'acqua, durano sempre verdi; poi fa una cattedra di cipresso, tutt'adorna di gemme, sulla quale è rappresentata la storia della Vergine dalla salutazione angelica sino all'assunzione. Quando non gli rimane più che un giorno da vivere, Virgilio appresta un gran banchetto, invita molti baroni, rallegra la festa con molti giuochi, e annunzia ai commensali la propria morte, e la imminente venuta del Redentore, esortandoli tutti a farsi battezzare come appena sia giunto il tempo. Egli stesso si battezza, dopo di che gli ospiti prendono da lui comiato. Ma qui val meglio lasciar la parola all'autore, giacchè le cose ch'egli narra sono alquanto difficili a dire "Virgile..... prent son terrien aux herbes et le mist desus la chaire qui fut traweit en fons, puis prist une buse d'erain qui al unc de chief oit unc coviercle qui tant couroit le terrien et les berbes, et l'autre chief de la buse si ranpoit desus parmi le trau de la chaire. Et Virgile s'assit sur le trau; se li entrat la buse en trau de son fondement, si qu' ilh entrat bien dedens son ventre plus de II palmes. Apres ilh avoit pareit son lachenieres de tous libres de toutes scienches, et par devant li at poiseit I libre de theologie. Si astoit noblement vestus d'onne bleu robe. Si avoit à son seniestre bras une grant fenestre tout ovierte, par où les gens le regardoient cascon jour, et disoient que ilh n'astoit mie mors, ains

estudioit com devant, car ilh avoit son capiron sour ses eux". Cinquantanove anni dopo, San Paolo viene a Napoli, chiede di Virgilio, va a trovarlo, ma, appena l'ha tocco, il corpo del poeta si scioglie in cenere.

Nei Faictz merveilleux si narra che Virgilio, operati i suoi molti miracoli, un giorno, con alcuni compagni, andò in barca a diporto, ma soprappreso da una spaventosa burrasca fu tratto in alto mare, così che di lui non s'ebbe mai più novella. "Et tous les clerz et escolliers de la cité de Naples et Romme et toutes nations et contrées en furent moult troublez et dolens". NelVirgilius inglese la fine del poeta si racconta in tutt'altro modo. Dopo aver promesso all'imperatore di Roma di fare molt'altre cose meravigliose, Virgilio si pensò di ringiovanire. A tale scopo si fece tagliare in pezzi da un suo fidato servitore, salare, e mettere dentro una botte, d'onde in capo di nove giorni sarebbe risorto giovane. Passati sette giorni, l'imperatore non vedendo Virgilio, che aveva carissimo, entra in sospetto, va al castello del poeta, e trovato il corpo nella botte, uccide il servitore da lui creduto omicida del suo signore. In quel punto medesimo un bambino ignudo balza fuor della botte, e fatti tre giri allo intorno, gridando: Sia maledetta l'ora che ci venisti, sparisce. Lo stesso racconto si ha nella olandese Historie van Virgilius.

Così moriva Virgilio mago, a cui i fati non consentivano una seconda giovinezza; ma Virgilio poeta tornava alla vita, e la sua seconda, e, giova credere, immortale giovinezza cominciava col Rinascimento.

CAPITOLO XVII. Cicerone, Catone, Orazio, Ovidio, Seneca, Lucano, Stazio.

Se noi ci facciamo ora a considerare alcuni altri fra i principali scrittori latini, troveremo essersi ripetuti per essi nel medio evo quei fatti medesimi che abbiamo già veduto prodursi per Virgilio; e cioè, raccostamento più o meno risoluto dello scrittore pagano al cristianesimo, con alcuni esempii di vera conversione, esagerazione del sapere, e qualche volta esagerazione sino al segno in cui il sapere diventa magia. Se non che le finzioni nate loro d'attorno, o per non aver essi avuto il necessario grado di celebrità, o per altra ragion che si sia, non acquistano la pienezza di concetto di cui altrimenti sarebbero state capaci, rimangono slegate, e non riescono a formare una vera e propria leggenda, come nel caso di Virgilio.

Il primo a farcisi innanzi è Cicerone, il quale godette di grandissima fama nel medio evo, come maestro insuperabile di una delle sette arti, la retorica. Già sino dai primi tempi della Chiesa il principe degli oratori latini, le opere del quale erano diligentemente studiato dagli apologeti desiderosi di rafforzare le ragioni della verità col sussidio dell'eloquenza, fu considerato come uno degli scrittori pagani le cui dottrine meno ripugnavano al cristianesimo; e non solo vi furono scrittori cristiani che in trattare argomenti della fede adottarono la forma di questa o quell'opera sua, ma ve ne furono ancora che delle sue stesse dottrine si giovarono. Cicerone affermò ripetutamente e con ardore la immortalità dell'anima, e Arnobio ricorda che molti gentili lo presero in odio, perchè giudicavano i suoi scritti essere favorevoli al cristianesimo, tanto che alcuni più zelanti chiesero al Senato di farli per questa ragione proibire. Sant'Agostino confessa schiettamente di dovere all'Ortensio la sua conversione aDio e alla vita spirituale. Sant'Ambrogio compose il suo trattato De officiis ministrorum a imitazione del De officiis di Cicerone, accettandone la dottrina e solo piegandola al concetto cristiano ed ecclesiastico. Stando così le cose, a molti certo dovette parere eccessivo il giudizio di riprovazione contenuto in quel sogno famoso, o visione che si voglia dire, di S. Gerolamo, a cui il giudice supremo rimproverò d'essere non un cristiano, ma un ciceroniano. Nel medio evo, dovunque sono scuole di retorica, Cicerone è in grande onore. Beda fece una copiosa raccolta delle sentenze di lui, e sul De inventione compose Alcuino il suo trattato di retorica per la scuola palatina di Carlo Magno. Lupo di Ferrières paragonava fra loro con mente di critico varii codici delle epistole ciceroniane, e Pascasio Radberto confermava il giudizio dei secoli chiamando Cicerone il re dell'eloquenza. A questa eloquenza si prestava quasi un carattere sacro. O quam Tullii venerabilis facundia summis desideriis est collocanda, si trova detto nel trattato De disciplina scholarium, falsamente attribuito a Boezio. Parlando della Città di Retorica nel già citato scritto De animae exilio et patria, Onorio Augustodunense dice: In hac urbe Tullius itinerantes ornate loqui instruit, quatuor virtutibus scilicet prudentia, fortitudine, justitia, temperantia mores componit.

Cresceva intanto l'opinione che il sommo oratore avesse potuto partecipare al gran benefizio della Redenzione, egli che delle verità del cristianesimo aveva già avuto, prima che Cristo nascesse, qualche presentimento. Si pretendeva che egli avesse tradotto la famosa profezia della sibilla Eritrea, nella quale si annunzia la venuta del

Redentore, e Lupo di Ferrières ricorda in una sua epistola un tal Probo, che voleva ammessi tra i beati Cicerone, Virgilio, ceterosque opinione eius probatissimos viros. Qual gloria per la Chiesa poter strappare all'inferno un tant'uomo! e che dolore per coloro che si beavano nella lettura dei suoi libri immortali il pensare ch'egli era dannato per l'eternità! Il Petrarca si affliggeva di ciò ch'egli non fosse stato cristiano e il primo padre della Chiesa, ma in una sua prefazione alle Tusculane Erasmo sostiene ch'egli si salvò.

Durante tutto il medio evo Cicerone passa per il maestro massimo dell'eloquenza, alcuna volta anzi a dirittura per l'inventore di essa; e sotto questo aspetto si può dire che la sua riputazione fu maggiore allora che non nell'antichità. In piena barbarie letteraria, nel secolo IX, Almanno dice che a degnamente celebrare con la parola i fatti e la virtù di Sant'Elena ci sarebbe voluta più eloquenza che non ne avesse Cicerone; e parecchi secoli dopo, Alessandro Neckam, volendo fare un grande elogio di Sant'Agostino, lo pareggia per eloquenza a Cicerone, ma lo fa maggiore di animo. Nel Tesoretto il Latini si contentadi ricordare quella grande eloquenza

Del buon Tullio Romano

Che fue 'n dir sovrano;

ma Fra Guidotto, o chi altri si sia il vero autore, afferma in principio del Fiore di Rettorica, che Cicerone fu maestro e trovatore della grande scienzia di Rettorica, e che fu d'arme maraviglioso cavaliere, franco del coraggio, armato di grande senno, fornito di scienzia e di grande discrezione, ritrovatore di tutte cose. Eccoci già all'onniscienza di Virgilio; un passo ancora, e di dietro all'oratore sarebbe cominciato a spuntare il taumaturgo.

Non è pertanto a meravigliare se di regola, nel medio evo, e poi anche dopo, a Rinascimento compiuto, Cicerone vien posto innanzi a Demostene. Il Petrarca, detto nel Trionfo della Fama, come all'apparir di Cicerone fiorisse l'erba, soggiunge:

Dopo venia Demostene, che fuori

È di speranza omai del primo loco.

Non ben contento de' secondi onori.

E questo era pensiero comune, espresso da molti, e tra gli altri anche da Alfonso de la Torre, scrittore spagnuolo che fiorì nella prima metà del XV secolo. Descrivendo egli in una sua curiosa composizione, intitolata

Vision delectable, il palazzo della donzella Retorica, dice che in certa sala erano i ritratti dei retori più famosi, da una parte i greci, tra cui Gorgia, Ermagora e Demostene, primeros abuelos é habitadores de aquella tierra, e da un'altra i latini, fra' quali Cicerone, a cui la donzella da quelli e da questi discesa, somigliava più che a nessun altro; al qual paresçia la doncella más que a ninguno. Ma anche tra i filosofi teneva Cicerone onoratissimo seggio, e non mancò chi volle farlo primo tra questi, com'era già primo tra i retori. Così fa Alars de Cambrai nel già citato Romans de tous les philosophes, dove a Salomone non concede che il secondo posto:

Tulles qui moult fu sages clers,

De totes clergies plus fers

Que tout autre maistre de pris,

Est premiers esleus et pris.

Apres est nomes Salemons

Qui tant sot, ce juge li mons,

C'om ne trouast nul plus sage home

Ent trestout l'empire de Rome.

Vero è che facendo due diverse persone di Tullio e di Cicerone, mentre a quello dà il primo posto, a questo dà solamente il settimo:

Li sepmes et nom Cicerons,

Cil n'estoit mie trop enbrons,

A meruelles estoit haities,

Prex et cortois et afaities.

Come potesse nascere un error di tal fatta trattandosi di un nome di tanta celebrità non è facile a spiegare, ma Alars non era il primo a commetterlo. Abbiam veduto come già v'incappasse Ermoldo Nigello, il quale forse nemmeno fu il primo, e dopo Alars v'incappò anche il Gower. D'onde tragga origine la favola della grande inimicizia di Cicerone e di Sallustio narrata nel Fiore di filosofi(testodel Palermo) e anche altrove, non so immaginare.

Che anche intorno a Cicerone si sarebbe potuto formare, qualora non fossero mancate le condizioni favorevoli al suo nascimento, una leggenda meravigliosa simile a quella di Virgilio, è provato da quanto Giovanni Boccaccio racconta di certa fonte che scaturiva in prossimità di Pozzuoli, e conservava ancora al suo tempo il nome di fonte di Cicerone,

le cui acque si stimavano efficaci contro il mal d'occhi. Se il grand'oratore avesse avuto il sepolcro in alcuna città illustre, e se questo sepolcro fosse stato conosciuto e celebrato come la fama di tant'uomo chiedeva, gli è assai probabile che ancor egli avrebbe cominciato ad assumere nella fantasia popolare qualità di protettore e di taumaturgo, comechè poi, per far difetto certe altre condizioni, potesse la leggenda rimanersi chiusa entro limiti assai meno larghi che non sien quelli della leggenda di Virgilio.

Il medio evo, non solo narra degli scrittori latini molte favole, ma attribuisce anche la qualità di scrittore a chi non l'ebbe, come mostra l'esempio di Catone l'Uticense. Catone godette in quella età della più alta riputazione di virtù e di saviezza. Angilberto detto Omero, volendo fare un grand'elogio di Carlo Magno, dice:

Inclyta nam superat preclari dicta Catonis;

e infinite altre volte si vede Catone preso a termine di confronto parlandosi di uomini saggi e virtuosi. In alcune redazioni del romanzo dei Sette Savii egli è uno di questi, e Guiraut de Borneil, in quella sua pazza poesia che comincia Un sonet fatz malvatz e bo, dice di sè stesso:

Detorn mi vai e deviro

Foudatz, e sai mais de Cato;

nei quali due versi, come anche negli altri di quella poesia, è da notare che il poeta si studia di venir affrontando fra di loro le cose più disparate e i concetti più antitetici che gli cadessero in fantasia, e che non si poteva immaginare un contrasto maggiore di quello che nasceva dal raffronto della pazzia con la proverbiale sapienza catoniana.

Catone si trova citato in iscritture d'ogni maniera, non solo insieme con gli altri autori pagani, ma ancora insieme coi libri sacri, coi profeti, con gli scrittori ecclesiastici, e sempre come autorità di prim'ordine. Si esagera al solito il suo sapere, e si fa di lui l'uomo più dotto de' tempi suoi, e alla sua gran dottrina e alla sua gran virtù si danno più lodi assai che non al suo valore guerriero. La sua riputazione si fondava in parte su quanto di lui narravano le istorie, ma molto più si fondava su quei famosi distici morali, creduti universalmente opera sua.

Chi sia il vero autore di questi distici nonè noto. Le varie attribuzioni che se ne fecero a Catone il Censore, a Cicerone, a Seneca, ad Ausonio, a un Dionisio Catone forse non mai esistito, sono tutte arbitrarie. Certo si è che dell'Uticense non sono, e che non fossero, già da qualcheduno si

dubitava sino dal XII secolo. Composti probabilmente nel IV, essi furono intitolati col nome di Catone, non perchè questo nome dovesse essere creduto da altri quel dell'autore, ma perchè esso parve titolo confacente all'argomento morale del libro, senza che si possa dire quale dei due Catoni più noti avesse in mente chi così lo intitolava. Scambiare il titolo pel nome dell'autore era errore assai facile nel medio evo, e poichè dei due Catoni, l'Uticense, ricordato nella Farsaglia, nelle istorie romanzesche di Giulio Cesare, nelle cronache, si conosceva assai più che non il Censore, era naturale che non a questo, ma a quello si attribuisse l'opera. E a togliere di mezzo ogni dubbio, in parecchie delle traduzioni che se ne hanno in varie lingue volgari, si dà un cenno della vita del supposto autore, si dice come fosse rivale di Cesare, e come per non patire la costui tirannia si togliesse la vita.

Pochi libri ebbero nel medio evo, e anche dopo, la diffusione e la celebrità dei Distici. Lo provano anzi tutto gl'innumerevoli codici, alcuni dei quali dell'VIII, IX e X secolo, poi le infinite versioni che se ne fecero in tutte le lingue d'Europa. Si voltarono in versi latini rimati, si parafrasarono in greco; Filippo da Bergamo vi fece sopra una moralizzazione intitolata Speculum regiminis, Erasmo li commentò. Già nell'XI secolo Notker ne faceva una traduzione tedesca. Da Isidoro di Siviglia ad Alcuino, da Alcuino ad Abelardo, innumerevoli scrittori ne parlano, li citano, li lodano. Poi vengono le imitazioni, il Cato novus, il Cato interpolatus, l'Ethica Ludulphi, il Facetus, il Novus Catho moralisatus, i Chastimens francesi, il Winsbeke tedesco, ed altre simili scritture. I Distici, che il giullare doveva conoscere al paro dei poemi cavallereschi e delle belle canzoni d'amore, facevano testo in materia di morale, e godevano di molto favore nelle scuole, d'onde solamente nel passato secolo cominciarono ad essere banditi. Strano davvero che tal sorte dovesse toccare fra genti cristiane, e in tempi di massimo fervore religioso, al supposto libro di un pagano, il quale, per giunta, si era tolta di propria mano la vita.

Nel Livre du Chevalier de la Tour Landry, si narra in relazione coi Distici una curiosa storia, la quale tuttavia non mette conto di qui riferire minutamente. Catone "qui fut si saige qu'il gouverna toute la cité de Romme, et fist moult d'auctoritez, qui encoresont grans memoires de lui", è presso a morte. Egli aveva, già da tempo, composto pel figliuolo Cathonet il suo libro famoso di ammaestramenti morali, ma in quel punto volle dargli tre altri consigli molto importanti. Cathonet, benchè

sapientissimo, e in tutto degno del padre, non osservò i primi due, e volendo provare il terzo, fa nascere parecchie avventure nelle quali è involto. Il tutto dimostra sempre più la saviezza di Catone.

Gli è curioso che nei romanzi dove si celebra sommamente Giulio Cesare anche di Catone si facciano moltissime lodi. A ciò forzava la Farsaglia, conosciutissima e tenuta in gran conto. Giovanni di Tuim in un luogo della sua Istoria dice che Pompeo, Marcello e Catone si opposero a Cesare per grande invidia che gli portavano, ma altrove usa tutt'altro linguaggio: "Catons, ki mout estoit de grant cuer et ki mout amoit a garder honour ne desous autrui ne deignoit iestre et haoit si Cesar pour le francisse des Rommains k'il voloit abatre et abatoit a son pooir". E narrata la morte di quel grande amico di libertà, riporta i lamenti che ne fecero i suoi seguaci e le lodi con che lo celebrarono.

Tuttavia, sebbene della fine di Catone si narrasse generalmente il vero, pure anche intorno ad essa corse qualche favola, di cui è difficile indicare la origine. Così nel Novellino si riporta un lamento contro la Fortuna, il quale Catone fece stando in carcere, e ciò che lo stesso Catone disse parlando in nome di essa Fortuna. Nel Fiore di filosofi poi, riportate alcune massime di Catone, si dà questa veramente strana notizia: "Cato, pensando che l'anime sono perpetue, per rincrescimento di due quartane sè medesimo uccise per trovare migliore vita". D'onde l'autore del Fiore abbia tratto questa peregrina notizia non so, ma essa si legge anche in un trattato latino De vita et moribus philosophorum: "Catho Marchus Portius stoicus philosophus et poeta latinus claruit Rome Virgilii tempore..... Hic animas esse perpetuas existimans tandem tedio duplicis quartane seipsum occidit ut meliorem vitam inveniret". Ranulfo Higden attribuisce il fatto al famoso retore Marco Porcio Latrone, maestro di Ovidio, e amico di Seneca.

Nei Distici morali Catone appar già quasi cristiano; ma per questo rispetto la trasformazione piena non avviene, come tutti sanno, se non nella Commedia di Dante, dove il filosofo pagano, violento contro a se stesso, è preposto alla guardia delle anime purganti, e serbato, dopo l'universale giudizio, alla gloria eterna del paradiso. Ogni qual volta parla di Catone Dante usa parole di massimo rispetto. Nel De Monarchia loda il suo amore ardentissimo di libertà, che lo indusse a sottrarsi con la morte allaservitù; nel Convito lo pone fra coloro che ebbero alcuna luce della divina bontà, aggiunta sopra la loro buona natura, e prorompe in queste parole: E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio che

Catone? Certo nullo. Queste ultime parole sono molto importanti, giacchè in esse non si fa nessuna eccezione nemmeno per i Padri della Chiesa e per i Santi. L'ammirazione di Dante era sorretta da quella di tutta l'antichità. Cicerone, Sallustio, Orazio, Seneca, Lucano, Floro, Valerio Massimo, Manilio, tributano a Catone le più gran lodi; Lattanzio lo considera come il capo della sapienza romana. Descrivendo nel l. VIII dell'Eneide lo scudo preparato da Vulcano per Enea, Virgilio dice che tra le molte figure che lo fregiavano vi si vedevano pure le anime dei giusti governate da Catone:

Secretosque pios; his dantem jura Catonem.

Le lodi degli antichi e l'esempio di Virgilio debbono certamente aver contribuito a far sì che Dante eleggesse Catone a così grave e nobile officio; ma è da altra banda indubitato, che questi aveva per lui un valore essenzialmente simbolico, a cui l'antichità non poteva pensare. Catone che, per amore di libertà, rinunzia alla vita, simboleggiava assai bene l'anima, che per riacquistare la perduta innocenza, la quale è vera libertà di contro alla servitù del peccato, rinunzia al mondo, o penando si purga; e però non gli si disdiceva l'esser fatto custode del Purgatorio, dove appunto, con rientrare nella divina grazia, le anime riacquistano la libertà perduta. Dante non dice in nessun luogo che Catone avesse presentito la verità del cristianesimo, e fosse stato cristiano in anticipazione come Rifeo, nè che fosse tornato in vita come Trajano per ricevere il battesimo. Virgilio quando prega l'austero custode di gradire la venuta del poeta peregrinante, non gli dice se non:

Libertà va cercando, ch'è sì cara,

Come sa chi per lei vita rifiuta.

Tu il sai; che non ti fu per lei amara

In Utica la morte, ove lasciasti

La veste che al gran dì sarà sì chiara.

Una cosa pare non avvertisse Dante, ed è che, combattendo per la libertà, Catone faceva contro a quell'impero che la Provvidenza aveva contemplato e voluto.

Non meno di Catone fu celebre nel medio evo Seneca. Le sue Naturales Quaestiones, erano assai conosciute, e se ne giovavano quanti scrivevano di cose naturali; più conosciute ancora erano le opere sue di morale, e, in fatti, egli figura allora essenzialmente come moralista. Dante non lo chiama altrimenti che Seneca morale, e morall Senec lo

chiama Giovanni Lydgate. Alano de Insulis dice di lui nell'Anticlaudiano:

More suo Seneca mores ratione monetat

Optimus excultor morum, mentisque colonus.

Seneca è citato più spesso ancora di Cicerone e diCatone, e in certe scritture ricorre a ogni passo. Veggansi, per un esempio, il Giardino di Consolazione di Bono Giamboni, il Liber consolationis et consilii di Albertano da Brescia, la Summa de arte praedicatoria di Alano de Insulis. Ma già sino dall'anno 567 negli Atti del secondo Concilio di Tours si citava come di Seneca una sentenza che negli scritti suoi non si trova e che solo si rinviene in quel Liber de moribus falsamente a lui attribuito, e tanto caro all'età di mezzo, nel quale con molte massime tolte allo scrittore latino, molte ancora ne sono che non gli appartengono. Nel secolo XIV Landolfo, arcivescovo di Amalfi, cita, insieme coi Santi Padri e con gli scrittori ecclesiastici, anche Seneca nelle sue postille agli Evangeli. Da molti egli era tenuto più gran filosofo che non Platone ed Aristotile, e ciò non solamente in Ispagna, dove tale opinione era suggerita in qualche modo dall'amor di patria, ma anche altrove. Il Petrarca, il quale indirizzò a Seneca una delle sue epistole famigliari, e affermò che Plutarco non aveva trovato nessuno da porgli a riscontro, non la pensava altrimenti. Le sentenze tratte da Seneca empiono quasi mezzo il libro intitolato Floresta de los philòsophos, che Fernan Perez de Guzman compose nella prima metà del XV secolo. Un poemetto provenzale di insegnamenti morali, composto probabilmente nella seconda metà del XIII, in un codice della Biblioteca dell'Arsenale in Parigi è intitolato: Aysso es le libre de Senequa; e sotto il titolo di Seneca Leren va un dialogo olandese di 780 versi, nel quale un padre ammonisce ed ammaestra il figliuolo che si lamenta della propria sorte. Seneca era dunque tenuto uno dei maggiori sapienti dell'antichità; in certa novella si narra come i Romani commettessero a Seneca di rispondere agli ambasciatori dei Galli che cercavano di essere dispensati dal tributo, storia che abbiamo già veduto narrata di Socrate. A titolo di stranezza sia qui ricordato che Seneca è fatto contemporaneo di Avicenna, di Averroe e di Algazel nella Virgilii Cordubensis philosophia.

Gli scritti autentici di Seneca, nei quali si vede professata una filosofia tutt'altro che repugnante al cristianesimo, anzi molte volte con questo pienamente conciliabile, sarebbero forse bastati di per sè soli a far nascere nel medio evo la credenza che anche questo scrittore latino

fosse stato cristiano, o almeno in intima relazione coi cristiani e informato delle loro dottrine, se già l'antichità non avesse immaginata una tal favola, e prodottine i documenti in una serie di epistole che si supposero scambiate fra il filosofo maestro di Nerone e l'apostolo delle genti San Paolo. In esse il filosofo e l'Apostolo apparivano legati dai vincolidi una sincera e salda amicizia, e quegli, se non faceva esplicita professione di fede cristiana, si mostrava grande ammiratore di questo, e molto benevolo ai seguaci di Cristo, e cristiano insomma nell'animo. Queste epistole esistevano già, ed erano anzi molto diffuse nel IV secolo, secondo prova la testimonianza di San Gerolamo, la più antica che intorno ad esse siaci pervenuta. San Gerolamo, non solo non dubita della loro autenticità, ma per esse solamente s'induce a introdurre nel suo catalogo degli scrittori e dei santi anche il filosofo di Cordova, al che l'opere certe di costui non l'avrebbero mosso. Pochi anni dopo Sant'Agostino ricorda anch'egli quelle epistole, ma per incidente, e con notabile noncuranza; e che egli le tenesse apocrife lascia intendere abbastanza un luogo del De Civitate Dei, dove Seneca è giudicato molto severamente. Se a queste due si aggiunge la testimonianza contenuta nella relazione apocrifa della morte dei santi Pietro e Paolo, la quale va sotto il nome di S. Lino papa, e che, almeno nella redazione in cui è sino a noi pervenuta, si palesa certamente posteriore a San Gerolamo, il novero delle testimonianze antiche concernenti il supposto carteggio di Seneca e di San Paolo, è interamente esaurito, e per più secoli non se ne trovano altre. In questa apocrifa scrittura si dice che l'institutore dell'imperatore(Seneca non si nomina per proprio nome) fu legato di amicizia con San Paolo, in cui vedeva essere scienza divina, e tanto aveva cara la conversazione di costui che quando non poteva altrimenti, conversava con esso per lettera, e si aggiunge che di alcuni scritti dell'apostolo diede lettura all'imperatore.

Come si vede, nell'antichità cristiana, del cristianesimo di Seneca e dell'autenticità delle epistole di costui o di San Paolo, non sono molti, nè molto fervidi sostenitori. Non più così nel medio evo, dove la favola improvvisamente riapparsa, dopo essere stata(così è forza credere) lungamente obliterata, acquista universale credenza e notorietà senza pari. Freculfo è il primo, per quanto le indagini hanno sinora mostrato, che nel IX secolo ne faccia novamente ricordo; ma poi essa si ritrova nella più parte dei cronisti e in infiniti altri scrittori, come, per citarne alcuni, in Onorio d'Autun, in Ottone di Frisinga, in Pietro Comestore, in Giovanni Sariberiense, in Tolomeo Lucense, in Luca di Tuda, in Vincenzo

Bellovacense, in Martino Polono, in Sant'Antonino, in Pietro de Natalibus, in Gualtiero Burley. E tanto più il medio evo doveva essere disposto ad ammetterla in quanto che si credeva che San Paolo avesse lungamente viaggiato per conoscere i più gran savi!. In sul limitare del Rinascimento il Boccaccio credeva ancora che Seneca fosse stato cristiano; ma giàil Petrarca, che pur giudicava autentiche le epistole, aveva espresso contraria opinione, e Dante, com'è noto, pone il filosofo tra i pagani illustri nel Limbo. Se non che questa era l'eccezione. Abelardo affermava Seneca aver confessato che il distributore di tutti i beni è lo Spirito Santo, e Giovanni Sarisberiense si sdegnava contro coloro che non veneravano Seneca nel debito modo. Pietro di Cluny inseriva un passo del carteggio del filosofo e dell'apostolo nella sua lettera ad Petrobrusianos, e Giacomo di Magne ne trascriveva una parte nel suo Sophologium. Vi fu persino chi giunse a fare del maestro di Nerone uno dei settantadue discepoli. Così la favola, promossa dalla universale credenza, andava ingrossando.

Ma le epistole che noi possediamo, e che, prese in complesso, sono un'assai povera e sciatta cosa, sono esse quelle medesime di cui fanno ricordo San Gerolamo e Sant'Agostino? e se sono, come si spiega che un uomo della levatura e del sapere di San Gerolamo le scambiasse per autentiche, mentre la falsità loro è per tal modo evidente che coloro stessi i quali tuttavia stimano di poter credere al cristianesimo di Seneca, e all'amicizia sua e di San Paolo, negano recisamente che esse sieno opera di questi due uomini? La questione fu molto dibattuta, e sino a questi ultimi tempi i critici che vi si cimentarono si divisero sistematicamente in due partiti, l'uno, di coloro che negavano le epistole sino a noi pervenute essere quelle stesse già divulgate nel IV secolo, l'altro, di coloro che affermavano invece essere quelle medesime appunto. Ma ultimamente un critico tedesco, Eugenio Westerburg, mostrò che tra queste due opinioni poteva aver luogo una terza, e provò, in modo da levare ogni dubbio(cosa che non s'intende come prima di lui non fosse già caduta in mente a qualcuno) che le quattordici epistole formanti il famoso carteggio non sono una produzione sola, ma bensì due diverse produzioni, separate da un intervallo di parecchi secoli.

Io non posso qui tener dietro alla sua discussione, e mi basterà di recarne in breve le conclusioni. Le quattordici epistole si sceverano in due gruppi, uno minore che comprende quelle segnate coi numeri X, XI, XII, l'altro maggiore, che comprende tutte le altre. Tra questi due gruppi

appare grande diversità, così di sostanza come di forma. Nel primo(ep. XII) Seneca si mostra invelenito contro Nerone, il persecutor dei cristiani, l'incendiario di Roma, e, sebbene non lo nomini, lo dice destinato all'inferno; nel secondo Seneca è amico di Nerone, e questi ammira certe lettere di San Paolo, lettegli dal filosofo. Le epistole del primo gruppo sono datate ed esattamente datate, salvo un leggiero errore, che forse non èoriginale; quelle del secondo non sono, ad eccezione delle ultime due, dove è indicata una coppia consolare non mai esistita. Finalmente la latinità delle epistole formanti il primo gruppo, è assai migliore di quella delle epistole formanti il secondo. Le tre epistole del primo gruppo sono avanzo del carteggio primitivo, conosciuto da San Gerolamo e da Sant'Agostino, le undici del secondo sono un carteggio nuovo, e questo, trovandosi in esso(ep. IX) citato, col titolo di liber de verborum copia, la Formula vitae honestae di Martino Dumiense, morto il 580, deve essere stato composto non prima del VI secolo. Senonchè, notandosi che la favola non ricomparisce se non nel IX, gli è probabile che il carteggio sia stato composto solamente ai tempi di Carlo Magno.

Non una dunque, ma due falsificazioni letterarie si ebbero, alle quali porse argomento la presunta amicizia di Seneca e di San Paolo, la seconda provocata dalla prima, dopochè questa, per ragioni a noi ignote, fu mutilata della sua maggior parte e rimase lungamente, sembra, del tutto dimenticata. Ma quale la ragion prima, quale la fonte delle finzioni che si contengono in esse? Parlando della più recente il Westerburg mostra come assai probabilmente essa faccia capo, insieme con la Passio Petri et Pauli, ad uno scritto, o andato perduto, o non ancora disseppellito, in cui tendenze ebionitiche, avverse a San Paolo sarebbero state mitigate da uno spirito gnostico e conciliativo. È noto chi fossero gli Ebioniti, e quale contegno ostile assumessero di fronte all'apostolo delle genti, il quale, mentre essi tenevansi stretti alla tradizione giudaica, da questa tradizione si scostava, e pareva voler procacciare una conciliazione della filosofìa coll'Evangelo, e della coltura etnica con le tendenze della nuova fede. In origine, il Simon Mago della leggenda altri non è che San Paolo, di cui si vuole sfatare il nome a fronte di San Pietro. Gli è pertanto assai ragionevole il credere che la favola dell'amicizia di Seneca e di San Paolo sia stata immaginata fra gli Ebioniti, per far nascere sospetto sulla fede e sulla onestà di costui, e in questa favola primitiva, non solo con Seneca, ma con Poppea ancora, e con lo stesso Nerone, l'apostolo doveva apparire strettamente legato. In essa certo si manifestava lo spirito ostile che l'aveva provocata. Nel carteggio più

recente di tale spirito non è rimasto vestigio; ma San Paolo vi si mostra ancora famigliare ed amico dell'imperatrice, designata col nome di domina, e Nerone, se non più come suo protettore, vi figura almeno come suo ammiratore. L'ipotesi del Westerburg è dunque, per quanto concerne questo secondo carteggio, molto plausibile; ma io non credo si possa più dire altrettantoquando l'autore vuole applicarla pure al carteggio più antico, facendo anche questo di origine ebionitica. Anzi tutto il frammento che c'è n'è rimasto è troppo scarso perchè si possa fare sicuro giudizio dell'indole sua; in secondo luogo l'indole che in questo frammento ci si manifesta è, come ho notato, a dirittura contraria a quella che mostra il carteggio più recente. Quivi Seneca ha in odio Nerone, e San Paolo non si vede avere con la corte di costui sospette relazioni. Senza escludere dunque nemmeno in questo caso la possibilità di una remota origine ebionitica, meglio che non nell'altro dissimulata da una successiva elaborazione del tema tradizionale, si deve dire che nulla forza ad ammettere una origine così fatta, e lasciare aperto l'adito ad un'altra congettura, la quale facesse nascere la finzione da uno spirito non ostile in nessun modo a S. Paolo, e da quella generale tendenza, di cui abbiamo già veduto altri effetti, a convertire a dirittura, o a far inclinare al cristianesimo i pagani più illustri. Tertulliano e Lattanzio notarono negli scritti di Seneca non pochi pensieri e non poche massime che molto bene si accordano con la fede; era pertanto cosa naturalissima che qualcuno tentasse di raccostare vie maggiormente a questa fede il filosofo, e facesse nascere la opinione che il meglio della dottrina di costui, non era se non frutto degli ammaestramenti di un apostolo di Cristo. E può darsi ancora che le epistole sieno state immaginate e scritte con l'intenzione di mostrare tra il filosofo e l'apostolo un'amicizia di tutt'altro carattere che quella non fosse di cui andavano forse calunniosamente favoleggiando gli Ebioniti.

Non è da meravigliare se ad uno scrittore generalmente tenuto in conto di cristiano si volle nel medio evo attribuire qualche opera che, meglio di quelle da lui veramente composte, recasse l'impronta della dottrina cristiana. Così è che noi vediamo andare sotto il suo nome quel trattato delle quattro virtù cardinali, altrimenti detto Formula honestae vitae, che si conosce essere opera di Martino Dumiense. Brunetto Latini, Albertano da Brescia, lo stesso Boccaccio, altri moltissimi, ne lo tenevano autore, mentre altri gli attribuivano un trattato De documentis et doctrinis e una raccolta di proverbii dove sono in gran numero detti e sentenze tratti da scrittori cristiani.

La morte di Seneca è ricordata da tutti i cronisti, non senza favole, come si può di leggieri immaginare. Essa era uno dei maggiori delitti imputati a Nerone. Nel IX secolo il vescovo Modoino, ricordando in una lettera consolatoria a Teodulfo molti esempii d'illustri infelici, ricorda anche Seneca:

Vulnera saeva suo fertur sumpsisse tyranno

Seneca precipuus caede Neronis obiit.

La ragione che da parecchi si dava dellasua morte è abbastanza curiosa. Nerone, diventato imperatore, ricordando le battiture ricevute da Seneca quand'era fanciullo, concepisce contro il maestro odio implacabile, e volendo di lui sbarazzarsi gli lascia solo la scelta della morte. Seneca si fa aprire le vene in un bagno. Così narrano Vincenzo Bellovacense, il Königshofen, altri. Hermann von Fritslar racconta invece che Nerone fece morir Seneca per invidia, essendo questi dalla gente stimato più savio di lui. Nel Roman de la Rose, si legge una ragione molto più strana: Nerone fa morire il maestro perchè non vuole più fargli riverenza, e dal fargliela non può più trattenersi, tanta è, sino dalla infanzia, la forza dell'assuefazione. L'autore dell'Aquila volante, dice che Seneca rimproverava continuamente a Nerone l'uccision della madre, "unde lo imperatore turbato contro Seneca lo fece anegare nel veneno". Nella Cronica degli imperatori romani si dice semplicemente: "..... seneca de Cordubia pare de lucan poeta commandador de Neron, de vita e de scientia preclaro, per salassadura de vena per caxon de veneno per commandamento de Neron si morì". Altrove la storia si ha più complicata. Nerone dà facoltà a Seneca di scegliere l'albero a cui dev'essere impiccato, poi lo minaccia, o lo fa minacciare con una spada ignuda, finalmente gli concede la morte nel bagno. Così si narra nella Leggenda aurea e nel Grosse Passional; così ancora da Giovanni d'Outremeuse: nell'Aquila volante anche questa versione è indicata. Enenkel racconta che Nerone, forzato che ebbe Seneca a morire, fece abbacinare il figliuolo di costui. La morte del filosofo si trova narrata inoltre nel Novellino. Giacomo da Voragine, il quale ha la smania delle etimologie, nota: "et sic quodam praesagio Seneca nomen habuit quasi se necans, quia quodammodo licet coactus manu propria se necavit". Non mancò finalmente chi anche nella morte del pagano filosofo volle avere le prove della cristianità di lui. Nella sua grande opera De scriptoribus latinis, inedita la più gran parte, Secco Polentone, racconta che Seneca, essendo nel bagno, invocò Cristo sotto il nome di Giove

liberatore, si battezzò da se stesso, e compose pel suo sepolcro un epitafio che faceva chiara testimonianza della sua fede; Hans Sachs narra anch'egli di questo battesimo.

Volgiamoci ora a qualcuno dei poeti che, dopo Virgilio ebbero maggior fama nel medio evo.

Orazio parrebbe non aver dovuto molto gradire a quella età, e pure, non solo egli è assai conosciuto, ma è anche molto stimato, principalmente per le sentenze morali. Alcuino si fregiava del nome di Flacco. In un luogo della Vita di Sant'Adalardo, Pascasio Radberto afferma che Virgilio, uso a farsi bello dell'altrui, rubò un verso ad Orazio, il quale era molto di lui piùantico. Nell'Ecbasis Captivi, composta nel X secolo, si hanno come ho già notato, più di 250 versi tolti di peso al Venosino. Uno scrittore di quel medesimo secolo, il quale probabilmente del poeta non conosceva altro che una raccolta dei soliti Flores, lo chiama con nome in vero assai strano, quasi monachus. Eccoci già sulla via della conversione, o a dirittura della santificazione, via non facile a correre in compagnia dell'autore di certe odi e di certe satire. Ma lo stesso Giovanni Sarisberiense, che lo conosceva assai bene, lo chiama col nome di ethicus, col quale chiama anche Giovenale, e del resto si han le prove in mano che alcuna delle odi amorose del poeta fu cantata da monaci con accompagnamento di melodie sacre. Abelardo pone Orazio tra i filosofi pagani citati dai dottori della Chiesa. I versi famosi del poeta dove è descritta la Morte, che indifferente picchia alla porla dei palazzi come a quella delle capanne, dovevano molto andare a genio a una età costantemente preoccupata del pensier della morte. Notker già li ricorda nel secolo IX:

ut cecinit sensu verax Horatius iste,

caetera vitandus lubricus atque vagus:

Pallida mors aequo pulsans pede sive tabernas

Aut regum turres, vivite, ait, venio!

Elinando li imita in quei Vers de la mort famosi nel medio evo, e ingiustamente attribuiti a Thibaut de Marly:

Mors, tu abas a. I. seul ior

ainsi le roi dedens sa tor

com le poure dedens son toit.

Le satire e le epistole di Orazio erano molto lette nelle scuole del medio evo, e assai più che non le odi e gli epodi. Tra i manoscritti

Harlejani del Museo Britannico si conserva un Orazio dove le odi sono omesse. Ugo di Trimberg, nel suo Registrum multorum auctorum, qualifica i primi di libri principales, e i secondi chiama minus usuales quos nostris temporibus credo valere parum; ma le odi e gli epodi imitava, narrando la vita, il martirio, la traslazione, i miracoli di San Quirino, Metello di Tegernsee nella prima parte dei suoi Quirinalia, composti nella seconda metà dell'XI secolo.

Uno degli annotatori della History of english poetry del Warton afferma che nel territorio di Palestrina il popolo ha tuttora Orazio in concetto di mago possente e benefico. Non mi riuscì di accertarmi della cosa; ma alcune parole del Petrarca, rilevate dall'Hortis, provano che una tradizione intorno ad Orazio continuava n vivere nel medio evo. Nel trattato della vita solitaria il Petrarca ricorda certo campo che, dopo tanto tempo, e tanti possessori mutati, conservava ancora il nome di Campo d'Orazio.

Dopo Virgilio il poeta latino più letto e più gustato nel medio evo fu certamente Ovidio, e che cosìavesse da essere s'intende di leggieri. Le Metamorfosi dovevan porgere pascolo assai gradito alla curiosità di tempi avidi di meraviglioso, e l'Arte amatoria e i Rimedii d'amore dovevano ottener molto credito in mezzo ad una società che dell'amore faceva quasi la principale occupazione della vita, e quando fioriva una poesia che non s'inspirava d'altro sentimento che dell'amore. Certo, per altra parte, le lascivie e le disonestà di cui riboccano i libri del Sulmonense, dovevano offendere il sentimento religioso, e provocare l'avversione degli spiriti timorati; ma noi abbiam già veduto, e vedremo ancor meglio fra poco, che con l'ajuto dell'allegoria si potevano coonestare molte cose, e ritrovare sotto la oscenità delle parole o delle immagini la moralità dei pensieri. Se non altro, l'allegoria era un velo, che, senza nasconderle, dissimulava alquanto le nudità, e permetteva ai ben pensanti di contemplarle senza rimanerne scandolezzati. Finalmente le stesse pitture troppo vive che abbondano nei versi del più facile fra i poeti latini, dovevano trovar molti ammiratori, e non tutti fra i laici:

Vivere Naso facit quando per ora jacit,

trovasi detto in una poesia dell'XI secolo, opera probabilmente di un canonico della cattedrale d'Ivrea, il quale non pare che avesse troppa inclinazione all'ascetismo. Del resto, per dare alle cose il loro giusto valore, non bisogna dimenticare mai che gli uomini del medio evo spesso pare non abbiano nessuna facoltà di discernimento, e che quel

loro spirito farraginoso e fantastico di nessuna contraddizione si offende, di nessuna mostruosità si spaura, ma le cose più disparate accozza insieme e confonde, senza addarsene nemmeno. Spesso nei bassorilievi che adornano le chiese del miglior tempo dell'arte gotica si veggono ritratti soggetti oscenissimi. La festa dell'asino celebravasi in chiesa. Un frate poteva passare la mattinata a trascrivere con amorosa sollecitudine sulla pergamena un'elegia di Catullo, e l'ore dopo il mezzodì a copiare il salterio. E che dire di uno che in diciott'ore d'ininterrotto lavoro copiava i Remedia amoris di Ovidio in onor della Vergine? Un frate sì fatto poteva ancora fiorire in pieno Rinascimento, nell'anno di grazia 1467, e lasciò il documento irrefragabile dell'opera sua.

Fra i dotti che frequentavano la corte di Carlo Magno Ovidio godeva di grandissima riputazione: parecchi lo imitavano; uno di essi andava superbo del nome di Nasone, per il quale soltanto è da noi conosciuto. Come più si va innanzi e più la sua fama cresce, e v'è chi si studia di scolparlo di certe accuse e di farlo parere migliore che veramente non fosse. In un manoscritto della Biblioteca di Zurigo, nel verso hoc est quod pueri tangar amore minus, il minus fu mutato in nihil, ed una mano pietosa notò inmargine: "ex hoc nota quod Ovidius non fuerit sodomita". Non è vero che Ovidio fosse uno scostumato. Vincenzo Bellovacense reca nel suo Speculum historiale, un'amplissima raccolta di flores morales tratti da tutte le opere di lui, e Alars de Cambrai, annoverandolo fra i filosofi, dice:

Ovides li tresime estoit

Qui molt noblement se vestoit

Et molt par fu de bones mors,

En ses liures parla d'amors.

Corrado di Megenberg gli attribuisce uno dei versi famosi della IV ecloga che avevano procacciato a Virgilio la dignità di profeta di Cristo. Gli scrittori ecclesiastici non si fanno scrupolo di citarlo: Fra Paolino Minorita, parlando nel De regimine principum della educazion dei figliuoli, a canto a una citazione dell'Ecclesiaste reca un esempio tratto da Ovidio. Al par di Virgilio il poeta degli amori poteva essere tolto a duce e a maestro: Brunello Latini, nel Tesoretto, si fa da lui liberare dalla tirannia dell'amore; nel Romam des trois pelerinages, composto da Guglielmo di Guilleville nella prima metà del secolo XIV, Ovidio ammaestra l'autore circa le maggiori verità della fede. Un altro po' e

anche Ovidio diventava cristiano.

Della celebrità che Ovidio godeva più particolarmente come poeta non fa mestieri arrecar molte prove. Abbiam già veduto che il Gower dà a lui la gloria di aver condotto a perfezione la lingua latina. L'autore del Jüngere Titurel, volendo citare esempii celebri d'intelligenza, d'arte, di forza, cita Aristotile, Salomone, Ovidio, Ercole. Ma Ovidio era anche annoverato tra i filosofi, e in una moralità olandese si parla di lui come se fosse un astronomo. Non sei tu, dice un personaggio allegorico all'uomo, stato creato col capo eretto per contemplare il corso del cielo che Ovidio ci fece comprendere? nelle quali parole si trova facilmente la reminiscenza di un verso famoso del primo libro delle Metamorfosi.

Le favole intorno ad Ovidio sono assai scarse, quasichè le molte da lui narrate bastassero a far sazie le fantasie. Nel XIV secolo si mostravano in Roma gli orti e il palazzo di Ovidio, ma nessuna leggenda sembra esser nata loro d'attorno. Qualche solitaria fantasia solamente troviamo circa il nome e circa l'esiglio. In una breve poesia latina, dandosi un cenno della vita e delle opere del poeta, si dà anche ragione del nome: Publius indica la pubblica fama; Naso e Ovidius traggono origine dal naso e dal vedere. Giovanni dei Bonsignori nelle sue Allegorie ed esposizioni delle Metamorfosi, scritte negli anni 1375-77, e più volte stampate, spiega altrimenti e con non meno libera fantasia: "Publio fu detto dal nome della sua chasa, che furono chiamati Publei, Ovidio fu detto dal suo proprio nome: tanto è a dire Ovidio quanto dicitore di tutte le chosedel mondo intendono(sic) il mondo meritevolmente. Poi fu detto Nasone per ciò che si chome pello naso odoriamo ogni chosa, chosì Ovidio ogni chosa mondana volse odorare e sapere".

Dell'esiglio del poeta si fa spesso ricordo, e non meno delle altre opere di lui erano conosciuti i Tristi. Teodulfo ed Ermoldo Nigello, essendo in disgrazia, li imitavano nelle loro elegie; nel secolo XIII Albertino Mussato ne traeva un centone. Modoino nel suo già citato rescriptum afferma che Ovidio fu relegato ingiustamente:

Pertulit an nescis quod longos Naso labores,

Insons est factus exul ob invidiam;

ma altri la pensavano altrimenti. Curioso a tale riguardo è il racconto che si legge in una delle continuazioni della cronaca di Rudolf von Ems. Ovidio era cancelliere e primo scrivano di un re. Scoperta la colpevole amicizia di lui e della regina, il re lo fa mettere in una nave, gli fa dare, richiestone, penna, inchiostro e pergamena, e lo abbandona solo in balìa

delle onde. La nave, tratta dai venti, vaga pei mari; ma intanto Ovidio scrive il libro di Troja, e riuscito ad approdare lo manda al re che gli perdona. Questo libro si chiama Ovidius de Pontus; scritto da prima in lingua pagana, esso fu tradotto poi in latino e in tedesco. Qui non si tratta, come potrebbe a primo aspetto sembrare, di una semplice confusione: un libro di Troja si trova attribuito ad Ovidio anche nei Gesta Romanarum ed altrove. Esso è, per avventura, quello stesso che si crede composto da un Bernardo Floriacense, vissuto nel X secolo, e che è sino a noi pervenuto col titolo di Elegia de excidio Trojae. Brunetto Latini credette, pare, che Ovidio fosse stato, per ordine d'Augusto, rinchiuso in un carcere, giacchè, parlando dell'Ibis, così dice in un luogo del suo Tresor: "Et sachiez que Ovides li très bon poetes, quant li empereres le mist en prison fist .i. livre où il apeloit l'empereor par le non de celui oisel; car il ne savoit penser plus orde creature". Non so poi come Brunetto conciliasse questa supposta invettiva dell'Ibis con la sommessione servile espressa dal poeta nei Tristi e nelle Epistole dal Ponto, nè so del pari d'onde egli traesse quella curiosa notizia.

Ovidio non riuscì, come altri compagni suoi di poesia e di paganesimo, a entrare nel grembo della Chiesa, tuttochè Guglielmo di Guilleville lo facesse molto versato nelle dottrine cristiane. In certa novella latina si racconta che due scolari si recarono una volta al sepolcro di lui per averne qualche ammaestramento, eo quod sapiens fuerat. Uno di essi domandò qual fosse il verso più efficace da esso poeta composto, e una voce gli rispose:

Virtus est licitisabstinuere bonis.

L'altro domandò quale fosse il verso peggiore, e gli fu risposto:

Omne juvans statuit Jupiter esse bonum.

Udite le risposte, i due scolari pensarono di pregare per l'anima del poeta; ma questi, essendo dannato, e conoscendo che a lui nulla giovavano le preghiere, gridò loro:

Nolo Pater Noster; carpe, viator, itor.

In questo racconto sono da notare due cose: la ragione dell'andata degli scolari al sepolcro, la quale presuppone non solo una grande scienza in Ovidio, ma ancora una certa potenza magica, a lui sopravissuta, e inerente in certo modo alle sue ossa, e il desiderio di riscattare dall'inferno l'anima del grande poeta. Anche qui ci si manifestano dunque le due principali tendenze con che la fantasia del

medio evo si esercita intorno agli scrittori dell'antichità.

Non è proposito mio di discorrere qui partitamente della fortuna che Ovidio ebbe nel medio evo come scrittore, e di tener dietro alle vicende de' varii suoi libri. Altri attese già a tale studio importante con la erudizione e la diligenza che il soggetto richiede: io mi terrò pago di alcuni rapidi cenni. Tutte le opere di Ovidio sono nel medio evo conosciute e citate, la più gran parte anche imitate e tradotte; il gran numero di quelle che a lui sono allora indebitamente attribuite fa testimonianza del molto favore onde gode il poeta. I trovatori di Provenza, che della poesia latina avevano assai scarsa cognizione, citano Ovidio abbastanza spesso, e spessissimo lo citano i troveri francesi e i minnesinger tedeschi: più di rado invece i lirici italiani del primo secolo. La sua celebrità viene principalmente dalle Metamorfosi e dai libri amatorii: egli è in pari tempo la fonte inesauribile delle favole e il gran maestro dell'amore. Peire de Corbiac dice nel suo Tezaur:

Faulas d'auctors sai ieu a miliers et a cens,

mais c'anc non fes Ovidis ni Tales lo mentens.

Chi s'intendesse con questo Talete l'autore non so. Golia in quella curiosa visione da lui descritta nell'Apocalypsis, e già altrove ricordata, vede, fra molti altri antichi autori, anche Ovidio, lo spacciatore di favole,

Pascentem fabulis turbas Ovidium.

Ma contro il fabularium Sulmonensem Ovidium si scaglia Guido de Columna nella Historia destructionis Trojae. Giovanni Lydgate, nel suo poema intitolato The temple of glass, descrive un tempio di vetro sulle cui pareti sono istoriati i casi di Medea e Giasone, di Adone e Venere, di Piramo e Tisbe, di Teseo, di Dedalo, insieme con quelli di Enea e di Didone, di Penelope, di Alceste, di Griselda, di Tristano ed Isotta, e d'altri parecchi. Nella prima parte del Pome del Bel Fioretto Domenico da Prato descrive una fonte di marmo istoriata. Accennate due di quellestorie il poeta soggiunge:

Molte più storie v'è ch'io non ho conte,

D'Ovidio e de' poeti intorno intorno.

Nel Roman de Flamenca sono ricordate le favole di Piramo e Tisbe, d'Ero e Leandro, di Cadmo, di Giasone, di Ercole, di Fillide e Demofoonte, di Narciso, di Orfeo ed Euridice, di Dedalo ed Icaro: esse correvano per le bocche dei giullari.

Delle Metamorfosi, che andavano sotto il nome di Ovidius magnus, o

major, in latino, di Ovidio maggiore in italiano, di Ovide le Grant in francese, si fecero assai per tempo versioni in francese, in tedesco, in italiano. Le Metamorfosi erano tenute libro capitale, e Alfonso X di Castiglia dice nella Grande e general historia che esse erano pei gentili ciò che la Bibbia pei cristiani. Una vecchia traduzione francese, porta per titolo: La bible des poetes methamorphoze. L'allegoria prestava compiacente il suo officio per dissimulare o attenuare l'impressione di quanto in esse poteva offendere gli animi onesti e morigerati. Già Teodulfo, vescovo di Orleans, uno degli uomini che più illustrarono la corte di Carlo Magno, credeva che in Ovidio, sotto le gaje e licenziose parvenze della favola, si nascondessero verità profonde, e Dante perseverava in tale credenza. Moralizzare con l'ajuto dell'allegoria le Metamorfosi fu, nel medio evo, occupazione gradita di letterati. Roberto Holkot, Pietro Berchorio, Filippo di Vitry, o piuttosto Cristiano Legouays de Sainte-More, Guglielmo di Nangis in vario modo vi attesero. In Italia Dionigi da Borgo San Sepolcro compose sulle Metamorfosi certe tropologie che da Clemente VIII furono condannate. Un Giovanni Virgilio, che non so se sia tutt'uno col Giovanni del Virgilio amico di Dante, fece delle Metamorfosi una esposizione allegorica, e una traduzione con allegorie ne dava Giovanni de' Bonsignori, più volte stampata. Secondo quest'ultimo autore "Mettamorfoseos è nome grecho, e dicesi da meta, ch'è vochabol grecho, che viene a dire in gramaticha la scienza; morfoseo è anchora nome e vochabolo grecho, e viene a dire in gramaticha latina mutato; e chosì rilieva in tutto trasmutazione".

Ma non tutte le favole di Ovidio maggiore piacevano a un modo; ce n'erano alcune assai più dell'altre conosciute e gradite, per esempio quelle di Narciso e di Piramo e Tisbe. Pietro Cantor, che morì nel 1197, dice, parlando in un luogo del suo Verbum abbreviatum di certi preti che, recitata una messa, non ricevendo nessuna oblazione, tosto ne cominciano una seconda, e qualche volta una terza e una quarta: "Hi similes sunt cantantibus fabulas et gesta, qui videntes cantilenam de Landrico non placere auditoribus, statim incipiunt de Narcisso cantare: quod si nec placuerit, cantant de alio". La favola di Narciso è ricordata da Guiraut de Cabreira, da Bernart de Ventadorn, da Peirol,nel Roman de Flamenca, nel Roman de la Rose, nei Carmina burana, dal Gower, dal Chaucer, dal tedesco Heinrich von Morungen ecc. ecc. Essa porge argomento a un racconto del Novellino, e ad una novella francese in versi. In questa il soggetto è curiosamente accomodato al gusto romantico dei tempi: la mitologica Eco cede il luogo alla figliuola di un re,

la bella Dana, che s'innamora del giovinetto Narciso, vedendolo un giorno tornar dalla caccia, a cavallo. Tutto lo svolgimento dell'azione è conforme alle tradizioni della letteratura amatoria e cavalleresca del tempo in cui scrisse l'autore.

La commovente storia di Piramo e Tisbe è ricordata da Guiraut de Cabreira, da Arnaut de Marueil, da Rambaut de Vaqueiras, da Elias de Barjois, da Peire Cardenal, da Arnaut de Carcasses, da Raimon de Durfort, nella tenzone di Rufian e Izarn, nel Roman de Flamenca, nel Roman de la Poire, nei Gesta Romanorum, da molti poeti epici e lirici francesi italiani, tedeschi, inglesi. Essa aveva, come esempio, una gran forza nelle cose d'amore, e i nomi di Piramo e Tisbe si citavano insieme con quelli dei più fedeli e più illustri amanti, Ero e Leandro, Lancilotto e Ginevra, Tristano ed Isotta. Quanti non espressero, in una od in altra forma, il pensiero da Pier delle Vigne significato alla sua donna in quei versi:

E direi come v'amai dolcemente

Più che Piramo Tisbe.

Due poeti latini del medio evo la rinarravano in nuovi versi, la rinarrava il Chaucer, la rinarrava Dirk Potter, la rinarravano gli autori sconosciuti di un poemetto francese, di uno olandese, di una novella italiana. Onorevole ricordo dei due amanti infelici fa il Boccaccio nell'Amorosa Visione e nel De claris mulieribus ne rinarra la storia. Persin nelle chiese s'istoriava il lacrimevole caso. Nella cattedrale di Basilea esso si vede scolpito sulle quattro facce di un capitello, opera del secolo XII. Può darsi del resto che anche in esso si scoprisse un'allegoria, giacchè il leone nel simbolismo cristiano è spesso figura del diavolo.

Anche la favola di Orfeo ed Euridice, la quale, oltre che da Ovidio, era stata narrata da Virgilio nel IV delle Georgiche, fu molto conosciuta, e in parte per le medesime ragioni. Essa porse argomento a una novella francese in versi, a un poemetto inglese, a un poemetto popolare italiano molto volte stampato: l'Orfeo del Poliziano non cade qui in considerazione. Ma essa si prestava ancora meglio di molte altre alla interpretazione allegorica. Già Boezio, narrandola in fine del l. III De Consolatione, se ne giova come di una parabola atta a fare intendere che l'anima, la quale vuole darsi a Dio, deve rinunziare al mondo, e non più rivolgere adesso il desiderio e lo sguardo. In una versione francese del trattato De consolatione, opera probabilmente di un italiano, e scritta nel secolo XIV, il racconto di Boezio è stranamente alterato, ma in modo

da farlo più conforme ai gusti di allora. Orfeo passa la vita a piangere sulla tomba della sua diletta Euridice. Una notte un diavolo gli apparisce, ed egli tosto domanda di poter andare con lui all'Inferno, per rivedere la sposa. Il demonio acconsente, gli fa da guida, e quando Orfeo ritrova nel tenebroso regno la sua donna, tutta la famiglia dei diavoli si smascella dalle risa al vedere i segni della sua incomposta letizia. Orfeo chiede di poter ricondurre seco la sposa, e i diavoli, che meditano di fargli una strana burla, glielo concedono, a patto che egli, Orfeo, non si volti indietro per nessuna cosa che veda, o che oda. Orfeo si parte insieme con la sposa, e la sua felicità non ha pari; ma i diavoli non tardano a suscitargli dietro un così spaventoso fracasso, che egli, sgomentato, si volta, e perde novamente il suo amore. Così parimente succede a coloro che in compagnia della loro donna, la Verità, se ne vanno verso il Paradiso, e cammin facendo si lasciano vincere dalla tentazione di rivolgersi novamente al mondo.

Molte altre delle favole narrate nelle Metamorfosi si trovano ricordate qua e là, in iscritture di diversissima indole, a far testimonianza della riputazione del libro. Nei Gesta Romanorum si moralizza sulla favola di Argo. Quella di Dedalo ed Icaro, che pure si prestava molto bene alla moralizzazione, è ricordata da Guiraut de Calanson, da Richart de Barbezil, da Bertran de Paris, nel Roman de Flamenca, nel Roman de la Rose. La storia romantica degli Argonauti doveva andar molto a genio all'uditorio dei giullari. Essa è ricordata spesso, e anche nel Fierabras, dove si fa del Colco un'isola:

l'ille de Corcoil, dont on a moult parlé,

Là ou Jason ala, là û fu endité,

Por l'ocoison d'or fin, ce dient li letré.

Benoit de Sainte-More la narra nel Roman de Troye. Una Historia di Giasone e Medea, poemetto popolare di 124 ottave, fu stampato la prima volta in Firenze nel 1557.

Ma la riputazione maggiore Ovidio la godeva come autore dei libri amatorii; egli era nelle cose d'amore autorità indiscutibile. Gli è per questo che Alano de Insulis lo chiama Amorigraphus. Ovidio era il maestro a cui doveva ricorrere chiunque desiderasse d'intendere addentro le secrete arti d'amore. Già nei Disticha Catonis si dice:

Si quid amare libet vel discere amore legendo

Nasonem petito.

E questo consiglio si ripete naturalmente nelle traduzioni. Brunetto Latini nel Tesoretto mette in mostra anzituttoil poeta degli amori:

Vidi Ovidio maggiore,

Che gli atti dell'amore,

Che son così diversi,

Rassempra e mette in versi;

e Don Amor dice all'Arciprete di Hita:

Si leyeres Ovidio el que fue mi criado,

En él fallaràs fablas, que le hobe yo mostrado,

Muchas buenas maneras para enamorado.

Francesco Imperial, in una poesia composta nel 1405 per la nascita dell'infante che poi fu Giovanni II re di Castiglia, augura tra l'altre cose al fanciullo di essere mas sabidor de amor que Nason.

Chi aveva letto i libri amatorii del Sulmonense non poteva essere ignorante della scienza d'amore; l'una cosa escludeva l'altra. Gli è per ciò che in certa poesia italiana, fatta tutta, ad imitazione di certe poesie provenzali, di concetti contraddittorii e di versi contrapposti, l'anonimo autore per dare ad intendere com'egli abbia il cervello a soqquadro, dice fra l'altro:

E de l'amore no' so dir ragione,

Ed aggio letto verso dell'Onvidio.

S'è visto che, per designare più particolarmente l'autore delle Metamorfosi, si diceva Ovidio maggiore. Quando si diceva Ovidio, senz'altro, pare s'intendesse più propriamente dell'autore dei libri amatorii. I versi testè citati danno di tale uso del nome un esempio, e Cino da Pistoja comincia un sonetto a Onesto Bolognese, dicendo:

Se mai legesti versi de l'Ovidi;

dove del nome di Ovidio si fa il medesimo uso.

L'Ars amandi fu tradotta in tutte le lingue. In Francia essa fu tradotta e imitata più volte, e primo a tradurla fu nel XII secolo Chrestien de Troies, che diede pure una versione dei Remedia amoris, secondochè si rileva dalla sua stessa testimonianza. Una versione italiana dei Remedia fu fatta da Andrea Lancia nel secolo XIV, e di quel medesimo secolo forse è anche una versione anonima dell'Ars amandi, stampata la prima volta dal Riessinger in Napoli. I Remedia si ritrovano, abbreviati, in un poema

francese del secolo XIV, intitolato Les èchechs amoureux, e molti degli ammaestramenti amatorii del poeta metteva in una specie di fabliau un tal Guiart. Le citazioni da tutti i libri amatorii sono innumerevoli. Veramente parrebbe che il medio evo, il quale escogitò quella sottilissima, e diciam pure fastidiosissima metafisica dell'amore che tutti sanno, non dovesse trovar troppo di suo gusto quei libri, fatti assai più in servigio della pratica che della teorica; e pure i corali amadori e le donne fine se ne beavano. In un poemetto olandese di Florio e Biancofiore, composto da Dideric van Assenede nel XIV secolo, si dice che i due giovani innamorati leggevano l'arte amatoria di Ovidio, e lo stesso si dice in una versione islandese in prosa di quella storia celeberrima, e nel Filocopo del Boccaccio.

Delle altre opere del poeta, tutte anch'esse molto conosciute, tralascio di parlare: noteròsolo che nei Mirabilia i Fasti sono indicati col nome strano di Martyrologium Ovidii de Fastis.

Grande era dunque la riputazione di Ovidio; ma non poteva essere, da altra banda, che la molta disonestà dei suoi libri non desse argomento di avversione e di biasimo a parecchi. Sebbene più di un poeta cristiano dei primi secoli lo avesse, senza scrupoli, imitato quanto alla forma, la sostanza de' suoi versi repugnava troppo alla coscienza cristiana. Dice Sant'Isidoro nel trattato De summo bono che il poeta pagano che più si deve fuggire è Ovidio: vero è che nemmen egli si tiene dal citarlo spesso. Così Cristina di Pisan, che pure nella sua epistola au dieu d'amour si giova con frequenza dell'Arte amatoria, raccomanda al proprio figliuolo di non leggere nè il Roman de la Rose, nè quella:

Se bien veulx et chastement viure

De la Rose ne lis liure,

Ne Ouide de l'Art d'amer,

Dont l'exemple sert a blasmer.

Ma ben più innanzi era andata Maria di Francia, la quale nel Lai de Gugemer descrive una pittura dove è rappresentata Venere in atto di dare alle fiamme il libro De arte amandi, e scomunicare chi lo legge, o ne segue gli ammaestramenti.

Vénus la dieuesse d'amur,

Fu très bien mis en la peinture,

Les traiz mustrez è la nature,

Cument hum deit amur tenir,

E léalement è bien servir.

Le livre Ovide ù il ensegne,

Coment cascun s'amour tesmegne,

En un fu ardent les jettout;

È tuz iceux escumengout,

Ki jamais cel livre liraient,

Et sun enseignement fereient.

Certo si è ad ogni modo che queste scomuniche di Venere fecero poco frutto.

Un poeta, ancor esso molto letto e molto amato nel medio evo, è Lucano. La Farsaglia è allora tra i libri classici più conosciuti, e tutte le storie romanzesche di Giulio Cesare ne dipendono. Come gli altri poemi dell'antichità, essa va soggetta a rifacimenti, i quali tuttavia presentano questo di particolare, che l'alterazione fantastica del modello è in essi assai minore che in altri. Bensì, come ebbi già occasione di avvertire, si muta lo spirito generale dell'opera, che di avverso a Cesare diviene favorevole. Giovanni di Tuim e Giacomo di Forez, de' quali ebbi già a parlare, si dichiarano, e sono veramente in sostanza, semplici traduttori e continuatori di Lucano; anzi nei loro racconti sparisce pressochè interamente il poco meraviglioso che nel poema latino si trova, cosa certo abbastanza singolare. Così il passaggio del Rubicone è da essi descritto con la più grande semplicità. Cesare è trattenuto alquanto da difficoltà puramente naturali, giacchè "par les flueves et par les plueves cele riviere estoit fors issue de son canal"; la famosa prosopopea di Roma è soppressa di pianta. Nel XIV secolo laFarsaglia si traduceva in catalano; alcune opere, come i Faictz des Romains, e i Fatti di Cesare attingevano da essa e insieme da Sallustio, da Svetonio, da altri.

La celebrità del poema veniva essenzialmente dal soggetto in esso trattato; ma il medio evo non sarebbe poi stato in caso di avvedersi della inferiorità del suo autore di fronte ad altri poeti latini. Si sa che gli antichi non fecero grande stima di Lucano come poeta: Quintilliano disse di lui schietto schietto: "Oratoribus magis quam poetis annumerandus". Tuttavia nel medio evo ci fu chi lo mise sopra Virgilio. Nel XIII secolo l'anonimo autore di una Vita di Sant'Osvaldo in versi latini, nomina, quali i tre principali poeti, Omero, Gualtiero di Chatillon e Lucano.

Il Benedettino Otlone, nato circa il 1013, morto nel 1072, o 1073, portava sempre, prima che prendesse in avversione gli studii profani, il

suo Lucano con sè. Onorio Augustodunense discerne quattro generi nella poesia, i quali sono Tragedia, Commedia, Satira e Lirica. Per tragedia intende, come comunemente s'intende nel medio evo, la poesia epica: Tragoediae sunt quae bella tractant; e volendo citare un esempio di questa poesia, cita Lucano. Già altrove ho riportato il verso dell'Apocalypis Goliae:

Lucanum video ducem bellantium.

Eberardo Bituriéense si contenta di dire, paragonando Lucano e Stazio:

Lucanus clarae civilia bella lucernae

Imponit, metro lucidiore canit.

Alars de Cambrai pone Lucano pel quinto tra i filosofi:

Li quins est apeles Lucans

Qui sot de musique et de cans

Et a merveilles fu cortois,

Cil savoit bien totes les lois.

Anche Guiot de Provins lo pone nel novero dei filosofi, tra Virgilio e Stazio. Il Chaucer pare che lo consideri piuttosto come storico che come poeta, giacchè nella sua House of Fame lo mostra sopra una colonna di ferro, in compagnia di parecchi storici. Per Dante Lucano è l'ultimo dei grandi poeti che ritrova nel Limbo.

Stazio non ebbe minor fama nel medio evo, e fu per giunta annoverato tra i santi. Le Selve non si conobbero che assai tardi; ma la Tebaide fu travisata al solito nel Roman de Thèbes, e nella Story of Thebes di Giovanni Lydgate, e largamente usufruita per la composizione della Teseide dal Boccaccio e del Temple of Mars dal Chaucer. Konrad von Würzburg, nel suo grande poema della guerra di Troja, attinse non poco dall'Achilleide. Nel Carmen de Ernesti Bavariae ducis fortuna, composto fra il 1206 e il 1233, Oddone dice che sullo scudo del duca Ernesto erano figurate le storie tebane.

Nel medio evo si credette comunemente che Stazio fosse nativo di Tolosa, cagionato l'errore dal confondersi il poeta col retore Stazio Surculo o Ursulo, come fa ancora il Boccaccio nella Vita del Petrarca. Dantee il Petrarca partecipano del comune errore. Nel già citato trattato manoscritto De vita et moribus philosophorum, quell'errore apparisce in buona compagnia, giacchè vi si legge: "Stacius autem Cecilius poeta socius et contemporaneus Ennii poetae, natione Gallus, Mediolani obiit.

Huius est sententia ista, ut ait Agelius (Aulus Gellius?): Inimici pessimi sunt illari fronte et corde tristi. Hic duos filios habuit poetas metricos, scilicet Achimenidem(l. Achilleidem) et Thebaidem".

Tutti ricordano l'incontro di Dante con Stazio nel c. XXI del Purgatorio. Il poeta latino dice dell'esser suo, e narra poi nel canto seguente come dalla lettura della IV ecloga di Virgilio fosse tratto a credere in Cristo, e ricevesse il battesimo, benchè tenesse celata la sua fede. Si credette nel medio evo che, avendo voluto ammansare l'ira del gran persecutor di cristiani Domiziano, egli avesse pagato col martirio il suo zelo, ed era per questo annoverato tra i santi. Nella Tebaide si leggono due versi che dovevano molto andare a genio ai cristiani, e favorir l'opinione che il suo autore fosse nemico dell'idolatria:

Nulla autem effigies, nulli commissa metallo

Forma dei, mente habitare et pectore gaudet.

Dante è forse il solo che leghi ai versi famosi di Virgilio la conversione di Stazio; ma ciò facendo egli non seguitava una fantasia puramente arbitraria. Nella Image du monde si accenna a conversioni operate appunto da que' versi:

Si ot de ceulx qui par lor sens

Prophetisierent le saint temps

De la venue Ihesucrist,

Si comme Virgiles qui dist,

Qui fu au temps Cesar de Romme,

Dont maint deuindrent puis preudomme,

Dist qu'une nouuelle lignie,

Etc.

Narra inoltre la leggenda che i tre pagani Secundiano, Marcellino e Veriano si convertirono al cristianesimo in virtù di que' versi famosi.

CAPITOLO XVIII. Severino Boezio.

Delle varie leggende di scrittori che siamo venuti esaminando sin qui, alcune, anzi le più, se pure riuscirono a passare la soglia del Rinascimento, sono ora in tutto morte, e appartengono di pien diritto alla storia delle immaginazioni del medio evo; altre si sono lasciate dietro un leggiero strascico, che va, ogni giorno più, dileguando: la leggenda di

Boezio invece vive tuttora, e sebbene i fondamenti della sua credibilità non sieno gran che più saldi di quelli dell'altre, pure tuttora si afferma e ricalcitra alla critica.

La celebrità di Boezio fu grande nel medio evo, sostenuta non meno dalle opere autentiche di lui che da quelle suppositizie, attribuitegli nella credenza ch'egli fosse stato un teologo o un martire della fede. Per lungo tempo non si conobbe della filosofia di Aristotile se non quello che se ne poteva leggere nelle versioni e nei commentarii di Boezio, i quali ultimi, disgraziatamente, diedero l'indirizzo agli studii logici nel medio evo. Boezio è il primo degli scolastici.Le altre opere sue che si conservavano, intorno all'aritmetica ed alla musica, facevano testo, ed erano universalmente usate nelle scuole. Onorio Augustodunense, descrivendo nel già citato suo libro De animae exilio et patria le due città di Aritmetica e di Musica, dice che nella prima insegnava Boezio, e nella seconda cantavano cori ammaestrati nelle sue dottrine. Della grande venerazione in cui egli era tenuto può far fede, tra molti altri, il seguente fatto. Nell'anno 996 l'imperatore Ottone III volle avere nella sua reggia l'effigie di Boezio, al qual proposito Gerberto, che fu poi papa Silvestro II, il più dotto uomo de' tempi suoi, compose alcuni versi, a modo d'iscrizione, ne' quali si fa del filosofo latino un magnifico elogio. Nell'Image du monde si dice che Platone ed Aristotile non iscrissero nulla in latino,

Car andui furent Sarrazin.

Ma poi venne Boezio,

Ung grans philosophes et sages,

Qui aprist de pluseurs langages,

Et qui droiture moult ama.

Cil de lor liure translata,

Grant partie on mist en latin;

Mais il vint ancois en la fin

Qu'il les eust translates tous;

Dont ce fu domages a nous.

Puis en ont autre translate,

Qui furent bon clerc et letre;

Mais cil en translata le plus,

Que nous auons encor en us,

Et fist maint bon liure en sa vie

De moult haute philosophie,

Qui nous ont encor bon mestier

Pour nous enuers dieu adrecier.

Durante tutto il medio evo Boezio fu tenuto pel più grande filosofo, e pel più autorevole savio dopo Aristotile. Una curiosa testimonianza dell'alto concetto in che s'aveva la saviezza di lui trovasi in una novella del Pecorone, dove egli è introdotto ad ammaestrare coi suoi consigli Janni, che non poteva far masserizia, e Ciucolo, che aveva moglie perversa.

Ma il fondamento principale della gloria di Boezio nel medio evo lo porgeva il trattato De consolatione philosophiae, di cui sono innumerevoli codici. Lo spirito di umiltà e di rassegnazione ond'è tutto informato questo libro singolare, il sentimento vivo, che ad ogni istante vi si appalesa, della vanità delle cose terrene, l'aspirazione ad un vero assoluto, e ad una felicità che non è di questo mondo, gli assicuravano il gradimento di una età che il sommo della perfezione poneva nell'ascetismo; e la conoscenza delle condizioni in cui il libro era stato scritto contribuiva a farne più venerato l'autore. Molti in quelle pagine, piene di una serena mestizia e di un alto sentimento di morale dignità, cercarono e trovarono consolazione ad acerbi dolori. Eberardo Bituricense dice nel terzo carme De versificatione:

Eximia ratione beat Boethius, ut det

Solamen misero philosophia viro.

Dante, poichè ebbe perduto il primo diletto della sua anima, Beatrice, rimase immerso in tanta afflizione che nessun conforto gli valeva. "Tuttavia, raccontaegli stesso, dopo alquanto tempo, la mia mente, che s'argomentava di sanare, provvide(poichè nè il mio, nè l'altrui consolare valea) ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi. E misimi a leggere quello, non conosciuto da molti, libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s'avea". Alberto della Piagentina, più comunemente detto Alberto Fiorentino, tradusse il libro di Boezio nel 1332, mentre era chiuso nelle carceri di Venezia, dannato a quasi dieci anni di quella pena, e il traduceva per consolarsi della sua sciagura. Cristina di Pisan, profondamente afflitta per la perdita dello sposo, ebbe anch'ella conforto da quel libro:

Et lors me vint entre mains

Un livre que moult amay,

Car il m'osta hors d'esmay

Et de desolacion:

C'iert de consolacion

Boece le prouffitable,

Livre qui tant est notable.

Nel Troilus and Cresseide del Chaucer, Pandaro conforta Troilo, abbandonato dalla donna amata, con argomenti tratti dal De Consolatione. Spesso nelle versioni è richiamata l'attenzione del lettore sulla efficacia e la virtù consolatrice del libro.

Tutto il medio evo lavorò intorno ad esso. Chentigerno Giasconense, morto, secondo si crede, nel 560, pare che vi facesse su un commento, e lo commentarono poi Asser, vescovo di San Davide, intorno all'890, Bruno, monaco di Corbia, poscia vescovo di Colonia, Guglielmo di Conches, Nicola Triveth, Ugolino Malabranca da Orvieto nella seconda metà del secolo XIV, ed altri che sarebbe lungo noverare. Le traduzioni in tutte le lingue sono a dirittura innumerevoli. A me basterà di ricordare l'anglosassone antichissima, attribuita, ma a torto, ad Alfredo il Grande(m. nel 900), la tedesca di Notker, appartenente al principio dell'XI secolo, la francese di Jean de Meung, l'inglese del Chaucer, che probabilmente tradusse, non dall'originale, ma da una traduzione francese, la spagnuola di Pero Lopez de Ayala(1332-1407). Le versioni italiane, sino a quella di Benedetto Vacchi, sono assai numerose. Il testo latino fu uno dei primi libri stampati. Ma non solo commentatori e traduttori, esso trovò anche imitatori in gran numero, sia quanto alla forma, sia quanto alla sostanza. Arrigo da Settimello lo imitò nel suo trattato De diversitate fortunae et philosophiae consolatione, Albertano da Brescia nel suo Liber consolationis et consilii. Pedro de Luna(Benedetto XIII) nel libro intitolato Vitae humanae adversus omnes casus consolationes, Giovanni di Tambacco nel De consolationibus theologiae. Intorno al 1120 un benedettino francese per nome Eccard scrisse un trattato De Consolatione monachorum, dove la prosa alterna co' versi; e ad imitazione del libro di Boezio componeva Alano de Insulis il suo Liber de planctu Naturae. Brunetto Latini nella descrizione che della Natura fa nel Tesoretto imita quella che della Filosofia fa Boezio. Ma il monumento più singolare che della propria venerazioneper Boezio ci abbia tramandato il medio evo, è quel curioso frammento di poema

provenzale, parte parenetico, parte narrativo, a tutti i romanologhi cognitissimo, perchè uno dei più antichi documenti romanzi sino a noi pervenuti, nel quale Boezio apparisce come un predicatore della parola di Dio e come un martire, e in cui era tutto forse riprodotto il trattato De Consolatione philosophiae. Di esso dovrò riparlare.

Tanta riputazione era nel medio evo fondamento più che bastante ad alzarvi sopra qualsiasi leggenda, massime poi quella che tramutava Boezio, tuttochè laico, in un dottore della Chiesa e in un santo. Cominciamo anzi tutto dall'esaminare questa leggenda, che ancora atteggiasi a storia, nella sua totalità, poscia ci faremo a considerare alcune particolarità e varianti caratteristiche di essa.

La formola sua più generale è la seguente: Boezio, strenuo campione a parole e a fatti della fede cattolica, incorre nell'ira di Teodorico, ariano e persecutor della Chiesa. Relegato, chiuso in un carcere, egli sostiene con cristiana rassegnazione gl'immeritati patimenti, e, da ultimo, suggella col sangue il martirio. L'anima sua è fatta partecipe della gloria e dei gaudii del paradiso. Tale è la forma sotto cui la leggenda ci si porge nella Divina Commedia. Dante pone l'anima di Boezio nel Sole, dove dimorano l'anime beate dei dotti in divinità. L'autore del De consolatione philosophiae ha compagni di beatitudine San Tommaso d'Aquino, Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Dionigi l'Areopagita, Isidoro di Siviglia, Beda, e altri parecchi; ed è lo stesso San Tommaso, il principe dei teologi, che lo addita al Poeta:

Or se tu l'occhio della mente trani

Di luce in luce dietro alle mie lode,

Già dell'ottava con sete rimani.

Per vedere ogni ben dentro vi gode

L'anima santa, che il mondo fallace

Fa manifesto a chi di lei ben ode.

Lo corpo ond'ella fu cacciata giace

Giuso in Cieldauro, ed essa da martiro

E da esilio venne a questa pace.

Io non posso entrare in una discussione particolareggiata della leggenda, argomento già troppe volte trattato, ma bisogna che mi limiti a raccoglier qui le prove più convincenti e che più perentoriamente appunto dimostrano l'esser suo di leggenda. Prima di ogni altra cosa è

da osservare che i fatti asseriti in essa non sono indissolubilmente legati tra loro, e che non tutti rivelano egualmente a primo aspetto il loro carattere leggendario. Ciò che in essa si narra del martirio di Boezio è di sì notoria falsità che non ha mestieri di lunga confutazione. Lo stesso Boezio dà le ragioni della sua disgrazia. Egli fu da malvagi calunniatori accusato di tramare contro Teodorico, di essere desideroso di cose nuove, di serbare con l'imperatore Giustino secreta intelligenza. L'aver levato la voce in difesa dialtri senatori accusati gli volse contro le ire del principe barbaro, ch'egli chiama bensì rex avidus communis exitii, ma non mai un persecutor dei cattolici. Boezio dichiara apertamente di soffrire per la causa della giustizia, non per quella della religione. La sua sola testimonianza basterebbe a sbugiardare la leggenda del martirio; ma ad essa si può aggiungere quella degli storici più antichi, provante come la leggenda non sorse subito, o sorta, non subito si diffuse. Procopio, contemporaneo, dice assai chiaro nel l. I della Historia Gothorum che Teodorico fece morire Simmaco e Boezio per false accuse di delatori invidiosi, i quali gli diedero a credere che i due senatori tramassero contro di lui: di motivi religiosi neppure un cenno. L'Anonimo Valesiano, il quale dovette scrivere non molto dopo il mezzo del VI secolo, parlando del supplizio di Boezio e di Simmaco, non dice nulla, egli cristiano, della loro fede cristiana, nè fa intendere in nessun modo che avessero per essa sofferto il martirio. Gregorio di Tours e San Gregorio Magno non fanno nessun ricordo di Boezio martire; Beda non lo considera come tale nel suo Martirologio; e poichè questi scrittori conoscevano pienamente l'autore del De consolatione philosophiae, il loro silenzio prova che essi nulla sapevano del supposto martirio di lui, o che se avevano notizia di una falsa tradizione, forse già nata, a tale riguardo, non le davano fede. Anzi quello di Beda, più che silenzio, si può chiamare a dirittura una testimonianza in contrario, giacchè di papa Giovanni, chiuso per ordine di Teodorico nelle carceri di Ravenna, e quivi morto, questo scrittore dice espressamente che diede la vita per la fede, mentre di Simmaco e di Boezio, la cui fine era stata molto più clamorosa e più tragica, dice soltanto che Teodorico li fece morire. Chè se la tradizione fosse stata già nota, o se avesse avuto in sè qualche argomento di credibilità, tale e tanta era sin da allora la riputazione di Boezio, che il martirio di lui sarebbe stato registrato solennemente, come fatto da onorarsene tutta la Chiesa. Nel l. VII aggiunto alle Istorie di Eutropio, Paolo Diacono chiama Simmaco e Boezio cattolici, ma non martiri. Nella già citata versione anglosassone dei metri di Boezio

attribuita ad Alfredo il Grande, e senza dubbio antichissima, si dice che il filosofo scrisse lettere all'imperatore di Oriente per invitarlo a rifarsi signore di Roma. Avvertito della trama, Teodorico lo fece rinchiudere in carcere. Adone di Vienna, nel IX secolo, è il primo che riconosca in Simmaco ed in Boezio due martiri; ma nel secolo seguente Gerberto, nella riportata iscrizione, parla del consolato e degli studii edella preclara morte di Boezio; del martirio e della santità non fa motto. Anche dopo che fu cognita in tutta Europa, la leggenda del martirio non fu da tutti accolta e creduta.

Vediamo ora l'altra parte della leggenda se sia più plausibile. Senz'esser martire, Boezio potrebb'essere stato un fervente cristiano, un teologo di molta levatura, uno strenuo campione della ortodossia, e autore di opere teologiche importanti, degno in tutto d'essere tenuto un santo e venerato sugli altari. La quistione dell'autenticità degli scritti teologici di Boezio è evidentemente subordinata ad un'altra: Boezio fu egli, o non fu cristiano? Se non che sul valore della parola cristiano bisogna intendersi prima di tutto. Nel senso più lato e generico, cristiano è chiunque abbia, mediante il battesimo, ricevuto il segno indelebile: nel senso più vero e proprio, cristiano è solamente colui che vive in ispirito nel dogma. Come fu cristiano Boezio? Che nella famiglia degli Anicii, a cui egli apparteneva, fosse antichissima e diffusa la professione della fede cristiana è certo; che Boezio fosse nato da genitori cristiani, e avesse ricevuto il battesimo, e fosse cresciuto nella fede, non v'è ragione di dubitare, anzi v'è ogni buona ragione di credere, e così ancora ch'egli visse ostensibilmente nel grembo della Chiesa, ed ebbe in Roma nome di cristiano. Ma altrettanto e più certo si è che egli fu cristiano solamente di nome, e che dedito in tutto alla filosofia, visse indifferente a qualsiasi religione positiva, e non ne professò nessuna nell'animo suo, sebbene le sue stesse dottrine filosofiche e il perdurante influsso della educazione ricevuta lo dovessero piuttosto inclinare al cristianesimo che non al politeismo pagano. In nessuna delle opere, ond'è sicuramente riconosciuto autore, Boezio manifesta o indica come che sia la propria credenza religiosa; ma la maggiore e la più famosa tra quelle, il trattato De consolatione philosophiae, già col titolo prava che egli non ne aveva nessuna, o piuttosto che la filosofia era la sola religione da lui professata. Si ricordi in quali condizioni e perchè fu composto il libro della Consolazione filosofica. Perduti gli agi e gli onori, relegato, dubbioso della sua sorte, o già sicuro di prossima e trista fine, Boezio cerca conforto a tanto e così doloroso rivolgimento di fortuna. Che altro

avrebbe potuto fare nel caso suo un qualsiasi, ancorchè mediocre cristiano, se non rivolgersi al Dio crocifisso, al consolatore degli afflitti, al redentore dei perduti, e cercare nelle promesse indefettibili di lui la virtù della rassegnazione e la speranza che mutano in trionfi le sciagure di quaggiù? A chi ricorre invece Boezio? Alla filosofia, a quella filosofia che il Vangelo aveva o sbugiardata, o resa superflua. In tuttoil suo libro non una parola che accenni ai dogmi più solenni della fede, non un passo delle Scritture riportato, non il nome di Cristo segnato almeno una volta; tutta la inspirazione è filosofica e profana dal principio sino alla fine. E dovrem noi credere che con sì fatta preparazione si accostasse alla morte un cristiano fervente, un flagellatore dell'ariana eresia, l'autore di trattati trinitarii e cristologici? La incompatibilità dello spirito che informa quel libro e dello spirito cristiano fu già da gran tempo avvertita, e pose a dura prova più di un ingegno desideroso di toglier quella contraddizione. Sin dal X secolo Bruno, monaco di Corbia, commentandone un luogo, avvertiva trovarsi nel libro alcune cose contrarie alla fede cattolica, e fiutarvisi il velen dei filosofi. Giovanni Sarisberiense lo loda, e ne commenda la lettura, ma dice schietto che esso non esprime il Verbo incarnato, ossia che non vi si trova dentro lo spirito cristiano. Il Glareano fu talmente colpito del contrasto che è fra il trattato della Consolazione filosofica e le presunte opere teologiche di Boezio che, ritenute queste per autentiche, dubitò non quella fosse apocrifa; e il Bertius immaginò che il trattato dovesse avere un sesto libro, nel quale, se non fosse stato prevenuto dalla morte, Boezio avrebbe parlato della vita eterna, e si sarebbe dimostrato, qual era, cattolico.

Fatte delle opere tutte che vanno sotto il nome di Boezio due classi, l'una delle filosofiche, l'altra delle teologiche, si vede essere in questa la dimostrazione amplissima di una fede onde manca nell'altra qualsiasi vestigio. Se una singolarità così fatta possa avere plausibile spiegazione altra da quella che si ottiene negando recisamente l'autenticità delle opere teologiche, vegga chiunque ha piena la libertà del giudizio, e non è, o dagli interessi particolari di una Chiesa, o da una poco sennata sollecitudine della gloria di Boezio, tratto a far di costui un teologo e un santo per forza. Dopo di che non fa mestieri ch'io entri nella critica speciale di tali opere, nè sarebbe questo il luogo da ciò. Chi vuol saperne di più in proposito, e vedere come i principii filosofici stessi annunziati nelle opere teologiche discordino da quelli professati nelle opere autentiche di Boezio, ricorra al libro già citato del Nitzsch. A maggior

prova della falsità delle prime ricorderò solamente che Ennodio, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia, Beda, non ne fanno parola, e che la più antica testimonianza che di una di esse si trovi è di Alcuino, e riguarda il libro De unitate Trinitatis. Come si può egli ammettere che quegli scritti, chiamati poi a tanta celebrità, rimanessero così ignoti, o così poco noti almeno, da nontrovarsene fatta nessuna memoria per lo spazio di due secoli e mezzo circa, quanti ne corrono dalla morte di Boezio al tempo in cui Alcuino scriveva, mentre le altre opere del romano filosofo, non solamente erano conosciute, ma formavano anzi la base della coltura ed erano il sussidio massimo degli studii? Considerata la cosa anche sotto questo aspetto bisogna dire di necessità, o che le opere teologiche suppositizie furono composte a medio evo già fatto (VII-VIII secolo), o che, congettura più probabile, composte prima, esse furono attribuite a Boezio molto più tardi. Ma checchè sia di ciò, l'attribuzione delle opere in discorso, la quale mostra quanta fosse un tempo la fama di Boezio, ha mestieri essa stessa di spiegazione. Indaghiamo come la leggenda della santità e del martirio di Boezio possa essere sorta, e tale spiegazione ci si porgerà da sè.

Tutti sanno che negli ultimi anni di sua vita Teodorico perseguitò i cattolici, e giunse a far morire in carcere lo stesso papa Giovanni. Questa persecuzione, la quale contraddice a tutta la sua precedente politica, fu la conseguenza quasi necessaria dell'accordo novamente stabilito nel 518 fra l'imperatore d'Oriente, che in allora era Giustino, e la Chiesa di Roma. Questo accordo poteva esser causa di molti pericoli per la dominazione gotica in Italia, che gl'imperatori d'Oriente sopportavano assai di mal animo. Teodorico era ariano. Egli scorse un segno precursore di maggiori offese nelle vessazioni ingiustificate a cui gli ariani andarono soggetti negli stati dell'imperatore. Tuttavia l'animo suo era inclinato alla conciliazione. Egli mandò suo legato a Costantinopoli lo stesso Giovanni a procacciarla; ma le pratiche non sortirono, qual che ne fosse la cagione, l'effetto desiderato da lui, ed egli, insospettito e inasprito, cominciò a dar opera alle minacciate rappresaglie. Di ritorno a Ravenna Giovanni fu rinchiuso in un carcere dove, l'anno 526, cessò di vivere. Egli passò per martire: ma ognuno può vedere che le ragioni le quali spinsero Teodorico a provvedimenti severi contro lui e contro la Chiesa furono, non già religiosi, ma politici. A quei provvedimenti non si può a rigore dar nome di persecuzione, ma è certo che persecuzione dovevano parere a coloro che in un modo o in un altro n'erano colpiti.

La disgrazia e la morte di Boezio, avvenuta, secondo la opinione più probabile nel 524, cadono appunto nel tempo di questa persecuzione, durante il quale era naturalissimo che agli occhi dei cristiani molti atti di Teodorico paressero avere per prima o per sola ragione l'odio contro la Chiesa. In Teodorico i cristiani non vedevano più il politico, il principe geloso del proprio potere, cui credeva, a torto o a ragione, minacciato; vedevano solamentel'eretico inteso a far trionfare a danno della Chiesa la propria credenza. Boezio era uno dei loro. Uomo d'illibato costume e di grandissima fama, qual altra colpa gli si poteva apporre, se non di essere cristiano, e qual altro scopo poteva aver Teodorico nel togliergli la vita, se non di privare la società cristiana di uno de' suoi membri più illustri? Ho detto già che Boezio in Roma doveva vivere ostensibilmente nel grembo della Chiesa; ben pochi del resto a quel tempo sarebbero stati in grado di penetrare il segreto della sua coscienza. Gli è assai probabile che fra gli stessi contemporanei moltissimi vi furono(non certamente i più colti e i meglio informati) che considerarono la morte di Boezio come un martirio. Nel famoso dittico di Monza, reputato opera del secolo VI, si vede Boezio in atto d'uomo afflitto e sofferente, seduto sopra un letto, in carcere forse: nella mano destra egli stringe un rotolo su cui è scritto: In fide Jesu maneam; ai piedi ha una pergamena, che vuol essere la difesa sua contro Basilio, e il libro De consolatione philosophiae; nessuno dei libri teologici, che probabilissimamente non erano nati ancora. Non v'è nulla in questa curiosa rappresentazione che direttamente accenni a martirio; ma l'aspetto tristo di Boezio, e la scrittura della difesa contro Basilio, mostrano che l'artista ha voluto rappresentare il filosofo dopo la disgrazia, e quelle parole In fide Jesu maneam richiamano assai bene alla mente la condizione del martire che sollecitato a rinnegar la sua fede irremovibilmente vi persevera.

Così, senza dubbio, ebbe a formarsi il primo ordito della leggenda, la quale non tardò poscia ad avere il ripieno. Non è impossibile, e nemmeno improbabile, che i resti mortali di Boezio sieno stati raccolti da mani pietose, e deposti in luogo, se non illustre, almeno onorevole e sacro. Ciò che mille e mille volte erasi fatto per i corpi di martiri oscuri, sotto la dominazione di persecutori efferati, si può credere che si facesse per quello di un uomo celeberrimo, sotto il dominio di un principe che fu d'indole mite e generosa, e che, se le storie non mentono, ebbe a pentirsi della commessa ingiustizia. Può darsi che sin da allora la tomba di Boezio, di cui Pavia si vanta posseditrice, fosse onorata di una certa venerazione; ma questa venerazione, per estendersi, per diventare un

culto, abbisognava di certe condizioni che non le mancarono lungamente.

Finchè durò la dominazione gotica l'arianesimo ebbe favore ed appoggio; ma quella cessata, e succedutale la longobardica, l'eresia fu novamente depressa in Italia. Liutprando, grandissimo fautore del cattolicismo, ristaurò, o riedificò in Pavia l'antica chiesa di San Pietro in Cield'Oro, e per accrescerle lustro e riputazione fece venir di Sardegna, e vi depose, il corpo di Sant'Agostino e di altri santi. Può darsi che il corpo di Boezio già riposasse in quella chiesa; può darsi che lo stesso Liutprando ve lo facesse trasportare da luogo meno onorevole; e quando a ciò fare non lo avesse indotto la opinione della santità di Boezio, altre ragioni potevano indurlo. Era atto di giudiziosa politica il denigrare quanto più fosse possibile il governo di Teodorico; e di quanto si abbassava la riputazione di costui, di tanto conveniva esaltare quella degli uomini che ingiustamente egli aveva fatto segno dell'ira sua. Con onorare Boezio s'infamava Teodorico. Un biografo di Boezio, il Barberini, narra sulla fede di un antico manoscritto, non mai fatto di pubblica ragione, che l'anno 722 Liutprando ritrovò il sepolcro di Boezio, con una iscrizione che or ora vedremo. Di che autorità fosse il codice in discorso, andato, sembra, smarrito, nessuno può dire: ma le testimonianze più antiche non fanno cenno di ritrovamento. Paolo Diacono dice bensì che Liutprando fece venire dalla Sardegna, devastata dagli Arabi, il corpo di Sant'Agostino; ma di Boezio non fa parola. Ora, egli che altrove parla di Boezio come di un cattolico, se fosse vero quel ritrovamento, ne avrebbe dovuto, pare, saper qualche cosa, non potendosi ammettere che un tale fatto, il quale concerneva un uomo di tanta celebrità, potesse avvenire senza che se ne levasse rumore; e notisi che Paolo Diacono fu cresciuto ed educato alla corte di Pavia, e compose i sei libri della Historia Longobardorum a Monte Cassino, intorno al 790, settant'anni circa dopo il supposto ritrovamento. Agnello, nel suo Liber pontificalis Ecclesiae Ravennatis, composto verso il mezzo del IX secolo, non dice altro se non che Boezio e Simmaco, uccisi insieme, furono insieme chiusi in un'arca che sussisteva ancora al suo tempo. L'Anonimo Ticinense, nel De laudibus Papiae, così parla della chiesa, dell'epitafio e del santo: "Ecclesia S. Petri in Coelo-aureo, quam amplificavit Liutprandus Rex Longobardorum, atque dotavit. In qua jacet Corpus Beatissimi Augustini Episcopi Hipponensis Doctoris eximii, qui multas ibi virtutes ostendit; et corpora BB. MM. Luxorii, Ciselli, Camerini, Robustiani et Marci, nec non B. Apiani Episcopi et Confessoris, quae omnia translata sunt de Sardinia

illuc cum corpore B. Augustini per dictum Regem; cujus Regis illic etiam Corpus quiescit translatum de Ecclesia S. Adriani per abatem Olricum. Item Corpus Severini Boëtii Philosophi viri Dei, qui in praefata Urbe exul a Roma Librum de Philosophiae Consolatione composuit, qui Liber manu sua conscriptus usque ad haec fere tempora ibi servatus est, et in hac Urbe ipso Boëtius trucidatus occubuit, sicut patet in versibus, inejus tumulo scriptis qui sic dicunt:

Hoc in Sarcofago jacet ecce Boëtius arcto

Magnus et omnimodo orando magnificandus homo.

In fine vero sic scriptum est:

Qui Theodorico Regi delatus iniquo

Papia senium ducunt in exilium.

In quo se moestum solans dedit inde libellum,

Post ictus gladio exiit a medio.

Del ritrovamento non fanno ricordo nè il Gualla nella sua storia della Chiesa Pavese, nè il Sacco nella sua storia di Pavia; e però non si ha nessun buon argomento per asserire che il sepolcro di Boezio fosse stato interamente dimenticato in Pavia e che Liutprando lo ritrovasse.

Bensì è da ammettere che solo dopo la restaurazione della chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro, e la traslazione del corpo, o i nuovi onori avuti da Liutprando, Boezio cominciasse a fruire di una più ferma e larga riputazione di santità. L'epitafio di cui l'Anonimo Ticinense è il primo a riportare alcuni versi, e che altri altrimenti riferiscono, fu fatto porre assai probabilmente dallo stesso Liutprando. Giulio Marziano Rota, il Barberini testè citato, e alcun altro, pretendono che sia anteriore; ma certo, mentre durava la signoria dei Goti non si sarebbero messe nell'epitafio di chi era accusato di aver voluto rovesciare quella signoria, le ingiuriose parole che vi si leggono contro Teodorico, e che così naturalmente vi trovavano luogo sotto un re longobardo. Inoltre è assai ragionevole il credere che Liutprando volesse onorare con nuovo e più solenne epitafio il sepolcro del filosofo e del martire. Se la iscrizione intera riportata testè in nota fosse autentica, essa conterrebbe la più antica allusione che si conosca alle opere teologiche di Boezio. Cominciò allora, come dissi, a diffondersi e a vie maggiormente confermarsi la opinione della santità di Boezio, il nome del quale fu da indi in poi registrato nei Martirologi e nei Cataloghi di Santi al 23 di Ottobre. L'attribuzione di opere teologiche fu una conseguenza logica di quella

opinione, sia prima, sia dopo la più solenne canonizzazione seguìta per fatto di Liutprando. La santità di Boezio dalle sue opere autentiche non si sarebbe potuta rilevare, nè si sarebbe potuta trovare in esse la ragione del suo martirio. Era quasi necessario l'immaginare ch'egli avesse con opere di molta autorità, difendendo i dogmi della Chiesa cattolica e combattendo gli eretici, e in più particolar modo gli ariani, provocata l'ira di Teodorico, e poichè nel medio evo(ne abbiam veduti sin qui troppi esempii), facilmente si dava qualità di reale a quanto s'immaginava, era assai naturale che quell'opere o prima o poi comparissero.

Tutte queste, a dir vero, son congetture; ma chi voglia spiegare in qualche modo la nascita della leggenda, e mostrare a chi è di contrario avvisoche i fatti asseriti in essa possono essere intesi anche da chi non li ritiene per veri, è pur forza, mancando le testimonianze storiche, procedere per via di congetture. Ad ogni modo quelle che qui si sono prodotte potranno parere abbastanza plausibili, sorrette come sono dagli esempii conformi di molte altre leggende, e la stessa loro normalità e semplicità le farà parer più accettabili. Riepilogando in brevi parole il detto sin qui, si ha il seguente risultamento. Boezio, nato di genitori cristiani, battezzato, cresciuto nel grembo della Chiesa, era universalmente tenuto in concetto di cristiano, sebbene, dedito in tutto alla filosofia, egli fosse alieno da qualsiasi religione positiva. Caduto in disgrazia, e punito di ingiusta morte, nel tempo che Teodorico si era dato ad affliggere con atti ostili la Chiesa, fu creduto da quanti non erano in grado di meglio conoscere la ragion delle cose, che in Boezio fosse stato colpito il cattolico, e che la sua morte fosse stata un martirio. Tale opinione durò forse più particolarmente in Pavia, dove si può credere che gli avanzi di Boezio fossero stati onorevolmente conservati; ma non si avvalorò, non si diffuse, se non dopochè Liutprando ebbe procacciato nuovo lustro alla Chiesa Pavese. L'attribuzione delle opere teologiche fu una conseguenza della opinione di santità.

Al Jourdain, di cui ho testè ricordato lo scritto, parve di dover ricorrere ad un'altra ipotesi, secondo che io penso, non necessaria. Il Boezio santo e martire non sarebbe l'autore del De consolatione philosophiae, ma un altro, solamente con lui confuso. Nel secolo VI vi furono quattro vescovi che, come il filosofo, portarono il nome di Boezio, tra' quali uno che fu vescovo d'Africa, esiliato e morto in Sardegna. Il Jourdain crede che il corpo di costui sia stato trasportato, insieme con quello di Sant'Agostino e di altri santi, di Sardegna in Pavia, dove diede occasione alla leggenda.

Egli sarebbe l'autore dei libri teologici attribuiti poscia al filosofo. Tale ipotesi, anzi tutto, non è necessaria, perchè parmi, o m'inganno, che il filosofo avesse tutte le qualità necessarie per trasformarsi in santo da se stesso. Altri scrittori latini abbiamo veduto compiere una trasformazione sì fatta, che ne avevano assai meno ragione di Boezio. Inoltre essa è poco probabile. Della morte e della sepoltura di Boezio si conservava memoria nel secolo VIII, come provano le testimonianze di Agnello e di Paolo Diacono, ed è difficile ammettere che lo scambio avvenisse con un vescovo omonimo sì, ma morto di morte naturale e sepolto in Sardegna. Del resto il dittico di Monza è sempre lì che prova nata la opinione della santità del filosofo un pezzo prima che avvenissela supposta traslazione del vescovo. Che qualcuno dei libri teologici sia opera di costui può darsi, ma non vi è modo nè di affermarlo, nè di negarlo. Che il vescovo, ammessa la sua traslazione, abbia esercitato qualche influsso sulla leggenda del filosofo può darsi del pari, ma è del pari impossibile a provare. Lo stesso dicasi per San Severino vescovo di Colonia, riguardo al quale sono da notare due fatti molto curiosi, che potrebbero dare appiglio a facili congetture, e cioè che nel Martirologio dell'Usuardo egli è registrato al 23 di Ottobre, nel qual giorno abbiam veduto cadere appunto la commemorazione di Severino Boezio, e che ivi stesso si dice avere egli strenuamente difeso la sua Chiesa contro la infestazione dell'ariana eresia.

Veduto come, secondo probabili congetture, dovesse aver nascimento e crescere la leggenda di Boezio, vediamo ora sotto quale aspetto questa leggenda medesima ci si presenti in alcuno dei più antichi documenti che la raccolsero. Ho già parlato del frammento di poema provenzale, la cui composizione indubitabilmente risale al X secolo. Noi vi troviamo la leggenda della santità e del martirio di Boezio pienamente accolta e confermata. Dopo un breve esordio parenetico e morale, l'ignoto autore entra a narrare la storia di Boezio. Gli uomini erano pieni d'ogni tristizia, e Boezio, desideroso di correggerli, predicava loro, e li ammoniva che credessero in Dio, il quale aveva sofferto passione per essi, e tutti li avrebbe redenti. Non fecero frutto le sue parole e i nemici suoi lo perdettero. Boezio fu di bella persona, e pieno di tanta sapienza che nessuno v'era in Roma che gli si pareggiasse. Egli era conte di Roma, e in tanta grazia appo l'imperatore Manlio Torquato(Mallio Torquator), che in suo nome governava tutto l'impero. Ma morto il buon imperatore Manlio, ecco in Roma l'eretico Teodorico, il quale non credeva in Dio. Boezio, che aveva amaramente pianta la morte del suo primo

signore, non volle riconoscere come tale il miscredente, non volle avere da lui l'investitura dei proprii tenimenti. Egli lo ammoniva anzi; ma Teodorico, pien di mal animo, mal sopportando le sue rimostranze, pensò al modo di disfarsi di lui. Egli simulò lettere dalle quali appariva che Boezio invitava i Greci a passare il mare, e a venirsi a prendere Roma, ch'egli avrebbe data loro nello mani. Accusato di tradimento, Boezio fu tratto nel Campidoglio in mezzo ai suoi pari e sottoposto a giudizio. Coloro ch'egli aveva più beneficato lo abbandonarono: egli fu condannato e chiuso in carcere. Lo stesso libro De consolatione philosophiae porge materia al resto del frammento, che, disgraziatamente, non passa oltre il verso 258. Senza dubbio il poema finivacon la narrazione della morte di Boezio, e forse con indicazioni, che per noi sarebbero state di molto interesse, circa la sepoltura e la canonizzazione.

Ciò che v'ha di più singolare in questo strano racconto, dove non è fatto nessun ricordo nè di Simmaco, nè del papa Giovanni, si è la combinazione abbastanza ingegnosamente procacciata degli elementi storici coi leggendarii: le cause apparenti della disgrazia di Boezio sono su per giù quelle stesse che la storia conosce, ma le vere sono la miscredenza di Teodorico e lo zelo del filosofo per la fede. Nella Kaiserchronick, per contrario, ogni motivo religioso è soppresso, anche per Simmaco e per il pontefice. Al tempo di Teodorico erano in Roma Boezio, Seneca(l. Simmaco) e un papa per nome San Giovanni. Questi tre mandarono messi all'imperatore Zenone, significandogli come all'onor suo disdicesse che un uomo di vili natali tenesse l'impero di Roma. I messi, colti per via, confessarono ogni cosa. Teodorico fece venire i colpevoli, chierici e laici, a Pavia, e gettatili in un carcere ve li fece morire di fame.

Passiamo ora a considerare alcune particolarità e varianti della leggenda, delle quali non ci si porse sin qui opportunità di discorrere. Io ho nelle pagine che precedono implicitamente accettata la opinione che fa di Pavia il luogo della relegazione, della morte, della sepoltura di Boezio. È questa la opinione più probabile e più universalmente ricevuta. La tradizione a tale riguardo è antichissima in Pavia, dove durò sino al 1584 una torre, chiamata Torre di Boezio, appunto perchè si credeva che in essa fosse stato chiuso il filosofo. In memoria, pare, dello ingiusto castigo ivi sofferto da lui fu chiamata anche Fraudulenta. Ai tempi di Alessandro Neckam il sepolcro di Boezio era considerato come cosa da

cui ridondava a Pavia grandissimo onore. Ma, a tacere di alcune opinioni critiche di moderni, da parecchi si credette nel medio evo che Boezio fosse stato ucciso e sepolto in Ravenna, opinione evidentemente suggerita dal sapersi che nelle carceri di Ravenna era morto il papa Giovanni, e dalla tendenza della leggenda a stringere in un gruppo, e a far morire per le stesse ragioni, e quindi anche nello stesso luogo, Giovanni, Simmaco, Boezio. Agnello dice Simmaco e Boezio sepolti nella stessa arca in Ravenna, dove era anche sepolto il loro uccisore Teodorico. Balduino Ninoviense dice che Boezio fu relegato in Ravenna, e quivi scrisse il trattato De consolatione philosophiae; e tale opinione fu ricevuta anche dal Tritthemio.

Intorno al modo della morte di Boezio corsero nel medio evo varie opinioni. Agnello, Freculfo, Paolo Diacono, Anastasio Bibliotecario, altri, lo dicono decapitato; l'Anonimo Valesiano racconta che Eusebio, prefetto della città di Pavia,per ordine di Teodorico sottopose Boezio a tortura, e tanto gli fece serrare intorno al capo una corda, che ne schizzarono gli occhi, e poi lo fece morire sotto il bastone, se per bastone dev'essere intesa la voce fustis qui adoperata dall'Anonimo. Abbiamo veduto che, secondo la Kaiserchronik, il papa Giovanni, Simmaco e Boezio furono fatti morire di fame. Anche qualche altra favola, men razionale, si spacciò e circa il modo, e circa la ragione della morte di Boezio. Giovanni da Verona, nella inedita sua Historia imperialis ne riporta una secondo la quale Teodorico non v'avrebbe avuto parte alcuna, e Boezio sarebbe stato libero in Pavia. Ecco le sue proprie parole: "De huius morte diversi diversa scripserunt..... Alii dicunt quod dum Boetius esset Papie contigit quod inter duos fratres orta est pro patris hereditate dissensio. Cumque questio delata fuisset ad Boetium utpote iurisconsultum, secundum leges sententiam tulit, et uni fratrum victoriam litis, alteri vero perditionem iudicavit. Tunc frater qui succubuerat, missis satellitibus, Boetium quadam mane orantem in ecclesia beati Petri ad Celum aureum occidi fecit".

Era assai naturale che si cercassero nuove prove della santità di Boezio, e che nella biografia di lui s'introducessero nuovi fatti, inventati di pianta, ma che venivano modificando il carattere dell'uomo come le fantasie e gl'ideali dei tempi portavano. Si sapeva che Boezio aveva sposato Rusticiana, figlia cristiana del cristiano Simmaco; ma questa non parve essere compagna abbastanza degna del teologo insigne e del martire venerato. Onde che s'inventò e gli si pose a fianco una Elpidia,

sua prima moglie, figlia del senatore Festo, autrice di due inni in onore dei santi Pietro e Paolo, morta poco dopo il suo matrimonio, e sepolta come il suo sposo in Pavia. Secondo Ranulfo Higden questa Elpidia era nientemeno che figliuola del re di Sicilia. Ma un'altra cosa doveva stare più a cuore agl'inconscii favoleggiatori del medio evo. Boezio era un teologo, era un martire, ma non era un chierico. Ciò doveva parere sconveniente in tempi in cui, se non tutta la santità, almeno tutta la scienza era nei chierici. Bisognava che Boezio, console di Roma, e gran feudatario dell'impero secondo il poema provenzale, si rassegnasse a entrare in religione e a ricevere gli ordini. Nella Vita di San Placido martire, scritta da Gordiano Monaco, e interpolata da Pietro Diacono, si narra che Boezio, Simmaco ed altri uomini insigni di Roma recaronsi a Monte Cassino, e furono da San Benedetto ricevuti nella società dei suoi monaci. Notisi che Boezio e Simmaco furono messi a morte tre anni prima che San Benedetto andasse a Monte Cassino. Gordiano fioriva intorno al 541, ed è difficile credere che acosì poca distanza di tempo egli osasse spacciare una fanfaluca così solenne; Pietro Diacono fioriva verso il 1120, e non è improbabile che l'onore della invenzione si appartenga a lui. Un bel pezzo dopo, il Tritthemio accoglieva la favola, temperandone tuttavia la soverchia assurdità.

La prova più evidente della santità è il miracolo, e la pietosa fantasia dei credenti era naturalmente tratta ad immaginare qualche miracolo a cui appoggiare la santità di Boezio. Tutti conoscono il prodigio con cui San Dionigi illustrò la propria morte, e sbalordì i suoi carnefici; a Boezio ne fu attribuito uno in tutto simile. Narra l'Anonimo Ticinense che il filosofo martire, decollato, si tolse la propria testa fra le braccia, e la portò dal luogo della decollazione sino alla Chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro. Francesco da Buti narra con più particolari come "andando(Boezio) una mattina a la chiesa, a la volta d'uno cantone li fu dato uno colpo tra 'l capo e 'l collo dai suoi emoli che ne mandò il capo, lo quale capo elli ricevè nelle sue mani e ripuoseselo in sul collo et andò alla chiesa, et tanto visse ch'elli si confessò et rimissesi nelle mani del sacerdote". In questa uccisione, come in quella di cui narra Giovanni da Verona, Teodorico non c'entra per nulla; il supplizio si muta in un assassinio; si noterà ancora che qui Boezio è libero di girar per Pavia, mentre, secondo la più vulgata tradizione, egli vi fu chiuso in carcere. Dice in fatti Francesco da Buti che Boezio era in Pavia relegato e posto in esilio dal re Teodorico. Il Gualla racconta anch'esso il miracolo, attenendosi alla versione dell'Anonimo Ticinense, che, secondo

l'affermazione sua, sarebbe stata quella di antichissime cronache pavesi(pervetustis etiam Ticini cronicis attentantibus); ma fa ancor egli menzione dei ricevuti sacramenti. Giulio Marziano Rota vi mette qualche fioritura: richiesto dal carnefice chi gli avesse troncato il capo, Boezio rispose: Gli empii.

Se non fosse stata la leggenda della santità e del martirio, sufficiente di per sè ad occupare le fantasie, un'altra leggenda sarebbe forse sorta intorno al nome di Boezio, ancor essa molto consentanea ai gusti e alle tendenze del medio evo, quella cioè del sapere e del potere magico. Le ragioni da farla nascere non mancavano. Una delle accuse lanciategli contro dai suoi nemici si fu appunto l'accusa di magia, e da essa, come dalle altre, Boezio si difese. In una di quelle famose epistole scritte in nome di Teodorico, Cassiodoro fa a Boezio grandissime lodi pel suo meraviglioso sapere, gli raccomanda certi orologi da mandare a Gundibaldo, re dei Burgundi, ricorda un serpe e alcuni uccelli consommo artifizio dal filosofo fabbricati. L'autore del poema provenzale dice di lui:

No cuid qu'e Roma om de so saber fos;

e l'apocrifo libro De disciplina scholarium, fa dire allo stesso Boezio come, per ragione di studio, passò diciott'anni in Atene. Facilmente dunque avrebbe potuto sorgere in Pavia, che si gloriava di conservarne le ossa, una leggenda di Boezio mago, come una leggenda di Virgilio mago era sorta in Napoli; ma a che sorgesse si opponeva il fatto universalmente conosciuto che in Pavia Boezio era stato relegato e chiuso in carcere e ucciso da ultimo. Con questa qualità di paziente male si sarebbe potuta accordare la qualità di mago: Boezio mago sarebbe come Virgilio uscito miracolosamente dal carcere e avrebbe delusi i suoi persecutori. Oltre di ciò, a lui santo la qualità di mago sarebbe stata oramai disdicevole; poteva ancora trasformarsi in mago il filosofo Boezio, il martire San Severino più nol poteva.

Abbiamo veduto quali, secondo la leggenda, furono gli ultimi casi del perseguitato; vediamo ora quale, secondo la leggenda medesimamente, fu la fine del persecutore. Questa fine, comechè da varii variamente narrata, è degna dei misfatti che la provocano; essa è sempre considerata come una giusta vendetta del cielo.

Notiamo anzi tutto uno stranissimo errore, ma tale tuttavia che a fronte della scienza storica del medio evo non sembrerà certamente eccessivo. Fredegario distingue il Teodorico che fece morire Boezio da un altro, di cui, facendo due persone di una, racconta la storia abbastanza

romanzesca. Di quel primo dice: "Theodoricus cum Papam Romae Apostolicum virum Joannem sine culpa morte damnasset, et Symmachum Patritium, nullis causis existentibus itemque trucidavit, ira percussus divina, a germano suo Gaiserico interficitur". Qui il fatto narrato è falso, ma semplice e naturale; Procopio comincia ad entrare nel meraviglioso. Racconta questo storico che, dopo aver fatto morire Boezio e Simmaco, un giorno, a mensa, Teodorico credette di riconoscere nella testa di un gran pesce che i donzelli gli avevano posto dinnanzi, la testa di Simmaco, che lo guardava torva e minacciosa. Ammalatosi pel terrore, narrò ogni cosa al suo medico Elpidio, e, deplorando la commessa ingiustizia, in brev'ora morì. Procopio soggiunge benignamente che l'uccisione di Boezio e di Simmaco fu la prima e l'ultima ingiustizia da Teodorico commessa. Qui si parla di sola morte del corpo e non disperata; ma questa non doveva sembrare punizione sufficiente a quella Chiesa che serbava ancor viva la memoria delle offese ricevuto dal principe eretico, e la leggenda ecclesiastica inesorabile passa oltre a narrare della morte dell'anima. Teodorico dev'esser dannato. Gregorio Magno a cui, essendo pontefice, doveva sembrare immane la colpa del re che aveva osato rinchiudere e far morire in uncarcere un vicario di Cristo, racconta, raccogliendolo da altre bocche, il caso di un solitario dell'isola di Lipari, che aveva veduto il papa Giovanni e Simmaco precipitar Teodorico nella bocca di quel vulcano. Ora è noto che le bocche dei vulcani erano universalmente credute nel medio evo spiracoli dell'inferno. Questa paurosa favola incontrò molto favore e si trova ripetuta da infiniti. Valafredo Strabone forse vi allude nel suo poemetto De imagine Tetrici, quando dice:

Tetricus Italicis quondam regnator in oris

multis ex opibus tantum sibi servat avarus

at secum infelix piceo spatiatur Averno,

cui nihil in mundo, nisi vix fama arida restat,

quamquam thermarum vulgus vada praeparet olli,

hoc sinc nec causa, nam omni maledicitur ore,

blasphemumque dei ipsius sententia mundi

ignibus aeternis magnaeque addicit abysso.

I ripetitori al vulcano dell'isola di Lipari sostituiscono ora l'Etna, ora il Vesuvio. A tal pena non fu condannato del resto il solo Teodorico; parecchi altri ebbero nella leggenda egual sorte, come, a ragion

d'esempio, Bertoldo V, duca di Zäringen, e Attone, vescovo di Magonza.

Altri narrano d'altri castighi. Giovanni da Verona, in uno dei racconti che riferisce a tale proposito, fa che Teodorico spiri l'anima in man dei demonii; ma prima descrive la morte sua spaventosa, prodotta da inaudito e formidabile morbo. Ricordati alcuni orrendi prodigi che avvennero circa quel tempo, egli così si esprime: "Set omnipotens deus noluit pati ulterius ut fidei vere cultores deprimerentur. Nam tyrannus Theodoricus, mox ut sententiam contra catholicos dictavit, divina sententia punitus est. Statim enim gravissimo ventris profluvio egrotans, ad instar Arrii auctoris eius, intra triduum omnia viscera cum pulmone, iecore et splene et aliis precordis egessit, et die dominico, quo se credebat invadere catholicorum ecclesias, regnum finivit, et animam in manu demonum exalavit". Secondo certi racconti germanici, Teodorico non sarebbe mai morto, ma sarebbe solamente sparito in modo meraviglioso, e per virtù diabolica, di tra i viventi. In una delle redazioni della Vilkina Saga, il prodigio è narrato nel seguente modo. Un giorno che Teodorico, essendo già vecchio, ma valido ancora, s'era bagnato nel luogo che da lui appunto prese il nome di bagno di Teodorico, uno dei suoi famigli gridò: "laggiù corre un cavallo nero di tanta bellezza e vigoria ch'io mai non vidi l'eguale". Udite tali parole Teodorico balza fuori dell'acqua, si copre alla meglio, e domanda che tosto gli sieno condotti il suo proprio cavallo e i suoi cani. Ma tardando questi a venire, egli salta sul cavallo nero, il quale tosto si mette a fuggire più rapido di un uccello. Lo insegue, ma indarno, con tutti i cani sguinzagliati, il miglior cavaliere della scorta. Teodorico, sentendo essere nel cavallo che lo invola alcunchè di soprannaturale, sisforza di scendere, ma non gli vien fatto. Il cavaliere da lungi gli grida: "Signore, perchè corri tu in cotal guisa, e quando farai ritorno?" e quegli risponde: "È il diavolo stesso che mi porta. Tornerò quando piacerà a Dio e alla Vergine Maria". Da allora in poi di Teodorico non s'ebbe più nuova; ma gli uomini di Germania dicono essersi risaputo per visioni, che Dio e la Vergine, cui egli ricordava nelle sue preghiere, gli usarono misericordia. Secondo un vecchio poema tedesco, l'Etzels Hofhaltung, ossia la Corte di Attila, Teodorico, per aver bestemmiato Dio, fu, vivo ancora, rapito dal diavolo sotto figura di un cavallo, e portato nella deserta Romania, dove dovrà combattere coi serpenti sino al giorno del giudizio. Secondo un altro racconto tedesco, quando furono morti tutti gli eroi dei Nibelunghi, un nano si presentò a Teodorico e lo invitò a seguirlo. Questi andò con lui, e nessuno mai ha

più saputo s'egli viva ancora, e in qual parte del mondo si trovi. In alcuni luoghi di Germania il capo della Caccia furibonda, il Cacciatore selvaggio(der wilde Jäger), è Berndietrich, cioè Teodorico. In quella medesima forma appajono parecchi altri grandi colpevoli; ma anche Artù, Carlo Magno, Carlo V..

In Germania la leggenda si mostrò in generale molto indulgente per Teodorico: l'eroe sparisce invocando i nomi di Dio e della Vergine; il suo castigo, non gravissimo, durerà sino al dì del giudizio. In Italia, come già per un esempio solenne abbiamo veduto, essa fu ben più severa. E non poteva non essere, giacchè là dove cresceva il grido della santità di Boezio, doveva crescere parimente l'infamia di Teodorico, e il desiderio di ottenere sopra costui più esemplare vendetta. La leggenda del cavallo diabolico e rapitore nacque probabilmente in Italia, d'onde passò in Germania, e quivi, incontrandosi con tradizioni d'altra natura, e nelle quali suona glorioso il nome di Teodorico, ebbe a temperar di necessità il suo spirito d'odio e di vendetta. In Verona Teodorico era creduto figlio del diavolo, e la leggenda lo ricacciava all'inferno, ond'era uscito. Nella Historia Imperialis di Giovanni da Verona si legge a tale proposito il seguente curioso e notabile passo: "Hic est Theodoricus, quem Veronenses appellant Diatrichum, de quo fabulose fertur a personis vulgaribus quod fuit genitus a diabolo, et regnavit Verone, et fecit fieri arenam veronensem; et postmodum, misso nuntio ad infernum, recepit a patre suo diabolo equum unum et canes, et dum hec munia Theodoricus accepisset tanto gaudio repletus est, quod de balneo in quo lavabatur, solum involutus linteamine, exiens, equum ascendit, et statim nunquam comparuit, set per silvas adhuc de nocte venari dicitur et persequi nimphas". A canto alla portadi San Zeno in Verona è un antico bassorilievo il quale rappresenta e ricorda ancora questa fantastica avventura, sebbene i versi latini che l'accompagnano e lo spiegano non contengano il nome di Teodorico.

La Germania faceva di Teodorico, il prode guerriero, uno degli eroi della sua epopea nazionale; ma in Italia la Chiesa, secondando il sentimento della nazione, faceva del principe barbaro ed eretico un dannato, e non ne lasciava posare le ossa, mentre innalzava all'onor degli altari il martire Boezio, detto l'ultimo dei Romani. Con Boezio trionfavano congiuntamente il cattolicismo e la romanità.

CAPITOLO XIX. Gli dei di Roma.

Il medio evo, che serbò viva, se non fedele memoria degl'imperatori, i quali avevan fatto di Roma la regina del mondo, e degli scrittori che con l'opere l'avevano illustrata, non poteva in tutto dimenticare quelle antiche e fastose divinità sotto il cui patrocinio la città eterna era nata e cresciuta a tanta gloria. Negli scrittori stessi di cui si leggevano assiduamente e si trascrivevano i libri, e massimamente poi nei poeti, ricorrono senza fine i nomi degli dei, si narrano le mirabili storie del cielo, si descrivono feste e pratiche religiose. Abbiam veduto che alle Metamorfosi di Ovidio fu dato allora il nome di Bibbia dei pagani, e che con quello di Martirologio furono designati i Fasti.

Per ispegnere una religione la quale per secoli abbia governato la coscienza e la vita ci vogliono i secoli; anzi, a dir vero, essa non si spegne propriamente se non in parte, mentre in parte si trasforma, e continua a vivere, occulta, od assimilata alla nuova fede che la tolse di seggio, e questa non consegue il trionfo definitivo se non con rimettere, in parte, della sua originale schiettezza ed alterarsi più o meno. Sinchè dura il periodo acuto della lotta le due contrarie credenze rimangono diligentemente sceverate; la più debole, se glielo imponga la necessità dei tempi, si ritrae dalla vita pubblica, abbandona i suoi santuarii, si fa clandestina; ma nel profondo delle coscienze permane intera, ed è anzi fatta più risoluta e più rigida dalla stessa contraddizione: la più forte le subentra, e mentre recisamente nega il dogma nemico, si afferma nel proprio carattere e si tiene immune da ogni contagio. Ben altrimenti procedono le cose quando all'èra della lotta astiosa sia succeduta l'èra della pacifica diffusione e della confermazione ordinata. Allora le due contrarie credenze vengono a più intimo contatto, e negli spiriti, in cui l'una deve sostituirsi all'altra, avvengono combinazioni e fusioni d'ogni maniera: le memorie durano tenacissime e la sostituzione non si fa mai intera ed assoluta.

Così appunto intravenne al cristianesimo e al paganesimo. Cacciati dal cielo e dai templi,i numi di Roma si raccolsero intorno ai lari dei loro fedeli; cacciati dalle città si ritrassero nei boschi e nei campi; ma passarono secoli e secoli e la figura sanguinosa del crocifisso non riuscì a far dileguare interamente dinnanzi a sè quegli splendidi fantasmi che le arti a gara avevano dotato di tutte le seduzioni. Essi cedevano a poco a poco alla forza vittoriosa che li incalzava, ma riapparivano spesso inopinatamente nei luoghi dove avevano fatto già sì lunga dimora, ed anche quando se n'erano dileguati per sempre, lasciavano dietro a sè

lungo strascico di memorie, e di lontano esercitavano sulla nuova fede irresistibili influssi.

Una storia del cristianesimo, non quale appare nella dogmatica ecclesiastica, ma quale si venne veramente foggiando nella credenza popolare, mostrerebbe di che natura e di che forza sieno stati quegli influssi; non essendo questo il luogo per entrare in così lunga e malagevole indagine, mi contenterò di alcuni brevi cenni, che, se non altro, basteranno a caratterizzare il fenomeno.

Non si può negare che ad una mente educata nel politeismo il dogma cristiano non dovesse parere assai scarso di attrattive. Il Dio trino ed uno, posto ad incommensurabile altezza sopra la umanità, imperscrutabile e severo nella sua solitudine, facilmente atterriva chi era uso a vedere un popolo intero di dei mescolarsi continuamente cogli uomini, chi dei accoglieva sotto il suo tetto e alla sua mensa. Se il nuovo convertito non era, come nella più parte dei casi certamente non era, uno spirito eletto, in cui la nuova verità trovava pronto e facile consentimento, quanti dubbii, quanti terrori doveano tener dietro alla conversione! Era quasi impossibile che egli non provasse un senso di angustia e di sfiducia, posto faccia a faccia con quel terribile giudice che non si placava come gli dei delle genti per sacrificii e per arti di sacerdoti. E non era stato ancora conferito al ministro dell'altare l'ufficio d'intermediario perpetuo tra Dio e il credente, e non era stata inventata ancora la confessione auricolare. La chiesa catechizzante avvertì il difetto e provvide: il culto di Maria fu un'utile concessione fatta dal cristianesimo al paganesimo. Dopo il decreto del concilio di Efeso che dichiarava la Vergine essere madre di Dio, per molti cristiani la religione consistette essenzialmente nel culto di lei, e i pagani, i quali intendevano meglio assai questo culto che non quello che si tributava a Dio, e nella Vergine vedevano una specie di divinità più prossima alla terra, e più simile a quelle che già avevano famigliari, ebbero maggiore facilità a convertirsi. Se non che quel culto medesimo non potè serbarsi così puro come avrebbe dovuto; i pagani, quasisenza avvedersene, trasfusero in esso non poche pratiche della loro vecchia religione, e nelle loro fantasie più d'un attributo di antiche divinità, e più specialmente di Venere e di Diana, passò alla Vergine. Tutti sanno quanto il culto di costei, in alcuni paesi d'Europa, conservi ancora del pagano. Certe feste della Madonna, soprattutto nel mezzogiorno d'Italia, sembrano trarre la origine da antiche feste di Cerere, e conservano ancora spiccatissimo il carattere

primitivo.

Il culto dei santi, che sono come tanti mediatori tra il cielo e la terra, agevolò ancor esso potentemente il trapasso dal politeismo al cristianesimo. Per essi il cielo si ripopolava in certo modo di semidei, i quali, non soltanto potevano giovare grandemente agli uomini come intercessori appo la Divinità suprema, ma ancora come potenti elargitori di grazie per proprio conto. Essi prendevano il posto delle singole divinità proscritte, ne ricevevano gli attributi, ne adempievan gli ufficii, e fruivano del culto una volta ad esse tributato. Come gli antichi dei si erano distribuiti gli ufficii molteplici del governo delle cose, così se li distribuirono i santi, ed ogni santo ebbe un particolare còmpito ed esercitò un particolar patrocinio. Naturalmente ve n'ebbe anche qualcuno che succedette nei cómpiti meno onorevoli di certe antiche divinità, mentre altri pajono esser venuti su solamente perchè provocati dalla esistenza di divinità al cui culto non si voleva rinunziare, ovvero sono quelle divinità medesime alquanto trasformate e designate con altro nome. Molte feste di santi, celebrate con riti particolari dal popolo, altro non sono in origine che feste pagane; e alcune delle solennità massime del calendario cristiano si legano similmente con antiche solennità, tra l'altre forse quella stessa principalissima del Natale, come da parecchi fu sostenuto. Così non picciola parte del vinto paganesimo si trasfondeva nella nuova religione.

Ho detto che le reminiscenze duravano tenacissime. Nel 692 il concilio in Trullo biasima e vieta la celebrazione di feste pagane ancora in vigore; ma poi per lungo tempo, così in Oriente, come in Occidente, negli atti dei concilii, nelle Vite dei Santi, in altre scritture di sacro argomento, si trova fatto ricordo frequentissimo di costumanze e di riti pagani, alla totale abolizione dei quali indarno si affaticava la Chiesa. L'Indiculus superstitionum et paganiarum, compilato dal concilio di Leptines nel 743, e parecchi capitolari di Carlo Magno mostrano come le antiche superstizioni ancora durassero nell'VIII secolo. In quel secolo medesimo in Roma, e proprio sulla piazza di San Pietro, si festeggiava ancora, con riti pagani, pubblicamente, il primo giorno di Gennajo, come si rileva da una epistola di San Bonifacio, apostolo di Germania e vescovo di Magonza, al pontefice Zaccaria, il quale in una sua risposta dice d'avereabolita la detestabile usanza. Nel bel mezzo del secolo X Attone II, vescovo di Vercelli, biasima le superstizioni e le costumanze pagane che ancora a' suoi tempi si osservavano dai contadini il primo di

Gennajo, il primo di Marzo, e nelle feste di San Giovanni e di San Pietro e Paolo. Cent'altre testimonianze simili a questa potrebbero essere facilmente prodotte.

È noto quanti simboli e quante forme la mitologia classica abbia fornito all'arte cristiana dei primi secoli. Apollo, Bacco, Amore e Psiche, altre divinità, si veggono raffigurate sopra gli antichi sarcofaghi cristiani, Amore e Venere sopra gli anelli nuziali. Cristo si trova rappresentato in figura di Giove, di Apollo, di Orfeo, di Ercole; la Vergine Maria in figura di Venere. L'inferno cristiano è interamente foggiato sul Tartaro pagano, e col nome di Tartaro lo chiamano già Prudenzio, Claudio Mario Vittore, altri fra gli scrittori ecclesiastici più antichi, poi molti e molti nel medio evo. Le pene furono immaginate, in parte almeno, ad imitazione delle pene antiche. Si lasciarono scorrere per l'inferno il Flegetonte, il Cocito, lo Stige; si mantennero ai loro posti Caronte con la barca, Cerbero, i Centauri e gli altri mostri. Del Tartaro descritto da Virgilio sembra ricordarsi Giacomino da Verona quando nei rozzi suoi versi dipinge la città infernale, tutta murata di sassi e di monti, solcata per lo mezzo da

aque entorbolae

Amare plui ke fel, de veneno mescene.

Nel Roman de la Rose si pongono ancora all'inferno Issione, Tantalo, Sisifo, le Danaidi, Tizio. Alano de Insulis pone a dominare nelle tartaree sedi Erinni, Aletto, Megera. Che nell'inferno di Dante ricompajono i fiumi del Tartaro e Cerbero e Minosse e le Furie e Plutone è notissimo a tutti.

Non pochi nomi di antiche divinità rimanevano nella tradizione, o facevano parte di certi nomi di luoghi; e qua e là un resto di superstiziose credenze legavasi ad essi, o a qualche reliquia non distrutta dal tempo. In Sicilia le bocche vulcaniche, le quali, come ho già detto, comunemente si credevano essere spiragli dell'inferno, chiamavansi ollae Vulcani. In Roma ad ogni tempio antico si legavano i nomi di una o più divinità, a cui, a ragione o a torto, si pretendeva che quel tempio fosse stato dedicato. In Firenze fu conservato sino al XIV secolo un simulacro mutilato di Marte, dal quale si credeva dipendere la salute della città. L'antichissimo culto fallico, del cui perpetuarsi dolevasi Sant'Agostino, passò nel medio evo, e dura ancora ai giorni nostri, e nemmeno i nomi della oscena divinità si perdettero. In sul principiare del secolo XII vigeva ancora in Sassonia e in Lorena un culto di Pripelaga, ossia di Priapo, epresentemente, nel centro della Francia, si venera un Saint Phallier, il quale ha virtù di rendere feconde le donne. In una Vita di

San Cesario, vescovo di Arles, si fa menzione di un demonio chiamato Dianum dai campagnuoli, e per lungo tempo fu divulgata credenza in alcune parti di Europa che Diana guidasse di notte la tregenda delle streghe. Nella leggenda di San Niccolò si narra di un inganno che Diana, cioè il diavolo, tentò di fare a certi naviganti che andavano a visitare il santo.

In generale, la esistenza degli antichi dei non si nega, ma si fa di essi altrettanti demonii, che, come tali, possono mostrarsi agli uomini e nuocer loro, ed hanno ancora, come ebbero in antico, templi e adoratori. Nei romanzi del medio evo, specialmente francesi, le divinità che si pretendono adorate dai Saraceni sono, insieme con Maometto e Tervagante, Giove, Apollo, il Baratro; ma in quelli che trattano soggetti antichi il meraviglioso mitologico è, in genere, soppresso, o attenuato, o umanizzato. Nel Tournoiement de l'Antechrist d'Huon de Mery(XIII secolo) gli dei della mitologia figurano in modo assai curioso nell'esercito dell'Anticristo. Altri, seguendo la opinione antichissima, credevano che gli antichi dei fossero stati uomini. Nel l. VIII, c. 21 delle Etimologie Isidoro di Siviglia, spiegando le origini del paganesimo, dice che si cominciò con innalzare simulacri agli uomini insigni per virtù e per valore, e che poi i demonii si fecero adorare in quei simulacri. Egli ricorda molte divinità e dà ragione dei nomi loro. Tale dottrina trovasi anche largamente esposta nella Fiorita d'Italia di Frate Guido da Pisa. Va da sè che le nozioni intorno alle divinità di cui ricordavansi i nomi, come intorno al culto prestato loro dagli antichi, erano assai poco esatte, anzi molto fantastiche. Non sarà fuor di luogo il riportare qui quanto a tale proposito si legge nella Kaiserchronik.

Prima che credessero nel vero Dio i Romani adoravano sette dei in onore dei sette giorni della settimana. Chi non osservava il precetto religioso era, o affogato, o bruciato vivo: da Roma quella fede si diffuse in tutto il mondo. La domenica(sunintac, Sonntag, giorno del sole) i Romani onoravano il sole con grandi processioni e luminarie. Il lunedì i Romani sacrificavano alla luna, e accendevano lampade in tutte le vie della città, e ciò per ottenere da lei belle notti. In quel giorno si sacrificava anche ad Apollo. Il martedì era sacro a Marte, e in esso giorno si raccoglievano tutti i cavalieri, con loro elmi ed usberghi, scudi e spade, e facevano sacrifizii di gran pregio, e giostravano e torneavano, e le belle dame erano spettatrici dei loro giuochi. Ciòfacevano essi per ottenere grazia da quel dio, che li rendesse vittoriosi nelle loro guerre, e

perchè credevano che, protetti da lui, nessuno potesse loro nuocere. Il mercoledì tutto il popolo si raccoglieva nel Foro(mercato), dove, sopra una colonna, era una immagine di Mercurio. I Romani usavano di offrire a questo dio una parte di tutto quanto compravano o vendevano, affinchè favorisse i loro mercati. Il giovedì si celebrava la festa più solenne. C'era in Roma un tempio magnifico, tutto sfavillante di oro, nel quale erano venti arcieri(di metallo) e si faceva piovere per certe fistule. Esso era sacro a Giove, un gran dio, e mai non si cessava di bruciarvi incenso per fargli onore. Il venerdì era sacro a Venere, la quale aveva in Roma un tempio sontuoso, ornamento della intera città. Qui usavano le meretrici, e i dissoluti; e ricchi, o poveri che costoro si fossero, vi trovavano buona accoglienza; ma gl'incorrotti e le vergini non vi dovevano entrare. Il sabato finalmente si celebrava la festa di Saturno e di tutti i diavoli, a cui era consacrato un pomposo tempio, chiamato Rotonda. Quando avevano fatte in esso le loro preghiere, i Romani si davano al bel tempo e agli spassi, e ognuno cercava di mostrarsi nei giuochi da più degli altri e di farsi onore. Il tempio fu da papa Bonifacio intitolato alla Vergine. Noi abbiam già veduto che, secondo un racconto dei Mirabilia, il Pantheon era sacro a Cibele e a tutti i demonii. Secondo Enenkel, il quale ripete, derivandole dalla Kaiserchronik, tutte queste favole intorno agli dei che i Romani adoravano, la Rotonda era sacra a Venere, e ci si trovavano dugento e più letti apparecchiati.

Ma la divinità pagana di cui si serbò più accesa la ricordanza nel medio evo fu Venere: il suo mito allora, non solamente non è dimenticato, ma è ancora vivo ed operoso nella coscienza del popolo, e si arricchisce di nuove finzioni. Contro nessuna delle antiche divinità si mostrò così ostile il sentimento e così sollecita l'opera distruttrice dei primitivi cristiani come contro Venere: nessuno degli altri numi offendeva al par di lei il pudore della coscienza cristiana. Ma proporzionato all'odio dei nemici era l'amor dei seguaci, e il culto di Venere fu uno degli ultimi a sparire dalla faccia dell'Europa convertita alla nuova fede. Non si dimentichi che la dea degli amori passava per essere la madre di quell'Enea da cui riconosceva Roma le sue origini; che in Roma stessa, e nelle province, i templi a lei dedicati erano sempre tra i più sontuosi, e che finalmente il suo culto doveva tornare in ispecial modogradito alla corrotta società dei primi secoli dell'impero. Venere aveva osato di far sovrapporre al monte dove si consumò la passione di Cristo un nefando suo tempio, che fu distrutto per ordine di Sant'Elena, madre di Costantino. Nel VII secolo, quando della grandezza romana durava appena una confusa

reminiscenza, il culto di lei tuttavia fioriva in Gallia, e certo anche in altre province dell'antico impero; nel IX i Mainoti della Laconia adoravano ancora ostinatamente Venere e Nettuno. In qualche parte d'Italia si professa un culto per una Santa Venere ignota, sotto alle cui sembianze si nasconde forse l'antica divinità. Costantino Copronimo(719-75) fu accusato di avere in conto di divinità e di adorare Venere. Lo scelerato papa Giovanni XII (956-64), se sono vere certe accuse che gli furono mosse contro, aveva in costume d'invocare Giove e Venere; e il re Ugo di Francia, che finì santamente nel 947, in un convento di Arles, una vita piena di nefandezze, pare che avesse una grande ammirazione per le divinità dei gentili, giacchè a tre sue concubine aveva imposti i nomi di Giunone, Venere, Semele.

Del culto poetico che il medio evo tributò a Venere si potrebbe scrivere una lunga dissertazione. Nella poesia dei Goliardi le prove di esso ricorrono ad ogni passo. Nella Confessio Goliae si dice:

quicquid Venus imperat labor est suavis,

quae numquam in cordibus habitat ignavis.

Nelle Stanze dell'Arciprete di Hita ha parte di rilievo Venere, di madre tramutata in isposa di Amore,

Señora doña Venus muger de don Amor.

Nel Roman de la Rose Venere è descritta nel seguente modo:

Ce est la mère au diex d'Amors,

Qui a secoru maint amant.

Ele tint un brandon flamant

En sa main destre, dont la flame

A eschauffée mainte dame.

El fu si cointe et si tifée,

El resembloit déesse ou fée:

Du grant ator que ele avoit,

Bien puet cognoistre qui la voit,

Qu'el n'ert pas de religion.

Ne feré or pas mencion

De sa robe et de son oré,

Ne de son trecéor doré,

Ne de fermail, ne de corroie,

Espoir que trop i demorroie;

Mès bien sachiés certainement

Qu'ele fu cointe durement,

Et si n'ot point en li d'orgueil.

In un poemetto francese del XIII secolo, intitolato De Venus la deesse d'amor, Venere, che viene in soccorso di un amante infelice, cavalca una mula meravigliosa, di varii colori, con bardatura e fornimenti di grandissimo pregio. Gli uccelletti ajutano la dea a salire in sella e la raccomandano a Dio. In un poemetto italiano intitolato La visione di Venus Venere apparisce la notte a guisa d'angioletto a un suo fedele. Sovente in compagnia di Venere comparisce Cupido, e quanto spesso poi questi comparisca da solo, e in quante diverse guise nonfa mestieri di ricordare. Nei sogni dell'astrologia i pianeti esercitarono influssi convenienti all'indole delle divinità di cui portavano i nomi, e chi nasceva sotto l'influsso di Venere era naturalmente inclinato all'amore. A tale proposito si nota che il nome di Venere significa lussuria. Matfre Ermengaud, discorrendo dei pianeti, dice:

Le quins planeta dissenden

Es dig Venus propriamen,

Que vol dire luxuria.

E il Dil des Planètes similmente:

Le vendredi vient de Venus:

Venus sénefie luxure.

Non è egli curioso che Dante, dopo aver ripreso l'errore degli antichi, i quali credettero

Che la bella Ciprigna il folle amore

Raggiasse, volta nel terzo epiciclo,

ponga appunto nel pianeta di Venere le anime beate di coloro che in vita furono proclivi all'amore?

Ma, come ho già accennato, Venere non vive nel medio evo solamente nelle tradizioni classiche della poesia; essa vive ancora, fatto ben più importante per noi, nella memoria e nella credenza del popolo, e vi genera nuovi miti. Se non che, mutate di pianta le condizioni dei tempi, e trasformato lo spirito, questi miti non sono più sereni ed amabili, quali sarebbero convenuti alla madre gioconda degli amori, ma inquieti e paurosi, quali convenivano oramai a colei che la nuova religione aveva,

già da gran tempo, precipitata dal suo seggio di gloria. Venere ha patito la sorte di tutti gli altri dei, e si è trasformata in demonio; ma nel demonio che la nuova fede ha dannato agli abissi, e che reca in fronte il marchio della riprovazione, si riconosce ancora l'antica bellezza, e si ritrova il fascino delle seduzioni irresistibili.

Nell'Anticlaudianus Alano de Insulis introduce Venere moribonda a ricordare le proprie imprese e a deplorare la perdita dell'antica potenza; ma era un errore il suo: Venere aveva ancora lunghi anni da vivere, e la sua potenza era tuttavia formidabile. Come or ora vedremo, si poteva prendere alla lettera l'avvertimento che un ignoto lasciò scritto in un codice antico dell'Escuriale:

Sub Veneris latere debet nemo latere

Nam mala Venere plurima devenere.

Venere, la più potente delle divinità, era divenuta un potentissimo demonio.

Ed ecco presentarcisi due delle più belle, immaginose e significative leggende che il genio del medio evo abbia create; quella celeberrima di Tannhäuser; e l'altra, assai meno nota, ma non però meno curiosa, del giovane patrizio di Roma. Cominciamo da questa.

Il più antico scrittore che la narri, senza però dire a quali fonti attinga, è il cronista inglese Guglielmo di Malmesbury, il quale fioriva intorno al mezzo del XII secolo. Ecco, tradotto, il suo racconto. Un giovane cittadino romano, ricco di molto censo, e nato d'illustre famiglia senatoria, avendo condotto moglie, invitò gli amici a banchetto. Levate le mense, e stimolata coi vini più spiritosi l'ilarità,uscirono i commensali in un prato, desiderosi di alleggerire danzando, o sbalestrando, o in altri giuochi esercitando il corpo, gli stomachi aggravati dal cibo. Lo sposo, re del convito, e maestro del giuoco, chiese una palla, e trattosi l'anello nuziale, lo appose al dito steso di una statua di bronzo ch'era ivi presso. Ma poichè tutti i compagni, giocando, in lui solo inveivano, affannato ed acceso si ritrasse primo dal campo, e volendo riavere il suo anello trovò piegato sulla palma della mano il dito della statua. Avendo quivi penato un pezzo senza potere, nè strappare l'anello, nè frangere il dito, taciuta la cosa ai compagni, affinchè, lui presente, nol deridessero, o, assente, non involassero l'anello, in silenzio se ne partì. Tornatovi poscia con alcuni suoi familiari a notte scura, ebbe a stupire vedendo raddirizzato il dito e tolto l'anello. Tuttavia, dissimulato il danno, si lasciò dalle carezze della sposa rasserenare, e, giunta l'ora di coricarsi, si adagiò accanto a

lei. Ma, come appena si fu adagiato, sentì alcun che di nebuloso e denso voltolarsi fra sè e lei, la qual cosa si poteva sentire, ma non vedere. Vietatogli da tale impedimento l'amplesso, udì una voce che diceva: "Giaciti meco, dacchè oggi pure tu m'hai sposata. Io sono Venere, a cui tu ponesti l'anello in dito; io ho l'anello in poter mio, e più nol renderò". Spaventato da tanto prodigio, nulla osò, nulla potè rispondere il giovane, e passò insonne la intera notte, esaminando tacitamente nell'animo il caso. Corse gran tempo, e in qualunque ora tentasse egli di accostarsi alla sposa, sempre sentiva e udiva il medesimo; del rimanente era validissimo e atto a checchessia. Finalmente, mosso dalle querele della moglie, scoperse ogni cosa ai parenti, i quali, avuto consiglio fra loro, ne informarono un prete suburbano per nome Palumbo. Aveva costui virtù di suscitare per arte di negromanzia figure magiche, e d'incutere terrore nei demonii, facendoli servire a quale officio più gli piacesse. Pattuita pertanto la mercede, che doveva esser grande, e tale da riempiergli d'oro la borsa quand'egli fosse riuscito a far congiungere gli sposi, usò il supremo dell'arte sua, e composta una epistola, diedela al giovane dicendo: "Va alla tale ora di notte al crocicchio, dove la via si divide in quattro, e poni mente a ciò che tu vedrai. Passeranno di colà molte figure umane, d'ambo i sessi, d'ogni età, d'ogni grado e condizione, alcune a cavallo, altre a piede, quali con la fronte volta alla terra, quali col ciglio superbamente levato, e quante sono insomma le forme e le sembianze dell'allegrezza e della tristezza, tutte le potrai vedere espresse nei voltie nei gesti loro. Non favellare a nessuna, quando pure esse favellino a te. Seguirà quella turba uno di maggiore statura degli altri e più corpulento, sedente in un carro: a lui porgi silenzioso l'epistola, e incontanente sarà appagato il tuo desiderio, purchè tu faccia tanto d'essere d'animo risoluto". Il giovine si avvia, come gli era stato prescritto, e stando la notte a ciel sereno, sperimenta la verità di quanto avevagli detto il prete, chè nulla non mancò alle promesse. Fra gli altri che di là passavano vide sopra una mula una donna vestita a uso di meretrice, sparsi i capelli giù per le spalle, e stretti in capo da un'aurea benda. Teneva colei in mano una verga d'oro, con la quale governava la cavalcatura, e per la tenuità delle vesti mostrandosi quasi ignuda, faceva ostentazione d'atti impudichi. Che più? L'ultimo, che pareva il signore, ficcando i terribili occhi nel giovane, dal carro superbo, tutto composto di smeraldi e di perle, chiede la causa del suo venire; ma quegli, nulla rispondendo, stesa la mano, porge la epistola. Il demonio, non osando disprezzare il noto suggello,

legge lo scritto, e tosto, levate le braccia al cielo, "Dio onnipotente", esclama, "insino a quando soffrirai tu la iniquità di Palumbo?" E senza por tempo in mezzo mandò due de' suoi satelliti perchè ritogliessero a Venere l'anello, la quale, dopo molto contrastare, finalmente lo rese. Così il giovane, venuto a capo del suo desiderio, potè finalmente godere dei sospirati amori; ma Palumbo, com'ebbe udito la lagnanza che di lui il demonio aveva mossa a Dio, intese esser prossima la sua fine; per la qual cosa, fattisi di suo arbitrio troncar tutti i membri, morì con miserevole penitenza, avendo confessato al papa e a tutto il popolo le inaudite sue sceleraggini. Guglielmo conchiude la sua narrazione dicendo come ancora al tempo suo, in Roma, e in tutta la circostante provincia, le madri raccontassero tale storia ai figliuoli, affinchè ne fosse tramandata ai posteri la memoria.

L'immaginosa leggenda, appropriata quanto altra mai al gusto e alle credenze dei tempi, si divulgò per tutta l'Europa, e fu raccolta e rinarrata da molti altri scrittori, tra' quali basterà ricordare Vincenzo Bellovacense, Matteo di Westminster, Radulfo da Diceto, Enrico di Knyghton, Giovanni Bromton. Guglielmo di Malmesbury, da cui direttamente o indirettamente attinsero tutti costoro, non dà nessuna indicazione circa il tempo in cui si suppone avvenuta la strana avventura; non così quelli che vennero dopo di lui. Vincenzo Bellovacense la dice avvenuta circa l'anno dodicesimo dell'impero di Enrico III, ossia intorno al 1050, Matteo di Westminster nel 1058, Radulfo da Diceto nel 1036, Giovanni Bromton nell'ultimoanno di Edoardo il Confessore, ossia nel 1066, e circa quel medesimo tempo Enrico di Knyghton. Inoltre Guglielmo tace il nome del giovane e della sposa, che da Giovanni Bromton sono chiamati Lucio ed Eugenia. Enrico di Knyghton dà al giovane il nome di Luciano.

Fermiamoci alquanto ad esaminare il racconto di Guglielmo di Malmesbury, a rilevarne lo spirito, a sceverarne gli elementi. Anzi tutto egli dà la leggenda come italiana, afferma che si raccontava comunemente a' suoi tempi in Roma e nel circostante territorio, e noi non abbiamo ragione per mettere in dubbio le sue parole, sebbene sia ragionevole il credere che, una volta uscita d'Italia, la leggenda mutasse alcun poco l'indole primitiva e ricevesse qualche nuovo elemento.

Il carattere che in esse presenta Venere merita di essere attentamente considerato. Venere è un demonio, ma tale tuttavia che, non solo non ha in sè la orridezza, ma nemmeno la consueta ferità e malignità diabolica. Essa è innamorata, e vuol fruire dell'amor suo: non usa nessuna violenza

al giovine, nè sfoga l'ira sua sulla sposa; ma si oppone a che il matrimonio sia da essi consumato, e si fa forte del suo diritto, che pretende siale stato conferito dal giovane mediante l'anello. Ricorderò a tale proposito come nel medio evo il solo sposo desse l'anello alla sposa, e come per antichissimo diritto romano lo sposo che avesse donato alla sposa l'anulus pronubus si considerasse regolarmente impegnato. E notisi che nel concetto della leggenda Venere non si prevale artificiosamente di un atto per se medesimo insignificante, e a cui ella fingerebbe di dare la forza che in realtà non può avere: l'anello di cui ella è in possesso le conferisce il diritto, e per farla chetare bisogna ritorle l'anello. Così non si poteva ricuperar dall'inferno chi avesse venduta l'anima al diavolo se prima non si riaveva la scritta del contratto. Ora, in questa bella, dolce e appassionata figura di demonio, che noi ritroveremo di bel nuovo più oltre, splende, o m'inganno, un riflesso dell'antica divinità. La Venere medievale innamorata del giovane patrizio romano fa ripensare alla Venere antica innamorata di Adone. Un concetto, direi così benevolo, di Venere, non poteva sorgere che a medio evo avanzato, spenti i ricordi della lunga ed asprissima lotta fra cristianesimo e paganesimo, e ridischiuso il senso al prestigio della bellezza antica. In tempi di lotte ancora accese, o di ancor desti sospetti, il demonio Venere sarebbe stato dipinto con più foschi colori. Prospero Aquilano, morto nel 463, racconta nel suo trattato De promissionibus et praedictionibus Dei la curiosa storia di una fanciulla cristiana, la quale, per aver osato di paragonarsi con una statua di Venerein Cartagine, fu, per opera diabolica, affetta di tale una malattia nella gola che per lo spazio di settanta giorni non potè prendere cibo veruno, fino a che, condotta in chiesa, e fatta partecipe della comunione, fu liberata.

Veniamo alla statua. L'antichità, oltre a quello famoso di Pigmalione, narra parecchi casi di persone che s'innamorarono di statue, casi che non hanno relazione col nostro. Luciano, Plinio, Valerio Massimo, Clemente Alessandrino fanno ricordo di un giovane che, innamoratosi della Venere di Prassitele in Gnido, sfogò sopra di lei la propria libidine; ma la dea non si commosse, pare, alle prove della sua passione. Nella leggenda nostra il giovane non è punto innamorato della statua, ma la statua è evidentemente concepita come un idolo, ossia come il simulacro di una divinità, legato a lei con una specie di vincolo arcano e vitale, per modo che la promessa fatta ad esso valga come fatta alla divinità che rappresenta. Il caposaldo della leggenda dev'essere appunto una statua esistita in Roma, e nulla v'è che contrasti a questa

congettura. I cristiani non distrussero tutti i simulacri di antichi numi che poterono avere nelle mani; essi dovevano muovere guerra più aspra a quelli delle divinità impudiche, in particolar modo a quelli di Venere, come pare che già facesse Costantino Magno; ma anche di questi molti se ne salvarono. Può darsi che nell'XI secolo una statua di Venere sia stata ritrovata in Roma, e abbia dato origine e argomento alla leggenda: se si ha da credere a Ranulfo Higden, o a quel Gregorio della cui autorità egli si prevale, una tale statua si ammirava veramente in Roma nel XIII secolo. Ecco in qual modo egli la descrive: "Fuit et imago Veneris eo modo quo quondam nudo corpore Paridi se ostendebat, ita artificiose composita ut in niveo imaginis ore sanguis recens natare videretur". Salvo la esagerazione di quest'ultime parole, nel resto non è nulla che non possa essere agevolmente creduto. S'immagini ora che un tale ritrovamento veramente fosse avvenuto nell'XI secolo in Roma. Le reminiscenze dell'antichità non erano in tutto spente; si sapeva ancora chi fosse stata Venere, quale fosse stato il suo ufficio, e forse nella plebe durava ancora qualche tradizione, qualche pratica superstiziosa dell'antico culto. La statua fu ammirata per la sua bellezza, ma fu in pari tempo guardata con sospetto, come quella a cui poteva andar congiunta tuttavia una misteriosa potenza. S'immagini che, presso al luogo dov'essa fu collocata, la felicità di due giovani sposi sia stata turbata da un accidente naturalissimo, ma che molto spesso nel medio evo fu creduto effetto di malìe; assai agevolmente se ne poteva far ricadere la colpasu quella statua di Venere; e poichè a esercitare quelle malie la gelosia era motivo principalissimo, si poteva immaginare che Venere fosse innamorata del giovane e gelosa. L'anello posto in dito alla statua può esser fatto vero, può essere fatto immaginario, ideato per dare al tutto più consistenza; e la guarigione del giovane può essere succeduta ad alcune pratiche magiche poste in opera per ottenerla. La leggenda sarebbesi formata così in modo assai facile e spontaneo, e nulla v'è nelle sue parti essenziali che possa legittimamente far dubitare dell'origine italiana. Il Baring-Gould sostiene che la particolarità dell'anello fu suggerita da credenze religiose dei popoli teutonici e scandinavi, e ricorda che la dea Freya si rappresentava con un anello in mano, e ricorda un mito della dea Thorgerda Hörgabruda, la quale non si lascia togliere un anello dal braccio; ma non v'è nessuna necessità di ricorrere a così remote origini.

La tregenda descritta da Guglielmo di Malmesbury ha molti riscontri. In Germania e in Francia chi vedeva passare il wildes Heer, o la maisnie

Hallequin, doveva, come il giovine Romano, serbare il più profondo silenzio. Vedervi mescolata Venere non deve fare meraviglia. Sant'Agostino fa ricordo di una credenza, secondo la quale le streghe si riunivano la notte guidate dal Demonio, da Diana, da Minerva e da Erodiade, e tale credenza si conservò a lungo nel medio evo. L'esercito furibondo in Germania qualche volta è capitanato da Holda che si confuse con Venere, qualche volta dallo stesso demonio, e tra le incisioni che adornano i Sermones et varii tractatus di Geiler von Keisersberg, nella edizione che se ne fece a Strasburgo nel 1508, una ve n'ha che rappresenta il duce dell'esercito seduto in un carro, come nel racconto di Guglielmo. Nella leggenda di San Basilio, vescovo di Cesarea, si narra di un mago che diede a uno schiavo una epistola per il diavolo; con essa lo schiavo doveva ottenere che fosse soddisfatto certo suo desiderio. Ciò che nel racconto di Guglielmo si dice della penitenza e della morte di Palumbo ricorda quanto della penitenza e della morte di Gerberto fu narrato dalla leggenda.

La Kaiserchronik contiene un lungo racconto, indipendente da quello di Guglielmo, e in cui l'avventura testè narrata si fa accadere bensì in Roma, ma ai tempi dell'imperatore Teodosio, e con particolarità che altrove non si hanno. Eccone in breve la sostanza. C'erano in Roma due giovani fratelli adoratori degl'idoli. Una volta che l'uno di essi, per nome Astrolabio, giocava alla palla con alcuni compagni, avvenne che la palla andò a cadere dietro il muro antico di un tempio. Astrolabio diè la scalata al muro, e quando fu dall'altraparte vide una statua bellissima che gli fe' cenno con la mano. Era quella una statua di Venere. Il giovane preso da subitanea ed irresistibile passione, si tolse di dito l'anello, e lo diede alla statua in pegno di perpetuo amore. I compagni suoi, entrati con violenza, contro il volere dei sacerdoti, nel tempio, lo ritrovarono assai tramutato; egli non fece parola di quanto gli era occorso; ma tutto pieno del suo diabolico amore, da quell'ora non bevve, non mangiò, non dormì più, e tutti temettero che presta morte lo dovesse incogliere. Un giorno il giovane innamorato si fece animo, andò a trovare Eusebio, il cappellano dell'imperatore, e narratogli il caso, gli chiese consiglio ed ajuto. Eusebio da giovane aveva studiato negromanzia ed era assai versato in quest'arte. Egli evocò il diavolo e gl'ingiunse di riportargli l'anello che il giovane aveva donato alla statua; ma non potendo ottener ciò, si fece portare egli stesso all'inferno, e non senza molta fatica ricuperò l'anello. Da ultimo costrinse il diavolo a svelargli in che fosse riposta la maligna potenza della statua: questa potenza era procacciata da certe erbe

nascoste sotto di essa. Risaputa la cosa, il papa Ignazio fece consacrare la statua in onore di San Michele. Il giovane guarì, e insieme con molti altri ricevette il battesimo.

Questo racconto non è certo meno antico di quello di Guglielmo, e tutt'a due debbono considerarsi come versioni diverse di uno stesso tema leggendario. Tuttavia la versione dello storico inglese mi sembra dover essere la più genuina: ciò che, per tacer di altro, nel racconto tedesco si dice delle erbe magiche nascoste sotto la statua, rende inutile l'anello dato in pegno, e guasta tutto il concetto della leggenda.

Nelle favole demonologiche del medio evo, e più particolarmente in quelle dei succubi, si potrebbero trovare alla leggenda di Venere innamorata parecchi riscontri. Ettore Boezio racconta il caso di un bellissimo adolescente che per molti mesi fu perseguitato da un succubo, bellissimo anch'esso, il quale, ogni notte, penetrava, tuttochè fossero chiuse le porte, nella stanza di lui, e con blandizie lo provocava all'amplesso. Cesario di Heisterbach racconta la storia seguente. Un mago di Toledo fu richiesto da certi scolari svevi e bavaresi di dar loro un saggio dell'arte sua. Non essendogli stato possibile di scusarsi, egli li condusse in un campo, tracciò loro intorno con una spada un cerchio, e severamente ammonitili di non uscirne, e di non dar cosa alcuna a coloro che erano per comparire, come pure di nulla accettare da essi, evocò i demonii. Tosto compajono questi in figura di cavalieri, e con varii giuochi si studiano di allettare i giovani a usciredal cerchio. Tornata vana la prova, ricompajono in figura di avvenenti e procaci fanciulle, e danzando rinnovano le provocazioni. Uno di essi, con usare più lenocinii degli altri, e con isporgere un anello d'oro, riesce a trarre uno dei giovani fuori del cerchio, e incontanente sparisce con lui, e spariscono ancora tutti gli altri demonii. Minacciato nella vita dai compagni dell'incauto, il mago ricorre al principe dei demonii, il quale convocato il concilio infernale, dopo molto discutere ordina che il giovane sia rimesso in libertà.

Ma il riscontro più curioso alla leggenda nostra lo porge un'altra leggenda del medio evo, nella quale, rimanendo invariate molte delle altre particolarità, alla dea Venere si sostituisce la Vergine Maria. Non saprei chi possa essere stato il primo a riferirla, ma Vincenzo Bellovacense, che, come s'è veduto, riferisce anche l'altra, la narra nei seguenti termini. Alcuni giovani chierici giocavano alla palla dinnanzi a una chiesa. L'uno di essi, temendo che nel giuoco non gli si avesse a spezzare un anello che in pegno di carnale amore gli aveva donato

l'amica, entrò in chiesa per quivi deporlo; ma veduta una bellissima immagine della Vergine, le s'inginocchiò davanti, e salutatala, disse: "Veramente sei tu più bella assai di colei che mi diè quest'anello, e però io rinuncio a lei, e faccio proposito di servire e di amare te sola, a patto che tu me ne ricambii con l'amor tuo". Profferite tali parole, il giovane si tolse l'anello, e lo inserì nel dito steso della statua, la quale, volendo mostrare di accettare il patto, ripiegò il dito. Meravigliato il giovane, chiama i compagni e narra loro l'accaduto, ed essi lo esortano a rinunziare al mondo e a dedicarsi tutto al servizio della madre di Dio. Ma il giovane, traviato dalle ricchezze, dopo non molto, mentendo alla fatta promessa, condusse moglie. Ed ecco, la prima notte delle nozze, apparire al dormiente per ben due volte la Vergine, rimproverargli la mancata fede, mostrargli l'anello, minacciargli severissimo castigo. Colto da paura e da pentimento, quella medesima notte abbandonò il giovane ogni cosa sua, e si ritrasse a vivere in un eremo, dove per fin che gli durò la vita servì alla sua signora ed amica.

Questa medesima storia si trova pure narrata da Jacob van Maerlant nello Spigel historiael, nello Speculum exemplorum, da Pelbarto nello Stellarium coronae gloriosissime Virginis, da Gualtiero di Coinsi nei Miracles de Nostre Dame, e da altri parecchi. Ma assai probabilmente essa altro non è che una versione raffazzonata di una leggenda più antica, e raffazzonata a imitazione di quella di Venere. Pottone o Bottone, abate Prunvenigense, il quale fiorì nel XII secolo, narra nelc. XVI del suo Liber de miraculis sanctae Dei genitricis Mariae, il caso di un chierico di Pisa, molto devoto della Vergine, il quale, essendosi lasciato indurre a tor moglie, fu dalla Vergine, in una chiesa, aspramente rimproverato, dopodichè egli abbandonò ogni cosa, e benchè nessuno sapesse mai dove andasse a riparare, si credette che si fosse tutto consacrato al servizio di Dio e della madre sua. In questo racconto, nè del giuoco della palla, nè dell'anello si fa menomamente ricordo. Storie di matrimonii mistici di giovani con la Vergine, come anche di gravi punizioni da questa inflitte ai mancatori di fede, non sono rare nel medio evo. Tommaso Cantipratense una ne racconta in cui la Vergine fa morire un giovane a lei devoto il giorno stesso in cui egli deve tor moglie. Una leggenda che ha qualche somiglianza con quella del chierico e della Vergine si racconta anche di Sant'Agnese.

Veniamo ora alla leggenda di Tannhäuser.

In un monte della selvosa Turingia, il quale da tempo immemorabile, è

chiamato l'Hörselberg, s'apre in luogo precipitoso ed impervio una profonda caverna, dalla cui bocca, forse per moti incomposti d'acque sotterranee, prorompono strani e formidabili fragori. Per questa ragione, appo gli scrittori latini dei passati secoli, il monte si trova indicato col nome di Mons horrisonus, e risale forse a remotissima antichità la popolare credenza, viva tuttora, che fa di quella bocca uno spiraglio dell'inferno. Ma da essa non solamente rumori spaventosi, qualche volta si udivano uscire anche gli echi soavi di musiche lontane, e spesso sul suo limitare si vedevano belle e provocanti immagini di donne che allettavano i viandanti a seguirle. Dentro a quel monte Venere aveva la sua corte e la sua numerosa brigata.

Un nobile cavaliere di Franconia, per nome Tannhäuser, vassallo d'amore, e trovatore lodato di rime, passava una volta davanti alla misteriosa caverna, quando, in sulla entrata di essa, vide una donna d'incomparabile bellezza, che con voce ammaliante e atti di seduzione lo invitava a sè. Altri non era costei che la stessa Venere, Frau Venus. A dispetto degli avvertimenti della coscienza, Tannhäuser, attonito, affascinato, segue i passi dell'innamorato demone, e con esso discende nelle viscere della terra. Quivi lo attende una vita di gaudii ineffabili, quante squisitezze sa immaginare l'amor più sollecito, quanti portenti sa compiere un'arte a cui gli elementi obbediscono. Ma passan più mesi; è trascorso un anno, e Tannhäuser, dalla cui mente cominciano a dileguarsi i vapori della lunga ebbrezza, pensa al suo errore, sente le crescenti punture del rimorso e il terrore della eterna dannazione, ridesidera la libertà e la compagnia dei suoi simili. Con l'ajuto della Vergine Maria, da lui invocata, riescea fuggire dalla perigliosa dimora, e messosi in via, a quanti preti incontra si confessa e chiede l'assoluzione. Ma tutti, spaventati della immanità della colpa, lo rimandano al papa, che ha la suprema potestà di sciogliere e di legare. Tannhäuser va a Roma, si getta ai piedi di papa Urbano IV, implora perdono e benedizione; ma il papa, tradendo il suo ministero, lo respinge duramente e gli dice: "Quando quest'arida verga ch'io ho tra le mani rinverdirà e fiorirà allora ti assolverò dal tuo peccato". Tannhäuser, come la disperazione lo consiglia, rinunzia alla incominciata penitenza, e ritorna alla sua caverna, a Venere, ai suoi esecrabili amori. Intanto, per subitaneo miracolo, fiorisce la verga tra le mani del papa, che, atterrito e pentito, manda messi per tutta la cristianità a cercar novella del peccatore; ma tardo troppo è il suo zelo e tarda ogni indagine: Tannhäuser è dato per tutti i secoli in potestà di Venere.

Il caso mirabile si suppone seguito circa l'anno 1260, nel bel mezzo della Germania fatta già da più secoli cristiana. Divulgato prima, e con pertinace memoria, dalla poesia popolare, fu rinarrato da un secolo in qua, con molta varietà di sentimenti e d'intenzione, da parecchi poeti tedeschi, fra gli altri dal romantico Tieck, e da quell'Heine il cui temperamento poetico non si può con un solo epiteto definire.

La leggenda di Tannhäuser è genuinamente tedesca; ma la immaginazione di un monte, supposto asilo di Venere, non è forse tale in origine. Essa si trova anche in Italia, e può darsi che dall'Italia sia passata in Germania. Di un Monte di Venere presso il lago Nursino parlano Enea Silvio Piccolomini in una epistola e Adriano Romano nel Theatrum urbium, ed è assai ragionevole il credere che la memoria dell'antica divinità si serbasse piuttosto in Italia che non in Germania. Tuttavia è da notare che in Germania vi furono parecchi Monti di Venere, che il nome di Venus vi divenne nome di famiglia, e che qualche altra leggenda vi si ebbe in cui comparisce l'antica divinità. Anzi nel XIV secolo ci doveva essere l'uso d'invocarla questa divinità, giacchè Corrado di Megenberg dice del pianeta Venere che inclina all'amore, come alcuni avessero in costume di dire: Venere ajuta! i quali non sapevano che cosa Venere si fosse. Ricorderò ancora che secondo un poema tedesco già citato, il Wartburgkrieg, Felicia, figliuola della Sibilla, e Giunone vivono con Artù nel cavo di un monte. La leggenda di Tannhäuser può inoltre essere raccostata a quella di Uggiero il Danese, trattenuto da Morgana nell'isola di Avallon, e ad altre di simil tenore.

Checchessia del luogo di origine delleleggende esposte nelle pagine precedenti, riman provato per esse che il ricordo di Venere si agitava ancora negli uomini del medio evo, e commoveva alla creazione di nuovi miti le fantasie.

CAPITOLO XX. Roma e la Chiesa.

Roma, dominatrice dell'antico mondo, diventa centro della cristianità, e sede della suprema potestà religiosa. Un tal fatto ha gran peso nei destini della Chiesa, e l'un primato intimamente si lega con l'altro.

A me non tocca rifare la storia della lunga e ostinata lotta che il cristianesimo ebbe a sostenere, non solo contro il gentilesimo, ma contro ancora la più gran parte delle istituzioni, costumanze, e forme di vita onde constava la civiltà pagana, e nemmeno mi si appartiene di

rinarrare il suo trionfo, e come la Chiesa si venisse costituendo e come crescesse la sua potestà. Tale cómpito spetta agli storici del cristianesimo: io debbo contentarmi di ricordar di passata alcuni fatti più peculiari nei quali le due entità storiche e morali che si chiamano Roma e la Chiesa vengono a più stretto raffronto, e mostrare quali influssi vicendevolmente l'una esercitasse sull'altra, e come ne nascessero certe opinioni e fantasie largamente diffuse poscia nel medio evo e molto vivaci.

I sentimenti che i cristiani dei primi secoli professarono per Roma furono in diversi tempi molto diversi. Tanto che l'impero durò pagano, i cristiani odiarono Roma, considerata da essi quale la metropoli della paganità, e come il regno della corruzione. Nell'Apocalissi e nell'epistola prima di San Pietro, Roma è chiamata con l'ingiurioso nome di Babilonia, come assai spesso nei libri talmudici, e tal nome le è dato pure da parecchi padri. Arnobio la dice posta per la distruzione del genere umano. Ma poichè l'impero si fu convertito mutò interamente la disposizione degli animi. Prudenzio giudica Roma la più grand'opera della Provvidenza. Se per l'impero si pregò dai cristiani in ogni tempo, venne stagione in cui la integrità e la durata di esso parvero necessarie alla conservazione, o almeno alla prosperità della Chiesa. Nella messa romana degli ultimi tempi appunto dell'impero, sono frequenti preghiere intese a scongiurare il crescente pericolo delle invasioni barbariche, e vi ricorrono frasi come le seguenti: protege romani nominis ubique rectores; - Hostes Romani nominis et inimicos catholicae professionis expugna; - Statum Romani nominis ubique defende. San Gerolamo all'udire l'entrata di Alarico in Roma prorompe in quel grido del salmista: Deus, venerunt gentes in haereditatem tuam! Ciò nullameno, anche in tempi posteriori si riscontra intorno a Roma una certa ambiguità di giudizii, di modo che ora la sua santità, ora la sua sceleraggine è proclamata. Il sangue dei martiri, e più particolarmente dei principi degli apostoli l'aveva grandemente santificata; ma la ingiusta lor mortele era pur causa di perpetua infamia. Basti all'uopo nostro un esempio. Nella Invectiva in Romam, composta nella prima metà del X secolo, si trova il seguente passo, dov'è curioso il raccostamento che si fa tra Romolo e Remo e San Pietro e San Paolo: "O Roma, conditores tuos Romulum et Remum, quos unus uterus gessit, tua menia ut simul regnarent, non receperunt, sed fratricidio tabefacta neci unum tradidisti, alterum quirinali gladio capitales tibi leges impertiendo volvens....... imo tocius orbis hominibus dominos Petrum et Paulum, apostolorum principes,

unum crucifixisti, alterum gladio inter omicidas capite truncasti".

È noto come i pagani imputassero ai seguaci di Cristo i mali tutti che affliggevan l'impero: intemperie, morbi, carestie, ruine, guerre disastrose, di tutto si dava colpa alla nuova religione, la quale aveva tolto di seggio gli antichi numi, protettori di Roma. Sant'Agostino deve ancora ribattere queste infondate accuse. Ma gli apologeti non si contentano di mostrare con le prove alla mano che assai prima della introduzione del cristianesimo Roma era soggiaciuta egualmente a gravissime calamità; essi sostengono ancora che tutta la prosperità passata era un beneficio fattole dalla Provvidenza in considerazione soltanto degli alti e nuovi destini che le si preparavano. Conformemente a tali vedute componeva Orosio i sette libri delle sue storie adversus paganos, primo saggio che siasi tentato di una filosofia della storia. Nel c. 22 del l. VI egli dice espressamente che Cristo fu quegli che levò al sommo della potenza e della gloria la città sotto alla cui signoria aveva fermato di sortire i natali. Ma già nel secondo secolo Melitone, vescovo di Sardi, aveva fatto notare che l'impero e il cristianesimo eran sorti ad un tempo, e che di poi la prosperità di Roma era grandemente cresciuta. A questo modo tutta intera la storia della città, a cominciar dalla fondazione, appare come la esecuzione di un gran compito sacro, per cui la città medesima e le istituzioni sue e l'opere rimangono dignificate e santificate. Così i cristiani, mentre per una parte non potevano non esecrare la metropoli del paganesimo e quella potestà imperiale che tanto avversa si mostrava alla loro fede, non potevano, per l'altra, non nutrire un sentimento di venerazione per la città predestinata, e di gratitudine per l'impero che aveva preparato il mondo all'avvenimento del cristianesimo. Cristo, dicevasi, aveva voluto nascere soggetto di Roma; ma per rendersi degna di tanto onore Roma aveva dovuto compiere l'ardua impresa di fare dei molti popoli della terra un popolo solo, pronto a ricevere la nuova dottrina. Nessuno forse esprime meglio e più categoricamente di Prudenzio questi concetti, in cui la storia di Roma veniva assumendo un carattere al tuttonuovo che doveva poi serbare lungamente.

Questi concetti sono comuni nel medio evo. Abbiamo veduto che cosa la leggenda narrasse di Augusto, dell'Ara Coeli, del famoso censimento. Si disse ancora che quando nacque Cristo fu costruita una Via Regia, la quale metteva in comunicazione tutte le province dell'impero, anzi tutti i regni del mondo. Poi al cómpito di Roma si diede, com'era naturale,

maggiore estensione: non solo essa aveva dovuto preparare il mondo alla venuta del Redentore, ma aveva dovuto preparare la sede alla suprema potestà ecclesiastica, al papato. Abbiam pure veduto a suo luogo che cosa la leggenda narrasse delle ragioni che avevano indotto Costantino a togliere da Roma la sede dell'impero e a fondare Costantinopoli. Secondo Dante Roma e l'impero

Fùr stabiliti per lo loco santo

U' siede il successor del maggior Piero.

A giudizio dell'ignoto autore di certi versi del X secolo, già da me riportati altrove, Roma sarebbe precipitata nell'ultima ruina senza il favore dei santi apostoli Pietro e Paolo.

All'opinione che a Roma fosse stato dalla Provvidenza commesso il glorioso ufficio di preparare il mondo alla venuta di Cristo un'altra naturalmente se ne legava, della quale già ebbi a recare più esempii, e cioè che in Roma stessa, o qua o là nel suo vasto dominio, si fosse avuto qualche presentimento dei mirabili fatti che in processo di tempo si dovevano compiere, oppure come una vaga consapevolezza dell'opera a cui suo malgrado la intera paganità lavorava. Di qui quelle curiose immaginazioni, di cui toccai già a più riprese, della statua di Romolo dallo stesso Romolo eretta, o di una statua alzata da Virgilio, o del tempio della Pace, e simili, che precipitano la notte in cui nasce il Redentore. Sant'Agostino dice in un luogo del De Civitate Dei che l'asilo concesso da Romolo a tutti i banditi in Roma fu un simbolo della rimessione dei peccati che unisce tutti i fedeli nella città celeste, e Santa Brigida attribuisce, com'ebbi già a ricordare, un vago sentimento della vera fede ai Romani dei tempi di Romolo. Le sibille, i cui oracoli Roma credeva congiunti con istretti e vitali legami alla propria sua storia, avevano annunziata la nascita e la passione di Cristo. Bandita e già divulgata la nuova fede, si fanno convertire ad essa principi, scrittori, tutta la paganità.

Grande importanza, sin dalle origini, ebbe Roma nel concetto cristiano e nelle aspirazioni della Chiesa nascente. Si riconosceva in lei il grande e necessario organo della fede. Il cristianesimo non poteva gloriarsi d'aver trionfato finchè non avesse trionfato di Roma, sede suprema di tutte le potenze del paganesimo: dalla città che dominava il mondo si poteva solo sperare di diffonderesul mondo la nuova dottrina. Gli è per questo che San Lorenzo, nell'inno postogli in bocca da Prudenzio, prega Cristo di voltare alla sua fede Roma che aveva sottomesse le genti. Alla conquista

morale di Roma volse pertanto il cristianesimo tutte le sue forze, e si può certamente dire che, dove non fosse stata la Eterna Città, tutt'altri sarebbero stati i suoi destini. A lei necessariamente dovevano tendere i principi degli apostoli, e se col finire del terzo secolo la primazia della Chiesa di Roma è riconosciuta in tutto l'Occidente, e si distende poi a mano a mano su tutto l'orbe cristiano, non fu estraneo a questo trionfo il fatto della primazia della città che dettava, o aveva dettato leggi al mondo. Il primato storico e politico di Roma conferì potentemente a far nascere il primato ecclesiastico, che altrimenti, quando questo non avesse avuto fondamento in altro che nei fatti della storia ecclesiastica, veri o presunti, avrebbe potuto essere, con ragioni non del tutto cattive, rivendicato da alcun'altra città. Le Chiese di Alessandria, di Antiochia, e di Gerusalemme erano state lungamente pari a quella di Roma in dignità, e se primato doveva sorgere, gli è evidente che esso avrebbe dovuto appartenere alla città dove Cristo era morto e risorto, e d'onde gli apostoli s'erano sparsi a predicar l'Evangelo; alla città ch'era stata teatro principalissimo dell'opera della redenzione e culla della fede. Cristo era da più di San Pietro, e Roma, per quanto santificata dal sangue dei martiri, non aveva in sè luogo così sacro che potesse stare a paragone del Calvario. Se pertanto la storia del cristianesimo avesse potuto svolgersi in tutto conforme alle sue tendenze ideali, Gerusalemme e non Roma avrebbe fruito del primato, avrebbe ricettato in sè la suprema potestà ecclesiastica: ma quella storia obbedir doveva anche ad altre necessità. Roma naturalmente volgeva, attirava a sè tutte le forze più vive della nuova società religiosa, e qualora San Pietro, il capo degli apostoli, non vi si fosse recato, e non vi avesse sparso il suo sangue in suffragio della fede, come per antica e tenacissima tradizione assevera la Chiesa di Roma, la leggenda, obbedendo ad una logica assai rigorosa, doveva farcelo andare e morire. E s'intende facilmente come la città che da secoli comandava al mondo non potesse nemmeno in materia di religione essere da meno di un'altra. Roma conferiva naturalmente il primato alla Chiesa formatasi dentro alle sue mura: per fatali leggi storiche la città imperiale doveva diventare la città papale. L'esempio di Costantinopoli conferma quest'asserzione. La Chiesa di Costantinopoli veniva in dignità immediatamente dopo quella di Roma, e ciò perchè Costantinopoli, città imperialeancor essa, era come un'altra Roma. Il concetto della cattolicità è molto antico nel cristianesimo, è anzi, se vuolsi, inerente alla sua stessa natura; ma non v'è dubbio che esso fu grandemente favorito dalla cattolicità politica di Roma; nè forse

sarebbe stato così agevole assuefare la intera società religiosa a considerar Roma come naturale suo centro, se già non fosse stata assuefatta da lunga pezza a considerarla tale la società politica. Ma la cattolicità non era più l'esclusivo privilegio di Roma dacchè era sorta Costantinopoli, ed è perciò che i patriarchi di Costantinopoli, e i sinodi raccolti tra le mura dell'augusta città, si dissero così volentieri ecumenici, usurpazione di qualità e di titolo contro cui non cessò mai di protestare la Chiesa di Roma. Se l'impero fosse stato diviso in due parti, con due diverse metropoli, sino dai tempi di Augusto, assai probabilmente la cristianità si sarebbe sin dalle origini scissa in due Chiese indipendenti, e tutt'a due pretendenti alla legittimità; se non fosse stata Costantinopoli, detta la Nuova Roma, probabilmente lo scisma di Oriente non sarebbe avvenuto, la Chiesa greca non avrebbe osato di levarsi a fronte della Chiesa romana. E se il papato non avesse avuto sua sede in Roma, non avrebbe poi nel medio evo preteso all'universale dominio, non avrebbe disposto come di cosa sua della corona imperiale. Gregorio VII, che considerava lo stato quale una fattura diabolica, e quali creature del diavolo i principi, diceva: Quibus imperavit Augustus, imperavit Christus. Così non faceva più bisogno di ricorrere alla favola della donazione costantiniana: gli apostoli avevano legittimamente conquistato Roma in nome di Cristo, e la potestà imperiale oramai non poteva venir che da loro.

Roma consideravasi come la metropoli necessaria della cristianità, come la sola città degna di ospitare tra le sue mura il capo visibile della fede. La Chiesa cristiana, cattolica, apostolica, romana, una e indivisibile, non poteva avere sua principal sede fuori di Roma; e se le vicissitudini storiche la forzarono mai a cercare altrove un asilo, tale necessità parve sciagura massima di tutto il mondo cristiano. A quanti rimpianti, a quante accuse non diedero argomento la traslazione e il lungo fermarsi della Santa Sede in Avignone! I papi avevan dritto su Roma, e Roma aveva dritto al pontificato. Fuori di Roma scemava la potestà dei pontefici, traviava la fede. In un quadro che Cola di Rienzo mostrò al popolo romano per farlo avveduto del proprio stato, una figura allegorica rappresentante la fede cristiana era accompagnata dalla scritta:

O sommo Patre, Duca e Signor mio!

Se Roma pere dove starajo io?

Il paradiso era stato chiamato col nome di Gerusalemme celeste; Dante lo chiama col nome diRoma, facendosi dire da Beatrice:

E sarai meco senza fine civo

Di quella Roma onde Cristo è Romano.

E quante cose da Roma pagana non mutuò la Chiesa! Il nome stesso del pontefice essa ne prese a prestito, e il nome delle sue basiliche. Consacrandoli a Dio, o ai santi, rese perpetui i templi pagani e i simulacri degli antichi dei. La statua di San Pietro, che si venera nella Basilica vaticana, deriva, come si crede, dalla statua di Giove Capitolino, fatta rifondere, secondo alcuni da Leone Magno in ringraziamento della liberazione di Roma dal furore di Attila, e secondo altri dall'imperatore Costantino, o da alcuno dei più prossimi suoi successori. I primi cristiani usarono di rappresentare Cristo col laticlavo: Gregorio Magno è chiamato console di Dio nell'epitafio composto da Pietro Oldradio.

Roma aveva perduta, gli è vero, la sua antica potenza, ma un'altra ne aveva acquistata in compenso, di gran lunga maggiore. Roma pagana era stata signora della terra; Roma cristiana era signora del cielo. Che virtù aveva mai la spada di un Mario, o di un Cesare, paragonata con la formidabile arma dei papi, con la scomunica? Ben diceva Alfano, monaco di Monte Cassino, e a cominciare dal 1038 arcivescovo di Salerno, in una poesia dedicata a Gregorio VII:

Quanta vis anathematis!

Quicquid et Marius prius

Quodque Iulius egerant

Maxima nece militum,

Voce tua modica facis.

Per l'uso di quest'arma ricuperava Roma, a dir d'Alfano, i suoi diritti sul mondo. Che importava se i monumenti giacevano nella polvere, se ogni giorno che passava faceva sparire un vestigio dell'antico splendore? Altri onori, altri ornamenti risarcivano la città di questi danni. Sulle rovine della Roma antica era sorta la Nova Roma, e questa si vantava pari a quella, non solo in dignità, ma anche in bellezza.

Roma vetusta fui, sed nunc nova Roma vocabor.

Eruta ruderibus, culmen ad astra fero,

si leggeva scritto sul tempio di Bellona secondo i Mirabilia e la Graphia. San Giovanni Crisostomo celebrava Roma, non per la sua magnificenza, ma perchè aveva dato ricetto a San Pietro e a San Paolo; e in un inno antico si legge:

O Roma felix, quae duorum principum

Es consecrata glorioso sanguine,

Horum cruore purpurata, ceteras

Excellis orbis una pulcritudines.

In grazia ancora degli apostoli Roma era stata fatta degna di accogliere in sè la doppia potestà temporale e spirituale, dell'imperatore e del pontefice. Ed era comune credenza che l'occidente avesse ricevuta da Roma la fruttifera semenza della fede. Roma meritava tuttavia e conservava il titolo augusto di mater gentium.

CAPITOLO XXI. L'impero nel medio evo.

La dimostrazione più solenne, e nel medesimo tempo più curiosa della potenza degl'influssi che Roma, o, per dir meglio, la memoriadi lei, esercitava sulle credenze, sulle aspirazioni, sulla vita intera del medio evo, la porge il perpetuarsi della potestà imperiale in quella età, quando tutte le condizioni più necessarie della sua esistenza sono già da gran tempo mancate. Roma non è più che una ingente ruina; i popoli soggetti un tempo al suo dominio hanno fondato nuovi stati, nuove monarchie, e vivono indipendenti; della grande unità politica, procacciata a prezzo di tante fatiche e di tanto sangue, più non resta vestigio; non che la religione, la stessa civiltà di Roma è perduta; e pure l'impero, quell'impero sotto a cui Roma toccò il sommo della gloria e della potenza, continua a sussistere, quasi che la sua esistenza sia, per un arcano decreto della Provvidenza, fatto indipendente dal tempo e dallo spazio, e superiore a tutte le vicissitudini della storia.

Certo, quest'impero, di solito, non è che un'ombra, od un simbolo, ed i suoi mezzi materiali di dominazione non rispondono in nessun modo al titolo amplissimo della ostentata sovranità. Ma ombra, o simbolo, esso serba tuttavia una meravigliosa potenza morale, che quanto meno si appoggia alla forza dell'armi, o degli ordinamenti, tanto più alto concetto fa concepire della virtù indestruttibile serbata dal nome e dalla tradizione di Roma. Dopo quella del pontefice, la dignità imperiale è la maggiore in terra, e non pure i principi, ma i popoli ancora se la contendono, e le emulazioni e le contese per cagion sua si susseguono sin verso il mezzo del secolo XVII. Pur di accrescere lustro e favore alla sua causa, a Cola di Rienzo pareva bello scoprirsi, o spacciarsi figliuolo

naturale di Enrico VII di Lussemburgo. L'impero è giudicato necessario alla vita del genere umano, starei per dire alla economia del creato, e per tosto avvedersi della parte che ebbe nella storia del medio evo basta ripensare un istante alle lotte secolari degl'imperatori e dei papi. Fantasma di signoria, esso durò lo spazio di mille anni: secondo la leggenda non avrebbe dovuto finire altrimenti che col mondo soggetto ad esso. Tale vita gl'infondevano la tradizione romana e la coscienza della cristianità.

Cominciamo dall'esaminare alcune credenze che nel medio evo ebbero corso circa l'impero antico, e poi vedremo quali fossero i caratteri più spiccati del nuovo, e quali fantasie gli si raccogliessero intorno.

Abbiamo già veduto come per primo imperatore passasse comunemente Giulio Cesare. Le eccezioni sono assai rare, e qui mi basterà di notare che Corrado Bottone afferma nel suo Chronicon Brunsviciensium picturatum, scritto in dialetto sassone verso la fine del XV secolo, esservi stati prima di Cristo tre imperatori, Pompeo, Crasso e Giulio Cesare, i quali si divisero il dominio. Del restol'impero romano era stato profetizzato già da Noè e da suo figlio Jonito, ed anzi Nembrot aveva mandato il proprio figliuolo Camese in Italia sperando così di poterlo assicurare alla sua discendenza. Esso era l'ultimo dei quattro imperi simboleggiati dalla statua che Nabuccodonosor vide in sogno, e dalle quattro fiere di una delle visioni di Daniele. Gli altri tre erano il babilonico, il persiano, il macedonico. Il regno dei Romani corrispondeva alle gambe ferree della statua, perchè, siccome il ferro vince in durezza tutti gli altri metalli, così l'impero di Roma doveva vincere tutti gli altri imperi. La potestà era discesa da un impero all'altro, e nel romano doveva rimanere sino al cominciamento del regno celeste, nel quale tutte le potestà della terra si sarebbero risolute. Si scorge in questa immaginazione la tendenza generale del medio evo a far dell'impero una istituzione assoluta, superiore alle vicende storiche, soggetta sì a tramutar di sede, ma invariabile nella sostanza. Nello Speculum regum Gotofredo da Viterbo tesse la storia della potestà imperiale e dei lignaggi imperiali, che egli fa risalire sino a Nembrot e ai tempi della umanità rinascente, dopo il diluvio. Nembrot regnò prima in Babilonia ed ebbe otto figliuoli, dei quali il primo, Crete, fu signore in Creta. Crete generò Celio, Celio generò Saturno, Saturno generò Giove. Ciò accadeva ai tempi di Abramo e di Isacco e di Giano, che fu primo re d'Italia. Giove usurpò il regno al padre, e dominò su tutti i re e tutti i popoli della terra.

Da Giove, che fu, per valore e per sapienza, impareggiabile, vengono i Trojani, vengono i re, Alessandro Magno fra gli altri, vengono le leggi, la filosofia, l'arte della guerra, il trivio e il quadrivio. Roma e l'impero riconoscono i suoi principii da lui:

Iuraque mundana sunt a Iove condita clara;

Menia Romana Iuppiter ipso parat.

L'impero romano, a dispetto di tutti i travolgimenti, a dispetto delle stesse invasioni barbariche, non aveva patito interruzione: quello del medio evo consideravasi come la naturale e legittima continuazione dell'antico. Carlo Magno era un successore di Giulio Cesare e di Augusto; Filippo di Svevia prendeva il nome di Filippo II a causa di Filippo Arabo, che aveva regnato prima di lui. Il cronista Freculfo esprimeva una opinione da cui il medio evo tutto intero doveva scostarsi, quando giudicava chiuso l'antico ordine di cose e cominciatone un altro; e lo stesso dicasi del monaco di San Gallo, che considerava Carlo Magno quale signore di un nuovo impero.

Nè Carlo Magno, nè il papa Leone, intesero, come noto, di restituire un impero di Occidente distinto e separato dall'impero di Oriente, o piuttosto di restituireuna potestà imperiale diversa da quella degl'imperatori greci. Per essi quella potestà è una e indivisibile. Allorchè Costantino VI, fanciullo ancora, fu deposto dalla propria madre Irene, il trono, non essendovi altro legittimo successore, fu di diritto considerato come vacante, e Carlo Magno fu dalle necessità stesse della propria politica tratto ad occuparlo. Nè tale occupazione poteva parere illegittima, dappoichè per essa Roma tornava ad essere, almeno di nome, la sede di quella potestà che a lei per diritto assai più che a Costantinopoli apparteneva. Vedremo del resto or ora che altre ragioni di legittimità non mancavano.

Certo gli è cosa assai strana che il fatto clamoroso e gravissimo del ritorno della potestà imperiale in Occidente ed in Roma, o, come si disse, della sua traslazione dai Greci ai Franchi, abbia lasciato così poche tracce nelle finzioni epiche del medio evo. Mentre numerose chansons de geste, per non guardare che alla sola letteratura francese, celebrano le gesta tutte, reali o immaginarie, di Carlo Magno, non ve n'ha nessuna che narri quel fatto, nemmeno episodicamente; e sì che la fantasia avrebbe potuto agevolmente arricchirlo di particolarità romanzesche e farne degno argomento di epica narrazione. La leggenda assai antica, e già sorta nel X secolo, di una spedizione, o di una prima crociata,

condotta da Carlo Magno in Terra Santa, mostra questo principe in relazione con gl'imperatori di Oriente; ma non fa ricordo della traslazione della potestà imperiale. Narrando tale leggenda Benedetto del Soratte dice che Niceforo, Michele e Leone, imperatori a Costantinopoli, sospettarono che Carlo Magno volesse privarli della signoria, là dove questi strinse con essi buona e salda alleanza. Ma di quel sospetto non è fatto ricordo nella pretesa Storia del viaggio di Carlo Magno a Gerusalemme, scritta in latino nell'XI secolo, probabilmente da un monaco dell'abazia di San Dionigi in Francia, e accettata poi comunemente per vera sino al Rinascimento. Nella Chanson de Roland Orlando, presso a morte, enumera le imprese compiute per suo zio, e ricorda d'avere assoggettato al suo dominio anche Costantinopoli. Nella Karlamagnus-Saga invece si racconta che avendo Carlo Magno ajutato l'imperatore d'Oriente contro i Saraceni, questi per gratitudine, avrebbe voluto diventar suo vassallo, ma che Carlo non lo sofferse. Suo vassallo diventa invece davvero l'imperatore Ugone in un curioso poemetto francese assai noto, in cui è narrato, con particolarità ben diverse da quelle della leggenda più antica, un viaggio di Carlo Magno a Gerusalemme e a Costantinopoli. Questo silenzio della leggenda sembra tanto più singolare quanto più viva si sa essere stata l'impressione che sull'animo dei contemporanei fece l'incoronazione di Carlo Magno in Roma. Basterà ricordare a tale proposito l'entusiasmo manifestato da Alcuino, il quale,prima che Carlo Magno assumesse il titolo d'imperatore e d'Augusto, affermava essere la imperiale la più alta potestà sulla terra, e il nuovo incoronato chiamò col nome significativo di Flavio Anicio Carlo. Una solenne glorificazione del grande avvenimento si sarebbe senza dubbio avuta nel Carmen de Carolo Magno di Angilberto detto Omero, se questo poema fosse compiuto, ciò che assai probabilmente non è. Giova tuttavia avvertire che nei poemi francesi Carlo Magno è detto indifferentemente re o imperatore.

Nella Kaiserchronik la traslazione dell'impero è narrata per disteso, ma in modo assai strano, e in tutto contraddicente alla verità storica. Possedeva l'impero il greco Costanzo(l. Costantino), figliuolo d'Irene, donna di grandi virtù. Una notte costei sognò di trovarsi, insieme col figliuolo, dentro una nave, in mare: la nave affondava e Costantino periva; ella riusciva a salvarsi, ma un orso la rapiva e la trascinava in un bosco. Dopo questo sogno, madre e figlio vanno a Roma, recando con se grandi tesori. Colmati delle loro liberalità i Romani li accolgono festosamente; ma, facinorosi e crudeli, tornano poi ben presto ai loro

tristi costumi. È ucciso un senatore: Costantino fa decapitare due dei colpevoli; ma gli amici di costoro assaltano il palazzo, trascinano la madre e il figlio in un campo, e loro strappano gli occhi e tagliano il naso. Da allora la potestà imperiale fu tolta ai Greci per sempre. L'impero era vacante. La corona fu deposta sull'altare di San Pietro, e i signori di Roma, adunatisi tutti insieme, giurarono di non più eleggere un imperatore del loro sangue. C'era allora una usanza, che i giovani di nobile lignaggio andavano a passare alcun tempo in corte di Roma, e quando vi avevano ricevuta la spada, ossia erano stati armati cavalieri, tornavano ai loro paesi. Un re possente, per nome Pipino, aveva due figliuoli, dei quali l'uno si chiamava Leone, l'altro Carlo. Leone, recatosi prima del fratello in Roma, v'era stato fatto papa; ma dopo alcun tempo, mosso da una voce che gli parla in sogno, Carlo chiede ed ottiene dal padre di andare a Roma ancor egli. Quivi giunto, è incoronato re, e parte dopo aver promesso al papa di fargli racquistare tutti i suoi diritti. Lui partito, i Romani prendono il papa e gli strappano gli occhi: in questa parte il racconto non si scosta troppo dalle storie e si riscontra, sino ad un certo segno col poema di Angilberto. Carlo torna verso Roma con un immenso esercito, occupa la città, punisce i colpevoli, e incoronato imperatore fa valere la sua potestà che gli era stata già prima annunziata da un angelo. Carlo Magno fu il primo imperatore tedesco.

Anche secondoil racconto della Kaiserchronik dunque Carlo Magno altro non è che il successore di Costantino VI, e successore tanto più legittimo in quanto che lo stesso Costantino ha sua sede in Roma. La continuità dell'impero non patisce eccezioni, nè allora, nè dopo. Vero è che, compressa l'effimera tracotanza di Crescenzio, Ottone III e Gerberto annunziarono pomposamente al mondo l'avvenuta ricostituzione dell'impero di Occidente; ma dicendo ricostituzione, essi intendevano dire che l'impero era stato reintegrato in tutti i suoi diritti e in tutte le sue prerogative, e non pensavano che fosse cessato mai.

Ma la traslazione dell'impero dai Greci ai Franchi, dai Franchi ai Germani, si legittimava anche con altri argomenti. Anzi tutto si poteva discutere se gl'imperatori di Oriente, inquantochè avevano nelle vene sangue greco, fossero, sebbene successori di Costantino Magno, imperatori legittimi. Il primo fondatore di Roma, e l'autore diretto dell'impero romano era Enea, Trojano. Roma era come una nuova Troja, naturalmente nemica dei Greci, e ripugnava che un Greco portasse la corona imperiale. Negli ultimi tempi si giunse a considerare l'impero

greco come essenzialmente diverso dal latino, come contrapposto ad esso, e nella conquista che i Turchi, ancor essi, secondo la leggenda, di sangue trojano, fecero di Costantinopoli, si vide la tarda, ma giusta vendetta dell'eccidio di Troja. Ma c'era di più. I Franchi, nei quali passava la potestà imperiale, erano anch'essi Trojani di origine, come tutte le genti germaniche in generale, e avevano ricevuto quel nome, che vuol dire audaci, combattendo e vincendo in servizio di Roma, gli Alani. Da Troja erano usciti due gran lignaggi, il latino e il germanico: Carlo Magno apparteneva ad entrambi, e per tal modo raccoglieva in sè tutto il diritto di cui Troja era come la prima sorgente. Nessun imperatore poteva essere più legittimo di Carlo Magno. Gli è cosa degna d'essere notata che, mentre in antico non si credette punto necessaria agli imperatori la qualità di latini, nel medio evo si pose ogni studio a farli di sangue trojano, ch'era come dire di sangue latino.

Non solo Germani e Romani erano di una stirpe, eran fratelli, ma i principi di Germania erano più nobili di quelli di Roma, perchè, e per parte di padre, e per parte di madre, venivan da Priamo, mentre i romani venivano da Priamo soltanto per parte di madre. Ad essi dunque doveva spettare con preferenza l'impero. Ma non si dimentichi che al di sopra di tutti i diritti storici, veri o presunti, la coscienza cristiana del medio evo era condotta ad ammettere un diritto divino, la stessa volontà di Dio, a più riprese manifestata assai chiaramente, e in conformità della quale, secondochiedeva la necessità dei tempi, l'impero doveva tramutarsi d'uno in un altro principe, d'una in un'altra gente. L'impero altro non era in sostanza che una delegazione di poteri divini, fatta con intendimenti speciali e pel raggiungimento di scopi determinati. Esso non era sorto, diciam così, causa sui, ma per preparare il mondo alla venuta di Cristo e alla diffusione delle nuove dottrine: sorto e costituito, esso non durava per fini suoi proprii, ma per tutelare la Chiesa e agevolarne il còmpito. Ogniqualvolta all'esercizio di così alta missione si addimostrava necessario il trasferimento, per ineluttabile decreto della Provvidenza il trasferimento avveniva. Nel già citato poema di Ugo d'Alvernia, e in altre versioni della medesima istoria, si narra come l'impero passasse ai Tedeschi. I Saraceni assediavano Roma. Il papa chiese ajuto ai Francesi, e non avendolo potuto ottenere, lo chiese ai Tedeschi, promettendo loro l'impero. I Tedeschi scendono in Italia, ma poco stante vi scendono anche i Francesi, mossi da Ugone. In Roma i due eserciti vengono alle mani, poi i Francesi sconfiggono da soli i Saraceni e liberano la Città Santa. Il papa, legato dalla fatta promessa, si trova in grande imbarazzo. Per consiglio

di Ugone si commette alla fortuna dell'armi la decisione del piato, con questa condizione tuttavia, che non abbia la Francia in nessun caso a perdere la sua indipendenza. Combattono, da una parte, centocinquanta baroni tedeschi, fra cui Tommaso di Lussemburgo, dall'altra, centocinquanta baroni francesi, fra cui Ugone. Si sterminano a vicenda, e al fine della pugna rimangono soli vivi, ma spiranti tutt'e duo, Tommaso ed Ugone. Ugone muore alcuni istanti prima, e l'impero tocca ai Tedeschi.

Ma i Francesi non si acchetarono mai ai decreti della sorte o della Provvidenza. Nel secolo XVI Guglielmo Postel, nella sua opera intitolata Histoire mémorable des expéditions des Gaulois, rivendica ai Francesi il primato, e sostiene che ad essi soli appartiene il legittimo impero; nel XVII l'Aubery, nel suo trattato intitolato De la prééminence de nos roys, et de leur préséance sur l'empereur et le roy d'Espagne, afferma soli legittimi imperatori essere i re di Francia. E pure della perdita essi non dovevano accusar che sè soli. Nel poema intitolato Le Coronement Loeys Carlo Magno, pieno d'anni e di gloria, desideroso finalmente di quiete, risolve di cedere la corona al figliuolo. Chiama costui in sua presenza, e ricordatogli quali sieno i doveri di un re, gli mostra la corona deposta sopra un altare e gli dice:

Fils Looys, vez ici la corone?

Se tu la prens, emperere es de Rome.

Ma l'imbelle Luigi, figlio indegno di tanto padre, vinto da sgomento, lascia cadere in terra l'emblema augusto che doveva recarsi incapo. I degeneri Carolingi non eran più fatti per tal fardello: giustamente sottentran loro gli Ottoni.

Voluto ed istituito dalla Provvidenza, deputato a tutelare la Chiesa e ad agevolare all'uman genere il raggiungimento degli alti suoi fini, l'impero assumeva un carattere peculiare di santità che molto ne accresceva il prestigio. Già i gentili ebbero il concetto della santità dell'impero; ma, naturalmente, un concetto molto diverso da quello che n'ebbero poscia i cristiani. Tertulliano riconosce quella santità, ma la deriva dall'ufficio che all'impero credeva fosse stato commesso dalla Provvidenza. Primo a farla palese al mondo e ad affermarla era stato lo stesso Cristo, che volle nascere e morire soggetto dell'impero, e disse: Date a Cesare quel che è di Cesare. Questa testimonianza solenne sarà più tardi molto spesso invocata, e l'ammetteranno così coloro che fanno derivare l'autorità imperiale immediatamente da Dio, come coloro che la fanno derivare dal

pontefice. Ma il titolo di santo fu dato all'impero ufficialmente per la prima volta, a quanto pare, da Federico Barbarossa, e nella dieta di Roncaglia non mancò chi propose di dichiarare eretici coloro che all'impero non riconoscessero carattere di sacro e di universale. All'elezione dell'imperatore, come a quella del pontefice, presedeva lo Spirito Santo, e Carlo Fabri dava per custodi ai sette Elettori dell'impero i sette angeli principali. L'inviolabilità dell'impero, sebbene non fosse ammessa da tutti, era la logica conseguenza della sua santità, e come l'imperatore era il supremo gerarca temporale del mondo, così l'impero era la fonte di ogni diritto politico e civile.

Io non mi distenderò troppo lungamente, chè il soggetto mio nol comporta, a discorrere del concetto che il medio evo si fece della potestà imperiale, e delle dottrine che si escogitarono allora circa ai limiti di essa e al modo dell'esercizio. Ma alcuni rapidi cenni, più particolarmente intesi a richiamar l'attenzione sulla diversità che passava tra il concetto nuovo e l'antico, non saranno qui fuori di luogo.

Quando fu restituito, o, se così vogliam dire, traslato l'impero nell'800, la sovranità di Carlo Magno, procacciata con l'armi, si stendeva su buona parte dell'antico dominio di Roma. Il vasto e ben signoreggiato territorio era ottima base per novamente assidervi sopra la potestà imperiale, una potestà reale e concreta, non ideale ed astratta. Ma mutata in breve la condizione delle cose, guasta e disfatta, per colpa dei tralignati suoi successori, l'opera di Carlo Magno, l'impero non fu più che un'anima senza corpo, una volontà senz'organi. Fa meraviglia la sproporzione che passa sovente allora tra il diritto proclamato, e generalmente riconosciuto in teorica, e il potere reale di certi imperatori senza terra, senza denari, senz'armi, e a cui la stessa Roma, la metropoli nominaledell'impero, chiude in faccia sdegnosamente le porte. L'impero ridotto a tale, con le pretensioni larghissime e l'angustissima base, rende immagine di una piramide capovolta, che si regga per un miracolo di equilibrio, e che un soffio basti a mettere in terra. E pure esso dura per secoli, e attraversa i tempi più calamitosi e più difficili del medio evo. Gli è che una forza poderosissima, la forza delle credenze, lo sorregge e lo tutela.

Già da molti fu detto che il medio evo, età cui fece difetto in singolar modo la critica, non ebbe, come di molte altre cose non ebbe, un giusto concetto dello stato, e che tutta la sua politica fu una politica artificiale o chimerica, ignara, o sprezzante, della realtà storica o delle storiche

necessità. Questa sentenza è vera, ma vuol essere temperata con una considerazione. Le idee onde essenzialmente si giova il medio evo per la costruzione delle sue dottrine politiche, non sono idee puramente fantastiche, vaganti fuori della vita, sono idee morali e religiose intimamente legate con essa, sono forze della coscienza e della storia. L'impero, quale la coscienza d'allora lo concepisce, non è una mera utopia, ed errerebbe di grosso chi volesse metterlo in fascio con la repubblica di Platone e con la Città del Sole del Campanella, o con altre sì fatte concezioni essenzialmente subjettive di spiriti solitarii. L'impero non nega gli ordini esistenti, ma in parte si sovrappone ad essi, e in parte si compone con essi. Nel mondo, su cui esso deve esercitare la sovrana sua potestà, ci sono nazioni e principati e città, c'è la Chiesa madre dei credenti: esso a nessuna di queste cose sottentra, nessuna toglie di luogo, ma con tutte s'accorda pel raggiungimento di uno scopo che non è terreno. Non dimentichiamo che pel medio evo cristiano la politica non poteva essere intesa al solo conseguimento dei beni materiali e della prosperità temporale, ma doveva ancora adoperarsi pel conseguimento del sommo bene e della eterna felicità. Secondo la coscienza del medio evo l'impero doveva essenzialmente consistere in una potestà giusta e sovrana, investita di un alto còmpito morale, scevra d'ogni terrena cupidigia, regolatrice universalmente rispettata ed infallibile della vita del genere umano. Esso era una forma più alta di reggimento e di legge. Il suo diritto veniva da Dio e la forza materiale non era necessaria sanzione de' suoi precetti se non in quanto la tristizia dei tempi lo richiedesse; data una umanità più disciplinata e virtuosa, l'impero avrebbe potuto sussistere ed esercitare il suo officio senz'altra forza che quella della legge morale. Ad imperatorem totius orbis spectat patrocinium, dice Ottone di Frisinga: Imperator est animatalex in terris, è detto in un documento del 1230. S'intende pertanto come nel medio evo una potestà imperiale non sorretta da vasti dominii, non suffragata dalla forza dell'armi, potesse nulladimeno parer degna di riverenza e aver gran peso nelle cose del mondo. Nè si dica che ciò avveniva soltanto in virtù di una illusione degli spiriti, remota da ogni possibile realtà, giacchè il papato era lì per provare come una potestà puramente spirituale fosse in grado di estendere senz'altro ajuto sul mondo un formidabile ed incontrastato dominio.

Si vede quale divario corresse tra l'impero secondo il concetto antico e l'impero secondo il concetto del medio evo. Pei Romani dei tempi di Augusto e di Trajano l'imperium Romanorum era l'insieme delle province

conquistate con l'armi, era la numerosa famiglia delle genti soggette ed obbedienti a Roma. La conquista era il suo principio e il suo diritto; la forza, l'opulenza, la gloria, erano gli aspetti e i momenti suoi principali; il fine massimo la esaltazione di una città il cui nome figurava tra quelli degli dei, o di un imperatore adorato sugli altari. Di un còmpito morale qualsiasi non si vede che Roma si desse gran fatto pensiero. Cicerone parla della dominazione romana come se fosse piuttosto patrocinio che signoria, e Virgilio ricorda ai suoi concittadini la missione di civiltà e di giustizia loro affidata dal cielo; ma questi erano pensieri che passavano per la mente di pochi, poeti o filosofi; la comune coscienza non se ne inspirava e gl'imperatori ben di rado mostrarono di ricordarsene. Ad ogni modo il còmpito morale di Roma non si estendeva oltre i limiti della vita presente e della storia: tenere in pace il mondo per amore o per forza dopo averlo soggiogato in guerra, imporre ai popoli vinti la lingua e la civiltà propria, gratificarli col titolo pomposo di cittadini romani, tali erano i più alti fini civili a cui l'antico impero potesse mirare. L'impero del medio evo a ben più arduo ufficio aveva a sobbarcarsi: esso doveva procacciare che gli uomini vivessero, non conformemente ad una legge sua propria, ma conformemente alla legge divina, e che i cittadini della terra diventassero cittadini del cielo. L'imperatore aveva, come il papa, cura d'anime. L'impero antico serviva a se stesso ed era lo strumento della propria grandezza; l'impero del medio evo serviva a Dio ed era un organo della Provvidenza.

Il medio evo spiritualizzò l'impero secondochè era dalla sua coscienza richiesto. La mente in cui il concetto di questo impero spiritualizzato appare più sublime e più chiaro è la mente di Dante. L'impero fu istituito da Dio a perfezione della vita umana;tale perfezione non si può ottenere senza la monarchia unica ed universale. Una è la umanità, uno il suo còmpito: due sono i fini a cui essa tende; l'uno la felicità terrena, l'altro la felicità eterna. Quel primo fine è necessariamente sottordinato al secondo, e la felicità terrena, la quale nasce dal buon reggimento e dall'ordinato e virtuoso vivere civile, in tanto solo è degna di essere procacciata in quanto agevola il conseguimento dell'altra. Senza il peccato dei primi nostri parenti, dal quale ebbe cominciamento ogni nostra sciagura, gli uomini di per sè avrebbero raggiunto l'uno e l'altro fine; ma pervertita la lor natura, essi abbisognarono di due guide sicure che li scorgessero a conseguirli. Queste due guide sono l'imperatore e il papa, entrambi istituiti da Dio con proprii e separati uffici, i quali ogniqualvolta si confondono insieme, sono causa di sciagura al mondo.

L'unico imperatore dev'essere signore di tutta la terra; ma il suo dominio è piuttosto un dominio sovrano che un dominio diretto. Sotto la sua legge continuano a regnare i principi, la cui potestà e le cui azioni egli contiene dentro i limiti del diritto e della giustizia. Egli deve fare in modo che sieno serbate fra gli uomini la pace, la giustizia, la libertà, condizioni prime ed indispensabili della felicità terrena. La vacanza dell'impero è cagione d'irreparabile ruina; da un imperatore aspetta il mondo salute. Tale è la dottrina che Dante espone nel libro De Monarchia, nel trattato IV del Convito, in alcune delle sue epistole, in molti luoghi della Commedia, la dottrina che seguì e propugnò tutta la sua vita. E la dottrina di Dante è ancora, in sostanza, la dottrina del Petrarca.

Qui si possono notare altre differenze tra l'impero antico e l'impero del medio evo. L'unità dell'impero antico nasceva da un fatto di conquista, dallo imporsi di una città e di una gente a tutte le terre e a tutti i popoli; l'unità dell'impero del medio evo si faceva risalire all'unità di Dio, e all'opera unica della redenzione compiuta in benefizio di tutti gli uomini. L'impero antico arrivava al concetto di umanità raccogliendo sotto una medesima legge le varie genti; l'impero del medio evo moveva dal concetto di umanità come da principio che lo spiegava e lo giustificava.

Ma se necessario alla salute dell'uman genere era l'impero, non meno necessario era il papato, a cui anzi si accordava volentieri, in ragione della qualità del suo ufficio, la preminenza. Imperatore e papa erano tutt'e due vicarii di Dio: dice Dante con frase pittoresca che le due potestà di Pietro e di Cesare si biforcavano da Dio come da centro comune. Nè idue grandi partiti, Ghibellino e Guelfo, negavano l'uno la potestà di cui l'altro era fautore: il loro contendere era solo circa i limiti rispettivi, e il grado d'entrambe. Federico II diceva che le due potestà, la sacerdotale e l'imperiale, erano state da Dio medesimo istituite sin dal principio per compiersi a vicenda. I papi incoronavano gl'imperatori, e all'occorrenza si dichiaravan vicarii dell'impero vacante. Su molte monete del IX e del X secolo si vede da una parte l'effigie del papa e dall'altra l'effigie dell'imperatore. Finalmente è da notare che tra l'impero, quale il medio evo lo concepisce, ed il papato sono non poche somiglianze ed analogie: la gerarchia civile, con a capo l'imperatore, era modellata sulla gerarchia ecclesiastica, con a capo il papa.

Tuttochè per molti rispetti assai diverso dall'antico, l'impero del medio evo era pur sempre, e si voleva che fosse l'impero romano. Nè a torto

così si voleva, giacchè se è lecito congetturare che una dottrina d'impero universale sarebbe sorta ad ogni modo nel medio evo, quale naturale e necessario portato della coscienza cristiana, anche quando non ci fosse stato l'esempio dell'impero antico, è tuttavia difficile ammettere che quella dottrina potesse mai di per sè sola tradursi in fatto. Nell'impero romano del medio evo, esistente in realtà, ha grande e incontrastabile parte la tradizione romana. Sieno quali esser si vogliano i travolgimenti e i mutamenti delle cose, sia qualsivoglia la nazione di colui sul cui capo sta la corona imperiale, l'impero, che non può perire, è e rimane sempre romano. Nel secondo libro dell'Africa il Petrarca introduce Scipione, il quale saputo come un giorno lo scettro imperiale verrà a mani di barbari, si duole di questa che gli sembra grandissima vergogna del nome latino; ma il padre lo conforta dicendo:

Depone, precor, lacrimaeque metumque

Vivet honos Latius, semperque vocabitur uno

Nomine Romanum imperium.

La traslazione della sede imperiale a Costantinopoli, se ai più parve nel medio evo un atto ragionevole e giusto, col quale si procacciava alla Chiesa la libertà e la sovranità necessaria, ad altri sembrò, com'ebbi già occasione di avvenire, un atto illegittimo, una solenne ingiuria fatta a Roma. E però nella restituzione dell'impero d'Occidente si vide e si salutò con gioja il ritorno della potestà imperiale nella sua propria e legittima sede. È vero che in questa sede essa non posò più mai, ma è pur vero del pari che ad essa ebbe sempre a tendere più o meno, e che con essa fu sempre in qualche modo legata. Roma è la metropoli nominale dell'impero, e in Roma gl'imperatori ricevono la corona. Anzi Ottone III e Lodovico il Bavaro ebbero in mente di fermar di nuovoin Roma la sede della suprema potestà civile. Nell'interno della corona imperiale era scritto il verso famoso: Roma caput mundi regit orbis frena rotundi, e la Bolla d'oro del 1356 prescriveva che gli elettori dovessero sapere il latino, e che non potesse essere eletto imperatore chi non avesse cognizione della lingua di Roma.

Tutti sanno con quanto ardore Dante rivendichi ai Romani l'imperial potestà. Non usurparono essi, ma con ragione e diritto si tolsero l'impero del mondo. Il popolo romano fu, al pari di quello d'Israele, un popolo eletto da Dio, e questa elezione esso meritò per la nobiltà sua e per le grandi virtù. Dio stesso la fece manifesta con solenni miracoli, come quello dello scudo che ai tempi di Numa cadde dal cielo, e quello

dell'oche capitoline che salvarono la rocca dai nemici, ed altri parecchi. In ogni tempo i Romani procacciarono il bene dell'uman genere, anche con disagio e danno lor proprio, e furono egualmente remoti da cupidigia e da crudeltà. Parecchi popoli e principi tentarono in varii tempi di occupare l'impero, ma non venne lor fatto, giacchè non era la esaltazione loro nei disegni della Provvidenza, ma bensì quella dei Romani. Però chi nega che l'impero appartenga di pien diritto ai Romani contraddice alla manifesta volontà della Provvidenza. Nè diverso da Dante pensava e ragionava il Petrarca, a cui la potestà imperiale pareva inseparabile da Roma, e pareva danno massimo del mondo l'assenza da Roma così dell'imperatore come del papa. A Dante Roma senza Cesare rende immagine di una vedovella derelitta, e similmente al Petrarca Roma abbandonata ad un tempo dai suoi due sposi, dai suoi due lumi. Nella canzone da Pietro o da Jacopo Alighieri indirizzata al papa ed all'imperatore si prega questi due nocchieri del mondo di rifermare in Roma la loro sede, e ci fu un'ora che Lodovico il Bavaro potè far concepire grandi speranze in Italia che la sede imperiale vi sarebbe stata rifermata davvero. La fantasia popolare, che volentieri immagina come esistente ciò che dovrebbe essere, traduceva in fatto quanto si desiderava dai più: in molti racconti popolari, come, ad esempio, nella Historia della Reina d'Oriente del Pucci, l'imperatore e il papa dimorano tutt'e due in Roma. Del resto, che l'imperatore fermasse novamente sua stanza in Roma era desiderio assai antico. In una sua poesia Anselmo il Peripatetico esclama:

Christe preces intellege, Romam tuam respice

Romanos pie renova, Vires Romae excita.

Surgat Roma imperio Sub Ottone tertio!.

A Cino da Pistoja pareva che Roma non avesse più ragione di essere, dappoichè non reggeva più il mondo. In uno de' suoi sonetti egli dice:

A che, Roma superba, tante leggi

Di senator, di plebe,e degli scritti

Di prudenti, di placiti e di editti

Se 'l mondo come pria più non correggi?

Veduto così brevemente che cosa fosse l'impero del medio evo, e quali idee e quali sentimenti si facesse nascere intorno, facciamoci ora ad esaminare alcune particolarità curiose di quello che si potrebbe addimandare il suo apparecchio simbolico. E cominciamo dalla

incoronazione dell'imperatore.

Normalmente la incoronazione doveva farsi in Roma, per le mani del pontefice, nella basilica di San Pietro. Lodovico il Bavaro contravvenne al diritto, e suscitò grande malcontento, quando nella Dieta di Magonza, adunatasi nel 1338, fece deliberare che a conseguire legittimamente la dignità imperiale la incoronazione in Roma non fosse più necessaria. Il rituale delle cerimonie era stabilito per consuetudine. Senza troppo distendermi a darne la descrizione, mi basterà riportar qui testualmente ciò che Benzone dice della processione imperiale: "Processio vero Romani imperatoris celebratur talibus modis. Portatur ante eum sancta crux gravida ligni dominici, et lancea Mauricii. Deinde sequitur venerabilis ordo episcoporum, abbatum et sacerdotum, et innumerabilium clericorum. Tunc rex indutus bysino podere, auro et gemmis inserto, mirabili opere, terribilis calcaribus aureis, accinctus ense, adopertus Frisia clamide, imperiali veste, habens manus involutas cyrothecis lineis cum anulo pontificali, glorificatus insuper diademate imperiali,

Portans in sinistra aureum pomum,

Quod significat monarchiam regnorum,

In dextera vero sceptrum imperii

De more Iulii, Octaviani et Tiberii;

Quem sustentant ex una parte papa Romanus,

Ex altera parte archipontifex Ambrosianus.

Hinc et inde duces, marchiones et comites,

Et diversorum procerum ordines.

Sic imperator incedit ad processionem; nulla humana lingua potest explicare talem gloriam tantumque honorem. Etc.. A proposito delle vesti dell'imperatore delle quali è qui fatta menzione, giova avvertire che, per quanto era possibile, si cercò di serbar loro l'antica foggia romana, e che in suggelli del X secolo si vedono ancora gl'imperatori effigiati con la tunica e il manto.

L'aquila, che Dante chiama pubblico segno e uccel di Dio, l'aquila romana, è pur sempre il segno e il simbolo dell'impero. Carlo Magno fece porre un'aquila di bronzo sul vertice del suo palazzo in Aquisgrana, e a cominciare da Enrico III lo scettro imperiale fu sormontato da un'aquila. Narrasi nel Libro Imperiale che il primo ad usare di tal segno fu Giove

quando cacciò Saturno, e noi abbiamo veduto che sino a Giove si facevano da taluno risalire le origini dell'impero. Enea poi fu quegli che lo portò di Troja in Italia. Armannino Giudice dice che Romolo e Remo lo tolsero per impresa. Secondo Giovanni Villani Pompeo portò aquila d'argento in campo azzurro, Giulio Cesare aquila d'oro in campo vermiglio, Ottaviano aquila nera in campo d'oro, e come Ottaviano poi tutti gli altri imperatori. Giova avvertire a tale proposito che nel medio evo sicredette i Romani avere usato bandiere e stendardi simili in tutto a quelli d'allora. Descrivendo il bassorilievo che rappresentava il caso di Trajano e della vedova, Dante dice che ci si vedeva l'imperatore circondato di cavalieri, e che

l'aquile nell'oro

Sovresso in vista al vento si movieno;

dove qualcuno volle assai malamente correggere: l'aquile dell'oro. In un manoscritto francese della Biblioteca Nazionale di Torino un elenco dei re e degl'imperatori romani è accompagnato da una serie di miniature rappresentanti gli stemmi dei varii principi. L'aquila nera è a tutti comune, ma non così altre imprese e figure. Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, hanno sullo scudo un grifone rosso in campo giallo; Trajano, Adriano, Antonino Pio, Marc'Aurelio, Commodo, un grifone nero in campo bianco. Decio ha lo scudo a liste orizzontali bianche e rosse. Diocleziano ha per impresa una nave; Costantino il Grande un bucefalo bianco in campo rosso, e così ancora suo padre, i suoi figli e Giuliano l'apostata. Uno dei mosaici del Triclinio Lateranense a Roma rappresenta Carlo Magno in atto di ricevere dalle mani di Cristo la bandiera dell'impero, o l'orifiamma. Questa bandiera è rossa, ma l'aquila non vi figura. Durante il medio evo l'aquila imperiale fu sempre effigiata con una testa sola. Gioverà finalmente notare che nei Phisiologi e nei Bestiarii del medio evo si narrano dell'aquila molte meraviglie, tra l'altre questa, che quando essa è vecchia può ringiovanire immergendosi in un fonte che scaturisce dalle parti di Levante. L'aquila, che godeva di tal privilegio, e che, al morale, si considerava quale un simbolo di Cristo, era per tutti i rispetti degna di rappresentare l'impero sussistente in perpetuo e cristiano.

Ma una potestà così augusta quale si era la potestà imperiale, e così intimamente legata con tutto l'ordine delle cose, aveva mestieri d'altri segni ancora e d'altri simboli che figurassero e manifestassero l'alta sua dignità e il provvidenziale suo officio. Facciamoci a dir brevemente

qualche cosa dei principali.

Sotto il nome generale d'insignia si comprendevano due classi di oggetti attinenti strettamente all'impero ed alla persona dell'imperatore, ed erano i clenodia e le reliquiae. Clenodia erano più propriamente le insegne significative della imperial potestà, come la corona e lo scettro; reliquiae, certe reliquie di massimo pregio, le quali conferivano alla santità, e in pari tempo alla forza e alla stabilità dell'impero. Le insegne dell'impero si trovano ora sparse qua e là, a Vienna, a Parigi, a Roma, a Madrid, a Pietroburgo, a Milano, a Monza, a Palermo, in altre città ancora; ma per la più parte tuttavia sono rimaste in possesso della Casa d'Austria.

Grande era la importanza che alle insegne si attribuiva nel medio evo, nè un imperatore poteva considerarsi inlegittimo e definitivo possesso del suo grado finchè non le avesse ottenute. Lodovico il Pio, volendo, presso a morte, trasmettere in Lotario la potestà imperiale, fece a costui recapitare le insegne. Per contro si vide alcun principe pretendere alla imperial potestà solo perchè aveva le insegne in suo dominio. Nel famoso Chronicon Norimbergense, lodata grandemente la città di Norimberga, si dice: "Pallium enim, enses, sceptrum, ponia coronamque Karoli Magni Nurembergenses in eorum archivis observant, que in coronatione novi regis ob sanctitatem et antiquitatem auctoritatem prestant".

Gotofredo da Viterbo enumera sei insegne principali:

Ut scriptura tonat, crux, ensis, scepter, corona,

Lances, palla bona nobis insignia donant.

Il nome di corona apparteneva propriamente alla sola corona imperiale; le corone dei re chiamavansi circuli. La rotondità simboleggiava il cerchio della terra; ma anche l'oro e le gemme avevano significazione simbolica. "Corona imperatoris est circulus orbis. Portat ergo Augustus coronam, quia declarat se regere mundi monarchiam. Corona quoque dicitur victoria, unde et victores coronabantur, et Augusti victores orbis dicebantur. Arcus super coronam curvatur, eo quod Oceanus mundum dividere narratur".

Delle gemme dice Gotofredo da Viterbo:

Iulius instituit gemmas superesse corone,

Ut preciosa foret lapidum gravidata decore:

Nunc liber exponet quid sibi gemma volet.

Quatuor in cunctis sunt insita punctis

Duricies, virtus, splendorque colorque:

Hec qui Cesar erit mistica nosse velit.

Duricie constans, virtute refertus honestus,

Et bona fama color, splendor sine crimine questus:

Quatuor ista geret qui diadema feret.

Ad un solitario che brillava nella corona imperiale si attribuivano, come del resto a molte gemme nel medio evo, virtù magiche. Walther von der Vogelweide lo chiama la stella polare dei principi. Nella Graphia si parla di dieci corone imperiali; ma più particolarmente degno di nota è quanto vi si dice della ferrea e dell'aurea. "Octava ferrea..... quia Pompejus, Julius, Octavianus atque Trajanus, cum Romanis, per ferrum subjugaverant totum orbem terrarum...... Decima corona est aurea, gemmis et margaritis ornata; quia sicut aurum reliquis metallis splendidius est, et quo plus aere repercutitur plus fulget, ita imperator omnibus hominibus qui sub celo sunt, clarissimus, illustrissimus, splendidissimus. Hanc Diocletianus imperator, visa aurea corona regis Persarum, primus romanis imperatoribus tradidit.....". È noto ciò che la leggenda narra della famosa corona ferrea, formata con uno dei chiodi che servirono a crocifìggere Cristo. Nella orazione De obitu Theodosii Magni, scritta l'anno 395, Sant'Ambrogio racconta che Sant'Elena, ritrovati quei chiodi, di uno fece fare un freno, di un altro un diadema, e li mandò al figliuolo Costantino. Il freno è simbolo di reggimento, il diadema di sovranità, e tutt'e due sono fatti con istrumenti della passione di Cristo: anche in ciò si palesa la idea fondamentale del nuovo impero, e il suo carattere essenzialmente religioso. Luigi il Pio, figlio di CarloMagno, fu incoronato con una corona che Stefano V aveva portato da Roma. Essa era d'oro e adorna di gemme: Ermoldo Nigello dice che era la stessa corona di Costantino.

Lo scettro era insignito dell'aquila romana, ma di esso non troppo si parla; un'insegna e un simbolo di grande importanza era, per contro, il globo aureo che nelle occasioni solenni gl'imperatori tenevano nella mano sinistra. Esso raffigurava l'orbe terraqueo, tutto intero soggetto alla sovranità imperiale. Un globo sormontato da una Vittoria alata apparteneva già alle insegne degli antichi imperatori romani, ma, dopo il trionfo del cristianesimo, alla Vittoria fu sostituita la Croce, vincitrice e dominatrice del mondo. Una statua di Costantino, eretta in cima a una

colonna di porfido nel Foro che da lui appunto prendeva il nome, in Costantinopoli, recava nella destra un ingente pomo aureo con infissavi la croce, e con questa iscrizione: A te Cristo Dio raccomando questa città. Nell'Augusteo Giustiniano era rappresentato a cavallo, con un globo sormontato dalla croce nella mano destra, e nessun'arme. La Graphia fa risalire l'uso del globo aureo sino ad Augusto; ma il globo che figurava tra le insegne dell'impero nel medio evo si diceva fatto per ordine di Benedetto VIII e da questo pontefice presentato a Enrico II. A dir d'alcuni esso era pieno di terra raccolta dalle quattro plaghe del mondo per significare la universalità del dominio imperiale; altri invece, per una di quelle tante antitesi care al medio evo, dicevano che era pieno di cenere, a significare la vanità della stessa potenza imperiale. Nella leggenda dei Re Magi, che il carmelitano Giovanni d'Hildesheim scrisse in latino nel XIV secolo, si narra, al cap. 23, dei doni che i tre Re presentarono al bambino Gesù. Il re di Nubia e di Arabia, Melchiorre, offerse trenta denari e un pomo aureo. Questo pomo, che figurava il mondo, era stato di Alessandro Magno, il quale l'aveva fatto formare con monete d'ogni specie, appartenenti ai tributi che la terra tutta gli pagava. Alessandro lo portava sempre in mano per lasciare intendere che egli aveva il mondo in sua balìa. Appena presentato a Gesù, esso si sciolse in polvere ed in cenere.

Molto spesso si trova ricordata, come una delle principali e più preziose insegne, la lancia dell'impero, sebbene le notizie intorno ad essa sieno molto confuse e contraddittorie. Non bisogna dimenticare, a tale proposito, che era stato costume di parecchie genti germaniche, e fra l'altre dei Longobardi e dei Franchi, di consegnare al re proclamato un'asta come simbolo di sovranità, e che la quiris aveva avuto grande importanza nelle tradizioni romane. La lancia dell'impero si credeva avesse appartenuto inorigine a Costantino, ma si confuse poi con la lancia di cui fu trafitto Cristo in croce per man di Longino, ed anche con una lancia di San Maurizio, capitano della famosa legione tebea. Essa era considerata come un firmamentum imperii, e Gotofredo da Viterbo così ne parla:

Subjicit imperio bello gestata potentes,

Motibus ipsius nequeunt obsistere gentes,

Haec ubi bella movet vincere cuncta solet.

Lancea sancta solet regnorum vincere lites,

Ipsa facit proceres Romanos esse Quirites,

Ex hoc Caesar habet, quod sibi regna favent.

In varii modi si racconta come essa fosse acquistata al patrimonio dell'impero. Secondo alcuni Rodolfo, re di Borgogna, l'ebbe in Italia da un conte Sansone, e la cedette, per amore, o per forza, all'imperatore Enrico I; secondo altri fu Ottone I quegli che l'acquistò da Bosone, re d'Arles. Eccardo Uraugiense così la descrive: "..... quae(lancea), excepta ceterarum specie lancearum, novo quodammodo opere, novaque elaborata arte et figura, iuxta mediam spinam habuit utrobique quasi fenestram, et in media spina cruces ex clavis, manibus et pedibus salvatori nostri domini Jhesu Christi affixis".

Ma, come dissi, questa supposta lancia di Costantino fu poi identificata con la lancia di Longino, comunemente designata col nome di Lancea Christi, la quale, secondo la più diffusa credenza, non fu ritrovata che ai tempi della prima crociata, ma che la pietosa fantasia dei credenti immaginò conosciuta e posseduta dalla cristianità molto tempo innanzi. In fatto, la lancia che insieme col bacino figura nei romanzi del Santo Graal, sarebbe appunto la lancia di Cristo. Carlo Magno l'avrebbe posseduta, e poi altri principi dopo di lui. Guglielmo di Malmesbury racconta che Ugo, re di Francia, mandò al re Adelstano d'Inghilterra, insieme con altri doni di massimo valore, la spada di Costantino Magno, nel pomo della quale era infisso uno dei chiodi che avevano servito a crocifiggere Cristo, la lancia di Carlo Magno, che si credeva essere quella stessa che aveva trafitto il fianco di Cristo, e che al fortunato suo possessore aveva procacciato le vittorie più strepitose, il vessillo del martire Maurizio, del quale vessillo s'era il medesimo Carlo Magno servito per dissipare gli eserciti dei Saraceni in Ispagna. Secondo la Chanson de Roland, della sacra lancia Carlo Magno non avrebbe posseduto altro che la punta, incrostata nel pomo della sua famosa spada Joyeuse. Ma la lancia dell'impero si trova anche indicata col nome di lancea Mauricii, senza dubbio per un'altra confusione. A Boleslao, quando fu incoronato re di Polonia, Ottone III diede la lancia di San Maurizio e uno dei santi chiodi. Di questa lancia non si parla nè da Valafredo Strabone nel suo Hymnus de Agaunensibus martyribus, nè dal Voragine nella leggenda diSan Maurizio e de' suoi compagni, e nemmeno da Hermann von Fritslar. Tra le insegne dell'impero figuravano pure il vessillo e la spada di San Maurizio e una pretesa spada di Carlo Magno; di quel vessillo si credeva in Germania che giovasse per la difesa, ma non per l'offesa.

Figuravano finalmente, secondo varii racconti, tra le insegne dell'impero, la famosa spada Durendal, che l'arcangelo Michele aveva recato a Carlo Magno dal cielo, e che da Carlo Magno fu poi donata ad Orlando, la spada di Attila, che un tempo era stata di Marte, e la spada di Costantino. Il nome di Costantino è spesso occorso nelle pagine che precedono, e la leggenda mostra di dare grande importanza alle insegne che venivano da lui: non si dimentichi che Costantino era considerato quale il fondatore dell'impero cristiano.

Delle numerose reliquie che conferivano dignità e forza all'impero non mi soffermo a discorrere; alcune di esse si credevano acquistate dallo stesso Carlo Magno a Gerusalemme e a Costantinopoli. In un poemetto tedesco d'incerta età, ma del secolo XIV probabilmente, si può vedere quale importanza si desse alle reliquie dell'impero. Quivi si narra, tra l'altro, una storia che, in parte, si trova pure narrata in uno dei racconti del Novellino. Il Prete Gianni manda all'imperatore Federico II un ambasciatore, e lo fa presentare di parecchie cose mirabili, di una veste di pelle di salamandra, di una bottiglia piena dell'acqua della fontana di giovinezza, e di un anello d'oro che procaccia vittoria, e nel quale sono tre pietre, di cui la prima impedisce che l'uomo anneghi quand'anche stesse un anno intero sott'acqua, la seconda lo rende invulnerabile, la terza lo fa invisibile. Istruito della potenza e magnificenza del Prete Gianni, l'imperatore convoca tutti i principi soggetti alla sua dominazione, tien corte plenaria, e fa vedere all'ambasciatore le sante reliquie dell'impero, la croce, i chiodi, la lancia, la camicia della Vergine, la corona di spine, la veste di Cristo. Vedutele, l'ambasciatore confessa che tutta la ricchezza del suo signore non è che fango a paragone di quella ricchezza.

Preordinato dalla divina Provvidenza e coadiutore dell'opera della redenzione, l'impero romano, riconsacrato nella verità della fede, non poteva venir meno. Strettamente legato ai destini dell'uman genere, esso doveva durare sino a che questi destini non venissero a compimento; vicariato di Cristo, esso doveva, come la Chiesa, attendere il Cristo, senza che, frattanto, le porte dell'Inferno potessero prevalere contro di esso. L'impero romano non sarebbe cessato che col chiudersi del grande dramma dell'umanità, e prossimamente al giorno in cui tutte le podestà delegate sulla terra sarebbero tornate al loro fattore, giudice supremo, e da indi innanzi unico principe. Taleè già l'opinione degli apologeti e dei padri. Preghiamo per gl'imperatori, esclama Tertulliano,

preghiamo per l'impero di Roma, giacchè per essi solo sono ritardate le imminenti calamità della fine del mondo. E un'altra volta dice: Tanto durerà il mondo quanto durerà l'impero. Pensieri consimili si trovano negli scritti di Lattanzio, di Origene, di San Gerolamo, di San Giovanni Crisostomo, di altri molti. Nel commento alla seconda epistola di San Paolo ai Tessalonicensi, già attribuito a Sant'Ambrogio, ed ora a Ilario Diacono, si legge: "Non prius veniet Dominus quam regni Romani defectio fiat, et appareat Antichristus qui interficiet sanctos, reddita Romanis libertate, sub suo tamen nomine". Questa ancora è la costante opinione del medio evo. Agostino Trionfo la mantiene nella sua Summa de potestate ecclesiae. Nel trattato De ortu, progressu et fine Romani imperii di Angilberto di Admont si dice che l'impero di Roma, il quale toccò l'apice della potenza e della gloria sotto Ottaviano Augusto, ai tempi della venuta del Redentore, deve da indi in poi andare scadendo continuamente sino alla venuta dell'Anticristo. Nel Ritmaticum querulosum di Lupold di Bebenburg si afferma che l'Anticristo non può nascere finchè sussiste l'impero romano in cui nacque il Salvatore.

Ma di ciò più diffusamente nel capitolo che segue.

CAPITOLO XXII. La fine di Roma e del suo impero.

La leggenda non si appagò di rintracciare nel più remoto passato le origini favolose di Roma e d'infiorare di mille svariate immaginazioni la sua storia e i suoi fasti; essa volle ancora seguitarne i destini nel tempo avvenire, presagirne gli ultimi casi e la fine. È questa un'altra prova, da aggiungere alle molte già contemplate, della sollecitudine viva ed instancabile onde Roma era fatta segno.

Gli antichi Romani credettero che Roma dovesse durare in eterno. Le parole Vrbs Roma Aeterna, o semplicemente Roma Aeterna, si trovano su monete ed iscrizioni; eterna è chiamata la città da Tibullo, da Ammiano Marcellino, da Frontino, da Ausonio. Giove, nell'Eneide, annunzia che l'impero dei Romani sarà senza fine:

His ego nec metas rerum, nec tempora pono,

Imperium sine fine dedi.

Rutilio Namaziano avverte Roma di non temere i fusi delle Parche:

Porrige victuras Romana in saecula leges,

Solaque fatales non vereare colos.

Ma nelle credenze religiose, così dei Romani, come dei Greci, una vera dottrina escatologica non si trova. La loro religione era più fatta per provvedere alle minute e cotidiane necessità della vita pratica che non agl'interessi generali e finali dell'umanità. Se il genere umano dovesse una volta sparire dalla faccia della terra, se la terra stessa, se il mondo dovessero, in un lontano ed incognito avvenire, mutar l'esser loro, o andar distrutti, essi nè sapevano, nè si curavano di sapere. Tutt'altrimenti nel cristianesimo,dove la visione meravigliosa o terrifica dei tempi apocalittici è come un fondo di scena invariabile dinnanzi al quale si viene svolgendo il dramma della umanità. Per la coscienza cristiana niuna cosa terrena può essere eterna, dappoichè la terra stessa, in un avvenire già forse imminente, è condannata a perire. Roma perirà anch'essa, e il suo impero cesserà di reggere l'uman genere.

Ma non prima che il mondo sia per essere travolto nell'ultima rovina. Una credenza così fatta s'imponeva, in certa guisa, da sè stessa agli spiriti. Non doveva quella città, non doveva quell'impero, che erano stati ordinati a bella posta per preparare il mondo alla venuta del Redentore, sussistere sopra la terra, quando vi sarebbe apparso il più fiero nemico di costui? Non dovevano essi, in quei giorni di massimo pericolo, proteggere quella Chiesa che avevano veduto nascere e crescere all'ombra loro? Gli animi si sentivano racconsolare al pensiero che gli ultimi viventi, saldi nella fede di Cristo, avrebbero avuto alleati nelle terribili battaglie contro le potestà delle tenebre l'invitta città che aveva soggiogato il mondo, e un imperatore coronato fra le sue mura della corona dell'universale dominio.

San Gerolamo dice che Roma deve durare sino al principiare del regno celeste. Prima di lui Lattanzio, non solo aveva espressa la medesima opinione, ma era anche andato più oltre, attribuendo in certo qual modo a Roma una virtù arcana, per la quale conservavasi il mondo, che, altrimenti, sarebbe precipitato a pronta ruina. Egli annunziava l'universale giudizio per l'anno 436, ma assicurava in pari tempo che di esso non era a temere finchè Roma si sorreggeva. Tertulliano diceva similmente la fine del mondo essere ritardata dalla presenza dell'impero romano; e allora Roma e l'impero erano una sola e medesima cosa. Sì fatte credenze avevano radice nella seconda epistola di San Paolo ai Tessalonicensi, nell'Apocalissi, negli Oracoli sibillini. In questi la distruzione di Roma si trova ripetutamente annunziata per l'anno 948

dalla fondazione, e doveva essere compiuta da Nerone, veniente dall'Asia. Dione Cassio ricorda che un oracolo sibillino turbò le menti degli uomini al tempo di Tiberio, annunziando la distruzione di Roma per l'anno 900. Lattanzio fa menzione di un antichissimo re dei Medi, il quale, gran tempo prima della guerra di Troja, vide in sogno la distruzione di Roma. Nell'Apocalissi la fine di Roma è collegata alla fine del mondo, ma in tutt'altra maniera, con tutt'altri intendimenti. L'autore dell'Apocalissi nutre per Roma un odio implacabile. Non solo la città, per lui, non ha nessuna santa missione da compiere, ma contrasta anzi al volere di Dio, e l'impero è una esecrabile e diabolica istituzione, causa principalissima della iniquità onde il mondo è ripieno.Roma distrutta, incatenato Satana per mille anni, incomincerà il millennio, cioè il regno degli eletti governati da Cristo in terra. Trascorsa quella età, Satana sarà liberato, e si risolleverà nel mondo il regno del male. Seguiranno allora le incursioni di Gog e Magog, alle quali terrà dietro il giudizio e la rinnovazione della terra e del cielo. Alcune parti della visione apocalittica passeranno nelle immaginazioni escatologiche dei tempi susseguenti, ma non l'odio contro Roma. Abbiam già veduto che cosa pensasse Lattanzio in proposito; assai prima che seguisse nel IV secolo la conciliazione della Chiesa e dell'impero, i sentimenti della Apocalissi ostili a Roma cominciarono ad essere ripudiati. Quei sentimenti avevano una origine essenzialmente giudaica e difficilmente potevano accogliersi nel petto di chi, pur essendo cristiano, era nato e si sentiva romano, o aveva largamente attinto ai fonti della coltura pagana. Secondo le varie opinioni dei rabbini, Roma, quando sieno maturi i tempi, sarà distrutta, o dai Persiani, o dagli Ebrei, o dallo stesso Messia.

Dopo le incursioni dei barbari la credenza che Roma fosse serbata a maggiori e misteriosi destini doveva, in certo modo, trovarsi avvalorata dalla prova dei fatti. A più riprese Roma era stata espugnata, saccheggiata, incendiata, ma non distrutta. E se i barbari non erano stati buoni di cancellarla dalla faccia della terra, non era egli ragionevole il credere che per le mani degli uomini essa non sarebbe perita più mai? A questa credenza, non iscossa, anzi sorretta dallo spettacolo delle recenti rovine, deve legarsi una profezia di San Benedetto, che si trova ricordata più di una volta, e secondo la quale Roma sarebbe perita, non per forza di genti nemiche, ma per forza di calamità naturali, di procelle e di terremoti. Ho già fatto altrove ricordo di una profezia, riferita da Beda, la quale fa durare Roma quanto il Colosseo, e il mondo quanto Roma. Nelle profezie riguardanti i pontefici, attribuite a Malachia Ibernico, il quale

morì l'anno 1148, a proposito del ventesimo pontefice si dice che, dopo mille tribolazioni, Roma sarà distrutta e avrà luogo il giudizio. Nel 1655 fu pubblicato a Londra un opuscolo nel quale si ammoniva gl'inglesi residenti a Roma di uscirne, giacchè la città sarebbe stata distrutta l'anno 1666, e quarantacinque anni più tardi sarebbe seguita la fine del mondo. Oggigiorno ancora vive tra il popolo a Roma una credenza, secondo la quale la statua equestre di Marco Aurelio si va di nuovo lentamente indorando, e quando sarà tutta indorata il mondo finirà.

Ma la distruzione di Roma fu anche annunziata a più riprese indipendentemente dalla fine del mondo e in contraddizione con le più antiche credenze. L'impero non essendopiù necessariamente e di fatto congiunto con la Città, si poteva credere che essa fosse venuta meno alla propria missione, che l'esistenza sua più non fosse necessaria al mondo. Di qui le molte profezie che le minacciano imminente ed irreparabile rovina; ma queste profezie non hanno, in generale, nessun carattere di popolarità, come l'aveva quella che legavasi al Colosseo; muovono da giudizii di singoli, e da cause meramente morali, proprie dei tempi in cui nascono, e non acquistano mai, anche perchè troppo frequenti, molta diffusione ed autorità. Santa Brigida, in una delle sue Rivelazioni, annunziava che Roma sarebbe stata distrutta in pena della grande corruzione della Chiesa. Santa Francesca Romana prediceva il medesimo nel 1436; gli Spirituali, che tanto diedero da fare all'Inquisizione, s'aspettavano di veder Roma consunta dal fuoco come un'altra Sodoma. Nel vaticinio di un anonimo sono questi versi:

Roma diu titubans longisque erroribus acta

Corruet et mundi desinet esse caput.

Martino Lutero annunziò, nonchè la caduta del cattolicismo, la distruzione ancora di Roma.

Ma, o con Roma, o senza Roma, l'impero romano durerà indubitabilmente sino alla fine dei secoli. Questa credenza è antichissima, e, dopo essere stata universale nel medio evo, passa e continua a vivere per lungo tempo ancora nell'età moderna. Alcune peculiarità sue si alterano e si mutano col mutar dei tempi, ma il concetto sostanziale rimane invariato.

Il germe di essa trovasi già in Lattanzio. Fondandosi essenzialmente sull'autorità delle Sibille, Lattanzio annuncia con terribili parole la desolazione e la irreparabile rovina di Roma. Precederà la venuta

dell'Anticristo una età sciagurata, piena d'ogni calamità e d'ogni nequizia. Imminente la conclusione dei tempi, Dio manderà sulla terra un suo grande profeta, il quale sarà ucciso dall'Anticristo. La potenza di costui non avrà più limiti, e durerà il flagello quarantadue mesi. I giusti ripareranno nella solitudine, e il figliuolo della perdizione moverà contro di essi, e li circonderà con le sue milizie, sino a che Dio mandi un re dal cielo a disperderli con ferro e con fuoco. Questo re non è altri che Cristo, la cui venuta sarà annunziata dal cadere di una spada celeste. Durerà la carnificina dall'ora terza sino al vespero, e il sangue correrà a torrenti. Per quattro volte si rinnoverà la pugna, e da ultimo l'Anticristo sarà fatto prigione, e insieme con tutti i suoi seguaci abbandonato a giusto castigo.

Qui l'imperatore romano non comparisce ancora; ma poichè già si credeva che l'impero romano dovesse durare sino alla fine del mondo, non era possibile che prima o poi non si desse anche all'imperatore una parte, e una parte cospicua, in quelle supreme battaglie della umanità. L'Anticristo, maestro di false dottrine e conquistatore, era a un tempostesso nemico della Chiesa e nemico dell'impero.

Metodio, nelle Revelationes, descrive a questo modo gli ultimi tempi. Nel settimo millenario i figliuoli d'Ismaele(i Saraceni, a' quali forse solo nelle redazioni più recenti si aggiungono i Turchi) usciranno dal deserto e si rovesceranno sopra la terra. Nulla potrà resistere all'impeto loro: numerosi come le cavallette, essi ridurranno in cattività tutto il genere umano, distruggeranno le chiese, empieranno il mondo di abbominazione e di lutto. I cristiani rinnegheranno la fede, e la più gran parte dei viventi morrà per ferro, fame, pestilenza. Ma allora sorgerà il re dei Greci, ossia dei Romani, in gran furore, e piomberà sui barbari trionfanti e tripudianti nella tracotanza della vittoria e tutti li vincerà, assoggettandoli a durissima servitù. Avrà allora principio un'èra di letizia e di pace, nella quale gli uomini, senza timore o sollecitudine alcuna, vivranno giocondamente. Ma indi a non molto si spalancheranno le porte di aquilone, e le genti scelerate e bestiali, chiuse da Alessandro Magno tra i monti, irromperanno sopra la terra, e prima espugneranno la città di Joppe. Al loro furore non sarà difesa. L'imperatore romano si ritrarrà in Gerusalemme, e vi starà dieci anni e mezzo, compiuti i quali apparirà nel mondo l'Anticristo. E come questi sarà apparso, l'imperatore salirà il Golgota, sulla cui cima sarà confitta la croce, e si torrà la corona dal capo, e la porrà sulla croce, e stendendo le mani al cielo rassegnerà a Dio l'imperiale potestà. La croce, con la corona insieme, sarà assunta in

cielo. L'Anticristo trionfante ucciderà i profeti Enoc ed Elia, mandati contro di lui, e soggiogherà tutta la terra, e ne sarà padrone; dopodichè verrà Cristo vendicatore, e, vinto e ucciso l'avversario, procederà all'universale giudizio.

Prima di passare oltre ad esaminare alcune forme più recenti di questa leggenda, o credenza che si voglia dire, fermiamoci a fare su quella datane da Metodio qualche breve considerazione. Metodio, o chi altri si sia l'autore delle Revelationes che vanno sotto il suo nome, è il primo a parlare in modo preciso delle ultime vicende e della fine dell'impero. Sia che egli immagini di suo capo, sia che riproduca immaginazioni forse già nate tra il popolo, non si può non ammettere che quella parte della predizione che più particolarmente riguarda l'impero sia di origine bizantina. Metodio intende parlare di un imperatore greco(rex Graecorum sive Romanorum), giacchè l'impero romano per lui altro non è che l'impero d'Oriente, e la profezia che mette innanzi altro scopo non ha, come del resto tutto il libro delle Revelationes, che di provare il primato di Costantinopoli e di glorificare l'impero d'Oriente. I fatti predetti da lui debbono accadere nelsettimo millenario dalla creazione del mondo: ei li poneva pertanto in tempo abbastanza remoto da quello in cui scriveva(VIII-IX sec.).

I figliuoli d'Ismaele di cui parla Metodio sono i Saraceni, ond'era sempre minacciato di rovina l'impero. Ma i Saraceni sono da lui introdotti nella finzione per ragioni storiche manifeste, e in iscambio d'altre genti, che, del resto, vi operavano il medesimo. San Cirillo, vescovo di Gerusalemme nel IV secolo, dice in un suo scritto che l'Anticristo troverà l'impero di Roma diviso in dieci regni, e che ucciderà tre re e si assoggetterà gli altri sette. Questa opinione, espressa anche da San Gerolamo, era opinione comune che aveva radici assai remote ed antiche. Ma i Saraceni di Metodio saranno vinti dallo stesso imperatore, alla cui vittoria succederà, come abbiamo veduto, un'èra di letizia e di pace. Qui abbiamo una evidente trasposizione del millenio di felicità che, secondo la opinione dei chiliasti, doveva arridere ai giusti risuscitati, sotto il reggimento, di Cristo. Anche la badessa Ildegarde, famosa ai tempi dei papi Eugenio, Anastasio IV, Adriano IV, Alessandro III, e che molto profetò circa la fine del mondo e l'Anticristo, fa succedere a una età felice, di virtù e di concordia, un'età calamitosa in eccesso, durante la quale, smembrato l'impero romano, ogni provincia si reggerà da sè. Le genti rinchiuse da Alessandro Magno, ossia i popoli di Gog e Magog,

continuano a figurare in tutte le posteriori versioni della leggenda. Quanto all'Anticristo, che, sotto un certo aspetto, è il protagonista di tutta l'azione, Metodio lo trova già nell'Apocalissi, e noi lo vediamo ricomparire con gli stessi caratteri, e operare al medesimo modo in tutte le versioni successive.

Gli innumerevoli trattati che intorno a questo figliuolo della perdizione ci ha lasciati il medio evo fanno fede dell'ansietà e del terrore che destava negli animi il pericolo sempre imminente e al tutto inevitabile della sua venuta. Si ricordavano i segni che dovevano fare conoscere al mondo la funesta sua apparizione, e ponevasi mente se già non se ne vedesse qualcuno. Si moltiplicavano e si aggravavano colla fantasia gli orrori degli ultimi tempi. Ogni po' correva per la cristianità la spaventosa notizia della nascita già avvenuta, o prossima ad avvenire, dell'uomo fatale. Intorno al 380 Martino, vescovo di Tours, credeva ch'egli fosse già nato, e così credeva poi intorno al 1080 il vescovo Ranieri di Firenze, e alcuni decennii più tardi l'arcivescovo Norberto di Magdeburgo. Nel 1412 Vincenzo Ferrer sapeva, e lo scriveva al papa Benedetto XIII, che il gran nemico dell'uman genere era già d'età di nove anni. Ai tempi d'Innocenzo VI un frate dell'ordine dei Minori ne annunziava la nascita perl'anno 1365. Arnaldo di Villanova la prediceva per l'anno 1376 in un trattato De speculatione adventus Antichristi. La rovina di Roma, che allora doveva inevitabilmente seguire, sarebbe stata annunziata dalla caduta del Ponte Molle e dalla sommersione dell'Asia. Nel 1470 fu trovata nella chiesa del Santo Sepolcro in Gerusalemme una profezia che diceva:

Cum fuerint anni transacti mille quingenti

Et decies terni post partum virginis almae

Tunc Antichristus nascetur daemone plenus.

Ma a chi asseriva che l'Anticristo fosse già nato, o prossimo a nascere, si poteva rispondere, e si rispondeva con un assai valido argomento: l'impero romano tuttavia si reggeva. Assono, abate di Moutier-en-Der, morto nel 992, dice nel suo trattato De vita Antichristi, per lungo tempo attribuito a Rabano Mauro, e sul quale dovrò tornare quanto prima, che la fine del mondo non era così prossima come si reputava allora da molti, giacchè al tempo dell'apparizione del grande avversario l'impero doveva essere in piena dissoluzione, cosa che non avverrebbe insino a tanto che ci fossero dei re di Francia, dovendo uno di essi negli ultimi tempi portare la corona imperiale. Sei secoli dopo questo argomento

conservava ancora molta forza. Uno storico francese, Canon Moreau, racconta come l'anno 1599 si spargesse improvvisamente la voce che l'Anticristo era nato in Babilonia. Tale novella empiè di terrore le popolazioni. Tuttavia molti vi furono che non vi diedero fede, i quali, tra le altre ragioni in contrario, adducevano anche questa che l'impero sussisteva ancora; al che si rispondeva dagli altri non sussistere esso oramai altrimenti che di nome.

La leggenda imperiale che noi abbiamo veduto comparire in Oriente nelle Rivelazioni di Metodio, comparisce ben presto anche in Occidente. Delle versioni varie che qui se ne formano Metodio è, direttamente o indirettamente, la prima fonte; ma s'intende bene come in esse non possa più ritrovarsi lo stesso spirito della leggenda orientale. Per gli occidentali l'impero romano è l'impero d'Occidente, e l'imperatore degli ultimi tempi è, non più un imperatore greco, ma un imperatore francese o tedesco. Questa sostituzione era razionale e necessaria.

Ordinariamente si ammette che le Rivelazioni di Metodio non furono conosciute nell'Occidente prima del XII secolo, e ciò è vero se s'intende di una conoscenza diretta. A cominciare da quel tempo se ne moltiplicarono le traduzioni e le parafrasi latine, in molte delle quali la leggenda si vede alterata nel modo che ho indicato testè. Ma certamente gran tempo innanzi alcune almeno delle immaginazioni che vi si contengono furono conosciute dagli occidentali, e quelle in ispecial modo che riguardano gli ultimi avvenimenti, sebbene già in qualche parte alterate. Assone, nel già citato suo libro, composto circa il 948, dopo aver parlato degliultimi tempi in modo conforme alla tradizione dei padri, dice che l'ultimo imperatore, il quale sarà un Carolingio(l'impero non era ancora passato ai Tedeschi) riunirà sotto la sua dominazione tutta la terra, abbatterà tutti gl'idoli, forzerà i pagani a ricevere il battesimo, e nei templi alzerà la croce di Cristo. Seguirà allora un'èra di letizia e di prosperità grande, e si convertiranno gli Ebrei. I popoli di Gog e Magog usciranno dalle loro sedi e faranno incursione sopra la terra, ma l'imperatore, radunato il suo esercito, li vincerà e distruggerà. Compiuto il centesimo e duodecimo anno del suo impero, egli andrà a Gerusalemme, e deporrà la corona, offrendola a Dio Padre e a Cristo suo figliuolo. Dopo di ciò verrà l'Anticristo.

Assone cita, come sua fonte, non Metodio, ma certi oracoli sibillini, i quali indubitabilmente scaturirono dalle Rivelazioni. Essi sussistono tuttavia in due recensioni diverse, e poco si dilungano dalla comune loro

sorgente. Confrontandole col testo di Assono si può vedere come la leggenda si andasse modificando secondo il senso, dirò così, occidentale. In una di quelle due recensioni si dice che l'imperatore dei Romani e dei Greci uscirà da Bizanzio per distruggere gl'Ismaeliti; nell'altra l'imperatore è sempre un rex Romanorum et Graecorum ma Bizanzio non è più ricordata; Assone non chiama l'imperatore altrimenti che rex Romanorum, e dice che sarà un re di Francia, un Carolingio, il cui nome comincierà con C. Notisi inoltre che, secondo Metodio, le genti di Gog e Magog correranno trionfalmente la terra, mentre secondo l'oracolo sibillino ed Assone, esse saranno debellate e distrutte dall'imperatore. Dopo Assone, attingono da quell'oracolo il vescovo Benzone, Gotofredo da Viterbo, Matteo di Westminster. Benzone chiama la Sibilla Calliopea; Gotofredo Tiburtina, o Albunea, e dice che, invitata a Roma dal senato, predisse gli eventi futuri sino alla fine del mondo. Il racconto profetico di Assone si ritrova più particolarmente in un antico poemetto inglese di 723 versi, intitolato Anticrist and the Signs before the Doom.

Assone ajutò potentemente a divulgar la leggenda, la quale si venne modificando ancora via via, secondo richiedeva la condizione dei tempi, o il sentimento dei ripetitori. Trasportato l'impero dai Francesi ai Tedeschi, era naturale che dell'ultimo imperatore si facesse, non più un Francese, ma bensì un Tedesco. E tedesco è egli già in un trattatello De Antichristo che certo Alboino dedicò ad Ariberto arcivescovo di Colonia in sul principiare dell'XI secolo. Nulladimeno abbastanza spesso l'imperatore si rimane francese. Così in un poemetto tedesco sull'Anticristo, dove la leggenda è narrata sulla fede di San Gerolamo, che la trovò scritta in un libro a Roma. L'ultimo imperatore andrà a Gerusalemme recando seco le insegne imperiali, e deporrà lacorona sul Monte Oliveto. Angilberto, abate di Admont, appoggiandosi a un testo assai alterato di Metodio, dice che l'ultimo imperatore, franco di nazione, non potendo resistere agl'Ismaeliti, appenderà lo scettro, la corona e lo scudo all'Albero Secco, e morrà offrendo l'anima a Dio. Secondo Angilberto la venuta dell'Anticristo sarà preceduta da una generale discessio, per cui prima le province si ribelleranno all'impero, poi le varie chiese all'autorità del pontefice, e finalmente i popoli abbandoneranno la fede.

Metodio dice che l'imperatore deporrà la corona sulla croce, Assone ch'egli la offrirà a Dio, l'anonimo autore dell'Entecrist che la deporrà sul Monte Oliveto, Teolosforo che la deporrà sul sepolcro di Cristo, Angilberto

che l'appenderà, insieme con lo scettro e lo scudo, all'Albero Secco.

Di questo Albero Secco(arbor sicca, arbre sech, dürre Baum, drye Tree) si trova spesso fatta parola nelle cronache, nei poemi romanzeschi e nelle relazioni di viaggi del medio evo; ma le notizie intorno ad esso, e intorno al luogo in cui sorgeva si accordano in generale assai poco. Si sapeva solo che trovavasi in mezzo ad una regione deserta dell'estremo Oriente, e che il rintracciarlo era cosa assai malagevole. Le mappe di quel tempo lo segnano insieme con l'altre meraviglie dell'Asia. Secondo una delle tante favole in corso, esso trovavasi invece nell'antica città di Susa, cinto gelosamente di mura, custodito da gran numero di soldati. Chi potesse appendere ai suoi rami lo scudo si farebbe soggetti centoventicinque principi dell'India, sino al paese dei Mori. Quando nel XIII secolo si seppe in Occidente delle grandi vittorie riportate dai Mongoli in Asia, corse subito la voce che il loro Can avesse appeso lo scudo ai rami dell'Albero Secco, e avesse con ciò fatte irresistibili l'armi sue. Nei romanzi francesi l'Arbre Sec è ricordato il più delle volte per indicare grande distanza, o paesi lontani ed ignoti. Nel Jeu de saint Nicolas di Giovanni Bodel tra i personaggi è un amiral du Sec-Arbre, o d'outre le Sec-Arbre. Nel poema tedesco intitolato Sibillen Weissagungen, del quale dovrò riparlare tra breve, pare che l'Albero Secco si ponga in prossimità del Santo Sepolcro. Più sovente col nome di esso s'indicava la provincia di Corasan. Nè tale incertezza si aveva solamente quanto al luogo ove sorgeva, ma ancora quanto alla qualità e al vero nome della pianta misteriosa. Marco Polo che ne parla nella Relazione de' suoi viaggi, la descrive, non già come un albero secco, ma come un alloro verde, ricco di fogliame e ferace di frutti; e dice che il vero suo nome è, non Arbre sec, ma Arbre sol, e che quest'Arbre sol è quello stesso Albero del Sole, che, insieme con unAlbero della Luna predisse la immatura morte ad Alessandro Magno. Di tali alberi si parla in tutte lo storie romanzesche del Macedone, e Marco Polo dice che gli abitanti della contrada in cui sorgeva l'antica pianta, narravano Alessandro esser quivi venuto a battaglia con Dario. Come nascesse questa confusione dell'Albero del Sole con l'Albero Secco non è agevole dire; ma se Marco Polo, ed altri con lui, sostituirono l'Albero del Sole all'Albero Secco, qualcuno anche vi fu che sostituì l'Albero Secco all'Albero del Sole. In molte delle storie favolose di Alessandro Magno si racconta come il grande conquistatore trovò, nella selva appunto dove sorgevano quelle arbori fatidiche, anche un albero tutto secco sul quale si stava la Fenice. In un breve racconto latino composto probabilmente

intorno al 1300, si narra di un soldato, fatto prigione dai Saraceni, il quale liberato dopo molti anni da una donna innamoratasi di lui, giunse, peregrinando con alcuni compagni, sino in India nel paese del Prete Gianni. Essi chiesero a costui di poter visitare l'Albero Secco, di cui tanto avevano udito parlare, e che sorgeva ne' suoi stati. Il Prete Gianni rispose loro il vero nome di quello non essere Albero Secco, ma sibbene Albero di Set, giacchè Set l'aveva piantato, e li fece condurre al luogo ove sorgeva, raccomandando tuttavia loro di non passare più oltre, se pur desideravano di fare ritorno in patria. L'albero piantato da Set con tre semi dell'albero paradisiaco della scienza del bene e del male, datigli da un angelo, è famoso ancor esso nella leggenda. Giunti in vista della pianta miracolosa, i pellegrini ebbero a meravigliare, tanto parve loro bella. Era essa di smisurata grandezza e mirabile figura, vestita di foglie d'ogni colore, carica di varie maniere di frutti, popolata di ogni sorta d'uccelli. Esalava da essa un soavissimo odore, e le foglie tra loro percotendosi, levavano una dolcissima melodia che si sposava col canto degli uccelli. Uno dei pellegrini si separò dai compagni e passò oltre, verso un luogo che vedeva aprirglisi dinnanzi pieno d'ogni delizia; gli altri tornarono addietro. Secondo il Mandeville l'Albero Secco sarebbe una quercia antica quanto il mondo, sorgente sul monte di Mambre, poco discosto dalla città di Ebron, e inariditasi al tempo della morte di Cristo, quando inaridirono improvvisamente tutti gli alberi della terra. Un principe dell'Occidente conquisterà la Terra Santa, e farà celebrare una messa sotto l'Albero Secco, il quale tosto si ricoprirà di foglie e di frutti. Il Mandeville narra inoltre delle meravigliose virtù della pianta.

Io non dubito che, in origine, l'Albero Secco non sia lo stesso albero del Paradiso terrestre, il quale nelle leggende medievalisi rappresenta appunto come tutto spogliato di foglie. Solo ammettendo tale identità s'intende perchè la leggenda conduca l'ultimo imperatore ad appendere scettro, corona e scudo ai rami dell'Albero Secco, il quale non è in nessun altro modo legato all'impero. Con fare che quell'imperatore deponga la corona sulla croce, Metodio lascia intendere quanto strettamente, secondo il concetto dei tempi, fosse congiunto l'impero all'opera della redenzione. Ma l'opera stessa della redenzione, non era, per dir così, se non un fatto secondario, se non una conseguenza di un altro fatto, il quale, per rispetto alla storia della umanità, poteva veramente considerarsi come primitivo ed iniziale. Questo fatto era la trasgressione dei primi parenti, della quale l'arbore vietata fu in pari tempo cagione e strumento. Dalle radici della pianta fatale era venuta

fuori tutta la storia del genere umano. Senza di essa non ci sarebbe stata la redenzione; tanto è vero che, secondo la leggenda, la croce fu fatta del suo legno. Senza di essa non ci sarebbe stata nè Roma, nè l'impero. Tornando all'Albero Secco l'impero torna alle sue radici, e si chiude il ciclo delle umane vicende. Con appendere a' suoi rami lo scettro, la corona e lo scudo, l'imperatore gli restituisce i frutti che la umana temerità ne colse. Appendere la corona alla croce, o appenderla all'albero del cui legno la croce fu formata, era in fondo la medesima cosa. Giova ricordare a tale proposito che, secondo una delle interpretazioni più plausibili, la pianta dispogliata che Dante trova nel Paradiso terrestre, significa appunto l'impero. Però deve parere abbastanza strano che in un Enndkrist tedesco, compilato principalmente sopra un'opera intitolata Compendium theologiae, e stampato nel secolo XV, si ponga in relazione con l'Albero Secco non l'imperatore, ma l'Anticristo, che miracolosamente lo fa rifiorire. Notisi finalmente che, secondo la opinione di alcuni, l'Albero Secco era irreperibile, o inaccessibile il luogo ov'esso si trovava, come appunto dicevasi del Paradiso terrestre.

Tutta quest'azione vasta e meravigliosa degli ultimi tempi, la quale noi abbiamo veduto dipingersi nella leggenda profetica, doveva sembrare buon argomento di dramma in un tempo in cui, dalla creazione dell'uomo al giudizio universale, si rappresentava sulla scena la storia intera dell'uman genere. Tuttavia, sebbene parecchi Misteri dell'Anticristo sieno pervenuti sino a noi, quell'azione non si trova riprodotta che in uno solo. Composto in Germania, questo mistero fu conservato in un codice di Tegernsee del XII secolo, e pubblicato, prima dal Pez, poi dal Zezschwitz, finalmente da Guglielmo Meyer. Esso è latino, come sono, in generale, i misteri più antichi. Eccone brevemente il contenuto.

Sulla scena si vedono: a oriente, il Tempio del Signore, la sede del re di Gerusalemme, la Sinagoga; ad occidente,la sede dell'imperatore insieme con quelle del re di Germania e del re di Francia; la sede del re dei Greci; dalla parte di mezzogiorno, la sede del re di Babilonia e della Gentilità. Aprono l'azione il re di Babilonia e la Gentilità cantando le lodi del politeismo. Segue la Sinagoga, che celebra l'unico Dio e detesta Cristo. La Chiesa, coronata, assistita dalla Misericordia e dalla Giustizia, seguita, a destra, dal papa col clero, a sinistra, dall'imperatore con le milizie, minaccia l'eterno castigo a chi non osserva il suo dogma. Entrano i varii

re, seguiti dalle proprie milizie, e cantando ciascuno, dice la rubrica, parole all'esser suo convenienti. Tutte queste potestà vanno a sedersi nei troni loro; ma un trono rimane disoccupato, e così ancora il tempio. Allora l'imperatore manda i suoi messi ai singoli re per invitarli all'obbedienza e al pagamento dei tributi. Egli afferma i diritti dell'impero:

Sicut scripta tradunt hystoriogravorum

totus mundus fuerat fiscus romanorum.

Hoc primorum strenuitas elaboravit,

sed posterorum desidia dissipavit.

Sub his imperii delapsa est potestas,

quam nostrae repetit potentiae majestas.

Reges ergo singuli prius instituta

nunc romano solvant imperio tributa.

I messi vanno a trovare primamente il re di Francia: ma questi nega di sottomettersi, e pretende che l'impero si appartiene di diritto a lui:

Illud enim seniores galli possederunt,

atque suis posteris nobis reliquerunt.

Il litigio si decide con l'armi; il re di Francia è vinto, ma reintegrato, quale vassallo dell'impero, nel suo regno. Il re dei Greci e il re di Gerusalemme riconoscono la sovranità dell'imperatore. Ma il re di Babilonia, messosi in animo di distruggere il cristianesimo, si leva in armi, e va ad assediare Gerusalemme, dov'ebbe culla la nuova credenza. L'imperatore accorre in ajuto della minacciata città, e vinto e fugato il re di Babilonia, entra nel tempio, e quivi, dinnanzi all'altare, toltasi la corona di capo, rassegna l'impero a Dio:

Suscipe quod offero, nam corde benigno

tibi regi regum imperium resigno,

per quem reges regnant, qui solus imperator

dici potes, et es cunctorum gubernator.

Incalzano gli avvenimenti. Ritornato l'imperatore nella sede dell'antico suo regno, ridivenuto, cioè, semplice re di Germania, ecco in iscena l'Anticristo armato, il quale all'Ipocrisia e all'Eresia che lo accompagnano commette di pervertire il mondo. Ajutato da' suoi seguaci, egli usurpa il trono del re di Gerusalemme, e scaccia la Chiesa dal tempio, dove s'era

posata. Dopo di ciò manda suoi messi ad intimare obbedienza ai principi. Il re dei Greci e il re di Francia diventano suoi uomini ligi; ma il re di Germania nega altamente di sottomettersi, e prese le armi, sconfigge l'Anticristo e i suoi alleati. Se non che l'Anticristo opera allora alcuni falsi miracoli, ed anche il redi Germania finisce col credere in lui. Col suo ajuto l'Anticristo vince il re di Babilonia, dopo di che si fa annunciare alla Sinagoga quale il Messia, ed è da essa riconosciuto. Vengono i profeti Enoc ed Elia, che svelano la sua falsità, e annunziano la imminente venuta di Cristo. L'Anticristo li fa morire; ma mentre, seduto in trono, convoca principi e popoli per essere adorato, scoppia sopra il suo capo un fragore, ed egli precipita. La Chiesa trionfa, i pervertiti riabbracciano la fede.

In questo dramma l'imperatore romano è rappresentato come il tutor naturale della Chiesa e della umanità, sebbene anch'egli da ultimo si converta all'Anticristo. Non è egli strano che, secondo una leggenda assai antica, di cui già feci ricordo, e che nel medio evo ottiene ancora credenza, l'Anticristo, o un suo precursore, debba essere appunto un imperatore romano? Nerone non era mai morto, e doveva tornare in sulla fine dei tempi, ed affliggere la Chiesa di Cristo di mali inauditi. Del resto qualche altro imperatore romano passò per essere l'Anticristo, come, ad esempio, Federico II, e così anche qualche papa, come Gregorio VII, Pasquale II, Innocenzo IV. Ma, conformemente a un'altra leggenda, di cui qui cade in acconcio dire qualche cosa, anche l'ultimo imperatore, campione della Chiesa e della umanità, sarà un imperatore redivivo, anzi non mai morto, ma occultato per decreto della Provvidenza, e conservato agli estremi cimenti. Ministro della giustizia divina, egli tornerà improvviso al mondo, riformerà la Chiesa e i costumi della pervertita umanità, passerà in Terra Santa, riconquisterà il sepolcro di Cristo, e deporrà finalmente sul Monte Oliveto, o appenderà ai rami dell'Albero Secco le insegne della sua potestà. A questo ritorno una leggenda faceva seguire una spaventosa battaglia, a cui prenderebbe parte tutta l'umanità vivente; un'altra leggenda faceva seguire una nuova età dell'oro. Ma chi sarebbe il campione prescelto da Dio? Alcune finzioni dicevano Carlo Magno, il glorioso difensore della Chiesa, il vincitore dei Saraceni. Carlo Magno uscirà dal monte nelle cui viscere, ignoto a tutti, aspetta il giorno segnato, e andrà a sospendere il suo scudo a un pero inaridito, che rinverdirà in quell'ora. Seguirà tra buoni e malvagi la maggior battaglia che mai sia stata combattuta nel mondo, e Carlo Magno vincitore regnerà sopra una nuova età. Altre finzioni

dicevano Federico II, e ciò deve parere abbastanza strano, perchè lo scomunicato Svevo, grand'avversario del Papato, e cristiano di assai dubbia fede, assume da prima nella leggenda la qualità di Anticristo. Ma in questa leggenda sono da considerare, per così dire, due gradi, l'uno che può chiamarsi guelfo, e ha principio, come pare, in Italia, per opera di Gioachinodi Fiore e de' suoi seguaci; l'altro ghibellino, e si svolge interamente in Germania. Salimbene riferisce nella sua Cronaca un detto di Sibilla che i Joachimiti applicavano a Federico II, e che il Voigt considera a ragione quale primo principio della leggenda: "Oculos eius morte claudet abscondita, scilicet gallicana gallina, supervivetque sonabit et in populis, vivit et non vivit, uno ex pullis pullisque pullorum superstite". Dice lo stesso Salimbene che per ragione di quell'oracolo molti non credettero alla morte di Federico II. La credenza che costui debba essere l'Anticristo genera l'altra ch'egli non sia mai morto, ajutando forse in ciò la già cognita leggenda di Nerone. In sul principio il suo ritorno è temuto, non desiderato; la cronaca rimata di Ottocaro, composta fra il 1300 e il 1317, è il primo documento in cui si palesi lo spirito ghibellino che volge a gloria di Federico la ostilità contro il clero. A poco a poco quegli che nella leggenda era entrato come Anticristo ci si trasforma e diventa un secondo redentore del mondo. Primo il cronista Giovanni di Winterthur, morto il 1348, riferisce una credenza, ch'egli rigetta, ma che aveva corso tra il popolo, secondo la quale Federico II doveva tornare con grande possanza per riformare la Chiesa, dopo di che passerebbe il mare e deporrebbe la corona sul Monte Oliveto, o sull'Albero Secco. In un Meistergesang del mezzo del secolo XIV si annunzia prossima un'èra di grandi calamità e di grandi sceleraggini. Verrà allora, mandato da Dio, il possente e mite imperator Federico, che appenderà all'Albero Secco lo scudo, e l'Albero Secco rinverdirà. Egli conquisterà il Santo Sepolcro, e ricondurrà la Giustizia nel mondo. Per le sue armi tutti i regni dei miscredenti saran soggiogati, e saran debellati gli Ebrei. Inoltre egli moverà guerra al clero, distruggerà i chiostri, mariterà le monache. In questa poesia l'ultimo imperatore è, non campione, ma avversario della Chiesa corrotta; per contro, in un'altra, una sibilla annunzia a Salomone che in sulla fine dei tempi un imperatore, per nome Federico, il quale sarà stato tenuto in serbo da Dio, raccoglierà il popolo cristiano intorno a sè, combatterà a gloria della religione, riconquisterà il Santo Sepolcro. Dopo che egli avrà appeso lo scudo all'Albero Secco, che si vedrà rinverdire, comincerà un'èra felice, e tutti i popoli si convertiranno alla fede, e vivranno in pace fino a che

venga l'Anticristo. I papi Onorio III e Gregorio IX non si sarebbero mai immaginati che il principe da essi fulminato con le scomuniche dovesse fruire di tanta glorificazione. Finalmente quella leggenda si trova anche nel poema tedesco pubblicato dallo Zarncke, e da me ricordato piùsopra. Quivi si narra che, durante una caccia, l'imperator Federico, usando della virtù di certo anello mandatogli dal Prete Gianni, sparve improvvisamente dagli occhi di tutti, e nessuno più ne seppe novella. Ma egli tornerà un giorno, e stenderà novamente il suo dominio sopra tutta la terra di Roma, e darà noja agli ecclesiastici, e riconquisterà la Terra Santa, e appenderà lo scudo all'Albero Secco. Di quella sparizione, dice l'autore, si legge nella Cronaca romana, ma di quel ritorno solo i vecchi contadini fan fede; il che non era vero, perchè, come abbiam veduto, se ne faceva fede anche in parecchie scritture.

Questa leggenda di Federico II si viene variando sempre più in progresso di tempo; secondo una delle molte versioni lo Svevo doveva ricomparire ai tempi di Carlo V e ajutare costui a riconquistare Costantinopoli e Gerusalemme. Altre profezie correvano che a dirittura a Federico II sostituivano Carlo V. Volfango Lazio, filosofo, medico e rettore un tempo della Università di Vienna, stampò nel 1547 un libro di 170 pagine per provare che l'imperatore, il quale sulla fine dei tempi doveva soggiogare il mondo, era Carlo V, e citò in appoggio della sua asserzione profeti, santi e sante, sibille, astrologi, fin anche il mago Merlino. Ma in Germania si credette inoltre che un imperatore romano, ministro dell'ira di Dio, dovesse punire Roma delle molte sue sceleraggini, distruggendola col ferro e col fuoco. La profezia fu applicata anche a Carlo V, e tutti sanno quello che egli, o le sue soldatesche fecero per non ismentirla.

Nella leggenda apocalittica di cui siam venuti esaminando sin qui lo svolgimento e le varie forme, abbiam trovato i nomi di varie genti contro alle quali dovrà combattere l'ultimo imperatore. Alcune di queste genti mutano col mutare dei tempi. I Saraceni cedono il luogo ai Turchi nuovi e più formidabili nemici. Gog e Magog spariscono da molte delle versioni più recenti. Quelli che più ostinatamente vi rimangono sono gli Ebrei, i quali dovranno, convertendosi, suggellare il trionfo di Cristo. Ma anche gli Ebrei avevano le loro leggende circa gli ultimi tempi, e circa la parte che v'avrebbero avuta Roma e il suo impero; e, com'è naturale, queste leggende sonavano molto diverse dalle leggende cristiane, sebbene in qualche punto concordasser con esse. Nel libro Afkáth rósel si dice che

nove mesi prima della venuta del Messia l'impero di Roma si stenderà sotto tutto il cielo; ma nel Jalkut chàdas si legge che al tempo della venuta di costui tutti i popoli si ribelleranno all'impero. Il Messia vincerà l'imperatore e ricondurrà gli Ebrei nella Terra Promessa.

Roma cadrà, cadrà l'impero, ma non prima che il mondo stessosia per dissolversi. Finchè non si spenga nel cielo, il sole illuminerà le ardue mura del Colosseo. Prima che si chiuda il cielo dei tempi l'impero romano stenderà novamente la sua dominazione sopra tutta la terra e ridarà alle genti un'èra gloriosa di prosperità e di pace. Poi sopra le sue rovine si leverà l'Anticristo; ma quando non vi saranno più storici per narrarne i fatti, nè poeti per celebrarne le glorie, quando la terra stessa sarà dileguata nel nulla, la corona dei Cesari risplenderà ancora sulla croce di Cristo, e il nome della città regina risonerà senza fine

In quella Roma onde Cristo è Romano.

APPENDICE La leggenda di Gog e Magog.

(V. cap. XXII, pag. 474, 479, 482, 486, 487, 505).

La leggenda di cui io intendo parlare qui alquanto particolareggiatamente fu nel medio evo tra le più diffuse e vivaci. Nessun'altra per certo si sparse sopra più gran parte di mondo, giacchè essa fu cognita in tutta Europa, in gran parte dell'Asia, e in tutta l'Africa settentrionale, dovunque regnò, in una delle sue forme massime, il monoteismo. Nata nel sesto secolo avanti Cristo, essa traversò tempi diversissimi, si adattò a disparatissime civiltà, si accomunò a genti semitiche, ariane, turaniche, e dopo quasi 2500 anni di vita dura ancora, se non in tutto, in buona parte almeno del suo antico dominio. Essa è leggenda a un tempo stesso religiosa, epica, geografica, etnologica. Tre religioni, il giudaismo, il cristianesimo, il maomettismo, le porgono il loro valido appoggio: la sua portata, se così possa dirsi, fantastica e morale, è enorme, giacchè essa si addentra nell'avvenire e va a raggiungere la catastrofe apocalittica, e a smarrirsi nella visione della eternità. Nel suo lungo cammino, variando e ampliandosi, essa si scontrò e si connesse con altre leggende, celeberrime fra tutte quelle di Alessandro Magno e del Prete Gianni; d'onde una molteplicità di relazioni, e una diversità di movenze e d'incidenti, tra cui non è troppo agevole raccapezzarsi.

Quando pure ne avessi l'intendimento, io non potrei discorrere di sì

fatta leggenda con tutta l'ampiezza che il soggetto comporta. Essendo questa un'appendice, intesa principalmente ad illustrare un tema già toccato innanzi, non mi pare che si convenga il darvi luogo a tante particolarità e minuzie quante se ne potrebbero ragionevolmente richiedere in una dissertazione autonoma, salvo a voler fare dell'appendice quasi un altro libro; da altra banda una trattazione compiuta vorrebbe indagini lunghe e faticose per entro a molte letterature orientali, come a dire l'arabica, la persiana, l'armena, la siriaca, la turca, a me tutte inaccessibili direttamente. Mi contenterò dunque di venir seguitando gli svolgimenti massimi della intera finzione e di ricercare alquanto più addentro alcune formee peculiarità di essa, lo studio delle quali mi parrà meglio confarsi con lo scopo che io mi sono proposto in questo pagine. A tale uopo dividerò la intera leggenda in tre diverse parti, corrispondenti a tre principali gradi del suo svolgimento, e la prima chiamerò Leggenda biblica, la seconda, Leggenda epica, la terza Leggenda storica, avvertendo tuttavia di non voler dare a queste denominazioni una significazione troppo più precisa che la cosa per se stessa non comporti. Da ultimo darò un cenno di quello che più particolarmente potrebbe chiamarsi il mito geografico. Per leggenda biblica intendo quella che si viene configurando nelle Sacre Carte, nella tradizione, diremo così, scritturale, e nella letteratura patristica; per leggenda epica, quella che più tardi si trova interpolata nella storia favolosa di Alessandro Magno; per leggenda storica, quella che, senza staccarsi dalle sue origini, nè sciogliersi dalle connessioni incontrate, di poi, si lega a fatti storici e a particolari credenze del tempo in cui si viene formando. Va da sè che non tornerò su quelle parti della finzione di cui io abbia già prima discorso.

§ I. La leggenda biblica.

Le più antiche vestigia di quella che poi sarà la leggenda di Gog e Magog si trovano nell'Antico Testamento. Il nome di Magog comparisce per la prima volta nel Genesi(X, 2) come quello del secondo figlio di Jafet, ed è appropriato anche al popolo che discende da lui. Di Gog non è ivi fatta menzione; ma nei Numeri(XXI, 33, 34, 35) e nel Deuteronomio(III, 1 segg.) è ricordato un gigante per nome Og, re di Basan, vinto ed ucciso da Mosè. Se il nome di Og abbia attinenza con quello di Gog è cosa che lascio esaminare ad altri.

Quali genti designasse col nome di Magog l'autore del Genesi noi non

sappiamo, ma egli non rannetteva ad esso nessuna tradizione o credenza particolare. Ricordato per semplice ragion genealogica ed etnografica, quel popolo non veniva in più stretta relazione col popolo d'Israele, non acquistava ingerenza nei fatti di questo. Anzi è da credere che quel nome non contenesse in origine, e per molto tempo di poi, nessuna designazione particolare e precisa, ma solo una designazione generica e vaga, e che riferito per consuetudine a genti poco note e lontane, esso fosse capace di ricevere quella più opportuna applicazione diretta che dagli avvenimenti storici potesse essere suggerita.

La leggenda, o, a dir meglio, la prima immaginazione da cui quella mosse, comincia a prender forma in Ezechiele, e sino dalle origini sue mostra il carattere apocalittico che serberà poi lungamente traverso alle variazioni successive. Nelle profezie di costui è una vera e propria apocalissi, nellaquale formidabili sciagure si minacciano al popolo d'Israele(XXXVIII e XXXIX). Gog, re del paese di Magog, piomberà a capo di moltitudine sterminata su quel popolo pervertito, e, strumento dell'ira divina, ne farà lacrimevole scempio. Egli verrà co' suoi giù dal settentrione, e raccoglierà ancora sotto di sè i popoli della Libia e dell'Etiopia, e tutti gl'idolatri e i pagani della terra. Ma compiuta la lor missione, i barbari soggiaceranno a lor volta all'ira del cielo e saranno tutti distrutti.

Quando profetava tali calamità Ezechiele aveva presente alla memoria la terribile invasione degli Sciti, che sul finire del VII secolo a. C. desolò la Palestina, e di cui era stato spettatore. Il dominio da lui assegnato a Gog corrisponde esattamente, sotto il rispetto geografico, a quello che, dopo la invasione appunto, fu il dominio degli Sciti, e la descrizione ch'egli fa dei barbari seguaci di colui concorda in tutto con quella che degli Sciti fa Geremia(I, IV, V, VI). Nè basta. Il nome stesso di Gog pare sia stato suggerito ad Ezechiele da quella invasione, giacchè sopra certi cilindri del regno di Assurbani-Abal, contenenti relazioni storiche di questo principe, è ricordato il nome Gàgu, quale nome del re degli Sciti.

La leggenda fatidica così presentata da uno dei profeti maggiori, da quello tra tutti le cui parole più profondamente scossero gli animi dei contemporanei e dei posteri, non poteva più smarrirsi. Il popolo, a' cui futuri destini essa veniva a legarsi, non doveva più dimenticarla, anzi doveva nella tradizion vivace che la custodiva, svolgerne e meglio determinarne alcune parti, accrescerne in generale la portata: di guisa che, offerendosi, in successo di tempo, nuova occasione a predizioni

apocalittiche, quella leggenda doveva in modo assai naturale venire a prendervi posto e acquistare nuova e maggiore importanza. E tale occasione non mancò. Sei secoli circa dopo Ezechiele noi ritroviamo Gog e Magog nell'Apocalissi, e, salvo alcuna alterazione di poco conto, la leggenda loro è quella stessa di prima. Parlando degli ultimi tempi l'autore dell'Apocalissi dice(XX, 7-10) che, consumati i mille anni della sua prigionia, Satana, prosciolto, trarrà a sè le genti che sono sparse ai quattro angoli della terra, cioè Gog e Magog, il cui numero è come l'arena del mare, e le condurrà a combattere i fedeli di Dio. Esse si riverseranno sulla faccia della terra, e stringeranno d'assedio la città di Gerusalemme, finchè il fuoco celeste piomberà su di loro e le divorerà, e Satana e il falso profeta e la Bestia, precipitati nel profondo d'inferno, saranno dati in preda ai tormenti senza fine. L'Apocalissi, informata di uno spirito essenzialmente giudaico, attingeva senza dubbio questa parte della visione sua dalla tradizione giudaica.Ma se noi la paragoniamo con la fonte prima, ch'è la profezia di Ezechiele, ci avvediamo subito di una variante, la quale si perpetua poi nella leggenda. Ezechiele nomina esplicitamente Gog quale re di Magog; nell'Apocalissi invece Gog e Magog sono due popoli. Si potrebbe credere che San Giovanni, o chi altri sia l'autore dell'Apocalissi, ponendo a capo dell'ultima ribellione del male lo stesso Satana, e non avendo pertanto più bisogno di un particolare condottiero delle genti reprobe, avesse scientemente e di suo arbitrio tolto di mezzo il re Gog, divenuto inutile, e adoperato il nome di costui, il quale, già da gran tempo fermato nella tradizione, non poteva esserne facilmente espulso, a denotare genti compagne a quelle di Magog. Se non che tale ipotesi è subito contraddetta dal fatto che nelle leggende giudaiche nate, senza dubbio in varii tempi, dalla immaginazione primitiva, e nelle maomettane che da quelle derivano, i nomi di Gog e Magog compajono tutt'a due quali nomi di popoli; e poichè non è da credere che gli Ebrei volessero accettare da un libro cristiano quella variazione fatta al testo biblico, gli è forza ammettere che l'autore dell'Apocalissi la traesse egli dalla tradizione giudaica, per ragioni che sarebbe assai malagevole rintracciare, alterata a quel modo. Ma dove l'Apocalissi più si discosta da Ezechiele si è nello stabilire le connessioni, le ragioni, il tempo di quella minacciata irruzione di genti barbare. La profezia di Ezechiele non si stende oltre il consueto orizzonte storico e morale delle profezie giudaiche in genere, e l'avvenimento vaticinato da costui può dirsi assai più un avvenimento di storia particolare che non di storia universale. Il

profeta non ha l'occhio che al suo popolo, il solo eletto, e la irruzione ch'egli ad esso minaccia non è se non una delle tante prove, poniamo pure che sia più grave dell'altre, con cui Jehova il corregge e lo richiama sulla retta via. Quando abbia, con soffrire il meritato castigo, purgato le molte sue colpe, il popolo d'Israele tornerà nel primo suo flore, e i nemici suoi, strumenti inconsci della giustizia divina, saranno spersi e distrutti. Il tempo che condurrà tali vicende non è dal profeta indicato; esso appartiene forse ad un avvenire lontano ancora, ma è ad ogni modo compreso nella serie dei tempi storici, a' quali non si pone preciso e sicuro fine. Ben altrimenti nell'Apocalissi. Non più il popolo d'Israele, ma la Chiesa, cioè la comunità universale dei credenti, dovrà un giorno sottostare alla minacciata invasione, e questa non sarà il giusto castigo di Dio, provocato dalle reità della terra, ma un ultimo conato di Satana, volto a distruggere, sulla terraappunto, il regno di Dio. E ciò avverrà dopo il millenio; e quando questa prova suprema sarà superata, si chiuderà l'ordine dei tempi, e sarà rinnovato il mondo, e comincerà il regno senza fine della Gerusalemme celeste. Tale nuovo riferimento e tale nuova projezione della leggenda sono, senza dubbio, l'opera personale dell'autore dell'Apocalissi, sia pure che a lui ne potesse anche venire qualche incitamento d'altronde. Finalmente, se col nome di Magog, nella profezia di Ezechiele, sono più particolarmente designati gli Sciti, come dagli avvenimenti del tempo era in maniera assai ovvia suggerito, nell'Apocalissi ogni designazione reale e diretta di tale natura pare che debba fare difetto. Tuttavia qui cade in acconcio una considerazione. Se è vero, come ormai sembra fuori di dubbio, che l'autore dell'Apocalissi muova, nel motivare e nel costruire la sua visione escatologica, dagli stessi fatti de' tempi suoi, e che l'Anticristo da lui prodotto sulla scena paurosa degli ultimi giorni altri non sia che il Nerone redivivo della leggenda popolare romana, non è certo improbabile che egli abbia avuto dinnanzi alla mente alcun'altra particolarità di questa leggenda medesima; ed anzi che per alcuna ciò veramente accadesse abbiamo nella scrittura di lui le irrefragabili prove. Nel c. XVI, v. 12, di essa si legge che un angelo disseccherà il corso dell'Eufrate per dar passaggio ai re che dall'Oriente moveranno in soccorso della Bestia, cioè di Nerone. Ora è questa una allusione manifesta a quella parte della leggenda popolare dove si narrava il ritorno trionfale di Nerone alla testa dei Parti. Questi pertanto, nella mente dell'autore dell'Apocalissi, dovevano apparire quali i naturali seguaci e fautori dell'Anticristo, quali i campioni predestinati del male, e forse una cosa sola con le genti di Gog

e Magog. E poichè, secondo gli antichi geografi, i Parti erano legati in istretta parentela con gli Sciti, l'autore dell'Apocalissi sarebbe venuto, per una coincidenza curiosa, a designare coi nomi di Gog e Magog presso a poco quella razza medesima che col solo nome di Magog era stata designata da Ezechiele. Ma è questa una semplice congettura su cui non giova fermarsi più lungamente.

Dalla profezia di Ezechiele e dall'Apocalissi la leggenda di Gog e Magog passa nella gran corrente della letteratura patristica, dove noi la ritroviamo, ma nella forma, com'è del resto naturale, che essa aveva presa in quest'ultima scrittura. L'opinione che per il Magog della prima e per il Gog e Magog della seconda dovessero intendersi gli Sciti, opinione, per quanto riguardava Magog, già da lungo tempo accolta nella tradizione delle scuole giudaiche, si conferma e si universalizza. Giuseppe Flavio, il quale parla dei soli Magogi della etnografia del Genesi, dice che da essi ebberoorigine gli Sciti, alla cui gente appartengono anche i Sarmati e gli Alani. San Gerolamo ricorda così fatta opinione, ma dice espresso che essa è più specialmente seguitata dai Giudei e dai cristiani giudaizzanti: "Judaei et nostri judaizantes putant Gog gentes esse scythicas, immanes et innumerabiles, quae trans Caucasum montem el Maeotidem paludem et prope Caspium mare ad Indiam usque tenduntur". Andrea, vescovo di Cesarea(V sec.?) la ricorda invece come una opinione seguitata da alcuni degli antichi, e dice gli Sciti chiamarsi con altro nome Unni. Sant'Agostino nega recisamente che per Gog e Magog sia da intendere una gente barbarica particolare; ma, ciò nulla meno, la opinione giudaica continuò ad essere la opinione prevalente. Vero è che, insieme con questa, altre opinioni ebbero corso. Secondo Eusebio, Magog e Celti erano tutt'uno; nei Libri Sibillini Gog e Magog sono identificati cogli Etiopi. All'irrompere dei barbari nell'impero romano molti certo dovettero credere che questi fossero gl'invasori annunziati dalle profezie. "Scio quendam Gog et Magog ad Gotorum nuper in terra nostra vagantium historiam retulisse", dice San Gerolamo; e Sant'Ambrogio accoglie la credenza qui accennata, la quale, dopo il V secolo, si ritrova nel Talmud di Gerusalemme e in altri libri giudaici. Teodoreto, per contro, crede che la profezia di Ezechiele siasi avverata al tempo dei Maccabei, o dopo il ritorno degl'Israeliti dalla schiavitù di Babilonia.

Di Gog e Magog si ragiona, com'è naturale, in tutti i commentarii sopra l'Apocalissi, ma le immaginazioni che li riflettono si vanno mano mano

adattando alle nuove credenze, o seguono i nuovi indirizzi della coscienza cristiana. Avvenuta la conciliazione tra la Chiesa e l'Impero nel IV secolo, l'Apocalissi, la quale era tutta piena di un odio implacabile contro Roma, perdette molta dell'antica sua voga, ed anzi la Chiesa d'Oriente la dichiarò senz'altro libro apocrifo. Dopo Lattanzio, il quale fu veramente l'ultimo dei grandi chiliasti, il chiliasmo che è la dottrina fondamentale dell'Apocalissi, andò del continuo perdendo aderenti, e i Padri più insigni, come San Gerolamo e Sant'Agostino, apertamente e con disprezzo lo rigettarono. In pari tempo si veniva elaborando su altre basi che non fossero quelle dell'Apocalissi, una più complessa dottrina dell'Anticristo, la quale doveva necessariamente alterare, per la parte sua, l'ordinamento e l'economia del gran dramma escatologico. Soppresso il millennio, le parti già disgiunte dall'azione si raccostavano. Mentre nell'Apocalissi l'Anticristo, precipitato insieme col falso profeta nello stagno dello zolfo ardente(XIX, 20), più non comparisce nell'azione ultima che al millennio sussegue, e nella quale Satana sommuove da solo le genti barbare, nella nuova immaginazione che si viene formando Satana lascia il luogo e l'opera all'Anticristo, sotto a' cui ordini quelle genti allora naturalmente vengono aporsi.

Ma gli è probabile che nemmeno dopo queste alterazioni la leggenda avrebbe mai conseguito nella coscienza popolare molta perspicuità e risonanza. Come leggenda essa aveva un grave difetto: era troppo speculativa e dottrinale, e mancava di quella salda base storica, di que' nessi efficaci col mondo cognito senza di che le leggende han corta vita. La fantasia non sapeva come rappresentarsi quei popoli di Gog e Magog di cui nè la stanza, nè l'essere, nè i costumi si conoscevano. Nessuno mai li aveva veduti; essi erano come fuori del mondo, e poteva nascere il dubbio, e nacque veramente in alcuno, che non fossero già uomini, ma simboli, e personificazioni delle più perverse tendenze della umana natura. La leggenda abbandonata a se stessa avrebbe pertanto languito nella dubbiosità di una immaginazione incircoscritta, e non avrebbe mai avuto l'importanza che ebbe di poi, e non si sarebbe mai così efficacemente mescolata alla vita presente e reale, come si mescolò, se non si fosse in buon punto scontrata e fusa con un'altra finzione, che le comunicò nuovo vigore e la sostentò di quanto le aveva fatto sino allora difetto. Qui si chiude propriamente la leggenda biblica e s'apre la leggenda epica.

§ II. La leggenda epica.

Alessandro Magno è indubitabilmente il massimo degli eroi leggendarii. Nata mentr'egli era ancora in vita, o subito dopo la sua morte, la leggenda meravigliosa delle imprese da lui compiute, e delle corse avventure in Europa, in Africa, in Asia, non cessò di crescere e di metter sempre nuove propaggini, sino a Rinascimento inoltrato in Occidente, e per un tempo anche più lungo in Oriente, dove la generazione delle nuove favole dentro di essa dura forse tuttora. Io non ho da ricercare in qual modo siasi venuta formando questa complessa e vigorosa leggenda; ma tra le finzioni innumerevoli, varie per origine, per età, per carattere, di cui essa si compone, una ve n'ha che appartiene al mio argomento, e a cui fa d'uopo rivolgere ora l'attenzione. Secondo questa finzione, presa nella forma sua già matura, e avuto riguardo al solo concetto generale di essa, i popoli di Gog e Magog furono da Alessandro Magno rinserrati fra le gole di monti insuperabili, d'onde non usciranno se non imminente la fine del mondo, per dare ajuto all'Anticristo.

Si potrebbe credere che il serramento di Gog e Magog sia stato attribuito ad Alessandro Magno solo in virtù di quella generale tendenza che portava gli spiriti ad accrescere sempre più il numero delle meravigliose imprese compiute dall'eroe, e senza che vi fosse nessuna più particolare ragione per farlo. Ma sarebbe questo un errore. Alessandro non entra direttamente nella leggenda di Goge Magog, ma vi entra attraversando un'altra leggenda, la quale fu in origine del tutto estranea a quella. Nella finzione epica testè enunciata, vengono a comporsi insieme due diverse finzioni, le quali vissero un tempo separate; l'una è la leggenda biblica, di cui ho parlato, l'altra è una leggenda eroica di cui, prima di procedere oltre, è mestieri dir qualchecosa.

Che Alessandro Magno avesse rinchiuso tra' monti alcuni popoli bestiali e ferocissimi, è tradizione antica abbastanza: ma questi popoli, sia che se ne dica, sia che se ne taccia il nome, nulla hanno di comune da prima con Gog e Magog. Anzi, da principio, non si parla nemmeno di popoli rinchiusi; ma solo di certe porte ferree costruite da Alessandro Magno per vietare ai possibili invasori il passo conosciuto sotto il nome di Porte Caspie, nel Caucaso. Giuseppe Flavio racconta che gli Alani invasero la Media passando per le Porte Caspie, le quali Alessandro aveva munite di porte ferree, accordatisi col signore del passo, che era il re d'Ircania; ma non dice, come altri dirà molto più tardi, che gli Alani

fossero stati in qualche modo rinserrati da Alessandro Magno. Di porte ferree che munivano il passo, non delle Porto Caspie, ma delle Caucasee, parla anche Plinio, il quale tuttavia non dice che fossero opera di Alessandro. Il primo forse che faccia esplicita menzione di genti rinchiuse da Alessandro, è San Gerolamo, il quale nella epistola LXXXIV ad Oceanum de morte Fabiolae, descrive il terrore onde fu invaso l'Oriente all'annunzio che gli Unni avevano forzato i claustri e le difese già innalzate dal Macedone, ubi Caucasi rupibus feras gentes Alexandri claustra cohibent, e seminavano sui loro passi la rovina e la morte. Non un accenno alla credenza che questi barbari potessero essere quegli stessi d'Ezechiele e dell'Apocalissi, dei quali il nome non è qui nemmen pronunziato. Questa epistola fu dettata intorno al 400, ed io ho detto San Gerolamo esser forse il primo che riferisca in forma esplicita la leggenda delle genti rinchiuse, giacchè di un altro testimone di essa non si sa con piena certezza quand'abbia scritto, sebbene s'ammetta dai più che verso la fine del secolo VI. È questi Egesippo, il quale in un luogo della sua storia De bello judaico dice la città di Antiochia andar debitrice della sua sicurezza ad Alessandro Magno, il quale con munire le Porte Caspie, tolse ogni passo a quelli che eran tra i monti, omne interioribus gentibus interclusit iter. Procopio parla delle porte e di una fortezza fatta costrurre da Alessandro Magno per vietare il passo agli Unni, ma non dice che per quelle difese gli Unni rimanessero rinserrati.Fredegario racconta che l'imperatore Eraclio, assalito e vinto dai Saraceni, non sapendo a qual altro partito appigliarsi, fece aprire le porte di bronzo di Alessandro Magno, e chiamò in suo ajuto centocinquantamila barbari, i quali tuttavia non furono da tanto da ripristinare le sorti della guerra, anzi furono ancor essi disfatti; ma non dice propriamente che dentro a quelle porte i barbari fossero tenuti prigioni, per modo che da nessun'altra parte potessero erompere e fare scorreria.

Se noi esaminiamo queste varie e progressive testimonianze della finzione eroica più antica, vediamo non solo che in esse non è fatto cenno di Gog e Magog, nè allusione alcuna alla credenza che i barbari di cui si ragiona abbiano alla fine del mondo a formar la milizia di Satana, o dell'Anticristo(e troveremo più in là altre testimonianze, assai più recenti, dove del pari non è cenno, nè allusione alcuna di tal maniera); ma vediamo ancora la credenza che Alessandro Magno avesse rinchiusi quei barbari in modo da segregarli dalla rimanente umanità, credenza che poi si fa molto risoluta e precisa, non palesarsi in alcune di esse se non assai timidamente e in forma al tutto indecisa. Gli è che la finzione si va

costruendo a poco a poco, e noi possiamo senza fatica rifarcene in mente il probabile processo. Si cominciò con attribuire ad Alessandro Magno la costruzione di alcuni ripari intesi a mettere l'Asia centrale al sicuro dalle irruzioni delle genti nomadi e barbare del settentrione. Questa prima immaginazione non richiedeva nessuno sforzo di fantasia, anzi doveva nascere spontanea, e starci per dire che era necessaria. Nelle gole del Caucaso, sole vie per le quali chi muove dalla pianura del Don e del Volga può avere accesso alla Persia, vedevansi gli avanzi di antiche difese, opera forse di alcuni predecessori di Dario, o a dirittura dei monarchi di Ninive e di Babilonia. Era cosa più che naturale attribuire a chi aveva assoggettata alla sua potestà tanta parte dell'Asia la costruzione di ripari che assicuravano il pacifico godimento della conquista, e aggiungere alle glorie di chi aveva compiute tante e così mirabili imprese, anche questa d'aver posto alla furia dei barbari aquilonari, propriamente lì dove il suo impero cessava, un insormontabile ostacolo. Ciò facendo la leggenda seguiva una delle usanze sue più caratteristiche ed universali, che è quella appunto di venir raccogliendo sopra e intorno all'eroe prediletto, con torlo ad altri, tutto quanto possa accrescere a costui lustro e riputazione. Ma la leggenda non doveva fermarsi a tanto. Stimolata dalla crescente vaghezza del meraviglioso, ajutata dall'ignoranza della condizione geografica della regione transcaucasea, e dalla opinione implicita che Alessandro Magno non dovesse far quasinulla che fosse nell'ordine puramente naturale delle cose, essa venne crescendo sopra gli stessi suoi rudimenti, ed elaborò la favola, che doveva poi essere accetta universalmente, dei popoli rinchiusi ed inaccessibili. Gli storici non narrano di nessuna azione importante di Alessandro Magno, la quale abbia avuto a teatro il Caucaso, o che il Caucaso concernesse in modo diretto. Arriano ricorda, senza più, che Alessandro valicò le Porte Caspie; Quinto Curzio che l'esercito del Macedone spese diciassette giorni in traversar la giogaja; ma secondo alcune tradizioni georgiane, di cui non è possibile stimare l'antichità e rintracciare la origine, Alessandro Magno invase le vallate meridionali del Caucaso e in ispazio di sei mesi espugnò tutte le città e le castella che v'erano.

Formata che fu, e cominciando a diffondersi rapidamente, la leggenda dei popoli rinchiusi venne a offrirsi da sè a una quantità di collegamenti varii, e a provocare soprattutto una serie d'identificazioni(delle quali alcune si sono già notate), di quei presunti rinchiusi con le tali o tali altre genti barbariche. Non si vede, a primo aspetto, quali ragioni potessero

provocare la identificazione di essi con gli apocalittici Gog e Magog; ma ragioni ci erano, e noi le troveremo più oltre. Noto intanto che nelle fantasie poteva, e doveva anzi, nascere una certa inquieta curiosità di sapere perchè quei popoli formidabili, di cui si annunciava l'irruzione irresistibile, aspettassero gli ultimi giorni per rovesciarsi sulla faccia della terra; quali ostacoli li trattenessero intanto, e impedissero loro di farlo prima; dove fossero propriamente le sedi loro. L'arcivescovo Andrea, già citato, dice di essi: "Quare sola quoque Dei manu et potestate coërceri dicuntur, ne toto terrarum orbe potiantur, suoque eundem imperio subiugent, idque usque ad Antichristi satanaeque adventum". Certo, la mano di Dio era più che bastante a frenare quelle generazioni bestiali; ma chiunque conosce l'indole e le inclinazioni della fantasia creatrice di leggende, della popolare e della non popolare, sa quanto essa si compiaccia ed abbisogni del concreto e del definito, e come volentieri sostituisca le cose ai concetti, i segni visibili e tangibili alle idee. La mano, o diciam più giusto, la volontà di Dio, era un ritegno troppo generico e troppo ideale, non atto abbastanza a prender forma nella fantasia; e come si sentì il bisogno di cingere di un muro, o di un vallo di fiamma, perchè non vi penetrassero gli uomini, il Paradiso terrestre, quando a ottener tale effetto il solo divieto divino bastava; così del pari si sentì il bisogno di cingere i popoli di Gog e Magog di ripari materiali, da' quali fosse loro fisicamente impossibile di uscire. E il giorno in cui, in una leggenda cheappunto narrava di genti indomabili e bestiali, si trovarono i ripari opportuni, si presero senz'altro e se ne fece quell'uso che la fantasia richiedeva. Così una nuova leggenda di Gog e Magog prendeva posto tra le leggende di Alessandro Magno; ma ciò avvertito in forma più generale, è d'uopo ricercare ora quali sieno i più antichi documenti di essa, quale il luogo ov'ebbe probabilmente a formarsi, e quali le ragioni particolari del suo nascere.

Il più antico monumento scritto, di data certa, in cui la nuova leggenda compaja è il Corano. Quanto alla pretesa Cosmografia di Etico Istrico, tradotta di greco in latino da San Gerolamo, e pubblicata dal Wuttke nel 1853, nella quale la leggenda nostra è narrata, io credo assai più sicuro farla posteriore che non anteriore al Corano, e però mi riserbo di parlarne più oltre. Nel Corano dunque si narra che Zul-Carnein, dopo essersi spinto fino al luogo dove tramonta il sole, tornò addietro, e giunse al luogo dove il sol nasce, e quivi tra due montagne trovò genti di cui a mala pena poteva intendere la favella, le quali lo pregarono di volerle ajutare contro i popoli di Gog e Magog che loro devastavano le

terre. Zul-Carnein promise di costruire un riparo che li proteggesse dai nemici. A tale uopo fattosi portare gran quantità di ferro, n'empiè il valico dei monti, e arroventata poi, con l'ajuto dei mantici, quella massa, e infusovi sopra bronzo liquefatto, costrusse un muro che per nessun modo quei di Gog e Magog avrebbero potuto superare o forare. Compiuta l'opera, lo stesso Zul-Carnein avvertì che, quando il tempo ne fosse venuto, prossimo già il giudizio universale, Dio disfarebbe il muro in polvere e tutti i popoli si confonderebbero.

Se non che Maometto nomina qui, non Alessandro Magno, ma Zul-Carnein, e se questo Zul-Carnein sia tutt'uno con Alessandro Magno, ovvero sia da lui interamente diverso, è questione che fu disputata a lungo, prima tra gli stessi scrittori maomettani, poscia, e sino a tempi recentissimi, tra gli orientalisti europei. Io non entrerò in questo ginepraio, ma noterò solamente, non richiedendosi di più al proposito mio, che il lungo processo della critica sembra avere ormai definitivamente confermata la opinione di chi nel Zul-Carnein o Bicorne del Corano, della rimanente letteratura arabica, e dei rabbini, riconosce lo stesso Alessandro Magno. Per quanto riguarda la discussione particolareggiata dell'argomento rimando il lettore agli scritti dei dotti che vi attesero di proposito.

Se nel Corano noi troviamo la nuova leggenda pienamente costituita, se anzi vi troviamo accennata, come or ora vedremo, la sua notorietà, almeno tra un popolo, abbiamo, parmi, più che sufficiente motivo per credereche nel VI secolo essa fosse già sorta. Certo Maometto non ne fu l'inventore; ma d'onde l'ebbe egli? Potrebbe dubitarsi se dai cristiani o dagli Ebrei, giacchè egli conversò con gli uni e con gli altri, e nella sua dottrina accolse credenze così di quelli come di questi; ma fu sua cura di togliere qualsiasi dubbio in proposito. Nel c. XXI si scorge chiaramente un riflesso dell'Apocalissi: ma quanto al racconto del c. XVIII, si avverte espressamente che deve servire a dar soddisfazione agli Ebrei, i quali sarebbero per fare a Maometto alcuna interrogazione intorno a Zul-Carnein. La leggenda era dunque una leggenda ebraica; vediamo in qual modo gli Ebrei, nei cui libri la ritroviamo, dovessero essere condotti ad immaginarla.

La leggenda primitiva dei popoli rinchiusi da Alessandro Magno, quella in cui Gog e Magog non figurano ancora, si diffuse certamente, qualunque fosse il suo luogo d'origine, non meno in Asia che in Europa, dove noi ne abbiamo ritrovati i documenti più antichi. A seconda delle

condizioni speciali di ciascuna provincia ov'essa penetrava, degli avvenimenti storici particolari che vi si svolgevano o vi si preparavano, delle apprensioni o dei timori ond'erano occupate le menti, doveva quella leggenda assumere varii aspetti, piegarsi a varie e mutevoli connessioni. In Europa era cosa naturalissima che i rinchiusi da Alessandro s'identificassero ora con una, ora con un'altra stirpe di barbari. In Gerusalemme stessa, d'onde San Gerolamo scriveva la citata epistola ad Oceanum, pare che fossero identificati con gli Unni. Ma questa doveva essere una identificazione temporanea, provocata dalla invasione, e che agevolmente poteva essere sostituita con altra, una volta l'invasione passata. Ora, in fatto d'invasioni, quella certo di cui in condizioni ordinarie più si dovevano preoccupare gli Ebrei era l'annunciata e inevitabile di Gog e Magog. Può darsi, cosa che dalle parole di San Gerolamo non appare, che in Giudea si credesse da taluno essere appunto gli Unni le genti di Gog e Magog; ma tale credenza facilmente cadeva quando vedevasi il seguito degli eventi non corrispondere alla profezia di Ezechiele. L'invasione di Gog e Magog era ancor da venire, e poichè gli Ebrei non conoscevano altre genti più scelerate e più degne d'esser divise dal resto della umanità che le genti di Gog e Magog, non era ad essi necessario un grande ardimento di fantasia per immaginare che queste e non altre fossero le genti rinchiuse da Alessandro Magno. A ciò si aggiunga che nella stessa profezia di Ezechiele gli Ebrei potevano credere di scorgere come un'allusione a quanto più partitamente si narrava nella leggenda di Alessandro, giacchè, parlando della invasione irresistibile dei barbari, questo profeta dice: I monti si fenderanno, precipiterannole rupi, sarà atterrato ogni muro.

Gli Ebrei non ebbero se non a lodarsi del modo onde furono trattati dal gran conquistatore, il quale, secondo che narra il loro maggiore storico, concesse loro parecchi privilegi e una parte della città di Alessandria, venerò il nome dell'unico Dio, onorò in singolar modo il sommo sacerdote, sacrificò nel tempio, lesse in Ezechiele che l'impero dei Greci succederebbe a quello dei Persiani, e molti Ebrei accolse nel suo esercito, i quali gli si erano spontaneamente profferti. Si può credere che Alessandro non abbia veramente fatte in pro degli Ebrei, o in onore della loro credenza, le cose tutte che qui si ricordano; ma quanto maggiore è in esse la parte della invenzione, tanto maggiore ancora è la prova della stima in cui gli Ebrei dovevano avere l'uomo a cui le attribuivano; nè a questa stima, che si può credere validamente fondata nella opinione

popolare, potevano recar detrimento grave gli avversi giudizii di alcuni rabbini, ai quali molti altri più se ne contrapponevano favorevoli. Non era egli naturale che gli Ebrei attribuissero a questo loro benefattore anche il serramento di Gog e Magog? E notisi che, sebbene sia, in generale, molto difficile dire quali elementi della leggenda di Alessandro Magno abbiano avuto origine tra gli Ebrei, gli è nullameno fuor di dubbio che parecchie finzioni di essa son opera loro, come, per citare un esempio, quella del viaggio dell'eroe al Paradiso terrestre.

Qual fosse propriamente la forma e l'indole della leggenda giudaica mi pare che si vegga in un racconto delle Revelationes dette di Metodio, racconto di cui, in grazia appunto di ciò, credo di dover fare ora parola, posto che l'ordine cronologico gli assegnerebbe altro luogo. Il narratore descrive anzi tutto la turpitudine e la bestialità delle genti di Gog e Magog, le quali sono use cibarsi di topi, di serpenti e di altri animali immondi, di feti abortivi, o non ancora formati nell'alvo materno, e non seppelliscono i morti, ma li divorano. Alessandro Magno, veduti i loro costumi, temendo che abbiano a riversarsi, quando che sia, sulla Terra Sancta, e a contaminarla, le spinge tutte verso il settentrione, e raccoltele fra i monti detti Ubera aquilonis, supplica Dio di volerlo ajutare, e Dio l'esaudisce, e in sulla uscita fa raccostare i monti alla distanza di dodici cubiti, e Alessandro chiude il passo con porte di bronzo rivestite di assurim(sic), di guisa che, nè col ferro, nè col fuoco si possono distruggere, e le stesse arti magiche e diaboliche, in cui quelle genti sono esperte, non possono nulla contro di esse. Con Gog e Magog sono da Alessandro rinchiusi altriventitrè popoli di pari essere, e, quando sia prossima la fine del mondo, usciranno tutti e conquisteranno la terra d'Israele, secundum Ezechielis Prophetiam quae dicit: In novissimo die consummationis mundi exiet Gog et Magog in terram Israel. Il pensiero che governa questo racconto è essenzialmente ebraico, e non lascia dubbio circa la fonte a cui Metodio, o chi per esso, lo attinse. Costui, sebbene cristiano, si direbbe che non abbia conosciuto l'Apocalissi. La sola ragione che muova Alessandro a rinchiudere i popoli abominevoli è il desiderio di liberare la Terra Sancta dal pericolo della loro invasione; la sola terra di cui si dica che sarà conquistata da essi quando usciranno alla fine del mondo, è la terra d'Israele. Per certo una leggenda cristiana avrebbe detto altrimenti, nè si sarebbe a questo modo occupata di soli interessi ebraici. Quello stesso vocabolo assurim, per quanto qui possa essere adoperato a sproposito, accenna a fonte ebraica, e così ancora la inesatta citazione di Ezechiele, nella quale noi ritroviamo alcune

particolarità della tradizione presentataci dall'Apocalissi, ma che l'Apocalissi stessa derivava da fonti ebraiche, cioè a dire la conversione di Gog in popolo e il rinvio della catastrofe alla fine del mondo.

La leggenda giudaica formata doveva, per ragione delle cose stesse narrate in essa, trovar facile accesso appo i cristiani, divulgarsi rapidamente, ed entrare, prima, o poi, nelle storie romanzesche di Alessandro Magno. Noi la troviamo nello Pseudo-Callistene; ma quando v'entrò? A tale domanda non si può dare sicura risposta, ma solamente probabile. Quando propriamente sia stato composto il romanzo che va sotto il nome di Callistene non è noto. Nella sostanza esso non è certamente posteriore al terzo secolo; ma molte favole ora contiene, le quali vi s'introdussero solamente più tardi, nelle rinnovazioni e nei rifacimenti cui andò soggetto. Nelle redazioni più antiche, in quella, per esempio, del codice Parigino Nº 1711(la recensione A del Müller), la nostra leggenda non si trova, come non si trova nella versione latina di Giulio Valerio, che il Mai stimò del terzo o quarto secolo, della fine del IV, o del principio del V, il Müller, molto più recente il Letronne, nè nell'Itinerarium Alexandri, e nemmeno nella versione armena pubblicata dai Mechitaristi in Venezia nel 1842, e giudicata da essi appartenere al V secolo; mentre nella versione siriaca la leggenda è solo narrata in una specie di appendice evidentemente aggiunta più tardi. La leggenda compare in due recensioni dello Pseudo-Callistene(indicate con B e C dal Müller) le quali non si possono far più antiche del VII od VIII secolo, e in cui sono inseriti parecchi altri racconti manifestamente ebraici; anzi l'una di esse(C) sembra essere operadi scrittore ebraico, o cristiano siriaco.

Nella recensione(B) presa dal Müller a base della sua edizione, la leggenda si presenta sotto una forma molto affine a quella che ci occorre nelle Revelationes, ed è Alessandro, che in una lettera alla madre Olimpia racconta tutto il fatto. Alessandro trovò molti popoli, i quali mangiavano carne umana e bevevano il sangue. Temendo non avessero a contaminare il mondo(non più la sola Terra Santa, come nelle Revelationes) invocò l'ajuto del cielo, e mosse loro guerra, e ne fece grande strage, conquistando il loro paese. I superstiti, fuggendo, giunsero tra due giogaje di monti(gli stessi Ubera aquilonis delle Revelationes), le quali spingono le cime oltre le nubi, e si stendono parallelamente, come due muraglie, verso il settentrione, sino al gran mare. Alessandro volse una fervida preghiera a Dio, e raccostatisi per divino miracolo i monti, chiuse l'uscita con una porta di bronzo larga

venti cubiti, alta sessanta, rivestita di una sostanza che resiste così al ferro come al fuoco, e dinnanzi alla porta alzò un riparo, costrutto di grandi pietre, anzi di rupi, ciascuna delle quali era alta venti cubiti e lunga sessanta, saldate con istagno e con piombo, rivestito il tutto di quella medesima sostanza di cui aveva già rivestita la porta, la quale chiamò Porta Caspia. Nè pago di ciò eresse a Oriente e ad Occidente altre due muraglie, e per tal modo rinchiuse quivi ventidue popoli coi loro re. Del loro prorompere al tempo dell'Anticristo non è fatta parola.

L'esame delle due versioni della leggenda, quali si hanno nelle Revelationes e nello Pseudo-Callistene mi pare conduca a questo giudizio, che tra esse non è dipendenza diretta, ma che tutt'e due vengono, mediatamente o immediatamente, da una medesima fonte; e se noi paragoniamo queste due versioni con quella del Corano dovremo dire che fra esse tutte vera diversità sostanziale non c'è, e che le differenze incidentali che vi si notano sono certamente dovute, sia alla incertezza ed instabilità stessa della tradizione, sia alla diversa natura dei libri che quella tradizione accoglievano, ed a cui bisognava pure che la leggenda in una certa misura si piegasse. Ad ogni modo, quello che si potrebbe addimandare il nucleo della leggenda, il rinserramento cioè di genti scelerate e nefande per opera di Alessandro Magno, si ritrova incolume in tutte e tre, e si può star sicuri che per questa parte le tre versioni riproducono fedelmente la leggenda quale si deve credere che già prima fosse nata in Giudea.

Se ciò si ammette, come pare a me che si debba ammettere, dovrà necessariamente giudicarsi spuria e depravata la versione che si trova nella già citataCosmographia di Etico Istrico, versione che non sembra essere passata in altre scritture, che certamente non visse in nessuna forma di tradizione, e che reca in fronte i chiari segni di una elaborazione fantastica in tutto personale. Nè a tale proposito importa di risolvere la questione della maggiore o minore antichità del libro, dappoichè non fu certamente esso a diffondere la nostra leggenda in Europa; anzi, vedendo che la leggenda non vi si diffonde se non nella forma delle Revelationes e dello Pseudo-Callistene, bisognerebbe congetturare(ed altri argomenti in appoggio non mancherebbero) che esso venisse in luce quando la leggenda era già divulgata in quella forma, e non lasciava più luogo a una versione sostanzialmente diversa. Ecco in breve il racconto del supposto Etico, di cui del resto non è sempre possibile cogliere il senso a pieno, e dove anzi è più di una contraddizione. I

Turchi, della stirpe di Gog e Magog, abitano in certe isole, o spiagge(rinchiusi?) fra monti, contro gli ubera aquilonis. Sono uomini ignominiosi, incogniti, mostruosi, pieni di ogni mal costume, usi a cibarsi di cose abbominevoli, i quali non si lavano mai, non conoscono nè il vino, nè il sale, nè il frumento, e adorano Saturno. Essi hanno in una grande isola dell'oceano una città vastissima e munitissima, chiamata Taraconta. Al tempo dell'Antecristo, che chiameranno deum dierum(deorum?), faranno grandi devastazioni cum semine pessimo eorum prosapia reclusa post portas Caspias. Chi avesse chiuso questo pessimo seme dietro le porte Caspie non è detto. Invano tentò più volte Alessandro di vincerli in guerra, e meditò di rinchiuderli con alcun ingegno, chè per la vastità del mare e la grandezza dei monti non gli venne mai fatto, e stette tutta la vita in grande pensiero di ciò, non sovvenendogli alcun buon provvedimento. Un guazzabuglio sì fatto si sottrae ad ogni critica. Noterò solo che, secondo la recensione B dello Pseudo-Callistene, Alessandro, compiuta la impresa contro Gog e Magog, si volse contro ai Turchi e agli Armeni, e ne uccise un gran numero insieme col loro re chiamato Can.

La leggenda che abbiamo sin qui esaminata, voglio dire la leggenda giudaica, si divulgò non meno in Europa che in Asia, passò in iscritture innumerevoli, e in breve tempo prevalse; ma non per questo la leggenda più antica, quella in cui Gog e Magog non comparivano ancora, fu in tutto dimenticata.

Non parlo della storia romanzesca di Alessandro Magno che va sotto il titolo di Historia de proeliis, riportata di Costantinopoli, nel X secolo, dall'Arciprete Leone, nella quale si ha un racconto dove i nomi di Gog e Magog, e delle altre genti rinchiuse non sono indicati; questo raccontoè nel rimanente quello stesso dello Pseudo-Callistene; ma Beniamino Tudelense dice nell'Itinerario che la regione degli Alani è cinta da monti altissimi, i quali non hanno altra uscita che le porte ferree costrutte da Alessandro Magno, e il falso Giosippo Gorionide racconta, stranamente parafrasando un passo già ricordato di Giuseppe Flavio, la storia seguente. Alessandro, temendo gli Alani, gente fortissima e irresistibile, li aveva chiusi tra i monti che cingono la lor terra, la qual cosa essi, non vaghi di cercare stranie contrade, lasciarono fare liberamente, sebbene fosse loro agevole d'impedirlo. Ma sopraggiunto un anno di massima carestia, non trovando nel proprio paese di che sfamarsi, essi pregarono gl'Ircani di voler loro aprire i passi, affinchè potessero uscire a

procacciarsi i necessarii alimenti. Acconsentirono gl'Ircani, ed essi, usciti, si volsero, predando e devastando, alla Media. Il prefetto del re dei Medi, non osando far resistenza, mandò ad offrir loro la pace, e s'impegnò di somministrare gli alimenti onde abbisognavano, a patto che non gli guastassero le terre. Gli Alani risposero di non volere da lui se non che li sostentasse per un mese, tanto che maturassero nella lor terra i prodotti, passato il quale avrebbero fatto ritorno alle case loro: non abbisognare d'altro essi, così diversi da ogni umano costume. Il prefetto, ringraziatili di loro buona disposizione, li nutrì tutto un mese(erano in numero di 755,140) di miglio cotto, e di carne di cani, asini, topi; purchè fosse carne essi si contentavano. Trascorso il mese, si mossero per far ritorno alle loro abitazioni, quando a Tiridate, re d'Armenia, venne in animo di affrontarli e di combatterli. Mal gliene incolse, perchè nella battaglia perdette trecentomila dei suoi, e poco mancò non rimanesse egli stesso prigione, mentre degli Alani non perì neppur uno. Dopo di ciò gli Alani tornarono indisturbati nella loro regione. Uditi tali casi l'imperatore Tito ebbe desiderio di sperimentare contro di essi la sua potenza, ma non potè, avendo perduto nella guerra giudaica il fiore delle sue milizie. Quanto qui si dice degli animali dati in pastura agli Alani rimanda al racconto delle Revelationes, o dello Pseudo-Callistene.

Ho detto che la leggenda in cui prendono posto Gog e Magog prevalse; ma, passando d'una in altra scrittura essa ebbe ad alterarsi, e alcuni tratti suoi furono in particolar modo esagerati, o conformati al sentimento e alla condizione dei varii popoli che raccolsero. Non entrerò a questo proposito in troppi particolari per non dilungarmi più di quanto l'opportunità richiegga; ma accennerò ad alcune tendenze che in successo di tempo si vanno svolgendo dentro alla leggenda, e ad alcune singole immaginazioni più degne di nota.

Abbiamo veduto quale orribile descrizione si facciadei popoli rinchiusi nelle Revelationes e nello Pseudo-Callistene. Tale descrizione trae senza dubbio la origine dall'odio che gli Ebrei dovevano nutrire per le genti incognite da cui tanti mali aspettavano; ma passata poi la leggenda nel dominio d'altri popoli, quella orribilità fu piuttosto accresciuta che diminuita, e alcuna volta finisce che i rinchiusi si tramutano in esseri addirittura fantastici. Spesso si trovano confusi coi pigmei o coi giganti. Edrisi dice che le genti di Magog sono di piccolissima statura, non oltrepassando i ventisette pollici. Hanno viso interamente rotondo,

grandi orecchie che loro cascano sulle spalle, e tutta la persona coperta di una specie di peluria. In un antico poema siriaco quei di Ogûg e Mogûg sono giganti di sei o sette cubiti, che si lavano col sangue, bevono sangue e mangiano carne umana. Goffredo di Monmouth chiama Goëmagot, o Gogmagot, un gigante di venti piedi, che con alcuni suoi compagni tenta di contrastare a Bruto il possesso di Albione. Nello Scià-namè di Firdusi si dice che quei di Gog e Magog hanno nera la lingua, nero il viso, gli occhi color di sangue, zanne simili a quelle del cinghiale, corpi pelosi, grandi orecchie da elefante, dell'una delle quali, quando si coricano, fanno guanciale e dell'altra coperta. Ciascuna femmina partorisce mille figliuoli. Corrono come onagri. In primavera si nutrono di serpenti e ingrassano; in estate di erbe e smagriscono; grassi, urlano come lupi; magri, la loro voce si fa tenue come quella dei colombi. Nel poema tedesco di Apollonio di Tiro, opera di Heinrich von der Neuenstadt, si trova una descrizione la quale, per mero caso senza dubbio, più di una volta si accorda con la descrizione di Firdusi. Gli uomini di Gog e Magog hanno nove piedi di altezza, dei quali sei nelle gambe, muso canino, tinto sotto gli occhi di verde e di giallo, con grande bocca, da cui esala un puzzo come di latrina. La voce loro è come di lupo, e sono così veloci nel corso che un cavallo non può seguitarli. Si cibano di lupi, di cani, e di carne umana.

Ibn Khaldun dice che quei di Gog sono di alta statura, e quei di Magog invece assai piccoli. Hanno poi, come pare, in comune, volto rotondo, zanne sporgenti, piccoli occhi, favella che rassomiglia a un sibilo, e il costume di divorarsi fra loro. In alcune descrizioni si dice per giunta, come nelle Revelationes, che essi sono cultori dell'arte magica, e in una delle tante redazioni delle epistole del Prete Gianni, che essi chiusero Alessandro in Macedonia, e lo misero in prigione.

Il paese di Gog e Magog è per lo più descrittocome degno de' suoi abitatori, inospite, selvaggio, sterile, esposto a tutte le intemperie e ai geli del settentrione, frequentato da mostri, traversato persino da un fiume infernale; ma alcuna volta esso è anche descritto come ubertoso e favorito di clima più mite. Edrisi dice il paese molto ben coltivato e i suoi abitatori provveduti di numerose greggi; ma poi soggiunge, citando l'autore del Libro delle Meraviglie, che per esso scorre un fiume, in fondo al quale arde un fuoco perpetuo, e in cui gli abitanti gettano i prigionieri, i quali, prima che abbiano tocco il fondo, sono rapiti da grandi uccelli, tratti in certe caverne e quivi divorati. Non aggiungo ora altre

particolarità circa il paese di Gog e Magog, perchè avrò da tornare quanto prima sull'argomento.

Del muro costruito da Alessandro Magno si parla in modo più o meno particolareggiato. Il racconto più diffuso a tale riguardo è quello di Firdusi, che, per altro, riproduce in sostanza il racconto del Corano. Alessandro, visitate le montagne, fece raccogliere in grandissima quantità rame, bronzo, calce, pietre, legname e tutto quanto richiedevasi all'opera. Dal mondo intero accorsero allora i muratori e i magnani, e quando tutto fu in pronto si diede mano al lavoro. La struttura del muro procedeva a questa guisa: prima si metteva uno strato di carbone, poi uno di ferro, e tra i due un po' di rame, e sopra il tutto dello zolfo; e quando il muro, largo dugento cubiti, ebbe raggiunta la sommità dei monti, ci si versò su un mescuglio di nafta e di burro, e accatastata in sulla cima gran quantità di carbone, si diè fuoco alla massa, e l'incendio fu promosso coi mantici da centomila fabbri ferrai. Ma Yakub parla solamente di una porta di ferro e di bronzo, lavoro di dodicimila operai, compiuto in sei mesi. Per contro nel Romans d'Alixandre di Lambert di Tors e Alexandre de Bernay il muro è di materiali ordinarii, ma

tant par fu bien sieriés que riens ne l' pot desfaire.

Quanta fede si desse, più particolarmente in Asia, alla esistenza di Gog e Magog e del muro che li rinchiudeva, mostra la seguente storia narrata da parecchi scrittori arabici, e fra gli altri da Ibn Khordadbeh e da Edrisi. Il califfo Wâttek billah vide una notte in sogno aperta la muraglia costruita da Alessandro. Spaventato da tale visione, chiamò Salam l'interprete, e gl'ingiunse di porsi in viaggio, di ritrovar la muraglia, e di recargliene preciso ragguaglio. A tal uopo gli diede cinquanta compagni con cento muli, gran quantità di denaro, e provvigioni per un anno. Salam e i compagni si pongono in viaggio,traversano varii paesi, e da ultimo una regione sparsa di rovine di antiche città, conquistate e distrutte dai popoli di Gog e Magog. Giungono finalmente a certi castelli prossimi alla muraglia, custoditi da uomini che parlano arabico e persiano, e ad una città popolata di musulmani. Due parasanghe più oltre trovano la muraglia, e su per una montagna, che domina un precipizio, una formidabile costruzione di ferro e di rame, con una porta di due imposte, alta cinquanta cubiti, larga cento. A venticinque cubiti dal suolo la tiene sprangata un catorcio dello spessore di un cubito, della lunghezza di sette. Ogni venerdì il comandante di quella fortezza, e dieci altri cavalieri, tutti armati di grevi magli, vanno a picchiare per tre volte

sul catorcio, affine di lasciar intendere a quei di dentro che la porta è ben custodita, e allora si ode, di solito, un rumore confuso, prodotto dalla folla raccolta dietro a quella. Lì accosto, in un campo trincerato di trecento miglia di superficie, si vedono ancora gl'istrumenti e parte dei materiali che servirono alla costruzione del muro. Interrogati da Salam se mai avessero veduto alcuno di quei rinchiusi, gli abitanti risposero d'averne veduti a più riprese sui merli del muro, e che una volta un vento impetuoso ne fece cadere tre dalla lor parte. Essi erano alti ventidue pollici allo incirca. Salam potè riportare al suo signore la consolante notizia che il muro di Alessandro Magno era ancora in buono stato e che nulla faceva presagire la prossima uscita dei popoli rinchiusi.

Vero è che i rinchiusi non si stavano con le mani in mano, ma si adoperavano come meglio potevano per uscire di prigionia. Il cronista Tabari, narrata la leggenda in termini che molto si accostano a quelli del Corano e di Firdusi, soggiunge un'assai strana notizia. Quei di Gog e Magog si affaticano senza posa per distruggere il muro metallico, ma non possono venirne a capo. Sprovveduti di più acconci utensili, essi vi lavorano intorno con le lingue, che hanno ruvide a modo di raspe, e leccando il muro un intero giorno lo riducono dello spessore di un guscio d'uovo. Allora, ristando dall'opera, gridano trionfando: Certamente domani noi lo avremo in tutto disfatto. Ma nella notte il muro racquista miracolosamente lo spessore di prima. E ciò si ripete tutti i giorni, e si ripeterà, finchè, essendo prossima la fine del mondo, uno dei rinchiusi, mosso da divina inspirazione, suggerirà ai compagni di non più dire al sopravvenir della notte: Certamente domani noi lo avremo in tutto disfatto; ma bensì: Domani noi lo disfaremo, se piace a Dio. E allora essi compieranno l'opera dasì gran tempo tentata invano.

L'opinione che i popoli di Gog e Magog fossero Sciti continua ad essere professata da molti anche in questo nuovo grado della leggenda, il grado, cioè della leggenda che ho addimandata epica. Ma altre identificazioni non mancano coi Goti, con gli Unni, con gli Ungheri, coi Turchi, alle quali mi basta accennare. Fra gli Ebrei ci fu persino chi identificò Gog e Magog coi Romani. Ma la opinione più curiosa, e più meritevole d'intrattenerci alquanto, è quella che confuse Gog e Magog con le dieci tribù che Salmanassar, o il suo successore Sargon, espugnata nel 721 innanzi Cristo Samaria, fece trasportare a settentrione della Mesopotamia, al di là dell'Eufrate. Una identificazione così fatta potrebbe apparire a prima giunta non da altro suggerita che

dall'odio dei cristiani contro gli Ebrei; ma se questa ragione non mancò, ce ne furono anche dell'altre. Assai per tempo si diffuse tra gli Ebrei la credenza che le dieci tribù vivessero in una regione remota ed incognita, d'onde farebbero ritorno al tempo del loro Messia. Questa leggenda si trova già interamente costituita nell'apocrifo quarto libro di Esdra. Quivi si narra che, trasportate al di là dell'Eufrate, le dieci tribù fermarono il proposito di segregarsi da tutte le altre genti, e di spingersi oltre in alcuna regione incognita della terra, dove gli uomini non avessero mai abitato, per ivi serbare incorrotti la religione e i costumi degli avi. Postesi in viaggio, giunsero dopo un anno e mezzo di cammino nelle nuove lor sedi, d'onde faranno ritorno alla fine dei tempi, per raccogliersi intorno al Messia, quando contro costui si congregheranno dalle quattro plaghe del mondo le genti. La leggenda ricomparisce nel XLII capitolo del Carmen apologeticum di Commodiano, dove il Messia è Cristo, e dove si dice che alla fine del mondo le dieci tribù torneranno dalla loro ignota dimora, vinceranno l'Anticristo Nerone, e libereranno Gerusalemme. Se la credenza avesse potuto prevalere nella forma datale da Commodiano, qualsiasi confusione tra Gog e Magog e le dieci tribù sarebbe stata impossibile, ed anzi si sarebbero avute tra i cristiani, come si ebbero tra gli Ebrei, due diverse leggende, l'una, del popolo malvagio e rinchiuso, destinato ad ajutar l'Anticristo, l'altra, del popolo virtuoso(rinchiuso, o non rinchiuso) destinato ad ajutare Cristo. Ma era assai difficile che la credenza prevalesse in quella forma. I cristiani, in generale, dovevano vedere mal volentieri che si desse a Cristo, nella fine dei tempi una milizia ebraica, ed essere, per contro, dispostissimi ad ammettere sul conto delle dieci tribù la stessa opinion degli Ebrei. Il Messia degli Ebrei pei cristiani non poteva essere se non l'Anticristo,e le dieci tribù che l'avrebbero seguitato prendevano necessariamente il posto di Gog e Magog, o si univano ad essi.

Nel medio evo questa leggenda assunse varie forme, giacchè, secondo certi racconti, Alessandro fu quegli che precisamente chiuse le dieci tribù; secondo altri, Alessandro le trovò già rinchiuse, ma saputo dell'esser loro, fece la clausura più rigorosa e più aspra. Lorenzo de Segura, dice nel Poema de Alejandro che il Macedone trovò gli Ebrei

Tras mas altas sierras, Caspias son llamadas.

Que fueras un portiello non havia y mas entradas.

Sono essi uomini sparuti e vili, non atti alle armi. Alla preghiera di Alessandro si congiunsero i monti; ma i rinchiusi usciranno prima della

fine del mondo e devasteranno tutta la terra. Il Mandeville dice che alla preghiera di Alessandro Dio fece serrare i monti tutto intorno alla regione dove erano gli Ebrei, salvo che da una parte, dov'è il Mar Caspio; ma per la via del mare, i rinchiusi, i quali fuori del proprio non conoscono altro linguaggio, non si attentano di fuggire. Gli Ebrei non posseggono altra terra in tutto il mondo, ed anche per quella pagano tributo alla regina delle Amazzoni, la quale fa molto bene custodire l'unico passo. Questo consiste in un sentiero angusto, che dura quattro leghe, e non vi si trova acqua, ma dragoni e serpenti ed altri animali velenosi in gran copia, tanto che non vi si può passare se non durante l'inverno. Se mai alcuno dei rinchiusi vien fuori non sa parlare con altre genti; ma tutti usciranno al tempo dell'Anticristo, per la qual cosa gli Ebrei di tutto il mondo imparano l'ebraico, sperando di potersi allora intendere con essi e guidarli contro ai cristiani. Qualichino da Spoleto dice che, secondo la opinione di alcuni, fra le genti rinchiuse da Alessandro Magno c'erano anche le dieci tribù. Nel Jüngere Titurel si parla degli Ebrei chiusi tra monti che superano in altezza l'arcobaleno; ma non si dice che Alessandro Magno fosse quegli che ve li rinchiuse. Ranulfo Higden dice, per contro, che venuto ai Monti Caspii Alessandro trovò i discendenti delle dieci tribù, i quali gli chiesero licenza di potersene uscire di là; ma egli, saputo come quivi fossero stati chiusi in punizione dei loro peccati, inclusit eos artius, molibus bituminatis aditum obstruens. Secondo un'altra opinione Alessandro Magno avrebbe rinchiuse, oltre alle genti di Gog e Magog, anche le dieci tribù. Teolosforo di Cosenza nega recisamente tutta la favola. Nel 1540 un supposto re di quegli Ebrei venne in Europa, andò a trovare Francesco I e Carlo V, cercò di guadagnar proseliti alla sua religione, e fu per ciò arso vivoin Mantova.

Non dev'essere confusa con la precedente un'altra leggenda secondo la quale l'imperatore Claudio, durante una gran carestia, fece espellere da Roma tutti gli Ebrei con molta parte della popolazione meno valida, e li fece chiudere in luogo recondito, dai quali rinchiusi poi discesero gli Unni.

§ III. La leggenda storica.

Sparsesi, verso il mezzo del XII secolo, in Europa, le prime nuove del Prete Gianni e della sua grande potenza, la leggenda di Gog e Magog non tardò ad avere nuove connessioni e nuovi ampliamenti. Questo principe era cristiano; il suo regno, di cui non bene si conosceva la

situazione, si stendeva sopra molta parte dell'Asia, e volentieri vi si comprendevano le terre incognite e remote di cui parlavano gl'itinerarii; di lui, e della condizione de' suoi paesi non poche meraviglie narravansi; era pertanto assai naturale che tra lui e le genti rinchiuse di Gog e Magog si stabilisse per tempo una qualche relazione. Così avviene che di Gog e Magog noi troviam fatta menzione in alcune delle epistole che si pretesero scritte dal Prete Gianni a sovrani di Europa.

Di tali epistole, che ebbero una straordinaria diffusione e furono tradotte in tutte le lingue, già parla nella sua Cronaca, all'anno 1145, Ottone di Frisinga. Ma nelle redazioni più antiche la leggenda di Gog e Magog non si trova per anche ricordata; essa penetra solamente nelle redazioni più recenti. In queste il Prete Gianni narra del rinserramento di quelle genti per opera di Alessandro Magno in modo conforme al racconto dello Pseudo-Callistene; ma aggiunge che esse sono soggette al suo dominio; e che egli se ne giova nelle sue guerre, facendo loro divorare i nemici, dopo di che le rimanda nelle lor sedi. Usciranno al tempo dell'Anticristo e soggiogheranno Roma e tutta la terra.

Ma la dominazione del Prete Gianni sopra le genti rinchiuse non doveva essere di lunga durata, e queste non dovevano aspettare la fine del mondo per fare la minacciata irruzione. Le prime mosse dei Tartari in sul cominciare del secolo XIII, e le rapide conquiste di Gengiscan, impressionarono profondamente la cristianità tutta quanta; le notizie confuse ed esagerate che ne giungevano, le descrizioni strane che si facevano di quelle genti e dei loro costumi, accesero le fantasie, e la paura ajutando, si credette che Gog e Magog fossero usciti dalle lor sedi, e avessero dato principio all'opera di devastazione. Il nome originale di Tatari fu modificato e se ne fece Tartari, suggerita l'alterazione dal Tartaro, d'onde pareva che i nuovi barbari dovessero esser venuti.

Le relazioni dei viaggiatori confermarono quella credenza. Giovanni del Pian dei Carpini, mandato nel 1245 da Innocenzo IV in Asia, con la missione didistogliere i Tartari appunto dalle loro scorrerie in Europa, e, dove fosse possibile, di convertirli alla fede cristiana, raccontò de' costumi loro, al suo ritorno, non poche cose le quali si accordavano con quanto si sapeva di Gog e Magog, tra l'altro che quando alcuno di essi veniva a morire i parenti si congregavano per cibarsi delle sue carni. Secondo quanto egli riferiva, il Can dei Tartari si sarebbe chiamato Cuynè o Gog, e suo fratello Magog. Guglielmo Rubruquis o Ruysbroeck, mandato da Luigi IX di Francia a prendere accordi col Gran Cane per una

futura crociata, confermò quanto dell'antropofagia aveva narrato il suo predecessore. Il Joinville dice, narrando di questa ambasceria, che i Tartari stessi raccontarono ai messi del re di Francia come il paese d'onde essi erano venuti fosse un gran deserto di sabbia, nell'ultimo Oriente, prossimo ai monti tra cui stavano rinchiusi Gog e Magog; e l'armeno Hayton conferma questa opinione dicendo nel suo Liber de Tartaris "Regio illa in qua Tartari primitus habitabant, est sita ultra magnum montem de Belgian, de quo monte fit mentio in historiis Alexandri". Marco Polo afferma che la porta costrutta da Alessandro Magno non fu fatta per trattenere i Tartari, i quali a quel tempo non esistevano ancora, ma bensì i Comani, e dice che i popoli di Gog e Magog, i quali egli pone nel regno del Prete Gianni, dalle genti vicine erano chiamati coi nomi di Ung e Mongul. Ma la leggenda aveva già identificato i Tartari con Gog e Magog, o con le dieci tribù di Ebrei che alla lor volta erano state identificate con questi. Federico II dice in una epistola a Enrico III d'Inghilterra che i Tartari sono discesi dalle dieci tribù rinchiuse da Alessandro Magno. Ricoldo da Montecroce riferita, nel suo Liber peregrinationis, questa medesima opinione, adduce alcuni argomenti in favore e contro di essa, e avverte che i Tartari stessi diconsi discesi da Gog e Magog: "Vnde ipsi dicuntur Mogoli, quasi corrupto vocabulo Magogoli". Il Villani l'accolse, ed essa penetrò anche in qualche versione dello Pseudo-Callistene e della Historia de proelis, come per esempio nei Nobili fatti di Alessandro Magno. Il Malvenda in principio del secolo XVII la sosteneva ancora.

E qui ci si fa innanzi un'altra immaginazione, di cui non saprei indicare la origine, ma che sembra essere nata in questo terzo stadio della leggenda, ossia della leggenda che io ho addimandata storica, giacchè si lega con la irruzione dei Tartari. Il muro e la porta, di cui abbiamo veduto in alcuni racconti crescere a dismisura la grandezza e la forza, non pajono più sufficienti a trattenerei popoli rinchiusi, e ad essi aggiungonsi certe trombe fatte costruire dallo stesso Alessandro Magno con tale artificio che investite dal vento suonano, e fanno credere a quei di dentro che un'oste numerosa stia sempre a custodia dei ripari. In nessuno degli scrittori orientali di cui ho potuto aver conoscenza si trova cenno di questo nuovo ingegno: solo il rabbino Giuseppe Kimchi, il quale fiorì nel XII secolo, ricorda nell'inedito suo commentario sopra gli ultimi profeti una immaginazione affine, dicendo di aver letto in certo libro che sulle mura di ferro della sua fortezza Alessandro pose certi simulacri di ferro anch'essi, con grande artificio operati, i quali percotendo senza

intermissione con magli e scuri tenevano in soggezione i rinchiusi. Il primo, per quanto io so, che faccia parola di quelle trombe è il già citato Ricoldo da Montecroce, il quale, narrando dei Tartari rinchiusi, dice che come alcuno di essi si appressava alla fortezza di Alessandro Magno, udiva tale un tumulto d'uomini e di cavalli, e tanto clangore di trombe, che esterrefatto fuggiva, e soggiunge: "Hoc autem erat artificio venti". I Tartari conobbero finalmente l'inganno e uscirono a questo modo. Uno di essi, cacciando, inseguiva una lepre. Incalzata dai cani, questa si rifugiò dentro la fortezza, e il Tartaro, trascinato dall'ardor della caccia, stava in dubbio se dovesse penetrarvi a sua volta, quando un gufo si mise a cantare sopra la porta. Allora il Tartaro disse tra sè: Non può essere abitazione umana là dove la lepre ripara e il gufo canta. E cercato il luogo, e scoperto l'inganno, tornò verso i suoi e disse loro che se essi acconsentivano a riconoscerlo per re, egli li avrebbe liberati. I Tartari uscirono liberamente, e da allora in poi ebbero in molto onore le lepri e i gufi, e delle penne del gufo usarono adornarsi il capo. Senza dubbio Ricoldo raccolse questa favola durante il suo viaggio in Asia, giacchè la prima parte di essa, quella dove si parla delle trombe, è viva ancora, o almeno era non molti anni fa, nella Russia meridionale.

Giovanni Villani racconta la storia altrimenti, e non dice nulla del cacciatore e della lepre. Le trombe che tenevano in soggezione i Tartari, turate dai gufi che presero a farvi dentro i lor nidi, cessarono a poco a poco di sonare. Giovanni Fiorentino trasporta di pianta nel Pecorone la narrazione di Giovanni Villani, e Fazio degli Uberti accenna in modo assai stronco, secondo il suo solito, alla leggenda, tanto che se di questa non s'avesse altrimenti notizia, non si potrebbe intendere il significato delle sue parole. A farmi credere che il primo a divulgare in Europaquesta favola delle trombe sia stato Ricoldo da Montecroce, sta il fatto che gli scrittori in cui noi la ritroviamo da prima sono italiani, e che solamente più tardi pare che anche fuori d'Italia se ne sia avuta cognizione. Nella famosa carta catalana del 1375, pubblicata primamente dal Buchon e dal Tastu, in uno spazio circoscritto dai Monti Caspii si vedono le figure di Alessandro Magno e di due Mori che suonano la tromba, accompagnate dalla scritta: Aquests son de metall, e aquests feu fer Alexandri, rey gran e poderos. Ai tempi del Mercator pare che più non si ricordasse l'idea primitiva della finzione, giacchè questo geografo nota nella sua mappa: Hic in monte collocati sunt duo tubicines aerei quos verisimile est Tartari in perpetuam vindicatae libertatis memoriam eo loci posuisse, qua per summos montes in tutiora loca commigrarunt.

Ciò che Ricoldo narra della lepre fuggente trova riscontro in parecchi altri racconti, i quali tuttavia discordano in vario modo dal suo. Il Mandeville e Giovanni d'Outremeuse dicono che al tempo dell'Anticristo i rinchiusi usciranno perseguitando una volpe. Notisi a tale proposito che secondo il racconto di Giorande, gli Unni, nati dal commercio di certe maghe scitiche o gotiche con ispiriti abitatori dei deserti, vissero lungamente nella solitudine, sulla costa orientale della Palude Meotide, finchè un giorno alcuni cacciatori, inseguendo una cerva, traversarono le paludi e conobbero altre terre e altre genti.

Fatto il Prete Gianni signore di Gog e Magog, e identificati poi Gog e Magog con i Tartari, bisognava che alla uscita di costoro la leggenda si acconciasse a far morire il Prete Gianni, o a fare almeno che gli antichi suoi soggetti trionfassero di lui. Qui abbiamo, a dir vero, l'incontro di tre leggende, la leggenda cioè di Gog e Magog, la leggenda del Prete Gianni e la leggenda particolare di Gengiscan, e dal loro congiungimento vien fuori una specie di appendice, sulla quale mi soffermerò appena. In molte cronache del medio evo si narra del fabbro Gengiscan, e del modo da lui tenuto per farsi signore dei Tartari, e poi delle varie sue imprese, il tutto non senza molte favole, come si può di leggieri immaginare. Secondo una di tali favole la prima sua impresa, quella che doveva spianar la strada alle altre, fu di assalire il Prete Gianni. Se non che circa i casi di questa guerra gli storici, o per dir meglio i favoleggiatori, van poco d'accordo. Ricoldo da Montecroce dice che i Tartari si divisero in tre torme, e che l'una di queste, capitanata da Gengiscan(Camiustan) invase il Catai, dove fu morto il Prete Gianni. Guglielmo Rubruquis, il Joinville, Marco Poloraccontano tutti della vittoria riportata da Gengiscan sopra il Prete Gianni; ma rientrando per altra via nella storia, Marco Polo identifica il Prete Gianni con Une Can, mentre il Rubruquis fa di Une Can un fratello del Prete Gianni. Secondo Giovanni del Pian dei Carpini, questi non soggiacque, ma respinse anzi l'esercito dei Tartari, guidato da un figliuolo di Gengiscan, valendosi a tale uopo di certe statue cave di rame, piene di sostanze infiammabili, espediente già adoperato da Alessandro Magno contro gli elefanti di Porro. E bisogna dire che questa fosse la versione più giusta, giacchè due o tre secoli dopo noi troviamo quel medesimo Prete Gianni(il quale, tra l'altre meraviglie, aveva anche nelle sue terre d'Asia la fontana di gioventù) a capo di un vasto e florido reame in Etiopia.

Se la identificazione dei popoli di Gog e Magog e dei Tartari fosse stata

universalmente accettata, la leggenda nostra avrebbe dovuto perdere gli antichi suoi nessi con le credenze correnti circa la venuta dell'Anticristo e la fine del mondo. Ma quella identificazione non fu da tutti accettata, e molti continuarono a credere che dietro ai ripari costrutti da Alessandro Magno il popolo formidabile descritto da Ezechiele, il popolo dell'Apocalissi, stesse aspettando l'ora segnata alla sua incursione. E forse qualche strascico della vecchia tradizione dura ancora tra i volghi d'Europa.

Veduto come avesse origine e per quali gradi si movesse la leggenda nostra; come, uscita dalla storia, si rannestasse alla storia, e come cercasse in varii modi di assestarsi sotto il rispetto etnografico, resta che noi diamo un rapido sguardo a quello che più particolarmente si può addimandare il mito geografico, il quale da me nelle pagine che precedono fu toccato appena. Sarò compendioso, non richiedendosi al proposito mio una trattazione troppo distesa e minuta.

§ IV. Il mito geografico.

Abbiam veduto che il Magog di Ezechiele doveva corrispondere alla parte settentrionale ed orientale dell'Armenia, divenuta stanza degli Sciti dopo la invasione. Nell'Apocalissi, per contro, non è nè designata, nè sottintesa nessuna regione particolare; le genti di Gog e Magog saranno congregate dai quattro angoli della terra; e questa senza dubbio sarebbe poi stata sempre la immaginazione corrente se la leggenda di Gog e Magog non si fosse scontrata con la leggenda di Alessandro Magno.

Nella nuova leggenda nata da questo congiungimento i popoli di Gog e Magog occupano una regione reale e assai ben determinata dell'Asia. Essi sono chiusi nelle gole del Caucaso, o al di là di questa giogaja di monti, e le Porte Caspie sono l'unico passo per cui si possa accedere a quella regione, od uscirne, passo murato e munito da Alessandro Magno. Se l'attribuzion deiripari ad Alessandro era in tutto immaginaria, i ripari a cui alludeva la favola esistevano veramente, ed esistono in parte tuttavia. Il muro di Alessandro altro non era che il muro di Derbent, chiamato dagli Orientali Sadd-i-Iskander, costruito, secondo alcuni scrittori, da Cosroe Anuscirvan, secondo altri costruito gran tempo innanzi, e poi restaurato da Yezdegerde II e da Anuscirvan. Parecchi viaggiatori occidentali parlano della città di Derbent come di città edificata da Alessandro Magno, e sul luogo stesso questa tradizione è

ancor viva. Certo si è che il muro servì in origine a quello scopo medesimo per cui più tardi se ne attribuì la costruzione ad Alessandro Magno, la difesa cioè dell'Asia centrale contro i barbari del Settentrione.

Assai per tempo nella tradizione i Monti Caspii presero il luogo del Caucaso, sia che allo scambio desse occasione la stessa loro prossimità, sia che il nome della Porta Caspia traesse più facilmente con sè quello dei primi che non quel del secondo. Ma alla lunga non era possibile serbare ai confini stessi della Persia, in regione troppo frequentata e cognita, la terra inaccessibile di Gog e Magog. In sul finire del VII secolo gli Arabi invasero l'Armenia e la Georgia, e traversarono il Caucaso senza nulla trovare di quanto le leggende narravano, e senza che il famoso muro di Alessandro Magno valesse a trattenerli. Allora fu pure giuocoforza trasportare questo muro e le genti che si supponevano da esso rinchiuse, in parte più remota del mondo; e da prima si trasportarono nell'Ural e nell'Altai, dove pare che nell'anno 844 andasse a rintracciarli Salam, e poi, allargandosi a mano a mano la zona delle terre cognite, sempre più verso Oriente e Settentrione, sino a toccar le spiagge del grande oceano che si credeva cingere tutta la terra. I geografi arabi ammisero per la più parte questa trasposizione, confermata poi dalla universale credenza del medio evo. Il modo proverbiale italiano in Oga Magoga accenna per lo appunto a regioni lontanissime, sconosciute e fuori d'ogni consorzio umano; ed equivale al dusqu'au Sec Arbre dei Francesi. Nel IX secolo Alfargani faceva cominciare, a oriente, il settimo clima dalla regione di Gog, ponendo questa agli ultimi confini della terra, dove poscia la ponevano anche Edrisi, Ibn-al-Vardi, Abu-Rihan e gli altri. Essa era bagnata dall'oceano che tutto cerchiava la terra, e si stendeva sotto quella misteriosa zona delle tenebre di cui tanto avevano favoleggiato gli antichi e di cui tanto ancora si favoleggiò nel medio evo.

Nulladimeno la più antica opinione, la quale poneva oltre il Caucaso, oppure oltre i Monti Caspii i popoli rinchiusi, non fu smessa interamente, tanto che in pieno secolo XV FraMauro doveva nei seguenti termini confutarla: "Alguni scrive che ale radice del monte Caspio, over pocho lontan, sono queli populi i qual, come se leze, sono seradi per Alexandro Magno. Ma certo questa opinion manifestamente è erronea, e da non esser sostenuta per algun modo, perchè certo l'è sì noto la diversità de le nation che habitano circa quel monte, ch'el non è possibile che tanta numerosità de populi ne fosse ignoti, cum sit che tute quele parte sono

assai domestege per esser frequentade sì dai nostri come da altre nation, che sono Zorzani, Grezi, Armini, Cercassi e Tartari, e molte altre generation de populi, i qual fano continuamente quel camin. Unde se questi populi fosse de li rechiusi credo che se queli ne avesse notitia ancora seriano a nui noti. Ma essendo questi tal populi ne la extremità de la terra, come ne son certissimamente informato, adevien che anchor tutte queste nation de sopra nominate non ne ha mazor notitia de nui. Perhò concludo che questi populi siano molto lontani dal monte Caspio, e siano, come ho dito, ne la extremità de la terra tra griego e tramontana, e sono circumdati da monti asperimi e dal mar ocean quasi da tre bande". Se non che c'era modo di conservare l'antica opinione senza urtare negli argomenti di Fra Mauro; bastava a tal uopo prendere i Monti Caspii, e il mar Caspio per giunta, e trasportarli di pianta nell'India, o in quella delle regioni dell'Asia dove paresse più opportuno di porre le genti di Gog e Magog, nè questa era impresa da spaventare i geografi del medio evo. Gervasio di Tilbury dice senza ambagi: "In India est mons Caspius, a quo mare Caspium vocatur, inter quem et mare Gog et Magog, ferocissimae gentes, a Magno Alexandro inclusae feruntur"; e questa opinione è poi seguitata da molti. Giova tuttavia fare osservare a tale proposito che all'India, nel medio evo, non si davano i confini che essa ha nella geografia moderna, e che la smania di far di Gerusalemme il centro del mondo portava come conseguenza la trasposizione, e più particolarmente il discostamento di molte regioni dell'Asia allora conosciuta. Ma secondo un'altra opinione, più universalmente accetta, i monti Caspii e il mar Caspio si trasponevano all'estremo limite settentrionale ed orientale dell'Asia. Allora il mar Caspio non facevasi chiuso, ma aperto e in comunicazione con l'oceano, conformemente alla credenza dei più degli antichi. Qui può essere inoltre ricordata la opinione che identificava il muro di Alessandro Magno con la gran muraglia della Cina, opinione seguita da parecchi fra gli Orientali, e fra gli Occidentali da Marco Polo e da qualcun altro.

Sarebbe cosaagevole raccogliere ed esporre qui le varie particolarità concernenti il paese di Gog e Magog, le quali si trovano nelle carte del medio evo; ma io credo che al proposito mio alcune poche e sommarie indicazioni possano bastare. Di solito il paese di Gog e Magog è rappresentato in forma di penisola, bagnata da tre parti dall'oceano, chiusa verso terra da una giogaja di monti. Ora esso si trova a oriente e ora ad occidente del mar Caspio; ma spesso ancora in tutto separato da questo. Qualche volta la penisola si vede cinta di monti anche dalla

parte del mare. In alcune carte la penisola è divisa in due distinte province, l'una abitata da Gog, l'altra da Magog; in altre la forma di penisola sparisce pur rimanendo molte altre particolarità. Più raro è il caso che il paese di Gog e Magog sia un'isola. In alcune carte, come, per esempio, in quella di Andrea Bianco(1436) Gog e Magog sono in una penisola non da altro separata dal Paradiso terrestre che da un golfo di mare. Non so se un tale raccostamento possa essere stato, almeno in parte, suggerito dall'idea che da quella plaga della terra dove Satana aveva pervertito Adamo dovessero uscire gli ultimi campioni di Satana e le milizie dell'Anticristo.