Arturo Graf

"Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo vol. I"

CAPITOLO I. La Gloria e il Primato di Roma.

Durante tutto il medio evo l'immagine dell'antica Roma, cinta dello splendore della sua gloria incomparabile, è presente alla memoria degli uomini.

Quanto più i tempi sono calamitosi, quanto più aspra la vita, tanto più sollecito e appassionato par che si drizzi il sentimento verso quell'indimenticabile paragone d'ogni grandezza, tanto più ardente pare che vi si appunti il desiderio. I destini di Roma non avevano pari nel mondo. Decaduta dalla signoria politica, vinta, conculcata, la città regina risorge armata di nuova potenza, e, fatta centro della fede, riconquista sui popoli un nuovo dominio, più sicuro e più formidabile dell'antico. La storia presente si ricongiunge alla passata: l'unità sussiste, turbata sì, ma non interrotta dagli esterni travolgimenti, e si manifesta, e s'impone agli spiriti. Restituito l'impero d'Occidente, si riprenderà come se nulla ci fosse stato di mezzo, la serie degl'imperatori, si crederà trasmessa direttamente in Carlo Magno, traverso ai despoti di Bizanzio, la potestà imperiale. Roma è piena delle proprie rovine, quasi ad ammonire altrui della caducità d'ogni cosa terrena; ma ferve tra quelle una vita nuova, che si spande all'intorno; e regna negli animi una credenza che Roma, sortita dalla divina provvidenza ad essere la reggitrice perpetua dell'uman genere, non può morire, ed è serbata a vedere la consumazione dei secoli. In mezzo alla crescente barbarie, tra il frastuono della vita disordinata e battagliera, nei silenzii dello spirito ingombrato d'ignoranza, la voce dell'antica città suona insistente come un richiamo e un segno di riconoscimento. Principio e fonte d'ogni potestà, Roma è il simbolo della universale cittadinanza, è la patria comune in cui tutti si riconoscono. Disfatta l'unità reale dell'impero,

sciolti i vincoli di soggezione che legavano i popoli conquistati alla città dominatrice, il sentimento di quella unità e di quella soggezione rimane vivo negli animi, e se ne genera come una tradizione di comunanza fra genti che seguiranno da indi in poi ciascuna il suo particolare cammino. Le antiche province dove si parla latino formeranno, sotto il nome di Romania, una specie di entità geografica ideale, e romani si diranno, di fronte ai barbari, gli abitatori di essa discesi dagli antichi soggetti di Roma, e romana sarà ciascuna lingua nata dalla variazione del latino rustico. Dalle invasioni dei barbari più e più secoli passeranno, sarà dileguato ogni vestigio della civiltà latina, nuovi interessi e nuove fedi avrannooccupato il mondo, e il fantasma di Roma, ritto in mezzo alla cristianità, trarrà pur sempre a sè, da ogni parte, l'ammirazione e l'ossequio. Gl'influssi che tacitamente essa diffonde formano come un'atmosfera morale in cui tutti respirano. L'ammirazione per gli uomini e per le cose cresce di giorno in giorno e diventa un culto, la poesia se ne ispira, la leggenda ne nasce.

La storia non presenta altro esempio simile a questo di sollecitudine viva ed universale per le cose d'una età passata e per una gloria irrevocabile. Giacchè qui non si tratta punto dell'interesse erudito che, per un esempio, muove noi moderni allo studio metodico delle forme più disparate dell'antica civiltà, a cui è al tutto estranea la vita nostra; nè quella sollecitudine somiglia punto all'entusiasmo misto di pedanteria che scalda il petto agli umanisti; ma è una sollecitudine ingenua, e direi quasi nativa, per cose che si credono appartenere ancora in qualche maniera al mondo dei vivi. Pel medio evo Roma non è solamente il passato, è ancora il presente e l'avvenire. L'impero esiste in diritto, e qualche volta anche in fatto, e una vaga speranza che i tempi felici e gloriosi possano ancora tornare non si spegne in tutto mai. È questa la speranza che accende l'animo e muove il braccio di Arnaldo da Brescia e di Cola di Rienzo.

Premesse queste brevi considerazioni generali, su cui non giova che io mi trattenga più a lungo, facciamoci ora ad esaminare un po' particolarmente come nel medio evo si ricordasse la grandezza di Roma, e quali sentimenti, e quali atti si generassero dal ricordo.

Anzi tutto la storia della città e dell'impero, benchè stravolta in mille modi e ammiserita, si rammenta sempre ed entra a far corpo con le cronache. La fondazione di Roma si ricorda come uno degli eventi massimi della storia della umanità, e con fantastica esattezza se ne

indica l'anno, il mese, il giorno e l'ora, e si notano gli astri che influirono nel suo nascere. Incuteva negli animi ammirazione e stupore quel crescere ed allargarsi di Roma da oscuri ed umili principii ad altissima signoria. Semenque processu temporis in arborem excellentissam crescens per universa mundi climata ramos suae viriditatis extendit, dice Rodulfo Colonna nel suo trattato De translatione imperii. Nei libri scritti in Italia durante il X, l'XI e il XII secolo i romani illustri sono frequentissimamente e con amore ricordati. La storia di Enea, del Pater Aeneas romanae stirpis origo, era una di quelle che il giullare doveva sapere a mente e recitare all'occasione. Tali reminiscenze, troppo vive e tenaci, potevano anzi offendere gli spiriti timorati. Nel X secolo Raterio da Veronasi lagna della vana scienza de' tempi suoi che più attendeva a ricordare la vittoria di Mario sopra Giugurta che non la vittoria di Cristo sopra il mondo, più Siface prigione che non Michele trionfatore del drago, più Scipione, Pompeo, Dejotaro e Catone che non Pietro, Paolo e Giovanni. Ma nè i suoi ammonimenti, nè gli altrui fecero frutto. Anzi le storie romane diventarono sempre più famose, e finirono per entrare largamente nelle raccolte di esempii che si propongono la edificazione dei fedeli. Dice Fra Guido nell'Antiprologo del Fiore d'Italia che i romani tutto il mondo di maravigliosi esempli hanno illuminato. Nei Gesta Romanorum i fatti veri o supposti della storia romana servono di tema a numerose moralizationes. I trionfi romani porgono spesso argomento a pietose ammonizioni in molti libri ascetici e non ascetici. Vero è che la mania moralizzatrice giunge a tale nel medio evo che non tralascia nessuna delle cose esistenti, tutte considerandole quali simboli di verità morali, e che però anche la storia pagana doveva essere da lei sfruttata; ma è pur vero che i fatti della storia romana avevano una propria virtù esemplare, la quale li faceva accogliere anche in opere dove quella mania non aveva luogo. Così Rodulfo Tortario, il quale fiorì in sul principio del XII secolo, nei nove libri dei suoi Memorabilia in circa 8000 versi trae dalle istorie di Roma un infinito numero di esempii.

Nè solamente si ricordavano le persone e l'opere, ma si cercavano ancora le memorie risguardanti in più particolar modo la città che i secoli e le molte vicende avevano tanto mutata da quella di prima. Carlo Magno, per testimonianza di Eginardo, custodiva nel suo privato tesoro una tavola d'argento su cui era incisa la pianta di Roma, e che lasciò poi per testamento alla chiesa vescovile di Ravenna. Copie di Regionarii e di luoghi di scrittori latini che parlarono di Roma, s'incontrano molto

frequentemente nei manoscritti.

Roma era la più nobile, la massima fra le città del mondo. Ciò che Ausonio aveva detto di lei: Prima urbes inter, divum domus, aurea Roma; ciò che di lei avevano detto tanti altri nel tempo antico, il medio evo fedelmente ripete, aggiungendovi anche di suo. L'epiteto di aurea le rimane come quello che più si conviene alla sua dignità. Aurea seguitano a chiamarla gli scrittori ecclesiastici, aurea la saluta Ermoldo Nigello, aurea è detta in una bolla plumbea di Papa Vittorio II(1055-1057), aurea spesso nei suggelli imperiali, aurea nel titolo stesso della Graphia urbis, di cui avremo a parlar più oltre. I nomi di mater urbis, di mater imperii, di domina mundi, le si danno anche con amorosocompiacimento, ma più sovente, e con manifesta predilezione, si usa quello di caput mundi. Questo doveva sembrare più d'ogni altro appropriato, dopochè, fatta sede della suprema potestà spirituale, Roma era divenuta più che non fosse mai stata in passato, la direttrice del genere umano. Queste due sacramentali parole si trovano in monumenti e documenti disvariatissima natura: negli scritti di Sidonio Apollinare, di Cassiodoro e di più e più altri autori della letteratura latino-cristiana, in suggelli di Enrico II, Corrado II, Lotario II, Federico II e Lodovico il Bavaro(1002-1347), dove una immagine prospettica di Roma è accompagnata dal verso famoso e tante volte ripetuto:

Roma caput mundi regit orbis frena rotundi;

su due monete coniate durante il tribunato di Cola di Rienzo, che si faceva chiamare liberator urbis, amator orbis, unendo in un solo pensiero la città e il mondo, ecc., ecc. Giovanni Caligator, che fiorì verso il mezzo del XIV secolo, comincia un carme De vita et passione SS. Apostolorum Petri et Pauli col verso:

Roma caput mundi, primo pastore beata;

e il distico:

Roma decus, mutata secus quam prima fuisti,

Roma caput mundi super omnes omne novisti,

si trova riportato in molte scritture. A quel titolo glorioso Alcuino raccosta la seguita ruina:

Roma caput mundi, mundi decus, aurea Roma,

Nunc remanet tantum saeva ruina tibi;

e il Petrarca chiama Roma nostro capo nella canzone famosa indirizzata a Stefano Colonna.

Ma questo titolo glorioso di caput mundi viene usato anche con intenzione derisoria da chi rinfaccia alla Roma dei Papi la rapacità o la corruzione dei costumi. Nei Carmina Burana si legge:

Vidi, vidi caput mundi

instar maria et profundi

'vorax guttur siculi;'

e

Roma caput mundi est, sed nil capit mundum.

Il primato di Roma è riconosciuto da tutti, Italiani e non Italiani. Vulgario, nel X secolo, così lo afferma:

Roma caput mundi, rerum suprema potestas,

Terrarum terror, fulmen quod fulminat orbem,

Regnorum cultus, bellorum virida virtus,

Immortale decus solum, haec urbs super omnes.

Nel Roman de Rou si dice:

De Rume oi Hasteins parler

E Rume oi forment loer,

Qu'en tut le munt, a icel iur,

N'aveit cita de sa valur;

e Fra Guido nel Prologo del Fiore d'Italia così ne parla: "Piena(l'Italia) delle più nobili cittadi e delle più nobili terre marine e terreste, che siano in tutto il mondo; ed in mezzo d'essa è l'alta città di Roma, ove Iddio pose tutta la potenzia umana spirituale e temporale, cioè lo papato e lo impero". Martino da Canale non si accorda certo col comune sentimento quando osa dire Venezia la più bella città del mondo: .... la noble Cite que l'on apele Venise, qui est orendroit la plus biele dou siècle.

Un segno di primato si credeva scorgere anche nella formadella città, che si diceva essere quella di un leone. Onorio Scolastico dice nel Liber de imagine mundi: "Antiqui civitates secundum praecipuas feras ob significationem formabant. Unde Roma formam leonis habet qui caeteris bestiis, quasi rex praeest. Huius caput est urbs a Romulo constructa, lateritia vero aedificia utrobique disposita, unde et lateranis dicitur. Brundisium autem cervi formam, Carthago bovis, Troia equi figuram habuit". E Gervasio di Tilbury: ".... ad formam leonis ob insignem sui dominationem formata... Habet ergo Roma formam, ut dixi, Leonis, sicut

Brundusium, ecc.". Lo stesso dicono Galvagno Fiamma ed altri. Qualche rara volta il primato si dà a Troja, ma per eccezione. Anzi il concetto che si ha del primato romano è tale che in Roma s'immagina quasi tutta raccolta l'antichità, e che il nome di Roma serve a designare l'antichità tutta quanta. Nella poesia epica francese del medio evo la matiere de Rome la grant comprende, non solamente le storie romane, ma le greche ancora, come la storia della guerra di Troja, e la storia favolosa di Alessandro Magno, e le altre tutte che, appo gli storici di quella poesia, formano il così detto ciclo dell'antichità. Giovanni Bodel nella seconda metà del XII secolo scriveva:

Ne sont que trois matieres a nul hom entendant,

De France, de Bretaigne et de Rome la grant,

dove per matieres de France e de Bretaigne s'intendono le storie del ciclo carolingio e del ciclo bretone. E nel Dit de Flourence de Rome sono questi versi:

Douce gent, ès croniques de Saint-Denis en France

Voit-on moult de merveilles; mais sachiez sans doutance

Celles de Romme sont de trop plus grant sustance.

Rutilio Numaziano aveva già detto, apostrofando Roma:

Fecisti patriam diversis gentibus unam,

. . . . . . . . . . . . . . . .

Urbem fecisti, quae prius orbis erat.

Il papa Zaccaria era forse mosso da questo pensiero quando, l'anno 741, fece dipingere nel triclinio Lateranense una descriptionem orbis terrarum.

Altro documento della dignità di Roma si ricorda, con la scorta di antichi scrittori, che la città aveva tre nomi, uno volgare, uno arcano, uno sacro, e del nome dei romani si dice che significa sublimi ovvero tonanti.

Dopo ciò non è a maravigliare se l'ammirazione inspirata da tanta grandezza e da così alti destini si esprime nelle più svariate forme, e con parole, e con atti. Sanno tutti quale rispetto la maestà e il nome di Roma incutessero negli stessi barbari invasori. Gundebaldo e Odoacre ambiscono e ottengono il patriziato; Teodorico va superbo del titolo di console e di quello di proconsole Clodoveo. Il longobardo Autari si faceva bello del nome di Flavio e i dottidella corte di Carlo Magno volentieri

usurpavano, per fregiarsene, i nomi di Orazio e di Ovidio. Un san Virgilio del secolo VII adorna il calendario della Chiesa irlandese.

Si potrebbe riempiere un grosso volume dei luoghi di scrittori che nel medio evo levarono a cielo il nome e la gloria di Roma; siami concesso di recarne qui alcuno. Alessandro Neckam, che fioriva nella seconda metà del XII secolo, così ne parla nel poema De laudibus divinae sapientiae:

Primitus Europae mea pagina serviet, in qua

Roma stat, orbis apex, gloria, gemma, decus.

Urbe titulis claris tam laetis clara triumphis,

Quondam bisseno Caesare tuta fuit.

Haec genuit Magnum tam magni nominis, Eurus

Imperio vidit regna subacta suo.

Haec genuit Brutum, qui victor ab urbe tyrannum

Expulit, iste pater urbis et orbis erat.

Victorem Magnum genuit Carthaginis altae,

Fulsit in hac geminum sidus uterque Cato.

Urbe Boethius hac consul, Symmachusque senator

Fulsit, sub Fabio consule laeta fuit.

Quis non miretur linguam Ciceronis, et ausus

Tantos, eloqui maximus auctor erat.

Artis rethoricae fuit arx, fons, manna, columna;

Cessit et invitus huic Catalina ferox.

Clarus avos fulsit hac urbe Sallustius, isti

Par aliquis, nemo major in urbe fuit.

E così seguita per molti altri versi predicando le lodi dell'antica Roma, ma poi soggiunge il biasimo che si merita Roma papale. Nè men caldo di entusiasmo è il linguaggio che Amato di Monte Cassino(morto nel 1093) usa nel poema da lui composto in onore di san Pietro e Paolo:

Orbis honor, Roma splendens decorata corona

Victorum regum, discretio maxima legum,

His simul et multis aliis redimita triumphis

O victrix salve; cuius super ethera palme

Pulcre scribuntur, et quam colit undique mundus.

Que vox, quis sapiens, vel que facundia verbi

Quisque tuas laudes poterit replicare poeta?

Grecus et Hebreus, si barbarus atque Latinus

Hec pertemptarent, tantus labor hos maceraret.

Gratia que terra poterit vel inesse potestas,

Quam tua precellens dominatio non sit adepta?

Tu retines sceptrum super omnia sceptra timendum,

Tu nosti gentes armis redomare furentes.

Que sis, quam prestane Cicero dictamine narrat,

Cui similis nullus describitur atque secundus.

Et Livius Titus, Lucanus in ense peritus

Egregiusque Maro magnusque poemate Naso,

Et vir mirificus Varo quem fovet iste Casinus,

Et plures de te scripserunt plura poete.

Ex te qui cunctum meruere subdere mundum,

Et processerunt ex te qui iura dederunt.

Tu titulum dextra gestas et dona sinistra:

His concedis opes, his et largius honores,

Hec quia magna facis mundi regina vocaris.

Chi così parlava aveva certo innanzi agli occhi della mente l'immagine di Roma antica assai più che non quella di Roma papale. Alessandro Neckam fu abate di Cirencester, Amato fu abate di Monte Cassino, ma lo spirito che scalda le parole di questi due ecclesiastici quando parlano di Roma, è interamente laico. Nel codice testècitato della Biblioteca regia di Bruxelles, in un elenco di città d'Italia con cui si dà principio a un Liber variis historiis compositus, di Roma così si ragiona: "Sequitur omnium nobilior, ditior atque potentior Italia generaliter tota, quam quidem plurimi non solum descripsere, sed laudabiliter ac triumphabiliter cecinere philosophi, tam greci, quam et latini; nec incongrue, quippe totius mundi monarchiam, obsequiumque orbis ac plenitudinem sola in domina et regna omnium urbium Roma sortita est".

L'onore di Roma rifluisce su tutta Italia. Fra Guido nel Prologo del suo Fiore, spiega a modo suo il nome di Magna Grecia dato già in antico all'Italia. "E se altri domandasse perchè fu chiamata la Gran Grecia, dico che fu, non perchè sia maggior terreno che l'altra Grecia, ma perchè più

nobil gente di vita, di costumi e d'ingegni e d'arme fu sempre in Italia, che nell'altra Grecia, ed anche perchè ella è la più nobile patria che sia nel mondo". Non si può più risolutamente affermare la precellenza del gentil sangue latino. Che se ci appressiamo a quell'estremo confine del medio evo dove già principia il rinascimento, voci ben più possenti e più clamorose ci soneranno allo incontro. Leggasi ciò che Dante con la solennità consueta scrive della città predestinata nel cap. 5 del trattato IV del Convivio: "E certo sono di ferma opinione che le pietre che nelle mura sue stanno siano degne di reverenzia; e 'l suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per gli uomini è predicato e provato". Leggasi ciò che il Petrarca scriveva da Avignone a Giacomo Colonna, quando non ancora aveva visitata Roma e ardeva del desiderio di visitarla: "De civitate, inquam, illa, cui nulla similis fuit, nulla futura est; de cuius populo scriptum legimus: magna est fortuna populi romani, magnum et terribile nomen; cuius sine exemplo magnitudinem, atque incomparabilem monarchiam futuram praesentemque divini cecinerunt vates". Lo stesso Petrarca nella epistola 1ª a Carlo IV introdusse Roma a celebrare le proprie sue glorie. E a compiere la triade non si mostra da meno il Boccaccio che alla glorificazione di Roma tutta consacra la canzone che comincia:

O fior d'ogni città, donna del mondo,

O degna, imperiosa monarchia.

Le ricordanze che si serbavano dell'antichità suggerivano naturalmente questi pensieri; ma ad accrescere il gran concetto che si aveva di Roma giovavano inoltre non poco le scoperte non infrequenti di monete, di statue e di vasi preziosi, e le maestose rovine sparse su tutta la faccia dell'Europa.

Così ammirata e magnificata Roma diventa come il natural paragone di ogni umana grandezza. Le città andranno a gara per potersi fregiare, quasi titolo singolare di nobiltà, del nome di Nova Roma, o di Roma secunda;e prima si farà chiamare Nova Roma Bizanzio, e poi, nei tempi a cui è più particolarmente volta la nostra attenzione, si glorieranno di potersi così chiamare Aquisgrana e Treveri, Milano e Pavia. È noto come, a cominciare dal IV secolo, Milano acquistasse, per le condizioni dell'impero, tanta importanza da far ombra a Roma. Se si dovesse prestar fede a certi racconti, un proconsole Marcellino avrebbe fatto scolpire sopra le porte di Milano i versi seguenti:

Dic homo qui transis, dum portae limina tangis:

Roma secunda vale, Regni decus imperiale;

Urbs veneranda nimis, plenissima rebus opimis,

Te metuunt gentes, tibi flectant colla potentes,

In bello Thebas, in sensu vincis Athenas.

Quattro versi che esprimono gli stessi concetti quasi con le stesse parole si leggevano, nel secolo XV, sopra una delle porte di Pavia. Accostarsi a Roma come al supremo termine della gloria, e coprirsi di un lembo della sua porpora, tale è il pensiero che suggerisce questi ed altri simili vantamenti.

Il sentimento e l'amor della gloria non erano così scarsi e così freddi nel medio evo come da taluno si va dicendo. La fede e la sapienza che da lei s'inspirava, raccomandavano, è vero, il disprezzo dei beni e delle grandezze della terra, ma non riuscivano a soffocare le naturali cupidigie dell'anima umana, nobili od ignobili che fossero. Poter essere paragonato a qualcuno di quegli illustri figliuoli di Roma, fulmini di guerra, o maestri d'ogni dottrina, i cui nomi avevano vita immortale nelle storie, stimavasi lode maggiore d'ogni altra, e l'adulazione, più ingenua che servile, alcune volte la largiva con manifesto compiacimento. Quando il Poeta Sassone vuol celebrare nel più degno e solenne modo l'alte virtù e i gran fatti di Carlo Magno, ecco in quali parole prorompe:

Ob hoc, mirificos Karoli qui legeris actus,

Desine mirari historias veterum.

Non Decii, non Scipiadae, non ipse Camillus,

Non Cato, non Caesar maior eo fuerat;

Non Pompeius huic merito, vel gens Fabiorum

Praefertur, pariter mortua pro patria.

Quando Fra Guittone d'Arezzo rimprovera ai suoi concittadini la miseria in cui da felice e glorioso stato precipitarono per lor colpa, ecco in qual forma esprime il suo pensiero: "O miseri, miserissimi, disfiorati, ove è l'orgoglio e la grandezza vostra, che quasi sembravate una novella Roma, volendo tutto soggiogare il mondo? e certo non ebbero cominciamento gli Romani più di voi bello, nè in tanto di tempo più non fecero, nè tanto quanto avevate fatto, e eravate inviati a fare, stando a comune".

Città e popoli si studiano di tenersi stretti a Roma quanto più possono, credono e fanno credere ad antiche alleanze, a guerre combattute

insieme, a glorie e a trionfi comuni. Se v'è unatradizione che secondi comechessia tale vaghezza, non si lascerà perire; se nulla sussista che paja far testimonio di quel venturoso passato, si serberà come preziosa reliquia. Roma, com'è fonte di ogni diritto, così ancora di ogni nobiltà. Nei tempi di sua maggiore prosperità e potenza Siena ostenta il titolo di colonia Romana, e dinnanzi alla sua cattedrale una colonna regge la lupa coi gemelli. Il municipio romano rivive forse nel nostro comune. L'ordo e la plebs sussistono ancora durante la dominazione dei Longobardi in molte città della media e della inferiore Italia, e a molte più tardi diventa impresa comune il sacro e solenne Senatus populusque. Si continua a conferire il patriziato. Nella incoronazione degl'imperatori, nell'ordinamento della loro casa civile e militare, nella forma degli atti loro, si cerca di conservare, quanto è più possibile, le antiche costumanze imperiali.

L'ammirazione detta i raccostamenti, e i raccostamenti fanno nascere il desiderio delle origini comuni. Città, o nazione, per potersi dar vanto di vera nobiltà, bisogna aver avuto comuni con Roma i principii, bisogna essere usciti d'onde i romani uscirono primamente, avere nelle vene un sangue con essi; oppure derivare, propaggine di nobilissima pianta, dalla stessa Roma, dagli stessi suoi abitatori. Quando si vedono nel medio evo popoli diversissimi per lingua e per costume, alcuna volta anzi divisi da lunga e indimenticabile inimicizia, far risalire sino a' Trojani le proprie origini, non è possibile d'ingannarsi circa il sentimento che a ciò li muove. Venir dai Trojani, vuol dire essere consanguinei dei Romani, e però nobili e illustri quant'essi. Che cosa poteva importare ai Franchi, ai Bretoni e ai Danesi, di Troja e dei pochi scampati alla sua ruina, se Troja non fosse stata la madre di Roma, se da quegli scampati non fosse venuto il popolo romano? Dimostrata la comune origine, i barbari non sono più i barbari. Gotofredo da Viterbo dice nel suo Speculum Regum:

In duo dividimus Troiano semine prolem:

Una per Ytaliam sumpsit diademate Rome,

Altera Theutonica regna beata fovet.

I nemici di un tempo si scopron fratelli:

Romanum fore Troianum natura fatetur,

Germanus patriota suus fraterque videtur,

Troia suis populis mater utrique fuit.

Questa fratellanza fa sembrare più legittimo il trasferimento della

potestà imperiale.

Nasceva tutta una serie di leggende parallele. Come Enea in Italia, così giungeva Franco, o Francione, figlio di Ettore, dopo l'eccidio di Troja, in Germania. Da lui traggono l'origine i Franchi. Fredegario fa derivare a dirittura i Franchi dalla quarta parte degli abitanti di Troja distrutta; i Gesta Regum Francorum li fan venire dall'avanzo dell'esercito Trojano sommante a circa 12,000 uomini. Priamo, ultimo figlio di Priamo il vecchio, giunge con grande moltitudine in Ungheria e fonda la cittàdi Sicambria. Paride fonda Parigi, e Gallo, suo socio, Gallia, che poi dà il nome a tutta la regione. Da Colono e da Maganzio hanno principio Colonia e Magonza. Bruto, nipote di Enea, espulso dall'Italia, giunge in Bretagna, che da lui riceve il nome. In Italia, oltre Padova, cent'altre città si gloriano di trojane origini.

Ma e in Italia e fuori molte pur se ne trovano che stimano gloria uguale, se non maggiore, trarre l'origine dalla stessa Roma. Non parlo di quelle cui tale origine è dalle storie debitamente riconosciuta, ma di quelle che se la usurpano. Aquisgrana si diceva fondata da un Grano, fratello di Nerone; Perugia da un Perus romano. Pisa pretendeva d'essere il luogo dove si pesavano (quindi il nome) i tributi che dalle varie province si mandavano a Roma, ecc. Il cronista Giovanni d'Outremeuse, instancabile raccoglitore di ogni maniera di favole, parla della città di Nimay in Germania, fondata da Numa Pompilio, e di cinque altre città, similmente in Germania, fondate da Tarquinio il Superbo.

Non mancano tuttavia esempii di città che pretendono farsi più antiche, e però più nobili di Roma. Anteriore alla Roma romulea si vantarono Genova, fondata da Giano, Ravenna, fondata da Tubal, Bologna, fondata da Felsino(Felsina), ampliata da Buono(Bononia). Secondo che narra Galvagno Fiamma, Milano fu edificata 932 anni prima di Roma. Brescia si vantava fondata da Ercole, Torino da Fetonte; persino Chiusi si reputava più antica di Roma. Ma di tutte le città d'Europa la più antica, secondo gl'italiani, era Fiesole, secondo i Tedeschi, Treveri .

Se intere città pretendono di trarre da Roma l'origine, non mancheranno famiglie patrizie, e persino dinastie, che cercheranno in qualche romano illustre il primo loro stipite, o si spacceranno per diretta e legittima discendenza di qualcuna tra le più famose famiglie romane. I Frangipani, i conti di Pola, altri, si gloriavano di discendere da Ottavio Manilio, morto alla battaglia del Lago Regillo. Gli Uberti di Firenze si dicevano discesi da Catilina. I Colonnesi facevano risalire sino a Giulio

Cesare la loro prosapia. Altre famiglie Romane provvidero in egual modo, o anche meglio, alla dignità propria. I Savelli si vantavano d'essere stati con Aventino, re degli Albani, in soccorso del re Latino contro Enea. Dei Conti pensavano alcuni che discendessero dai primi re d'Italia, ma più sicuri scrittori li facevano venire dalla gente Anicia, che fu quella di Giulio Cesare. La famiglia Cesi, discesa da Ceso, nipote di Ercole, e re degli Argivi, sin dai tempi della repubblica aveva dato a Roma molti uomini insigni; e antichissimi ancora fra i Romani erano gli Anguillari, sebbene la loro prosapia "sotto altro nomefosse vissuta". Dalla gente Anicia similmente si fecero derivare gli Absburgo, e secondo il Chronicon Rastadense, compilato nel secolo XV, tutti i lignaggi dei re, duchi, conti e baroni di Alemagna e di Germania vengono da Ottaviano Augusto.

La grandezza e felicità di cui Roma aveva più particolarmente fruito nei tempi migliori della repubblica, e sotto il glorioso reggimento di Augusto, considerate a tanti secoli di distanza, e dal mezzo di una età piena di turbamento e di travaglio, non solo incutevano maraviglia e rispetto, ma naturalmente ancora facevano nascere di sè un desiderio fervido e generoso che più di una volta si tradusse in azione. Crescenzio, Arnaldo da Brescia, Cola di Rienzo pagarono con la vita i loro sogni di repubblica. Se un principe saggio e magnanimo sparge sopra il suo popolo i benefizii del buon governo, si crederanno prossimi a tornare, o già tornati, i tempi venturosi dell'antica Roma. Così Nasone, parlando, nell'ecloga poc'anzi citata, dell'era di felicità che novamente arride al mondo sotto il paterno reggimento di Carlo Magno, esclama:

Rursus in antiquos mutata saecula mores;

Aurea Roma iterum renovata renascitur orbi.

La rinnovazione dell'impero cresceva forza alle accarezzate speranze; ma il più delle volte tale è la reale condizione delle cose, che più che al desiderio non lascia luogo, e questo tanto più vivo e più impaziente quanto più la realtà si mostra disforme dal sogno. Presso Sutri i legati di Roma invitavano Federico Barbarossa a ricondurre gli antichi tempi, a difendere i sacri diritti della eterna città, a far piegare novamente sotto la imprescrittibile autorità di lei la mala tracotanza del mondo: ricordavano come in antico, per la saviezza del senato, per il valore dei cavalieri, Roma avesse esteso la sua dominazione sopra tutte le genti. In una poesia goliardica la stessa Chiesa invoca i Catoni e gli Scipioni perchè sorreggano le sue vacillanti colonne, e tutta la poesia dei Vaganti

è piena del rimpianto e del desiderio del tempo andato. Appena si presentava il destro di rimettere alcuna istituzione antica, o alcun antico costume, si rimetteva, senza punto avvertire che la diversità dei tempi non consentiva a sì fatte rinnovazioni nè lunga durata, nè prospero evento. Federico II, vinti nel 1237 i Milanesi a Cortenuova, mandava a Roma il Carroccio, e faceva intendere ai Romani di volere il trionfo secondo il costume dei Cesari antichi. Restituito nell'anno 1143 il Senato, di cui nei tempi anteriori poco più sussisteva che il nome, rinnovata per opera di Cola di Rienzo la repubblica, si dava principio a una nuova èra, quasi si fosse rifatto il mondo.

Ma un sentimento che si leva sopra tutti gli altri, oche tutti gli altri accompagna, si è quello di una profonda tristezza e di un vivo rammarico al cospetto della formidabile rovina di Roma. Già Gregorio Magno, quel Gregorio a cui la storia e la leggenda concordi imputarono, a torto, credo, devastazioni non osate dai barbari, piange amaramente in una sua celebre omelia lo sterminio della Città, e ad essa collega la fine del mondo. Potrei di leggieri moltiplicare le citazioni e le testimonianze, ma, poichè dovrò tornare nel seguente capitolo sopra questo stesso argomento, mi terrò pago ora di riportar per intero un carme elegiaco d'Ildeberto di Lavardin, vescovo Cenomanense, morto fra il 1130 e il 1140, carme che da taluno fu creduto opera di poeta classico, e che godette nel medio evo di molta celebrità. Eccolo, ridotto a lezione più corretta che non sia la comune:

Par tibi, Roma, nihil, cum sis prope tota ruina;

Quam magni fueris integra fracta doces.

Longa tuos fastos aetas destruxit, et arces

Caesaris et superûm templa palude jacent.

Ille labor, labor ille ruit quem dirus Araxes

Et stantem tremuit et cecidisse dolet;

Quem gladii regum, quem provida cura senatus,

Quem superi rerum constituere caput;

Quem magis optavit cum crimine solus habere

Caesar, quam socius et pius esse socer,

Qui crescens, studiis tribus, hostes, crimen, amicos

Vi domuit, secuit legibus, emit ope;

In quem, dum fleret, vigilavit cura priorum:

Juvit opus pietas hospitis, nuda, locus.

Materiem, fabros, expensas axis uterque

Misit, se muris obtulit ipse locus.

Expendere duces thesauros, fata favorem,

Artifices studium, totus et orbis opes.

Urbs cecidit de qua si quicquam dicere dignum

Moliar, hoc potero dicere: Roma fuit.

Non tamen annorum series, non flamma, non ensis

Ad plenum potuit hoc abolere decus.

Cura hominum potuit tantam componere Romam

Quantam non potuit solvere cura deûm.

Confer opes marmorque novum superumque favorem,

Artificum vigilent in nova facta manus,

Non tamen aut fieri par stanti machina muro,

Aut restaurari sola ruina potest.

Tantum restat adhuc, tantum ruit, ut neque pars stans

Aequari possit, diruta nec refici.

Hic superûm formas superi mirantur et ipsi,

Et cupiunt fictis vultibus esse pares.

Non potuit natura deos hoc ore creare

Quo miranda deûm signa creavit homo.

Vultus adest his numinibus, potiusque coluntur

Artificum studio quam deitate sua.

Urbs felix, si vel dominis urbs illa careret,

Vel dominis esset turpe carere fide.

In una seconda poesia Ildeberto finge che Roma stessa gli risponda. Queste prosopopee sono molto frequenti nelle letterature del medio evo. Roma si dice lieta della sua sorte. Vero è che, decaduta d'ogni sua grandezza, ella ha quasi perduta la memoria di sè medesima; vero è ch'è perita la forza delle armi, che precipitata è la gloria del senato, che rovinano i templi, che i teatri giacciono nella polvere, che i rostrison vacui e mute le leggi, che manca il coraggio ai valorosi, il diritto al popolo, il colono ai campi; ma la presente miseria è più gloriosa dell'antica prosperità, ma Pietro è da più di Cesare. I Cesari, i consoli, i

retori le diedero la terra, Cristo le diede il cielo. Un cristiano, il quale per giunta era vescovo, non poteva ragionare altrimenti; ma la enumerazione stessa, dolorosamente minuta, dei danni sofferti mostra che il bene acquistato non racconsolava interamente del bene perduto. La Roma di Pietro lasciava desiderare talvolta la Roma di Cesare.

E più che le mura superbe si ridesideravano gli uomini per la cui virtù Roma era diventata regina del mondo. Il Boccaccio nella già citata canzone, li chiama un per uno:

Ove li duo gentili Scipïoni,

Ov'è il tuo grande Cesare possente?

Ove Bruto valente,

Che vendicò lo stupro di Lucrezia,

Furio, Camillo, e gli due Curioni,

Marco Valerio e quel Tribun saccente,

Quinto Fabio seguente,

Cornelio quel che vinse Pirro e Grezia,

Publio Sempron colla vinta Boezia,

Il fedel Fabio, Fulvio, Quinto Gneo,

Metel, Marco, Pompeo,

Porzio Caton, Marcel, Quinto Cecilio,

Tito Flaminio, e il buon Floro Lucilio?

Ov'è il gran Consolato, e' Senatori,

Ove quel grazioso Ottaviano,

Ove il prode Trajano,

E Costantino valoroso Augusto?

Ove le dignitadi e gli alti onori,

Ove quel Tito e quel Vespasiano,

E 'l magno Aureliano,

E Marco Antonio sí benigno e giusto,

Ove il nobile oratore Sallusto,

Ove il facondo Cicero primero,

E il Massimo Valero,

E Tito Livio, e gli altri signor grandi?

Dove son l'ali tue che non le spandi?

Nella più bella forse delle sue canzoni Fazio degli Uberti introduce Roma, come fa anche nel Dittamondo, a ricordare le glorie antiche e a dolersi della bassezza in cui è caduta.

Ne' suoi sospiri dicea lacrimando

Con voce assai modesta e temperata:

- O lassa isventurata,

Come caduta son di tant'altezza,

Là dove m'avean posto trionfando

Gli miei figliuol, magnanima brigata!

Che m'hanno or visitata

Col padre loro in tanta gran bassezza.

Lassa! ch'ogni virtù, ogni prodezza

Mi venne men quando morîr costoro,

I quai col senno loro

Domaro il mondo e riformârlo in pace

Sotto lo splendor mio ch'ora si face

Di greve piombo e poi di fuor par d'oro.

Or di saper chi fôro

Arde la voglia tua sì che no 'l tace.

Ond'io farò come chi satisface

L'altrui voler nella giusta dimanda,

E perchè di lor fama anc'or si spanda.

E da Romolo ad Augusto fa vedere al poeta i suoi più illustri figliuoli.

Secondochè avvenne un tempo(e in parte avviene ancora) di tutte le cose che fortemente occuparono la memoria e la fantasia degli uomini, Roma ebbe nella leggenda un'amplificazione ideale di vita e di gloria. Le sue mura secolari, le massime suevicende, gli uomini che più con l'opre ne illustrarono o ne offuscarono il nome, diedero origine a tutto un mondo di colorite finzioni, delle quali ora mi accingo a discorrere. Come, essendo nel pieno della potenza, Roma vide affluire tra le sue mura, sin dai più remoti angoli della terra, le disparatissime genti soggette al suo dominio, così, essendo travolta e giacente, vide da settentrione e da mezzodì, da oriente e da occidente, scendere sopra di lei le

immaginazioni e le favole. Essa divenne allora centro di attrazione per un infinito numero di fantasie solute e vaganti, le quali, come furono entrate, per dir così, nella sua orbita, non ne uscirono più. La smania delle riconnessioni, di cui più esempii ci mostrò la vita reale, si manifesta ugualmente in questo mondo di sogni. Poter dire di una storia bugiarda qualsiasi, che essa è romana, e narrata nelle istorie romane, vale acquistarle favore e credenza. Dalle più remote regioni del mondo verranno le favole a legarsi a Roma. Il libro dei Sette Savii, giunto dall'estremo Oriente in Europa, acquisterà dritto di cittadinanza e universalità senza pari, legandosi indissolubilmente al nome di Ottaviano, o di Diocleziano. Nei Gesta Romanorum si romanizzeranno finzioni d'ogni patria e condizione, si attribuiranno a imperatori di Roma storie immaginate sulle rive del Gange, e i capitoli cominceranno spesso con le sacramentali parole: Quidam imperator regnavit, come per dare al racconto un nesso sicuro e legittimo. I monumenti e le rovine di Roma si copriranno di leggende come di piante parassite.

Così la ragione e il sentimento, il sapere e la fede, la storia e la leggenda, concorrono del pari nella glorificazione della eterna città. Quando, per ricevere la corona d'alloro, costume rinnovato dagli antichi Romani, Francesco Petrarca pospone Parigi e Napoli a Roma, il pensiero che lo guida non è, come a prima giunta potrebbe parere, un pensiero nuovo, proprio dell'umanista, ma è anzi un pensiero vecchio, familiare a tutto il medio evo, e solo ritemperato nella nuova coltura.

Se non che le voci che nella età di mezzo suonano intorno a Roma, non tutte sono di ammirazione e di lode. A fianco della Roma antica che vive nella memoria degli uomini, c'è la Roma Nuova, la Roma dei papi, che vive nella realtà delle cose, e quanto quella sembra degna di gloria, tanto questa, a molti, sembra degna d'infamia. Se alcuni uomini religiosi si sgomenteranno di certi ricordi, e imprecheranno ai poeti e ai filosofi pagani, molti più s'adonteranno delle vergogne onde Roma papale è fatta turpe ricettacolo, e malediranno alla corruzione della Chiesa. Quello stesso Alessandro Neckam che abbiam veduto celebrare in versi traboccantidi nobile entusiasmo la Roma degli Scipioni e di Cesare, così, in alcuni altri versi, parla della Roma dei pontefici:

Roma, vale, papam, dominos quoque cardines orbis,

Romulidasque tuos opto valere, vale.

Roma, vale, numquam dicturus sum tibi, salve;

Compressas valles diligo; Roma, vale

Roma, Jovis montes, alpes nive semper amictas,

Hannibalisque vias horreo; Roma, vale.

Includi claustro, privatam ducere vitam,

Opto; me terret curia; Roma, vale.

Romae puid facerem? mentiri nescio, libros

Diligo, sed libras respuo; Roma, vale.

Numquid adulabor? faciem jam ruga senilis

Exarat, invitus servio; Roma, vale.

Mausolea mihi non quaero, pyramidasve,

Glebae contentus gramine; Roma, vale.

Respuo delicias tantas, tantosque tumultus;

Cornutas frontes horreo; Roma, vale.

Sed ne nugari videar tociens repetendo,

Roma, vale, cesso dicere, Roma, vale.

Chi così scriveva era un abate agostiniano, che forse vide Roma co' proprii occhi. Un monaco Cluniacense, Bernardo di Morlas, che fioriva nella prima metà del XII secolo, prorompe in queste più aspre parole:

Est modo mortua Roma superflua; quando resurget?

Roma superflui, afflua corruit, arida, plena;

Clamitat et tacet, erigit et jacet, et dat egena.

E in queste ancora:

Fas mihi dicere, fas mihi scribere, "Roma, fuisti,"

Obruta moenibus, obruta moribus, occubuisti.

Urbs ruis inclita, tam modo subdita, quam prius alta;

Quo prius altior, tam modo pressior, et labefacta.

Fas mihi scribere, fas mihi dicere "Roma peristi".

Sunt tua moenia vociferantia, "Roma, ruisti".

Nè men severo si mostra Galfredo Malaterra benedittino(c. 1098) :

Fons quondam totius laudis, nunc es fraudis fovea;

Moribus es depravata, exausta nobilibus,

Pravis studiis inservis nec est pudor frontibus:

Surge Petre, summe pastor! finem pone talibus.

In un poema latino sopra san Tommaso Becket si legge:

Dudum terras domuit, domina terrarum

colla premens plebium, tribuum, linguarum;

nunc his colla subjicit spe pecuniarum;

aeris fit idolatra dux christicolarum.

Ciò che più fieramente si rinfaccia a Roma è la voracità insaziabile.

Roma dat omnibus omnia, dantibus omnia Romae,

sentenzia con incisiva brevità il già citato Bernardo Cluniacense. E un Vagante soggiunge:

Roma manus rodit, si rodere non valet, odit.

Un'altra accusa capitale si è quella di menzogna:

Quid Romae faciam?

Mentiri nescio,

dice con non meno acuta brevità un anonimo, ed altri ripetono. I trovatori di Provenza non risparmiarono nemmen essi la città decaduta e corrotta, e Guglielmo Figueiras, il più popolaresco fra tutti, compose un terribile serventese:

De Roma qu'es

Caps de la dechasensa

On dechai totz bes.

Cessati i clamori del medio evo contro Roma papale, cominciano quelli degli umanisti e poi dei protestanti.

CAPITOLO II Le rovine di Roma e i Mirabilia.

La rovina di Roma non si compie in un tratto: otto secoli ci vogliono e l'opera devastatrice di trenta generazioni per condurla al punto in cui il Rinascimento inoltrato l'arresta. Dice Ildeberto Cenomanense, di cui ho riportato i versi qui di sopra, che gli dei nonvalevano a distruggere la fattura degli uomini.

I barbari, parlando in generale, pensarono più a far bottino che a demolire; anche gl'incendii suscitati dalle loro mani non furono così esiziali ai monumenti come fu poi l'opera lenta e sistematica degli stessi Romani. Teodorico mostra per le moltissime fabbriche di cui ancora andava superba Roma al suo tempo, la più viva sollecitudine; vuole che

si spendano in loro beneficio i denari provveduti a tal uopo, e ne domanda conto; loda Simmaco pei molti nuovi edifizii da lui costruiti, e fa riparare del proprio il teatro di Pompeo. Certo i successori suoi non imitarono sì nobile esempio; ma, se non fecero bene, non si può dire nemmeno che facessero male; ond'è che ai tempi di Carlo Magno i monumenti dell'antica Roma, tuttochè danneggiati e guasti dai terremoti e dagl'incendii, rimangono ancora pressochè tutti in piedi. Molto più rapida fu la decadenza morale ed economica. Già ai tempi di papa Vigilio(537-55), nell'interno della città, che non contava più di 50000 abitanti, erano campi seminati, e pascoli per bestiame. Nel 556 Pelagio I scrive a Sapaudo vescovo di Arles, perchè induca il patrizio Placido a mandar denari e vestimenta, e nel 557 riscrive, perchè sieno mandate a Roma le vestimenta comperate, "quia", dic'egli, "tanta egestas et nuditas in civitate ista est, ut sine dolore et angustia cordis nostri homines, quos honesto loco natos idoneos noveramus non possimus adspicere".

La scarsa popolazione si va man mano raccogliendo nella regione di campo Marzio, abbandonando i colli: dove sorgevano un tempo le case della migliore cittadinanza, si stendono umili orti. D'anno in anno la miseria cresce, e crescono con la miseria l'ignoranza e l'imbarbarimento dei costumi. Alcuni versi che potrebbero risalire al VII secolo, ma che sicuramente non sono posteriori al X, deplorano la sciagurata sorte della città stata un tempo signora del mondo. Essi meritano d'essere qui riportati.

Nobilibus quondam fueras costructa patronis;

Subdita nunc servis, heu male, Roma, ruis.

Deseruere tui te tanto tempore reges:

Cessit et ad Grecos nomen honosque tuus,

Constantinopolis florens nova Roma vocatur;

Moribus et muris, Roma vetusta, cadis.

Transiit imperium, mansitque superbia tecum;

Cultus avariciae te nimium superat.

Vulgus ab extremis distractum partibus orbis,

Servorum servi nunc tibi sunt domini.

In te nobilium rectorum nemo remansit;

Ingenuique tui rura Pelasga colunt.

Truncasti vivos crudeli vulnere sanctos;

Vendere nunc horum mortua membra soles.

Iam ni te meritum Petri Paulique foveret,

Tempore iam longo Roma misella fores.

La massima decadenza, con molta vigoria di linguaggio descritta in un discorso inspirato da Gerberto, e pronunziato da Arnulfo nel sinodo di Reims, si riscontra verso la fine del secolo X. Della profonda notte d'ignoranza che pesa su Roma durante queitempi infelici, troviamo fatto ricordo e lamento assai spesso. Nessuno studio, nessuna cognizione d'arti o di lettere sopravvive colà dov'era stato il regno della più varia e più fiorente coltura. Roma è la più barbara fra le città dell'Europa. Già sin dai tempi di Gregorio Magno non vi si trovavano più libri. Cadente il secolo VII, Agatone papa confessava che i legati da lui mandati al Concilio ecumenico di Costantinopoli erano uomini digiuni di ogni dottrina. Nel 992, il già ricordato sinodo di Reims rimproverava ai Romani di non avere nella loro città quasi nessuno che possedesse qualche coltura.

In pari tempo, nelle grandi aree spopolate, invase da una selvaggia vegetazione, o coperte d'acque stagnanti, l'aria si veniva infettando di mortifere esalazioni, e tratto tratto contagi terribili si diffondevano a diradare vie più la già scarsa popolazione. Fra le ingenti macerie che ingombravano il suolo, sulle rive melmose del Tevere pullulavano i rospi e le serpi. Nel Foro, sede principale un tempo della maestà di Roma, sulle rovine sopravanzate agl'incendii di Genserico e d'Alarico, e sepolte oramai sotto ai rottami e alla terra, pascolavano i bufali come ai tempi favolosi d'Evandro. La distruzione dei monumenti si compie a poco a poco. Templi, terme e teatri diventano cave inesauribili di materiale da costruzione; dei marmi si fa calcina. Pisa, Napoli, altre città d'Italia, Aquisgrana e Costantinopoli si arricchiscono delle spoglie tolte a Roma. All'opera distruttrice cotidiana si aggiungono le devastazioni subitanee e generali. Nel 1084 i Normanni, venuti con Roberto Guiscardo in ajuto di Gregorio VII, incendiano buona parte della città, e forse vi fanno più gran guasto che non avessero fatto nelle ripetute incursioni i barbari del V e del VI secolo. Ciò nullameno, corrente il XII, molti monumenti sussistono ancora, che poi sono distrutti più tardi. Restituito nel 1143 il Senato, una certa tutela si stese sopra di essi, ma ebbe certo a far poco frutto e a durar poco, giacchè il Petrarca nella Epistola hortatoria rimpiange e biasima con acerbe parole la distruzione che liberamente si proseguiva

a' suoi tempi. Qualche monumento scampò in grazia di condizioni speciali. I frati di San Silvestro in Capite, proprietarii della colonna Antonina, custodivano gelosamente il loro diritto, e minacciavano anatema a chiunque si attentasse di menomarlo.

Gli avanzi sparsi qua e là, ingombrati in parte di nuove costruzioni cresciute loro addosso o ai fianchi, o profanati, come ancora oggidì il teatro di Marcello, dall'esercizio di sordide arti meccaniche, non serbavano più traccia dello splendore di un tempo, ma erano pur sempre

L'antiche mura ch'ancor teme ed ama,

E trema il mondo quando si ricorda

Del tempo andato e 'ndietro si rivolve.

Taliquali erano, queste mura commovevano col tristo e solenne aspetto gli animi dei riguardanti, e li levavano alla contemplazione delle glorie passate. La presente rovina lasciava indovinare l'antica maestà. "Vere maior fuit Roma, maioresque sunt reliquiae, quam rebar", scrive da Roma a Giovanni Colonna il Petrarca. Di Cola di Rienzo, dice l'anonimo narratore della sua vita: "Tutta la die se speculava negl'intagli de marmo, li quali iaccio intorno Roma. Non era aiti che esso che sapesse lejere li antichi Pataffii. Tutte scritture antiche vulgarizzava: quesse fiure de marmo justamente interpretava. Oh como spesso diceva: Dove suoco quelli buoni Romani? dove ene loro summa justitia? poteramme trovare in tiempo che quessi fiuriano!" Ambrogio Camaldulense scrive in una delle sue epistole: "Urbem certe dum peragro, stupore detinear, intuens partim ruinarum moles incredibiles ferme, partim projectas pretiosi marmoris crustas. Nusquam enim transire datur, quin occurrat oculis vel sculptura antiquae artis, aut parieti vice lapidis vilis ac singularis injecta, aut humi jacens. Columnarum item fragmenta fere perpetua, partim marmorea partim porphyretica humi constrata intueri licet. Ita dum antiqua illa atque inclyta Roma venit in mentem: ingens datur mortalis imbecillitatis et inconstantiae documentum".

Nel 1433 Ciriaco d'Ancona conduceva in giro per Roma l'imperatore Sigismondo, e vivamente si doleva con lui della distruzione degli antichi monumenti: "Non equidem parum putabam Opt. Aug. Caesarei Principis animum lacessere, quod qui nunc vitam agunt Romana inter moenia homines marmorea, ingentia, atque ornatissima undique per Urbem aedificia, statuas insignes, et columnas tantis olim sumtibus, tanta majestate, tantaque fabrum et architectorum arte conspicuas ita ignave, turpiter, et obscoene in dies ad albam, tenuemque convertunt cinerem,

ut eorum nulla brevi tempore speciem vestigiumque posteris apparebit. Proh scelus! Et o vos inclytae Romuleae gentis manes

Aspicite haec, meritumque malis advertite numen".

Poggio Bracciolini nel l. I del suo trattato De varietate Fortunae, dedicato a papa Niccolò V(1447-55), deplora con pari vivezza di sentimento, ma con parola più elegante e inspirata, l'ingente, irreparabile ruina.

Enea Silvio Piccolomini, che poi fu papa sotto il nome di Pio II, compose sopra lo stesso doloroso argomento i seguenti versi:

Oblectat me, Roma, tuas spectare ruinas

Ex cuius lapsu gloria prisca patet.

Sed tuus hic populus muris defossa vetustis

Calcis in obsequium marmora dura coquit.

Impia ter centum si sic gens egerit annos

Nullum hic inditium nobilitatis erit.

E Giano Vitale questi altri:

Aspice murorum moles, praeruptaque saxa,

Obrutaque horrenti vasta theatra situ:

Haec sunt Roma. Viden' velut ipsa cadavera tantae

Urbis adhuc spirent imperiosa minas?

Sentimenti simili a questi si trovano espressi da Lazzaro Bonamici, da Fulvio Cardulo, da Cristoforo Landino, da Francesco Quinziano e da cento altri poeti del Rinascimento.

Il popolo di Roma, pure aspirando a modo suo al ritorno dell'antico stato, poco si curavadei monumenti e delle memorie che andavano a quelli congiunte. In un'altra epistola a Giovanni Colonna il Petrarca, dopo aver ricordato molti luoghi e molte maraviglie di Roma, si duole che in Roma, più che in qualsivoglia altro luogo, fosse ignorata la storia romana. "Qui enim hodie magis ignari rerum Romanarum sunt quam Romani cives? Invitus dico. Nusquam minus Roma cognoscitur quam Romae". Certo non si può credere che in Roma stessa non fossero sorte, e probabilmente sino dai primi secoli del medio evo, intorno alle rovine più cospicue, alcune leggende intese a dar ragione, sia della origine, sia dell'uso speciale dei monumenti onde quelle erano avanzo; ma tuttavia è da credere che la maggior parte delle immaginazioni raccolte nei

Mirabilia e nella Graphia si debbano ai pellegrini, che in gran numero, da tutte le province dell'orbe cattolico traevano a Roma, vuoi per visitarvi i santuarii e fruire delle munifiche indulgenze, vuoi per farvi acquisto di reliquie, di cui Roma erasi fatta in certo modo il generale mercato del mondo. Costoro dovevano di certo rimanere più profondamente impressionati alla vista delle rovine che non gli stessi Romani, i quali le avevano del continuo sott'occhio, e tornati alle case loro narravano, com'è inclinazione naturale di chi vien di lontano, più meraviglie assai che non avessero veduto, e più favole che non avessero udito. Dal VII secolo in giù i pellegrinaggi si fanno sempre più numerosi, nonostante i molti disagi e pericoli del viaggio. Per chi teneva la via di terra c'erano le Alpi da traversare; per chi quella del mare, i pirati barbareschi da deludere o da combattere. Per venire da Parigi ai limina Apostolorum ci voleva, in media, una cinquantina di giorni, e spesso, giunti in vista della sospirata città i poveri fedeli erano derubati e trucidati dai malfattori che infestavano la campagna. Ma non per questo veniva meno lo zelo. Bandito nel 1300 da papa Bonifacio VIII il Giubileo, accorsero in Roma due milioni di pellegrini.

Quando si scopriva loro dinnanzi la città eterna, i pellegrini intonavano un canto la cui prima strofa sonava così:

O Roma nobilis, orbis et domina,

Cunctarum urbium excellentissima,

Rosso martyrum sanguine rubea,

Albis et virginum liliis candida:

Salutem dicimus tibi per omnia,

Te benedicimus, salve per saecula.

Entrati in città, e dato principio alle pratiche di devozione, si trovavano tosto in presenza delle ruine, le quali servivano a dirigere le processioni nella via lunga e malagevole, su per i colli, traverso ai grandi spazii disabitati. Che nelle menti loro riscaldate dal sentimento religioso e dalle peripezie del viaggio dovessero nascere molte strane immaginazioni, è naturale il pensarlo, e Ranulfo Higden, il quale del resto, comevedremo, molte ne spaccia per conto suo, ripetutamente lo afferma. Da siffatte immaginazioni dovettero avere origine, almeno in parte, i Mirabilia.

Dire in che tempo sia stato composto questo strano e divulgatissimo libro non si può con piena certezza, e le opinioni dei varii scrittori che ne hanno trattato s'accordano poco su questo punto. Che esso si colleghi in

parte con l'antica descrizione delle regioni, quale si trovava nel calendario officiale, è ammesso comunemente, ma con ciò non tutto il problema si risolve. La divisione augustea in quattordici regioni si conservò, più o meno sicura, sino al XII secolo inoltrato; e da canto suo una in sette ne aveva introdotta la Chiesa; ma le descrizioni del medio evo non si attengono propriamente nè all'una, nè all'altra divisione. L'anonimo autore dei Mirabilia conosce evidentemente gli antichi Regionarii, ma non costringe la sua descrizione entro gli schemi di quelli.

Nel secolo VIII o nel IX, l'anonimo di Einsiedeln, probabilmente un discepolo di Valafredo Strabone, versato nel greco, e provveduto di tutta la coltura classica concessa ai suoi tempi, visita e descrive Roma riportando un gran numero d'iscrizioni fedelmente copiate. Ma il suo libro non contiene neppur una delle tante favole che si raccolgono poi nella Graphia e nei Mirabilia, e poichè non si può credere che nel tempo in cui egli scriveva molte non ne fossero già nate e divulgate, bisogna dire che di deliberato proposito egli le passasse sotto silenzio, come del resto pure fa di tutto quanto direttamente si riferisca al culto pagano.

Qui tutta una serie di quesiti si affaccia alla mente perplessa del critico. È più antica la Graphia o sono più antichi i Mirabilia? Quale rapporto è tra questi due opuscoli che hanno tanta parte comune? I Mirabilia sono essi formati di un solo getto, o in più tempi? Quale età può essere loro ragionevolmente assegnata? Quante recensioni ve n'ha? Chi fu il loro autore? A ciascun quesito rispondono più e disformi opinioni. L'Ozanam, che primo mise in luce di su un codice Laurenziano la Graphia aureae urbis Romae, esagerandone fuor di misura l'antichità, la giudica composta fra il V e l'VIII secolo. Il Giesebrecht la crede composta ai tempi di Ottone III, e fa da essa derivare i Mirabilia. Questa opinione fu generalmente respinta dai dotti più competenti in sì fatta materia, e il De Rossi, il Jordan, altri ancora, riconoscono nella Graphia come una seconda edizione dei Mirabilia con aggiunte di poca importanza.

Che i Mirabilia risultino di due parti, l'una più antica, più moderna l'altra, fu sostenuto dal Gregorovius. La parte più antica, o, se così voglia dirsi, la prima composizione dell'opera,risalirebbe al tempo degli Ottoni, cioè alla seconda metà del X secolo, mentre la più moderna, la redazione definitiva, sarebbe del mezzo circa del secolo XII, e posteriore alla restituzione del Senato in Roma. Il Reumont reputa che la Graphia appartenga, nella forma sotto a cui è pervenuta sino a noi, alla fine dell'XI, o al principio del XII secolo, ma che nello essenziale rappresenti

Roma qual era in sul finire della età carolingia, adorna ancora di molti avanzi di antichi monumenti che sparvero poi più tardi. Ora, ciò che egli dice della Graphia bisogna intendere implicitamente anche dei Mirabilia. Se la descrizione, o la semplice menzione di monumenti distrutti più tardi non si potesse altrimenti spiegare se non facendo contemporaneo ad essi chi ne parla, bisognerebbe certo assegnare la prima composizione dei Mirabilia al X, o al IX secolo; ma tal fatto può dar luogo ad altra più probabile spiegazione. A questo proposito dice il Jordan: Verso il mezzo del XII secolo, un uomo, fornito della comune erudizione del tempo suo, scrisse una periegesi delle rovine, con l'intenzione di mostrare, a fronte della malsicura tradizione, e delle mutabili denominazioni, che, in origine, esse erano templi sacri a tali e tali divinità. Egli la scrisse mosso da un sentimento allora comune a molti, i quali speravano il ristabilimento della repubblica, e la rinnovazione della romana potestà assisa in Campidoglio. La periegesi ampliò e ridusse a manuale sistematico, traendo gli elementi di parecchi capitoli dal catalogo delle regioni che per intero si conservava ancora, e da altri vecchi cataloghi medievali ov'erano registrati nomi di antichi monumenti, o forse rimaneggiando una compilazione di tal sorta già esistente. Al tutto egli aggiunse un capitolo sulla topografia cristiana, utile in più particolar modo ai pellegrini curiosi, e un certo numero di leggende, che, in parte, circolavano già da lungo tempo. Che i Mirabilia non sieno più antichi del XII secolo, prova inoltre il fatto che dei molti scrittori che vi attinsero, o che a dirittura li incorporarono nelle opere loro, nessuno ve n'ha che sia a quel tempo anteriore. Ora la riputazione di cui nel XII secolo fruiscono i Mirabilia è tale, che se fossero già esistiti innanzi, sia pure in una forma alquanto diversa da quella che assunsero poi, qualche scrittore ne avrebbe certamente fatto ricordo.

Il testo, nei manoscritti che lo contengono, sparsi qua e là per le biblioteche d'Europa, presenta molte varietà, ma queste possono essere ridotte a due principali recensioni. "La più antica", scrive il De Rossi "è quella, che quasi documento officiale fu inserita nei libri della curia romana, cioè nel Politicus(leggi polypticus) di Benedetto canonico(scritto prima del 1142),nelle Collectanea Albini scholaris(circa il 1184) e nel celebre libro de' censi di Cencio Camerario, che fu poi papa Onorio III. La seconda fa la sua principale comparsa nelle Collettanee del Cardinal Nicola d'Aragona(anni 1356-62); donde proviene quella che Martino Polono inserì nella sua cronaca, e quella della Graphia aureae urbis Romae, d'un codice fiorentino". Il Jordan ammette le due recensioni, ma

riferisce la Graphia alla più antica. L'Urlichs distingue sei classi di Mirabilia nel già citato Codex topographicus. La prima contiene il testo del XII secolo(Descriptio plenaria totius urbis), quale si ha nella recensione più antica(Benedetto canonico, Albino scolastico, Cencio Camerario); la seconda, la Graphia, del secolo XIII; la terza, i testi del secolo XIV(De mirabilibus civitatis Romae); la quarta, i Mirabilia abbreviati e interpolati dei secoli XIV e XV; la quinta i Mirabilia congiunti con la rinascente dottrina, ancor essi dei secoli XIV e XV; la sesta, l'Anonimo Magliabecchiano, che è del secolo XV.

Nulla si sa dell'autore del libro. Nel 1851 il Bock annunciava un testo nuovo, e il nome del primo autore di essi, un Gregorius magister, non altrimenti conosciuto nella storia letteraria del medio evo; ma passarono circa vent'anni senza che di tale scoperta si udisse più fare parola. Finalmente nel 1870, lo stesso Bock, in un articolo sulla testè citata pubblicazione del Parthey, svelò il mistero. Un capitolo del Polychronicon di Ranulfo Higden, rimasto precedentemente inedito, ma allora fatto già di pubblica ragione(il che dal critico non fu risaputo), contiene una parte dei Mirabilia, con alcune peculiarità che non s'incontrano altrove. Il cronista inglese afferma di aver tratto ciò che dice di Roma e dei suoi monumenti da Martino Polono e dal suddetto magister Gregorius. Il Bock stimò questo magister Gregorius essere stato il primo compilatore dei Mirabilia, mentre il De Rossi giudica la compilazione a lui attribuita una delle meno antiche, e credo con ragione.

Sia qui inoltre notato di passaggio che l'Harding, nella sua Confutation of the Apology of Jewel, stampata in Anversa nel 1565, f. 166 v., fa autore dei Mirabilia lo stesso Martino Polono.

Pochi libri ebbero nel medio evo la celebrità e la diffusione dei Mirabilia. Ciò si deve anzi tutto, parmi, al trovarsi felicemente combinata in essi l'ammirazione per Roma antica con la devozione inspirata da Roma cristiana. Alla descrizione delle mura, delle porte, dei principali monumenti, si accompagna il catalogo dei luoghi più celebri ricordati nelle Passioni dei Santi, la enumerazione dei cimiteri, la indicazione di molte chiese.

Un sentimento schietto ed ingenuo di ammirativa benevolenza per quell'antichità gloriosa che aveva lasciato nei marmi e negli spiriti indestruttibile memoria di sè prorompe da tutto il libro. Giunta alfine della sua rassegna la Descriptio plenaria si chiude con le seguenti parole: "Haec et alia multa templa et palatia imperatorum, consulum,

senatorum praefectorumque tempore paganorum in hac Romana urbe fuere, sicut in priscis annalibus legimus et oculis nostris vidimus et ab antiquis audivimus. Quantae etiam essent pulchritudinis auri et argenti, aeris et eboris pretiosorumque lapidum, scriptis ad posterum memoriam quanto melius potuimus reducere curavimus".

Le leggende inserite qua e là, alcune delle quali strettamente si legano alla storia dei primi secoli della Chiesa, accrescevano attrattive al libro, che noi troviamo citato, o accolto per intero, in iscritture di diversissima indole. Benedetto, Albino, Cencio Camerario ne usano come di documento officiale. Alcuni cronisti lo introducono, se non in tutto, in parte, nelle loro storie, primo fra tutti il domenicano Martino Polono, morto nel 1279, la cui cronaca conosciuta comunemente sotto il nome di Martiniana godette di grandissima riputazione durante il XIII, XIV e XV secolo. Martino Polono attinge probabilmente dalla Graphia, poi molti attingono da lui, tra gli altri il già citato Ranulfo Higden(c. 1299-1363), e il Signorili nel libro intitolato De juribus et excellentiis urbis Romae, scritto per ordine di papa Martino V(1417-31), l'autore di una cronaca latina contenuta in un codice della Casanatense, segnato A II, 20, e probabilmente anche il Ramponi nella Historia di cose memorabili della città di Bologna, istoria che va sino all'anno 1432. Accolgono inoltre più o meno distesamente il testo dei Mirabilia Giacomo da Acqui(c. 1330) nella sua Cronaca, l'autore dell'Eulogium, il quale certamente attinse da Ranulfo Higden, Giovanni Mansel, nella Fleur des histoires, Giovanni d'Outremeuse nel Mireur des histors. Giovanni d'Outremeuse descrive le meraviglie di Roma secondo le cronache d'Estodien e con alcune particolarità che altrove si cercherebbero invano. Questo Estodien, non è evidentemente altri che l'Hescodius citato dalla Graphia, da Martino Potano, e da altri parecchi. Le particolarità che nel racconto si trovano farebbero quasi credere che Giovanni d'Outremeuse avesse veramente sott'occhi una recensione dei Mirabilia diversa dalle conosciute sin qui; ma è più probabile ch'egli abbia attinto da Martino, e che le particolarità le abbia aggiunte di suo. Fazio degli Uberti trae dalla Graphia, ma forse anche in parte dal racconto di Martino, ciò che di Roma fa dire alla stessa Roma nel c. 31, l. II del Dittamondo. Finalmente un ristretto dei Mirabilia si trova anche negli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury .

La celebrità dei Mirabilia si mantenne lungamente anche dopo che il Rinascimento, facendo meglio conoscere l'antichità, specie la romana, ebbe dato lo sfratto alle favole immaginate dal medio evo. Essi

compajono ancora in molti manoscritti del XV secolo; trovata la stampa, se ne fecero numerose impressioni.Anche altre città in Italia ebbero descrizioni per più rispetti somiglianti a quella che di Roma si ha nei Mirabilia, ma nessuna poteva sperare la celebrità toccata a questi. Galvagno Fiamma cita a più riprese una Descriptio urbis Mediolanensis dalla quale toglie ciò che dice delle fabbriche più insigni di Milano. Intorno al 1320 un anonimo compose un Commentarius de laudibus Papiae. Ma Milano e Pavia non erano Roma. Descrizioni delle loro bellezze e singolarità potevano importare ai Milanesi e ai Pavesi, non a tutti gli abitatori dell'orbe cattolico. I Mirabilia sono un'altra prova del primato di Roma.

Per discorrere in modo adeguato delle diversità più o meno rilevanti che il testo dei Mirabilia presenta negli innumerevoli manoscritti, e delle variazioni cui esso andò soggetto in processo di tempo, si richiederebbe un'apposita e lunga dissertazione. Qui qualche breve cenno potrà bastare. Sebbene i testi conosciuti possano, come s'è detto di sopra, ridursi a due recensioni principali, pure le differenze loro nei particolari sono qualche volta assai numerose. Già il testo più antico pervenuto sino a noi è un testo corrotto. Passando di trascrizione in trascrizione la redazione primitiva si altera sempre più, e si accresce di varie accessioni, che non sempre hanno stretta attinenza con il resto. Una descrizione delle province d'Italia, tolta da Paolo Diacono, gli si annetterà in fine od in principio; lo si interpolerà con una storia della cattività di Babilonia, e con una interpretazione del sogno di Nabuccodonosor, lo si correderà di considerazioni filosofiche e morali, lo si arricchirà d'interi capitoli. A poco a poco, le alterazioni prenderanno un doppio indirizzo ben determinato, e si faranno in qualche modo sistematiche, provocate, per una parte, dal sentimento religioso, e, per un'altra, dalla nuova e crescente coltura dell'umanesimo. I Mirabilia nella prima lor forma non soddisfacevano se non assai imperfettamente ai bisogni dei pellegrini, che si recavano a Roma con lo scopo precipuo di visitare i santuarii e di purgarsi dei loro peccati. Ed ecco introdursi in essi, e prendervi luogo sempre maggiore, la indicazione delle stazioni e delle indulgenze, e la descrizione delle reliquie più cospicue. Ciò accadeva più particolarmente nelle traduzioni. Così venivan fuori mano mano certi nuovi Mirabilia che con gli antichi nulla più avevano di comune. Ma in pari tempo la coltura del rinascimento si diffonde e prevale; già nasce un'archeologia scientifica, già si mostrano i primi archeologi. Il così detto Anonimo Magliabecchiano, tiene un luogo di mezzo fra i Mirabilia e il Poggio o il

Biondo; egli deve avere scritto nei primi anni del secolo XV. Le favole a poco a poco spariscono. Nei Mirabilia Romae pubblicati da Marcello Silber, aliasFranck, in Roma, nel 1513, si ripetono ancora le leggende di Trajano, della Salvatio, dei Cavalli marmorei, del Cavallo di Costantino, di Augusto. Seguono le indulgenze delle chiese di Roma, un sommario della storia della città, la descrizione delle sette chiese e di molt'altre. Vi si riportano versi devoti ed iscrizioni. Ma nell'Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae, edito da Francesco de Albertinis chierico fiorentino, e dedicato a Giulio II(per maestro Jacopo Mazochio in Roma, 1510), delle favole medievali non si trova più traccia, mentre abbondano le citazioni di antichi scrittori. Finalmente le Collectanea di Fabricio Varano, la Descriptio Romae di Raffaello Volaterra, l'Antichità di Roma di Andrea Pallajo, più non ricordano i Mirabilia che per lo schema del Regionario conservato in parte.

Qui cade in acconcio far qualche parola di un curioso libro, salvo alcuni pochi frammenti, tuttora inedito e assai poco noto, la Polistoria, cioè, di Giovanni Cavallino de' Cerroni, la quale non è, come il titolo potrebbe far credere, un'opera storica propriamente, ma è piuttosto un trattato d'antichità romane, e, insieme, una descrizione di Roma. Dell'autore non si sa altro se non quel pochissimo ch'egli stesso dice nel titolo dell'opera sua: era scrittore della Sede Apostolica e canonico di Santa Maria Rotonda; fioriva probabilmente verso il mezzo del XIV secolo. Tutto il libro, ch'egli dice di avere scritto a richiesta di molti amici curiosi e solleciti della gloria di Roma, lo dimostra uomo di molta e varia, benchè farraginosa erudizione: non vi si legge pagina senza trovarvi citato qualche scrittore pagano o cristiano: Cicerone, Catone, Tito Livio, Sallustio, Lucrezio, Virgilio, Giovenale, Vegezio, Plutarco, Giustino, Valerio Massimo, Orazio, Lattanzio, Boezio, San Gregorio, Isidoro di Siviglia, Hugutio e altri. A canto alle Sacre Scritture vi si cita spesso il Digesto. L'opera è divisa in dieci libri, che abbracciano tutti insieme non meno di centoventinove capitoli. Vi si discorre promiscuamente di Roma pagana e di Roma cristiana. Nel l. I si ragiona di Roma invitta, eterna e beata, origine delle leggi e delle armi, principio di sovranità, maestra al mondo di nobilissimi esempii, clemente ed umana coi nemici, punitrice inesorabile dei malvagi. In essa è la Cattedra di San Pietro per cui si compiono gli alti destini meditati dalla Provvidenza, si conciliano insieme l'antico e il nuovo diritto. Al l. II porge argomento il discorso di Orazio Coclite al ponte, e una discussione circa le perfette qualità militari. Il l. III tratta della eccellenza della Città quanto ai cittadini e reggitori suoi, il

che offre occasione all'autore di ricordare in due capitoli la legazione famosa di Pilato a Tiberio, e la distruzione di Gerusalemme per Vespasiano e Tito;poi alcune cose si soggiungono circa le dignità e virtù del sacerdozio. Nel l. IV si parla delle virtù della croce, della significazione delle insegne romane, dei pregi e della gran nobiltà di Fabrizio, degli Scipioni e di Giulio Cesare. Il V tratta dei giuochi e delle carceri quali usavano in Roma. Nel VI, ch'è fra tutti il più lungo, si ragiona del modo di costruire le città in genere, poi dei tredici fondatori di Roma, a principiare da Noè, poi delle diciannove porte. Il VII è tutto speso nella descrizione dei sette monti. L'VIII tratta delle tredici regioni in cui Roma era divisa. Nel IX si dice dei dodici popoli da cui primamente fu Roma abitata, e perchè sieno tredici regioni, e come sorse e fu denominata Città Leonina. Il X finalmente tratta della condizione del suolo ove Roma fu edificata, dei pregi d'Italia e dei cittadini Romani e Italici, della istituzione dell'impero, delle virtù che debbono essere nell'imperatore, delle relazioni vicendevoli della Chiesa e dell'impero. Alcuna volta non torna facile, così alla prima, scorgere il nesso de' varii argomenti trattati in uno stesso capitolo; pur tuttavia questo nesso non manca, secondo le opinioni e le credenze dei tempi. Così nel l. IV si discorre, come abbiamo veduto, delle virtù della croce e delle insegne romane, e a discorrerne congiuntamente l'autore è tratto senza sforzo dalla vittoria che Costantino, recando appunto per nuova insegna la croce, riportò sopra Massenzio.

Pei tre libri VI, VII e VIII, dove si ragiona della fondazione di Roma, delle porte, dei monti, delle regioni, il trattato di Giovanni Cavallino viene ad avere più stretta relazione colla Graphia e coi Mirabilia. Egli certamente conobbe e l'una e gli altri, ed anzi, quanto alla Graphia, espressamente lo dichiara, dicendo nel c. 20 del l. VI: "Graphia aureae urbis Romae stante in ecclesia sancte Marie nove de urbe quam vidi et iugiter legi". Dei Mirabilia non fa cenno, ed è omissione notabile; ma ben più strano deve parere certamente che delle leggende e delle descrizioni fantastiche contenute in quelle due cognitissime e divulgatissime scritture, egli, se si faccia eccezione di due o tre, non abbia voluto giovarsi. Non già che il suo libro vada esente da fantasticherie, chè pei tempi sarebbe stato un pretendere troppo; ma quelle che vi si trovano hanno tale un'aria, che a primo aspetto si riconoscono nate da erudita saccenteria, anzichè di schietto e popolaresco immaginare. Giovanni Cavallino patisce il male comune degli eruditi della età sua, la mania etimologica, l'ossessione dell'allegoria e del simbolo. Parlando delle

porte e dei monti, egli ricorda i varii nomi di ciascuno, e cerca di darne ragioneil meglio che può, e quando non l'ajutano la storia o il sapere, s'ajuta con la fantasia. Di queste curiose fanfaluche vedremo qualche esempio più sotto, ma darne un saggio anche qui non sarà fuor di luogo. La porta Septinea(Septimiana) prende il nome dalla plaga di settentrione, alla quale è rivolta, oppure lo deriva da sub e da Jano, trovandosi d'essere sotto il Gianicolo. Il monte Palanteo(Palatino) si denomina da Pallante, dea del sapere. Il colle Capitolino è così chiamato perchè capo di tutta la città, o piuttosto perchè vi si raccoglievano i senatori come i frati al capitolo. Il Celio ebbe nome dall'altezza, a celsitudine. Parlando delle regioni, dice quale fosse l'impresa del popolo di ciascuna, e s'industria di spiegare le figure e i colori che mostravano. Del resto, narrando, descrivendo, apostrofando, egli è sempre occupato dal pensiero di far concordare, in appoggio di quanto dice, gli scrittori e le prove.

L'opera di Giovanni Cavallino, scritta in sull'ultimo scorcio del medio evo, può considerarsi come il primo trattato di antichità romane che siaci rimasto. Essa è, senza dubbio, una congerie disordinata e deforme di fatti non ancora dominati dallo spirito critico, ma già vi si può scorgere dentro qualche bagliore del vicino Rinascimento, e ciò che ancora non viene a legare il pensiero, lega l'affetto di cui palpita ogni parola, l'affetto vivo e reverente per Roma invitta, eterna e beata. Quando vien meno l'ammirazione ingenua e fantasiosa dei Mirabilia, un'altra già ne comincia che prende e serba il suo luogo.

Dopo ciò entriamo nel vasto e popolato regno delle leggende.

CAPITOLO III. La fondazione di Roma.

Tra le storie dell'antichità, le quali il medio evo ricorda e ripete, una delle più celebri è la storia di Enea. Il giullare la sapeva a mente e la recitava all'occasione. Enea era la Romanae stirpis origo, e l'Eneide il poema delle origini di Roma e del romano impero. Benedetto di Sainte-More e Heinrich von Weldeke rifacevano l'Eneide di Virgilio. Ma la leggenda, inclinata sempre ad allontanare nel passato i principii delle cose, non si ferma ad Enea, e s'ingegna di trovare prima di lui altri, più remoti fondatori.

Porcio Catone, Varrone, Fabio Pittore, Dionigi di Alicarnasso, Solino, altri parecchi, ci conservarono le numerose leggende che intorno alle

origini della città, certo sino da tempi antichissimi, si vennero formando nella fantasia popolare. Queste leggende, di cui non debbo qui discorrere di proposito, passarono nel medio evo, raccoglitore curioso e sollecito delle più disparate finzioni, e ben presto ebbero a trovarsi in nuova compagnia. Sono senza numero le cronache e gli altri libri d'ogni maniera in cui si ricordano i primi che venneroin Italia a fondare città e regni sul luogo stesso dove sorse poi Roma: Saturno, Giano, Italo, Roma, Ercole, Tiberi, ecc.

Già qualcuno degli antichi, non potendo raccapezzarsi fra le innumerevoli e contradditorie tradizioni, confessò delle origini di Roma nulla potersi sapere con sicurezza. Isidoro di Siviglia(c. 570-636) così ragiona in un luogo delle Etimologie: "De auctoribus conditarum urbium plerumque dissensio invenitur: adeo ut ne urbis quidem Romae origo possit diligenter cognosci. Nam Sallustius dicit: Urbem Romam, sicuti ego accepi, condidere atque habuere initio Troiani, et cum iis aborigenes. Alii dicunt ab Evandro, secundum quod Virgilius: Tunc rex Evandrus romanae conditor arcis. Alii a Romulo, ut, En huius, nate, auspiciis illa inclyta Roma. Si igitur tantae civitatis certa ratio non apparet, non mirum si in aliarum opinione dubitatur". Circa l'800, Giorgio Sincello, riferite alcune delle tradizioni più divulgate circa l'origine di Roma, dice non trovarsi due soli scrittori che vadano fra loro d'accordo. Ma la leggenda ha per officio appunto di sapere ciò che la storia certa non sa.

La leggenda è singolarmente logica ne' suoi procedimenti. Stabilito che le sorti di Roma erano intimamente collegate con le sorti del cristianesimo, e riconosciuto che la fondazione della città era stata, sin dai primordii della storia dell'uman genere, contemplata dalla Provvidenza, ragion voleva che la leggenda si prolungasse innanzi e indietro, nel futuro e nel passato, sino a quegli estremi termini a cui la storia stessa, così com'era figurata e limitata nel dogma, le poteva concedere di pervenire. Per una parte dunque la leggenda si stende sin quasi alla catastrofe del gran dramma dell'umanità, il Giudizio Universale: l'Anticristo porrà fine al sacro romano impero. Per un'altra essa rimonta indietro sino a Noè.

Perchè sino a Noè e non sino ad Adamo? La ragione è per se stessa evidente. Il diluvio spazza dalla faccia della terra le città ed i regni; dopo il diluvio la storia del genere umano comincia da capo, e, per certi rispetti, si può considerare Noè quale il primo uomo. Ragionevolmente le origini di una città non si potevano far rimontare al di là del diluvio.

Inoltre, con porre primo fondatore Noè, il patriarca senza colpa scampato all'universale sterminio, si procacciava alla città un titolo particolarissimo di santità e di gloria. Da Noè verrà il nuovo genere umano che sarà redento da Cristo, da Noè dev'esser dato principio a quella Roma che ha da preparare il mondo alla venuta del Redentore. Si aggiunga che da Noè discendendo tutti i popoli, il luogo dove quegli aveva fermato la sua sede, acquistava su tutto il mondo un legittimo impero. Un padre della Chiesa, ragionando sui fatti compiuti, non avrebbe potutotrovare fra essi relazioni più significative di quelle che, inconsciamente, trovava la fantasia popolare.

Come, dove, quando sia nata così fatta leggenda non è nessuno che possa dirlo. Nata che fu, si divulgò rapidamente, e s'introdusse in libri d'indole diversissima.

Il più antico è la Graphia aureae urbis Romae. Quivi si narra come il patriarca Noè, dopochè la sua pervertita discendenza ebbe edificata la torre di Babele, entrò co' figliuoli in una nave e approdò in Italia. Non lunge dal luogo dove poi sorse Roma, costrusse una città cui diede il suo nome, ed ivi terminò le fatiche e la vita. Giano, suo figliuolo, insieme con un altro Giano, figliuolo di Jafet, e con l'indigena Camese, costrusse poi sul Palatino una città denominata Gianicolo: "in monte Palatino civitatem Janiculum construens regnum accepit". Circa quel medesimo tempo venne in Italia anche Nembrot, che è tutt'uno con Saturno: "Nemroth, qui et Saturnus, a Jove filio eunuchizatus ad jam dictum Jani regnum devenit". Si noti come la leggenda cristiana cerca di appoggiarsi sulle tradizioni pagane. Saturno riappare in Nembrot, Giano è figlio di Noè: or ora vedremo lo stesso Noè tramutarsi in Giano. Saturno fondò sul Campidoglio una città chiamata Saturna; poi venne Italo coi Siracusani, venne Ercole cogli Argivi, venne Tibri re degli Aborigeni, vennero Evandro, e il re dei Coribanti, e Glauco e Roma e Aventino Silvio, i quali tutti fondarono sulla terra di Roma varie città. Ma il luogo più illustre fu, sin dalle origini, il Palatino, "in quo omnes postea imperatores et cesares feliciter habitaverunt".

Questa storia riferisce per filo e per segno nel suo Libellus de quatuor majoribus regnis et Romanae urbis exordio, Martino Polono, morto nel 1279; nè si può dire con sicurezza s'egli la tragga dalla Graphia o d'altronde, comechè usi nel narrarla quasi le stesse parole di quella. Galvagno Fiamma(c. 1344), quanto circospetto e preciso nel narrare le cose de' tempi suoi, altrettanto facile ad accogliere ogni più solenne

stravaganza quando parla de' tempi antichi, ripete nel suo Manipulus Florum il racconto della Graphia, che chiama liber valde authenticus, confortandolo di sue molte ragioni, e lo stesso fa Giovanni da Cermenate, vissuto nella prima metà del XIV secolo. Ma i ripetitori, di solito, attingono piuttosto che dalla Graphia, dal Libellus di Martino Polono. Così Ranulfo Higden nel Polychronicon, l'autore dell'Eulogium, l'autore di una cronaca francese intitolata Compendium Romanorum, ecc. Di altri non si può dire se attingano dalla Graphia oppure dal Libellus, benchè sia piuttosto da credere che da questo. Così il Ramponi nella citata Historia di cose memorabili della città di Bologna, lo Pseudo Leonardo Aretino, in quella grossolana contraffazione della Fiorita d'Italia diFra Guido, che s'intitola L'Aquila volante, l'autore di un sunto di storia romana a cui va aggiunta una descrizione di Roma, contenuto nel cod. Marciano lat., cl. X, CCXXXI. Teodorico Engelhusio sembra attingere da una fonte diversa dalle comuni quando dice nel Chronicon: "Hoc tempore Noë, cum filii contra Dei et suam voluntatem turrim construere coepissent, ipse cum filio suo Jonico ratem adscendens, pervenit ad locum Europae ubi nunc est Roma, et ibi constructo palatio, juxta Albulam resedit, ubi nunc est Ecclesia S. Johannis ad Janiculum, a nomine filii sui Jano; non longe tandem ab urbe sepultus, ut ait Estadius, anno vitae suae DCCCCL". Questo Jonico(Jonito, Janito) di cui parla a più riprese Gotofredo da Viterbo, e che già trovasi ricordato nella Historia Scholastica e nelle Revelationes di Metodio, altri probabilmente non è che lo stesso Jano o Giano.

Raccontando la venuta di Noè in Italia la Graphia e Martino Polono citano un Hescodius(altrove Escodius, Estodius, Eustodius) nome non altrimenti conosciuto nella storia letteraria. L'Ozanam gli vorrebbe sostituito Esiodo che pure si trova citato, ma che sarebbe senza dubbio anch'esso nome suppositizio. Nella edizione della Cronaca di Martino Polono pubblicata in Basilea il 1559, a Hescodius fu sostituito Methodius; ma negli scritti che vanno sotto il nome di Metodio nulla si trova che giustifichi tale sostituzione.

Fazio degli Uberti, introducendo nel c. 12 del l. I del Dittamondo, Roma a narrare la propria storia, fa ch'ella dica fra l'altro:

Nel tempo che nel mondo la mia spera

Apparve in prima qui dove noi stiamo,

Dopo il diluvio ancor poca gente era.

Noè, che si può dire un altro Adamo,

Navigando per mar giunse al mio lito,

Come piacque a colui ch'io credo ed amo;

E tanto gli fu dolce questo sito,

Che per riposo alla sua fine il prese

Con darmi più del suo ch'io non ti addito.

Non so se a tutta questa favola della venuta di Noè in Italia e di una città da lui fondata sul luogo di Roma, non abbia per avventura dato origine un monumento che nel medio evo si vedeva nel Foro di Nerva, e a cui era stato dato il nome di Arca di Noè. Giacomo Malvezzi crede che il Noè che venne in Italia non fu il Patriarca, ma un altro.

Galvagno Fiamma narra inoltre, seguendo in parte la Historia scholastica di Pietro Comestore, come il figliuolo di Noè, Janito, peritissimo in astrologia, vaticinasse i quattro imperi, e la dominazione del quarto, cioè del romano, sopra tutta la terra. "Quo audito Nembrot gigas altissimus, et tyrannus crudelissimus, qui turrim Babel propterea erexit cupiditate dominandi altius, ut in illa Civitate nomen suum perpetuum haberet, vocavit filium suumnomine Camesem, praecipiens ei, ut navigio intraret Italiam, et ibi aliquam Civitatem construeret, sperans quod illa foret, quae Domina Mundi futura esset: Quibus auditis Cameses, praecepto patris arctato, navigio intravit Italiam, et in partibus ubi nunc est Roma, primus inhabitator fuit". Dopo di lui viene in Italia Noè.

Ma ciò che fa più maraviglia si è ritrovare la leggenda nel libro di Pierfrancesco Giambullari, intitolato Origini della lingua fiorentina, altrimenti il Gello, e stampato la prima volta in Firenze l'anno 1547. Messer Pierfrancesco, autore della Storia generale d'Europa, e uno dei fondatori dell'Accademia Florentina, par quasi voglia darsi l'aria d'avere scoperto egli per il primo questo gran fatto della venuta di Noè in Italia e mostra di riuscire a tale scoperta per via d'induzioni, come potrebbe fare uno storico moderno, che, col sussidio della filologia e della mitologia comparata, risalendo di grado in grado, riesca a stabilire alcun fatto della storia primordiale. Ecco, in succinto, il suo ragionamento, scopo ultimo del quale si è di mostrare che la lingua toscana deriva dall'aramea per mezzo dell'etrusca. Anzi tutto si vogliono fissare due punti non soggetti a controversia: l'Italia fu, negli antichissimi tempi, denominata Enotria, e Giano fu il primo re d'Italia secondo le memorie più autentiche. Ora Enotria vuol dire paese del vino, e Jano è nome

arameo ed ebraico, formato di Jain, che significa vino, e di no, che significa famoso. Dunque Jano è l'inventore del vino e una stessa cosa con Noè, il quale è pure tutt'uno con Ogige e con Cielo, ossia Urano. "Ma che Jano sia veramente Noè lo manifesta ancora il suo sepolcro, trovato(dicono) a Roma nel monte Janicolo non è molti anni. Perchè in quello, oltre la testa con due visi, ed oltre la nave, si vedeva intagliata una vite con molti grappoli di uva per conservare quanto più si poteva la memoria di tanto dono". Le due facce simboliche di Giano assai bene si convengono a Noè, il quale appartenne a due diverse età, l'una prima, l'altra dopo il diluvio. Noè venne in Italia 108 anni dopo il diluvio, prima assai della confusione babelica, la quale segui poi l'anno 340. Saturno più tardi si associò a lui, e allora ebbe principio l'età dell'oro.

Finalmente Giovanni d'Outremeuse, attingendo a non so che sorgenti, narra la seguente ingarbugliatissima istoria: "A temps de chis Nemprot vient promier Japhet habiteir en Europe; si amynat awec ly dois de ses fils, qui furent nommeis Jabam et Rachem. Et vinrent aweo eaux Janus, li fils Jabam, et Janus, li fils Rachem, et pluseurs altres de la nation Japhet, et vinrent en droit lieu où la citeit deRomme fut depuis et est fondée. - Et edifiat là chascon tabernacles, sicom vilhettes petites; et furent toutes nommeis apres leurs nommes des II Janus, excepteit une qui fut nommée Recheane, apres Rachem. Mains ilhs n'oirent nient là habiteit une an, que grant multitude de serpens et altres biestes vynemeux les racacherent oultre mere, dont ilh astoient venus". Ma poi Rachem tornò "par le commandement de Dieu qui li envoiat certain signe, par lequeile ilh fist vuidier de son pays tous les serpens, et s'en alerent en Orient. Se prisent puis ches serpens habitation en la thour de Babel, c'on nommoit adont la thour de confusion. - Chis Rachem fist mult de habitation en Europ, en la partie c'on nomme Ytalie, où Romme siet".

Poichè siamo a discorrere delle prime favolose origini di Roma, fermiamoci un momento sopra una curiosa leggenda rabbinica, la quale esprime assai bene l'odio che, dopo la distruzione di Gerusalemme, gli Ebrei nutrirono per Roma, e che così sovente si trova significato nei Talmudisti. Nello Scir hascîrun rabba si dice che nel giorno medesimo in cui Salomone sposò la figlia di Neco, l'angelo Michele, ministro dell'ira del Signore, piantò una grossa canna nel mare, intorno alla quale si raccolse a poco a poco la terra su cui più tardi fu edificata Roma. Nel giorno in cui Geroboamo eresse i due vitelli d'oro furono in quella terra costrutte due capanne, le quali tosto rovinarono. Ricostrutte, rovinarono

novamente. Allora un vecchio per nome Abba Kolon, disse a coloro che le costruivano: "Queste capanne non si reggeranno finchè voi non mescoliate la terra con acqua dell'Eufrate". Il vecchio parte e procaccia l'acqua, la quale, mescolata col limo, fa sì che le capanne si reggano. Nel trattato Avóda fára del Talmud Gerosolimitano si dice che le due capanne furono costruite da Romolo e Remo. Nel Medras Tillim si dice che Romolo e Remo costrussero due grandi capanne; ma nel trattato Sciabbath non si parla che di una capanna sola. Nel Kol bóchim è l'angelo Gabriele quegli che pianta la canna.

Per finirla con le leggende che si riferiscono a tempi anteromulei, riporterò ancora un passo curioso della Cronica di Alfonso il Savio. Nel c. XCIX, della parte 1ª, si legge quanto segue: "Otros cuentau en las estorias antiquas de España que quando el rey Rocas anduvo por el mundo buscando los saberes, assi como es ya contado en el comienço de esta estoria de España, que vino por aquel logar do despues fue poblada Roma, è escrivio en dos marmoles quatro letras, las dos en el uno è las dos en el otro que dezien Roma,è estas fallo hi despues Romulo quando la poblo, è progol mucho porque acordavan con el su nombre, è pusol nombre Roma". Così più tardi, secondo che nella stessa cronaca si legge(c. VI), Giulio Cesare edificò Siviglia per certa indicazione che trovò fatta da Ercole sopra una lapide.

Non mi fermo sui successori di Enea, intorno ai quali tanto già avevano favoleggiato gli antichi. Il medio evo non li dimentica; ma ne stravolge i nomi nelle più inaspettate, e spesso nelle più comiche guise. Dei tempi di Enea e delle guerre da lui combattute, si credette d'aver trovato, verso l'anno 800 secondo Elinando, nell'XI secolo secondo Guglielmo di Malmesbury, un curioso testimonio; il corpo cioè di Pallante, con quest'epitafio:

Filius Evandri Pallas, quam lancea Turni

Militis occidit more suo, iacet hic.

Il corpo, mirabilmente conservato, era gigantesco; la ferita in mezzo al petto misurava quattro piedi e mezzo. Ma veniamo oramai a Romolo e a Remo e alle leggende che li riguardano.

Al pari degli altri più famosi eroi Romolo e Remo sono ricordati e celebrati nel medio evo. Guiraut de Calanson, nel conosciutissimo enseïnhamen dove enumera le storie che il giullare non deve ignorare, fa pure ricordo

De Romulus

E de Remus

Cil que feron Roma bastir.

Di Romolo dice Fazio degli Uberti nel Dittamondo:

Bel fu del volto, di membri e del busto,

Forte, leggiero e di grand'intelletto,

E temperato molto nel suo gusto.

Va da sè che in pieno cristianesimo non si poteva più credere alla favola gloriosa degli amori di Marte e di Rea Silvia. Ciò nondimeno Giovanni d'Outremeuse racconta ingenuamente la strana storia che segue, probabilmente da lui medesimo immaginato: "Item, l'an David IIIe et VI, astoit aleis joweir li roy Amilius des Latins en la citeit de Remech, et là engenrat-ilh en corps de sa femme, le XV jour de may, à une fois II enfans lesquelles furent al chief del terme neis en une altre citeit qui oit nom Romech; et, quant li roy veit que sa femme Oderne estoit délivrée de dois enfans marles, se nominat le promier qui nasquit, selonc la citeit de Romech en laqueile ilh astoit neis, Romelus; et l'autre ilh nommat Remus selonc le nom de la citeit de Remeche, où ilh furent engenreis..... Item, l'an David IIIe et XXV, transmuat Mars le dieu des batailhes et li dies des Latins, les figures Romelius et Remus en la semblanche des figures de Romelus et de Remus, les enfans le roy Amilius, tout entirement de corps, de vestimens, de parolles, de sens et de tout; et se les fist demoreir avec le roy une nuit en dormant, si que lematinée ilh furent ausi adeistre à la court que doncque fussent les altres. Et les aultres, qui astoient drois fis de roy, ilh mist demoreir avec Laurenche, en la maison le pastour, ensyment transmueis. Et chu fist-ilh portant que li roy Amilius devoit morir, qui morut l'an del coronation le roi David IIIe et XXVI".

Giovanni Mansel nella Fleur des histoires dice di Rea Silvia supposta gravida di Marte: "Et peut estre qu'elle fut illusée ou opprimée d'ung deable incube". Antonio Cornazzano invece, riferita l'antica storiella, soggiunge argutamente:

Se pur tal cosa favola si crede,

La madre è da lodar per l'inventiva

Che del suo stupro a dio la colpa diede.

In una storia latina manoscritta che si conserva nella Nazionale di

Torino(cod. E, V, 8) si legge(f. 1 r., col. 2ª): "Romulus et Remus nati occulto coitu ex Helia filia Numitoris"; ma nel Commento alla Divina Commedia d'anonimo del secolo XIV si dice schietto schietto: "La verità fu che un chierico della chiesa ebbe a fare con lei, et di lui et di lei nacquono Romolo et Remo".

La favola della lupa nutrice, già messa in dubbio dagli antichi, trova ancor essa pochi sostenitori, e sì che l'ammetterla per vera non doveva sembrare troppo difficile nel medio evo, quando più casi consimili si raccontavano dagli storici. Brunetto Latini così ne ragiona nel Tesoro: "Et parce que maintes estoires devisent que Romulus et Remus furent né d'une lue, il est bien droiz que je en die la verité. Il est voirs que quant il furent né, l'on les gita sor une riviere parce que le gent ne s'aperceussent que lor mere eust conceu. Entor cele riviere manoit une feme qui servoit à touz communement, et tels femes sont apelées en latin lues. Cele feme prist les enfanz et les norri molt doucement; et por ce fu il dit que il estoient fil d'une lue, mais ne estoient mie". Cedreno narra invece che la nutrice di Romolo e Remo fu una guardiana di pecore. Donne sì fatte si chiamarono lupe, perchè use a vivere nei monti fra i lupi. Non so quale fortuna tale opinione s'abbia avuto in Oriente; ma in Occidente, quella che Brunetto Latini espresse in forma sì categorica, prese il sopravvento. Armannino Giudice dice brusco e succinto che la nutrice dei figliuoli di Rea "fu una grande puttana, ma li autori volsero parlar di loro cortesemente"; e ancora: "perchè ella era la maggior puttana del paese per la gente si chiamava lupa". Giovanni d'Outremeuse, eclettico e conciliativo, racconta che i due fanciulli furono allattati e da una lupa e da Acca Larenzia, per cagione de'suoi costumi soprannominata lupa. Ciò non di meno la lupa, quale emblema delle loro origini, fu sempre cara ai romani, anche nei tempi di mezzo. Benedetto di Sant'Andrea, il quale scriveva intorno al mille, parlando di un luogo del Laterano cui davasi nome Ad lupam, ricorda due volte che la lupa era detta madre dei Romani.

Romolo fonda Roma riunendo in una le molte città costruite da' suoi precedessori, e chiamandola dal proprio suo nome. A compiere la nuova città si richieggono numerosi artefici e copiosi materiali. Non si voleva credere che Roma nel suo principio altro non fosse stata che un povero villaggio e un nido di malandrini. Il solito Giovanni d'Outremeuse racconta: "Sor l'an del coronation le roy David IIIº e XLVII, commenchat Romelus à edifier la grant citeit de Romme; si mandat ouvrirs par tout

Europ, et assembla toute la mateire que ilh besongnoit à son ouvraige; se fist encloire de murs toutes les citeis que ses devantrains avoient fondeit, dont la plus grant astoit Eneach, que Eneas fondat; et toutes les altres qui là altour astoient fondées, por tant qu'ilh gisoient toutes en unc reon à une liewe ou demy pres, et si en estoit par compte XXXVI citeis, encloyt ou fist encloire Romelus; et fist une seule citeit, et leurs tollit leurs noms, quant elle fut parfaite, et appellat selonc son nom celle citeit Rome, et encor at-ilh à nom Romme". Ciò avvenne l'anno del mondo IIIIm IIIc IIIIxx IIII, cioè 4484. Secondo Armannino Giudice Romolo e Remo costrussero Roma quando già avevano conquistate molte terre, ed erano venuti in grande signoria. "Ora sono gli due fratelli in molto grande stato. Molte e molte terre si sommisero. Tanto cresciette la loro grande possa ch'egli pensarono di fare nuova ciptade la quale fosse chapo di tucto il reame. Consiglio n'ebero da loro indovini ove meglio fare si dovesse la ciptade per migliore sito e per più fertile luogho, per buon agurio e sotto migliore pianeto. Subitamente apparve una aguglia sopra quello luogho dove è oggi Roma rotando intorno al cerchiovito, facciendo lo suo giro. Questo fece dalla mattina insino a sera. Gl'indovini dissero apertamente che questo era miracholo da dio per dimostranza che la ciptade fare si dovesse proprio in quello luogo sopra 'l quale l'aguglia girava, e che quell'aguglia mostrava che quella ciptà che fare si dovea in quello luogho sarebbe chapo, guida e maggiore sopra ogni altra terra. Quivi allora fu chominciata la nobile ciptade la quale fu ed è per excellenza chapo del mondo". Nelle già citate cronache latine, contenute nel manoscritto H, V, 37 della Nazionale diTorino, si dice(f. 26 r.) che Romolo e Remo fondarono Roma con la speranza che s'avesse ad adempiere per essa la profezia di Jonito e una rivelazione fatta ad Enea. In pochi giorni Roma, il cui muro girava ventidue miglia, ed era munito di trecentosessanta torri, soggiogò tutte le città e i castelli vicini. Secondo Cedreno Romolo divise la città in quattro parti in onore dei quattro elementi, e costrusse un circo le cui dodici porte simboleggiavano i dodici segni dello zodiaco, e l'altre parti rappresentavano la terra, il mare, l'orto, l'occaso, il corso dei sette pianeti, il cielo. L'uso dei colori onde si distinsero le quattro fazioni, Prasina, Veneta, Alba e Russata, risale sino a lui. Costantino Manasse(XII secolo) racconta che Romolo segnò i confini della città con un aratro cui erano aggiogati un toro e una giovenca, il toro dalla parte esterna per significare gli uomini dover essere formidabili agli stranieri, la giovenca dalla parte interna per significare dover le donne essere feconde e fedeli ai loro mariti. Romolo

tolse pure una zolla fuor del confine, e la gettò dentro alla città augurando che questa potesse allargarsi a spese altrui.

Roma, sin dal suo primo nascere opulenta e magnifica, non fu popolata di pastori e di banditi, ma di varie stirpi generose, e di molti nobili uomini. A tale proposito dice la Graphia: "Anno autem CCCC.XXX.III. destructionis troianae urbis expleto, Romulus Priami Troianorum regis sanguine natus, XXII. anno etatis sue, XV. Kal. maias omnes civitates iam dictas muro cinxit, et ex suo nomine Romam vocavit. Et in ea Etrurienses, Sabinenses, Albanenses, Tusculanenses, Politanenses, Telenenses, Ficanenses, Janiculenses, Camerinenses, Capenati, Falisci, Lucani, Ytali, et omnes fere nobiles de toto orbe cum uxoribus et filiis habitaturi conveniunt". In quella strana farragine storica che va sotto il nome di Gioseffo Gorionide si narra che Romolo per paura grande che ebbe di Davide, cinse con un muro di quarantacinque miglia di giro la città da lui fondata. Vi si accenna anche a una guerra combattuta fra Romolo e Davide, ma non si dice quale ne fosse l'esito.

Due diverse leggende corsero nell'antichità sulla morte di Remo. Il medio evo accolse ora l'una, ora l'altra, ma diede anche lo spaccio a qualche nuova finzione. Secondo una leggenda nata, senza dubbio, in Francia, Remo, separatosi dal fratello, fondò la città di Reims, la quale sorpassava di gran lunga Roma in bellezza e in ricchezza. Tornato dopo alcun tempo a Roma, varca con un salto l'umile muro della città, ed è dal fratello fatto morire. Il figlio di Remo uccide poi lo zio e regna in suo luogo. Questa storiasi trova ora con una, ora con un'altra variante, nel romanzo francese d'Athis et Prophilias, in Giovanni d'Outremeuse, nei Faictz merveilleux de Virgille, nel Virgilius inglese ecc. Nell'Athis et Prophilias la storia è narrata nei seguenti termini:

Et Remus s'en ala en France,

Une cite fist par poissance;

Quant il ot assise e fondee

En son non l'a Rains apelee.

. . . . . . . . . . . .

A Rains estut Remus lonc tens,

Tant qu'il li vint en son pourpens

Qu'il iroit Rome veoir,

A Romulus qu'il veut savoir

Comment il maintenoit sa tere,

Se il i a ou pais ou guerre.

A Rome en est venus Remus,

Grant joie en maint Romulus,

Li citoien de la cite

En ont grant joie demene.

A Rome avoit ja moult de gent,

Forment poeplee espessement,

Encor erent li mur moult bas

Entor la vile par compas.

Romulus ot devant jure

.I. grant serment par grant fierte,

Pour çou que bas erent li mur,

Que cil dedens fuissent seur.

Que cil que les murs tressaurra

Que la teste li trencera,

Il n'en perdra ja mention,

N'autre gage si le cief non.

.I. soir s'aloit esbanoiier

Remus avoec .I. chevalier

Entor le murs de la cite

Que encor erent bas et le,

Les murs aloient esgardant,

Et la faiture devisant.

Remus dist .I. mot de folie:

"Cist mur ne m'atalentent mie.

Que valent mur qui ne sont haut,

Qui ne pueent soufrir assaut?

Il sunt trop bas desor la tere,

Ne pueent pas soufrir grant guerre".

Il ne sot mot del sairement

Qui ert jures novelement,

Si dist que les murs tressaudra

Que ja rien n'i atoucera.

Dist ses compains: "Je ne cuit mie

Qu'il ait home en ceste vie

Qui li devroit le cief tolir

Qui les murs peust tressalir".

Quant Remus l'ot s'est desfubles.

Puis li a dit: "Or esgardes".

Cele part vint tos eslaissies,

Par son le mur sailli em pies

Ou avoit .III. toises de le,

De l'autre part emmi le pre.

Quant il ot cele cose faite

Moult tost fu a Rome retraite.

Quant Romulus vit que Remus

Ot ensi tressailli les murs,

Le cuer ot plein de felonnie,

Sempres li porte grant envie,

Paor a qu'il ne claint sa tere,

Et qu'encor ne li face guerre,

Les diex eu jure u il s'atent

Qu'il l'ocira sans jugement.

Ses castelains et ses barons

A devant lui trestos semons,

Dist qu'il ne veut sa loi fauser,

Ne son sairement parjurer.

De son frere la teste a prise,

Moult en a fait aspre justise.

Or commença la felonnie,

La malvaistés, la symonie,

Qui jamais de Rome n'istra

Tant com li siecles durera.

Notisi che parecchi padri della Chiesa rinfacciarono a Roma il parricidio da cui ha principio la sua storia. Nei Faictz merveilleux de Virgille, nel Virgilius inglese(anche nel Virgilius olandese, Amsterdam 1552?) Romolo ècolto da grande invidia quando viene a risapere che le mura di Reims erano tanto alte che una freccia non avrebbe potuto raggiungerne la sommità, mentre quelle di Roma erano così basse che con un salto si potevano varcare. Romolo decapita il fratello con le proprie sue mani, poi va e distrugge Reims. La vedova di Remo la ricostruisce molto più bella e più forte di prima. Remo secondo, figlio dell'ucciso, leva un esercito, entra senza contrasto in Roma, decapita a sua volta lo zio, ed è fatto imperatore. Allora Roma ebbe mura e fossati, e molti superbi edifizii, e fu abitata da varie genti, e acquistò gran nome e grande possanza. In una cronica francese manoscritta che si conserva nella Nazionale di Torino(cod. L, II, 10, f. 80 r.) Remo passa in Gallia mandatovi dal fratello, mentre Giovanni d'Outremeuse racconta: "Romelus, par tant qu'ilh nasquit devant, voloit estre roy tot seul. Si encachat son frere, et fist crier .I. ban par tout son rengne, qui poroit Remus, son frere ochire, ilh le feroit riche home." Remo fugge in Gallia, fonda Reims, poi ritorna per chiedere a Romolo genti da popolare la sua città. Un pastore lo riconosce e lo uccide, ma Romolo fa impiccare il pastore. Il domenicano Roberto Holkot(m. nel 1349), facendo una confusione assai strana della storia di Romolo e di Remo con quella degli Orazii e de' Curiazii, dice nel Liber moralizationum historiarum che i due fratelli decidono del primato ponendo ciascuno a combattere tre campioni.

In Oriente sembra essersi diffusa un'altra leggenda abbastanza curiosa, la quale ha probabilmente radice in ciò che si narra della espiazione del fratricidio compiuta da Romolo nelle feste Lemurie. La trovo anzi tutto nel Compendium historiarum di Cedreno. Remo essendo insorto contro Romolo, questi lo fece morire, il che fu causa di grandi turbazioni nella città. L'oracolo Pizio fece intendere a Romolo che a farle cessare era mestieri si togliesse collega nel reggimento il fratello morto. Romolo fece fare una statua d'oro nella quale si riconosceva effigiato il fratello, e collocatala a canto alla propria, cominciò a dire ogniqualvolta esercitava la regale potestà: Noi ordinammo, noi decretammo, noi permettemmo; con che la città tornò in quiete. Lo stesso su per giù si ha nel Chronican Paschale, e negli Annali di Michele Glica.

Un'altra leggenda, orientale ancor essa, merita di essere qui ricordata. Nelle Revelationes che vanno sotto il nome di Metodio si narra che

Romolo altrimenti detto Armelo, sposò Bisanzia, figlia di Bisas re di Bizanzio, e di Chuseth, figlia del re Phool di Etiopia, e madre di Alessandro Magno. Romolo donò Roma alla sposa, del chegli ottimati suoi furono molto sdegnati. Da queste nozze nacquero tre figliuoli, Armelo, che regnò poi in Roma, Urbano, che regnò in Bizanzio, e Claudio che regnò in Alessandria. Lo scopo precipuo di questa poco sensata finzione, bizantina di origine, senza dubbio, si è di venire in appoggio dei diritti che gl'imperatori vantavano su di Roma e su tutto l'impero romano.

Nel medio evo si mostravano in Roma i sepolcri di Romolo e di Remo, quello nella Naumachia dell'antico Campo Vaticano, accosto a San Pietro, questo fuori la Porta Ostiense, a ridosso delle mura, e propriamente nella piramide di Cajo Cestio(meta) che tuttora sorge in quel luogo. Ma la collocazione e la denominazione dei due sepolcri sono, nelle scritture e nelle piante di que' tempi, tutt'altro che costanti, e la piramide di Cestio si trova designata anche come sepolcro di Romolo. L'Anonimo Magliabecchiano pone il sepolcro di Remo presso a Santa Maria in Cosmedin. Che la piramide di Cestio fosse il sepolcro di Remo fu creduto ancora dal Petrarca.

Tali, in parte, erano le leggende narrate un tempo dalla buona madre, che

. . . . . traendo alla rocca la chioma

Favoleggiava con la sua famiglia

Dei Trojani e di Fiesole e di Roma.

Se si considera un po più addentro lo spirito loro si scorge come sia intenzione a tutte quasi comune di mostrare che alla fondazione di Roma e della sua potenza si richiedeva il concorso e l'opera di molte e diverse genti:

Tantae molis erat romanam condero gentem.

CAPITOLO IV. Le meraviglie e le curiosità di Roma.

Gli antichi Romani ebbero durante tutto il medio evo fama di costruttori impareggiabili; dovunque una rovina, testimonio di più prospera civiltà, sfida l'urto dei secoli e le ingiurie degli uomini, la

fantasia popolare l'attribuisce, a ragione o a torto, ai Romani. Le rovine indestruttibili, ond'era piena l'eterna città, empievano di stupore gli animi dei riguardanti, e certo non v'era altro spettacolo che potesse inspirare della potenza romana un più alto e più immaginoso concetto. Il popolo che aveva innalzato la Mole Adriana, le Terme di Caracalla, il Colosseo, doveva parere ben degno di signoreggiare il mondo.

Le rovine di Roma sono universalmente note nel medio evo, sebbene spesso ne sieno falsati i nomi e se ne disconosca l'uso. A cominciare dal IX secolo, molte delle più cospicue vanno sotto la generica denominazione di palatia e di templa, come sotto il nome di palazzi e di basiliche vanno quelle di Atene. La celebrità loro è assai grande e diffusa. Esse dominavano superbamente le rozze ed umili costruzioni della nuova città, e, di lontano, si scoprivano al pellegrino che, ansioso, le cercava con gliocchi. Angilberto, parlando dei messi spediti da Carlo Magno ad accertarsi di quanto fosse occorso al Papa Leone, dice:

Culmina iam cernunt Urbis procui ardua Romae,

Optatique vident legati a monte theatrum.

Il monte a cui qui allude Angilberto non può essere altro che Montemario, da cui si scopre un'assai larga e bella veduta della città. Alla magnificenza di tale veduta accenna Dante quando fa dire a Cacciaguida:

Non era ancora vinto Montemalo

Dal vostro Uccellatojo.

Come i personaggi più illustri della storia romana divengono paragone d'ogni pregio e d'ogni virtù, così i monumenti di Roma, restituiti fantasticamente nella primitiva lor condizione, divengono paragone d'ogni magnificenza. Quando Paolo Diacono vuol celebrare gli edifizii di cui il Longobardo Arichi, duca di Benevento, ornava la sua città, la lode prende naturalmente la forma del confronto, e il poeta esclama:

Aemula Romuleis consurgunt moenia templis.

Sigiberto Gemblacense(n. c. 1030, m. 1112) dice degli splendori della città di Metz nella Vita di San Deoderico:

Cumque domos cerno, Romana palatia credo.

Nell'XI secolo la copia di edifizii per cui andava superba Roma è proverbiale. Ciascuna città abbonda in qualche cosa: Mediolanum in clericis, Papia in deliciis, Roma in aedificiis, Ravenna in ecclesiis. Il testo di Praga dei Mirabilia(XIII secolo?) porta il seguente titolo: Hec sunt

Mirabilia Rome quomodo gloriose constructa erat; e in fatto i Mirabilia, se poco se ne toglie, versan tutti sui monumenti.

Le Sette meraviglie del mondo furono descritte assai prima che Roma venisse in fiore; lo che spiega come a nessuna delle fabbriche le quali illustrarono poi la Città fosse dato luogo tra quelle. Gli stessi scrittori latini che fanno ricordo dei Miracula mundi non osano accrescerne il numero, nè farvi in onore di Roma sostituzione alcuna, ma si attengono fedelmente alla tradizione. Gregorio di Nazianzo, morto nel 389, non ricorda ancora nessun monumento romano, e lo stesso dicasi di Gregorio di Tours(n. c. 540, m. 594) e di Cedreno. Ma in uno scritterello De septem mundi miraculis, attribuito a Beda, ecco improvvisamente apparire a capo delle meraviglie il Campidoglio, che da indi in poi tiene onoratamente il posto che gli spetta. Nei Mirabilia inseriti nel volume intitolato De Roma prisca et nova varii auctores, pubblicato da Giacomo Mazochio in Roma nel 1523, alle sette meraviglie del mondo, fra cui è il Campidoglio, fanno degno riscontro sette meraviglie di Roma, le quali sono: l'Acquedotto Claudio, le Terme di Diocleziano, il Foro di Nerva, il Palazzo Maggiore, il Pantheon, il Colosseo, la Mole Adriana.

I Mirabilia cominciano la lista dei palazzi col Palatium majus in Pallanteo, ossia sul Palatino. Sotto il nome di Palatium majus, o Palazzo maggiore, si comprendevano pare, tutte le rovine del Palatino,le quali si credeva avessero formato un solo grande e magnifico palazzo. Fra i monumenti di Roma esso teneva per dignità il primo luogo, giacchè si credeva fosse stato sede ordinaria degl'imperatori e della suprema potestà del mondo; tuttavia la celebrità sua non raggiunse a gran pezza quella del Campidoglio e del Colosseo. Nella Graphia si narra che Giano costruì sul Palatino un palazzo "in quo omnes postea imperatores et cesares feliciter habitaverunt". Ranulfo Higden dice, sull'autorità di Gregorio, che il Palazzo maggiore era "in medio urbis in signum monarchiae orbis"; e Giovanni d'Outremeuse: "Premier astoit li palais maiour, qui seyoit emmy la citeit en signe de monarchie qui demontre justiche; chis astoit composeis al maniere de crois, car ilh avoit IIII frons, et en chascon front astoient cent portes de arren dorees". La prima cosa che Roma dal sommo del monte ove l'ha tratto, fa vedere a Fazio degli Uberti è il Palazzo maggiore:

Le cose quivi ne saran più conte,

Mi disse; e additommi un gran palagio

Ch'era dinanzi dalla nostra fronte.

E sopraggiunse: Pensa s'io abbragio:

Dentro a quel vidi re e più baroni

Tutti albergare bene e stare ad agio.

E vidil pien delle mie legioni,

Posto per segno in me di monarchia

In quella parte ove 'l bellico poni.

Nel Libro Imperiale il Palazzo maggiore è così descritto: "Palazo maggiore et chuliseo erano nel mezo di Roma, et era palazo maggiore ritondo, di giro oltre d'uno miglio, nel quale erano cinquanta altissime torri, chon cinquanta bellissimi palazi, e di belleza l'uno simile a l'altro, et l'alteza delle mura erano sesanta braccia et grosse dieci; le quali torre altretanto disopra passavano, ornate di bellissimi porfidi et marmi di diversi cholori, et nel mezo di drento era uno lacho, nel quale era ogni generazione di pesci, d'intorno al quale circhundava una strada di marmo biancho e seliciata di porfidi di diversi cholori, gl'intagli li quali facevano memoria delle storie troyane e dello avvenimento d'Enea in Italia. Lo palazo aveva una entrata di altissime e belle porti di metallo, et chosì erano porte et finestre degli altri palazi li quali erano drento di musayco tutti lavorati facendo memoria de' fatti antichi del chominciamento del mondo. Le tetta erano coperte di pionbo in fortissima volta, sanza alcuno edifizio di lengname, di chamere, sale, logge et chamminate forniti, che la natura none aveva in ciò niente manchato; citerne et fonti et pozi di dolcissime aque. L'aque del chondotto si chonducevano dal fiume di fogle sopra quasi i palagi, chadeva l'aqua in detto lacho, la quale veniva trenta miglia lontano. Nella sommità d'intorno s'andava a chavallo et a pie', come altri voleva. Hordinato erad'intorno da uno de' lati che infino a sommo saliva quasi a piano. Nel detto palazo stavano tutti li rettori li quali avevano a dare sententia, et anchora vi si teneva ragione a vedove et a pupilli et orfani. Furono certi imperatori ch'ordinarono loro stanze in certi luochi di Roma si chome fu dove era santo Yanni, che ivi si è Costantino, et a termo, dove s'adorava lo dio Erchole, dove si è Diociziano(sic), e dov'è ora santo Piero, che v'abitò Nerone, e dove santa Maria Trasperina(sic), che ivi si è Adriano, el quale edifichò chastel Santo Angnuolo; ma la maggiore parte degli imperadori stavano in palazo maggiore."

Passiamo ora al Colosseo, giacchè del Campidoglio avrò a dire più opportunamente in altro capitolo.

Il nome di Colosseo si trova primamente usato nelle Collettanee attribuite a Beda, e nella Vita di Stefano IV scritta da Anastasio Bibliotecario, il quale morì prima dell'886. I Latini ebbero l'aggettivo colosseus, dal quale certamente deriva il nome dell'anfiteatro Flavio. Per ragione della mole smisurata il popolo, probabilmente sin da tempo assai antico, cominciò a chiamare quell'anfiteatro amphitheatrum colosseum, e poi per brevità, trasformando l'aggettivo in sostantivo, Colosseum, senz'altro. Checchessia di ciò, i sopradetti scrittori tolsero certamente dall'uso popolare quel nome. Beda, che non fu a Roma, lo udì forse la prima volta da un pellegrino anglosassone. Ma il medio evo, non meno sollecito che fantastico ricercatore di etimologie, ricorse a più complicate spiegazioni. Armannino Giudice, narrato come nel Coliseo(divenuto qui, come anche altrove un tempio, anzi capo di tutti li templi che per lo mondo erano) fossero rinchiusi molti spiriti maligni, che facevano gran segni e gran miracoli, soggiunge che i sacerdoti solevano domandare agli stupiti spettatori: Colis eum? cioè il maggiore di quegli iddii; ed essi rispondevano: Colo, d'onde il nome di Coliseo. Il Ramponi dice nella già citata Storia di Bologna: "Templum namque in urbe Roma factum erat, quod totius orbis existebat caput, modo constructum pariter et fabricatum, magne latitudinis, et immense altitudinis, quod dicebatur collideus quia dii ibi colebantur."

Il Colosseo fu nel medio evo, com'è tutt'ora, la rovina più cospicua della città, e la più acconcia a inspirare un alto concetto della ricchezza e della potenza de' suoi costruttori. A quali peripezie andasse soggetto durante le invasioni non si sa; ma si può credere che più di una volta servisse di propugnacolo agli assaliti, o agli assalitori, e che non lo risparmiassero le fiamme barbariche. Nel medio evo diventa una cava di materiali da costruzione, d'onde si estrae travertino, ferro, piombo, marmo da farne calce. In tempi di guerra civile si trasforma in fortezza, contesa tra iFrangipani e gli Anibaldi; i terremoti soccorrono all'opera distruggitrice degli uomini. In pieno quattrocento Niccolò V, che pure s'acquistò fama lodevole di umanista, e ch'empiè Roma di fabbriche, lo spoglia ancora di marmi, per provvedere alle nuove costruzioni onde si accrescevano in Borgo i palazzi apostolici, e Paolo II non si perita d'imitare così biasimevole esempio a beneficio del suo privato palazzo in San Marco. Esposta da tanti secoli a tante e così formidabili cause di distruzione, l'antica ruina, rimanendo in piedi, pareva quasi dovesse essere indestruttibile, e ciò la faceva più meravigliosa agli occhi del popolo, convinto del resto, per virtù di una antica profezia, che la gran

mole dovesse durare quanto Roma e quanto il mondo. Certo, se se ne toglie il Campidoglio, non v'era in tutta la città altro monumento che potesse così vivamente eccitare la fantasia e provocare la leggenda.

Molti cronisti ricordano il colosso di Nerone a cui Vespasiano fece mutare il capo, un altro ponendovene che rappresentava il sole, con sette raggi intorno, i quali misuravano ciascuno ventidue piedi e mezzo. Nel medio evo si sapeva che il colosso rappresentava il Sole, e si sapeva pure dell'altro colosso, sacro al Sole, per cui era andata famosa nell'antichità l'isola di Rodi; può darsi ancora che in qualche cronaca si fosse serbato ricordo del colosso di Apollo che Lucullo trasportò da Apollonia a Roma. Fatto sta che il colosso Neroniano fu da taluno confuso con quello di Rodi. Ranulfo Higden così ne parla: "Aliud signum est imago Colossei quam statuam Solis aut ipsius Romae dicunt, de qua mirandum est quomodo tanta moles fundi potuit aut erigi, cum longitudo ejus sit centum viginti sex pedum. Fuit itaque haec statua aliquando in insula Rhodi quindecim pedibus altior eminentioribus locis Romae. Haec statua sphaeram in specie mundi manu dextra et gladium sub specie virtutis manu sinistra gerebat, in signum quod minoris virtutis est quaerere quam quaesita tueri. Haec quidem statua aerea, sed imperiali auro deaurata, per tenebras radiabat continuo et equali motu cum sole circumferebatur, semper solari corpori faciem gerens oppositam, quam cuncti Romam advenientes in signum subjectionis adorabant. Hanc Beatus Gregorius, cum viribus non posset, igne supposito dextruxit; ex qua solummodo caput cum manu dextra sphaeram tenente incendium superfuit, quae nunc ante palatium domini papae super duas columnas marmoreas visuntur. Miro quoque modo ars fusilis adhuc in aere rigido molles mentitur capillos, et os loquenti simillimum praefert." Nell'Eulogium si dice egualmente che il Colosso era stato prima nell'isola di Rodi: "fuit haec statua aliquando in insula Herodii." L'autore del Chronicon Paschale sembra cadere nello stesso errore quando dice che Commodo tolse il capo al Colosso di Rodi per porvila propria immagine. Naturalmente poi da parecchi si esagera l'altezza del simulacro: nella cronaca latina della Casanatense già citata di sopra si dice(f. 7. v.) che ai tempi di Nerone "Coliseus sive colosus Rome erigitur habens altitudinis pedes septemc." Qui vediamo dato alla statua il nome del Colosseo. Nel Chronicon Imaginis Mundi di Jacopo da Acqui il Colosseo è la statua di un dio, alta più di cinquecento piedi. Ma una strana favola, e degna d'essere qui riferita, è questa che Vincenzo Bellovacense racconta in un luogo dello Speculum Naturale. "Colossus homo monstruosus fuit, quem

occisum Tyberis fluvius cooperire non poterit, ipsumque mare per multo spatio rubro sanguine infecit, ut Adelinus dicit: cuius etiam templum et statua Romae facta est, quae ab eius nomine Colossus dicitur."

Fra il Colosso ed il Colosseo doveva neccessariamente prodursi nella leggenda una certa attrazione, provocata, se non altro, dalla somiglianza dei nomi. Il Colosso del Sole finisce per entrare nel Colosseo che gli sta dinnanzi, e il Colosseo diventa a dirittura il Tempio del Sole. Allora cominciano a venir fuori tutte le magnificenze e gli splendori di cui naturalmente s'immagina che il Tempio del Sole dovesse essere adorno. E qui troviamo anzi tutto la descrizione dei Mirabilia, ripetuta poscia da molti. "Coloseum fuit templum Solis mire magnitudinis et pulcritudinis diversis camerulis adaptatum, quod totum erat cohopertum ereo celo et deaurato, ubi tonitrua, fulgura et coruscationes fiebant, et per subtiles fistulas pluvie mittebantur. Erant preterea ibi signa supercelestia et planete Sol et Luna, quae quadrigiis propriis ducebantur. In medio vero phebus, hoc est deus solis manebat, qui pedes tenens in terra cum capite celum tangebat, qui pallam tenebat in manu, innuens quod Roma totum mundum regebat. Post vero temporis spatium beatus Silvester iussit ipsum templum destrui et alia palatia, ut oratores, qui Romam venirent, non per hedificia profana irent, set per ecclesias cum devotione transirent; caput vero et manus predicti ydoli ante palatium suum in Laterano in memoria poni fecit quod modo palla Samsonis falso vocatur a vulgo. Ante vero Coliseum fuit templum, in quo fiebant cerimonie predicto simulacro." Il Colosseo è già diventato il tempio del Sole, ma le cerimonie religiose si fanno ancor fuori, in un altro tempio. Ciò che qui e altrove si dice degli avanzi del Colosso è confermato dalle piante medievali, dove spesso, a canto al Laterano se ne vedono figurati il capo e le mani. Quanto alla distruzione del tempio essa è attribuita a Silvestro anche in una traduzione tedesca dei Gesta Romanorum, citata dal Massmann, e in una versione, pure tedesca, dei Mirabilia. Ranulfo Higden, come abbiamo veduto testè, l'attribuisce a Gregorio Magno; Giovannid'Outremeuse a Bonifacio III.

Il medio evo non sa più immaginare un anfiteatro scoperto, e però provvede di un tetto il Colosseo. A questo tetto accenna Fazio degli Uberti, senza tuttavia far parola dell'altre meraviglie:

Vedi come un castel ch'è quasi tondo:

Coperto fu di rame ad alti seggi

Dentro a guardar chi combattea nel fondo.

Per Fazio degli Uberti dunque il Colosseo è un anfiteatro e non un tempio; ma i più lo credono un tempio, e si compiacciono nella descrizione e nella esagerazione delle meraviglie che conteneva. Giovanni d'Outremeuse ne fa autore Virgilio. Del simulacro di cielo e dei varii artifizii che vi si vedevano parla anche, di passata, la Fiorita di Armannino; ma le maggiori stranezze che mai siensi dette sul Colosseo trovarsi nel Libro Imperiale, di cui non sarà fuor di luogo trascrivere l'intero passo. "Culiseo era uno tempio di somma grandeza et alteza, la quale alteza era cento cinquanta braccia, nella sommità del quale erano cholonne di venti braccia alte. Le mura sue furono sette, cinque braccia di lungi l'una dall'altra, et braccia cinque erano grosse. Lo tempio fu fatto in tondo sichome anchora appare. D'intorno aveva grandissima piaza. Le sue entrate furono molte, però che tanto era dall'una porta all'altra quanto la porta era largha, le quali mai per alchuno tempo si serarono, et tutte queste entrate facevano capo nel mezo, dove era una cholonna di metallo tanta alta che passava sopra al tenpio, dove si fermava tutto el tetto, del quale le trave erano di metallo, et l'altro edifizio era di rame, et chapelle cho lastre di pionbo. Nella ghuia disopra stava la immagine del sommo Giove. Questa era di grande statura et tutta di metallo ed di fuori dorata, et in mano una palla d'oro, et era sprendidissima. Questa era veduta da qualunque persona veniva a Roma. Da ogni gente che dapprima la vedeano si frettava le genua. Nel detto tenpio fralle dette mura erano molte chapelle chon infinite statue, et quale erano d'oro, et qual di cristallo, le quale presentavano quello iddio nel quale l'uomo aveva più divozione. Quivi stava lo dio Giove, lo dio Saturno, e la dea Cebele suo madre, lo dio Marte, lo dio Appollo, lo dio Venere, lo dio Merchurio, la dea Diana, lo dio Erchole, lo dyo Yanno et Vulchano, Yunone et Nettuno, la dea Ceres, lo dio Baccho, Eulo, Minerva, Vesta, et molti altri iddey li quali allora s'adoravano in queste chapelle, et tutte in luocho di musaycho lavorato. Venivano le genti di tutto el mondo a fare nel detto tenpio sagrificio, et chome eran giunti al Chuliseo non era lecito ad alchunovoltarsi in alchuna parte, perchè aveva tante porte, che la prima in che si schontrava in quella entrava, et andava addirittura infino alla cholonna di mezo, dove s'inginochiava e faceva disciprina per ispazio di un'ora; alla quale colonna stavano senpre appicchate infinite disciprine d'argento, e fatta l'oferta a Giove, andavano a quella chapella dove stava el suo iddyo, e lì stavano a digiunare tre dì, et portavano secho la vivanda, et chompiuti li tre dì andavano sopra il giro disopra,

dove erano gli altari del sagrificio, e lì uccidevano la bestia, et disotto mettevano el fuocho; apresso vi gittavano su incenso, perle e pietre preziose macinate, ciaschuno secondo sua possanza, et chosì per ispazio di tre ore facevano fummo a dio; et questa era loro venuta. Era tanto l'oro e le pietre preziose che erano nello detto luocho donate che saria impossibile a rachontallo, et per niente persona l'arie tochate, che si credevano prestamente morire". Qui il Colosseo pare confuso col Pantheon. Del resto la confusione fra Colosseo, Pantheon e Campidoglio è molto frequente, come vedremo più oltre. Flaminio Primo da Colle, esagerando la capacità del Colosseo, dice che vi potevano prender posto centonovantamila persone, mentre, veramente, non ne conteneva che centosettemila.

Ciò che si narra del cielo artifiziato del Colosseo e delle sue meraviglie fu tolto, senza dubbio, da una storia molto diffusa nel medio evo, nella quale si racconta che il re Cosroe di Persia, l'usurpatore della Croce, volendo essere adorato per dio, fece costruire una torre d'argento, in cui erano figure del sole, della luna e delle stelle, e certi sottili ed occulti meati pe' quali faceva piovere acqua, ed altri artifizii che simulavano lampi e tuoni. Un cielo di rame, adorno di fiori e di delfini che versavano acqua danno i Mirabilia anche al così detto Cantaro nel Paradiso di San Pietro. È curioso che Enenkel fa venire Cosroe a Roma a edificarvi la torre.

L'anno 1332 si fece con gran pompa nel Colosseo un giuoco di tori, in presenza delle più belle dame di Roma e d'infinito numero di baroni. Vi rimasero morti diciotto cavalieri e feriti nove; furono uccisi undici tori. E questo fu il solo spettacolo che ricordasse gli antichi usi del Colosseo, dove, più tardi, la Compagnia del Gonfalone ebbe in costume di rappresentare a Pasqua la Passione di Cristo.

Il Pantheon, che va debitore della sua conservazione al culto cristiano a cui fu consacrato, ebbe ancor esso la sua leggenda. Nei Mirabilia così se ne narra l'origine: "Temporibus consulum et senatorum Agrippa praefectus subiugavit Romano senatui Suevios et Saxones et alios occidentales populos cum quatuor legionibus. In cuius reversionetintinnabulum statuae Persidae quae erat in Capitolio sonuit, in templo Jovis et Monetae. Uniuscuiusque regni totius orbis erat statua in Capitolio cum tintinnabulo ad collum; statim ut sonabat tintinnabulum cognoscebant illud regnum esse rebelle. Cuius tintinnabulum audiens sacerdos qui erat in specula in ebdomada sua, nuntiavit senatoribus,

senatores autem hanc legationem praefecto Agrippae imposuerunt. Qui renuens non posse pati tantum negotium, tandem convictus petiit consilium trium dierum, in quo termine quadam nocte ex nimio cogitatu obdormivit. Apparuit ei quaedam femina quae ait ei: ""Agrippa, quid agis? in magno cogitatu es"". Qui respondit ei: ""Sum, domina"". Quae dixit: ""Conforta te, et promitte mihi te templum facturum, quale tibi ostendo, et dico tibi si eris victurus"". Qui ait: ""Faciam, domina"". Quae in illa visione ostendit ei templum in hunc modum. Qui dixit: ""Domina, quae est tu?"" Quae ait: ""Ego sum Cibeles mater deorum: fer libamina Neptuno, qui est magnus deus ut te adiuvet: hoc templum fac dedicari ad honorem meum et Neptuni, quia tecum erimus et vinces"". Agrippa vero surgens laetus hoc recitavit in senatu, et cum magno apparatu navium, cum quinque legionibus ivit, et vicit omnes Persas, et posuit eos annualiter sub tributo Romani senatus. Rediens Romam fecit hoc templum et dedicari fecit ad honorem Cibeles matris deorum et Neptuni dei marini et omnium demoniorum, et posuit huic templo nomen Pantheon. Ad honorem cuius Cibeles fecit statuam deauratam, quam posuit in fastigio templi super foramen, et cooperuit eam mirifico tegmine aereo deaurato. Venit itaque Bonifacius papa tempore Phocae imperatoris christiani. Videns illud templum ita mirabile dedicatum ad honorem Cibeles matris deorum, ante quod multotiens a demonibus Christiani percutiebantur, rogavit papa imperatorem ut condonaret ei hoc templum, ut, sicut in Kalendis Novembris dedicatum fuit ad honorem Cibeles matris deorum, sic illud dedicaret in Kalendis Novembris ad honorem beatae Mariae semper virginis quae est mater omnium sanctorum. Quod Caesar ei concessit".

Secondo la Kaiserchronik, il Pantheon era più particolarmente consacrato a Saturno, ma vi si onoravano ancora tutti gli altri demonii; secondo Enenkel, esso era consacrato a Venere, e serviva alle dissolutezze del suo culto.

Della sontuosità del Pantheon non si narrano gran meraviglie. Ranulfo Higden, sulla fede del solito Gregorio, dice che il tempio ha 260 piedi di larghezza. Alcuni credevano che la famosa pigna, la quale, secondo la testimonianza di San Paolino da Nola, stava un tempo sopra quattro colonne nell'atrio della Basilica Vaticana, e che fu poi trasportata, per dar luogo alla nuova fabbrica, nel giardino del Belvedere, avesse servito a turare il foro della cupola del Pantheon, d'onde risplendeva da lunge come una montagna d'oro. È noto che l'imperatore Costante II(641-68)

fece togliere, per portarle a Costantinopoli, le lastredi bronzo dorato che coprivano il tempio.

Del Mausoleo di Adriano, che Procopio descrive ancora integro e adorno di statue, così dicono i Mirabilia: "Est et castellum quod fuit templum Adriani, sicut legimus in sermone festivitatis sancti Petri, ubi dicit: Memoria Adriani imperatoris mirae magnitudinis templum constructum, quod totum lapidibus coopertum et diversis historiis est perornatum, in circuitu vero cancellis aereis circumseptum cum pavonibus aureis et tauro, ex quibus fuere duo qui sunt in cantaro paradisi. In quatuor partes templi fuere IIII caballi aerei deaurati; in unaquaque fronte portae aereae; in medio giro sepulchrum Adriani porfireticum, quod nunc est Lateranis ante folloniam sepulchrum papae Innocentii; coopertorium est in paradiso sancti Petri super sepulchrum praefecti, inferius autem portae aereae, sicut nunc apparent". Thietmar von Merseburg chiama il Mausoleo di Adriano Domus Thiederici, e dopo di lui altri scrittori lo chiamano con lo stesso nome, senza che se ne possa chiaramente scorgere la ragione. Domus Theodorici fu chiamato anche l'anfiteatro di Verona, e vedremo in seguito che a Teodorico fu attribuito pure il così detto Caballus Constantini. Nel Libro Imperiale la Mole Adriana, prima si dice costruita da Caligola, poi da Caligola solamente restaurata.

Perchè la Mole Adriana, che sin dai tempi di Procopio serviva ad uso di fortezza, prendesse nel medio evo il nome di Castellum Crescentii, è noto dalle storie; perchè poi, già molto prima, avesse preso quello di Castel Sant'Angelo è noto dalla leggenda. L'anno 500, essendo papa Gregorio I, infieriva in Roma una micidialissima pestilenza. Durante una processione ordinata a placare l'ira del cielo, il pontefice vide posarsi sulla Mole di Adriano un angelo, il quale, in segno della grazia ottenuta, riponeva la spada nel fodero.

I Mirabilia ricordano molti altri templi, a ragione o a torto così denominati, dei quali tuttavia non s'indica più che il nome. Del Mausoleo di Augusto, di cui pure si narravano meraviglie, dirò più opportunamente altrove.

Un'altra della maggiori singolarità di Roma era il circo di Tarquinio Prisco, ossia il Circo Massimo, di cui si legge nei Mirabilia: "Circus Prisci Tarquinii fuit mirae pulchritudinis, qui ita erat gradatus quod nemo Romanus offendebat alterum in visu ludi. In summitate erant arcus, per circuitum vitro et fulvo auro laqueati. Superius erant domus palatii in

circuitu, ubi sedebant feminae ad videndum ludum XIIII. Kal. Madii, quando fiebat ludus. In medio erant duo aguliae; minor habebat octoginta septem pedes S., maior C. XX. duos. In summitate triumphalis arcus qui est in capite stabat quidam equus aereus et deauratus, qui videbatur facere impetum, ac si vellet currere equum; in alio arcu qui est in fine stabat alius equus aereus et deauratus similiter. In altitudine palatii erant sedes imperatoris et reginae, undevidebant ludum". Giovanni Mansel ripete questa descrizione quasi parola per parola nella sua Fleur des histoires. Giovanni Cavallino soggiunge: "Dicitur autem ludus Circeus a circuitu ensium et armatorum hominum stantium per circuitum spectaculi. .... Ibique rursum erant duo equi erei ingentes deaurati, qui magica dispositione dispositi provocabant ad cursum equos ludentium in eodem". Del circo di Tarquinio parla anche Martino Polono.

I Mirabilia noverano quindici palazzi nel paragrafo De palatiis, la Graphia ne novera dodici, l'Anonimo ventidue; ma Beniamino Tudelense, che viaggiò dal 1160 al 1173, dice nell'Itinerario che Roma, i cui edifizii erano diversi da quelli di tutto il rimanente mondo, possedeva ottanta palazzi reali, e ricorda in modo particolare quello del re Galbino, dove erano tante sale quanti sono i giorni dell'anno, e si stendevano lo spazio di tre miglia. In una guerra civile vi perirono una volta più di centomila Romani, di cui si vedevano ancora le ossa. Il re fece scolpire e rappresentare nel marmo tutta la pugna. Questa descrizione pare accenni alle catacombe di San Callisto. Beniamino ricorda inoltre un palazzo di Giulio Cesare vicino a San Pietro, e il palazzo di Vespasiano, simile a un tempio, di grandissima e salda struttura. Ranulfo Higden ricorda come degni di maggiore ammirazione il palazzo di Diocleziano e il palazzo dei Sessanta Imperatori. "Palatium Diocletiani columnas habet ad jactum lapilli tam altas, et tam magnas quod a centum viris per totum annum operantibus vix una eorum secari possit. Item fuit ibi quoddam palatium sexaginta imperatorum, cujus hodie partem residuam tota Roma destruere non posset". Questo preteso palazzo di Diocleziano altro certamente non era che le famose Terme; ma non so che cosa potesse essere il palazzo dei Sessanta Imperatori, e solo trovo in una curiosa versione della storia di Florio e Biancofiore che al tempo dell'imperatore Rabon erano in Roma sessanta re e sessanta regine. Dei palazzi di Roma dice Armannino Giudice nel conto XXX della Fiorita che dall'uno all'altro andare si poteva su per certi ponti i quali quivi erano divisati. Che cosa dovessero essere i palazzi imperiali si può del resto immaginare facilmente, se dice Olimpiodoro in un luogo delle sue Storie che ogni

gran casa in Roma aveva quanto può avere una mediocre città, e soggiunge il verso:

Εῖς δόμος ἄστυ πέλει· πόλις ἄστεα μυρία κεύθει.

Gli avanzi delle terme facevano testimonianza di una fra le maggiori sontuosità dell'antica Roma. Forse il non potersi più intendere dagli uomini di una età imbarbarita come si provvedesse al loro uso e alle molte necessità che andavano congiunte con quello, fu causa che s'inventasse una non molto ingegnosa favola, secondo la quale Apollonio Tianeo, l'emulo diVirgilio nelle arti magiche, avrebbe, mercè un mescuglio di zolfo e di sale, acceso con una candela consacrata, provveduto in perpetuo al riscaldamento di certe terme da lui costruite. Seguitando la enumerazione delle meraviglie di Roma, dice Armannino Giudice nel conto XXX della Fiorita: "Eravi ancora uno deficio che si chiamava terme Diocliciani, e un altro il quale si chiamava terme Antignani. Questi erano palagi voltati, e su di sopra erano facti prati con arbuscegli e con molte erbe. Quivi si posavano gl'imperadori, ciò erano gli dictatori a tempo di state per refrigerio della grande calura; però terme furono chiamate quelle grandi palacza, che per lectera viene a dire stufe. Chosì è stufa quella ove il caldo si fugge come quella ove si caccia il freddo". I Mirabilia noverano dieci terme. Fazio degli Uberti si contenta di ricordare i termi di Dioclezian bello.

Gli acquedotti, altra gloria di Roma, sono ricordati da Ranulfo Higden, ma i Mirabilia appena ne fanno menzione per incidente. Nel V secolo Polemio Silvio ne registra quattordici. Il già citato Zaccaria(VI sec.) degli acquedotti non fa motto, ma registra milletrecentocinquantadue fontane. In un codice Bobbiense dell'VIII o IX secolo gli acquedotti indicati per nome, sono in numero di nove, e in numero di dicianove in un codice Vossiano. Nell'Anonimo Einsiedlense se ne trovano ricordati parecchi sotto il nome di Formae che è il nome dato loro comunemente nel medio evo, e dieci ne registra l'Anonimo Magliabecchiano sotto il nome di Aquae, usato anch'esso frequentemente.

Quanto ai ponti i Mirabilia ne registrano nove e Giovanni d'Outremense novecento. Le agulie ricordate dai Mirabilia sono, quella di S. Pietro, e le due che ornavano il Circo di Tarquinio Prisco; l'Anonimo Magliabecchiano ne ricorda due alte millecentododici piedi, e altre ottanta che si trovavano nel Circo di Tarquinio.

Una delle singolarità più curiose di Roma erano i due gruppi colossali di Monte Cavallo, che una tradizione certo assai antica, faceva opera di

Prassitele e di Fidia. Essi rappresentano, com'è noto, i Dioscuri; ma nel medio evo, perdutasi la memoria di ciò, e volendosi pure spiegare in qualche modo quelle figure, s'inventa una strana favola, fondata appunto sul nome di Prassitele e di Fidia che con esse era rimasto congiunto. I Mirabilia la narrano nel seguente modo: "Temporibus Tiberii Imperatoris venerunt Romam duo philosophi juvenes Praxitelus et Fidia. Quos imperator cognoscens esse tantae sapientiae caros in suo palatio habuit. Qui dixerunt ei se esse tantae sapientiae, ut quicquid imperator eis absentibus in die vel in nocte in camera sua consigliaverit, ei usque ad unum verbum dicerent. Quibus imperator ait: ""Si facitis quod dixistis, dabo vobis quicquid vultis."" Qui respondentes dixerunt: ""Nullam pecuniam, sed nostrorum memoriam postulamus"".Veniente altero die per ordinem retulerunt imperatori quicquid in illam praeteritam noctem consiliatus est. Unde fecit eis promissam praelibatam memoriam eorum sicut postulaverunt: equos videlicet nudos qui calcant terram, id est potentes principes huius saeculi qui dominantur homines huius mundi. Veniet rex potentissimus qui ascendet super equos, id est super potentiam principum huius seculi. In hoc seminudi qui stant iuxta equos et altis brachiis et replicatis digitis nunciant ea quae futura erant, et sicut ipsi sunt nudi, ita omnis mundialis scientia nuda et aperta est mentibus eorum. Femina circumdata serpentibus sedens, concam habens ante se significat ecclesiam et praedicatores qui praedicaverunt eam; ut quicumque ad eam ire voluerit non poterit, nisi prius lavetur in conca illa". Fazio degli Uberti accenna a questa favola quando fa dire a Roma:

Vedi i cavai del marmo e vedi i due

Nudi che 'ndivinar come tu leggi.

In una specie di profezia latina anonima i Cavalli marmorei sono ricordati insieme col Cavallo di Costantino:

Mundus adorabit, erit Urbe vix presule digna,

Constantine cades et equi de marmore facti

Et lapis erectus et multa palacia Rome.

Del così detto Cavallo di Costantino, altra singolarità di Roma, avrò a parlare in luogo più acconcio. A Roma i cavalli di metallo, di marmo, e persino di avorio, abbondavano, erano un lusso della città. A voler credere all'Anonimo Magliabecchiano, verso il mezzo del secolo VII si trovavano ancora entro le mura, sparsi qua e là, settantaquattro cavalli

di avorio, portati poi via da quel medesimo Costante che rubò al Pantheon le tegole di bronzo. I quattro cavalli che adornano ora la facciata di San Marco in Venezia si vuole che in origine sieno stati in Roma, dove appartenevano a un arco di Plisco o Prisco. Di una statua equestre che per artifizio di calamite stava sospesa in aria parla Ranulfo Higden. Parecchie altre meraviglie di minor conto si vedevano in Roma come l'Albeston, le Colonne di Salomone ecc.

Ma se tutti, in genere, i monumenti di Roma attestavano l'opulenza e lo splendore della città, uno ve n'era che faceva più particolare testimonio della gloria e delle virtù degl'illustri suoi figli, e questo era, a detta di Giovanni Cavallino, la Colonna Antonina. Parlando della regione Colonna, dice l'autore della Polistoria: "Que regio ideo dicitur Columna a rectitudine et firmitate quibus ab olim incole huius regionis ad instar cuiuslibet stabilis edificii columnarum recti et firmi dicebantur. Prius ego confirmavi columnas eius. Quarum virtutes clarissimas imperator Antonius animadvertens inter tales viros regionis huiusmodi elegit habitationem; in qua occasione predicta ingentia construxit palatia, et erexit in titulum laudis et honoris sui glorieque perhennis ac regionis ipsius in sempiternum unam ingentem columnam marmoream concavama pede usque ad verticem, per quam patet ascensus per eam per quasdam scalas lapideas stantes in medio ipsius, cuius altitudo esse dignoscitur centum .xl. pedum. Et in circumferentiis columne huiusmodi iussit sculpiri ymagines simulacra et statuas, a sto dictas, representantes clarissimos viros consules Romanorum ob magnificas virtutes et gesta eorum, scilicet Brutorum, Publicolarum, Emiliorum, Fabritiorum, Curiorum, Scipionum, Scaurorum, Marcellorum, Muciorum, Coclitum, Turquatorum, Mariorum, Catulorum ac ceterorum generosorum virorum genere atque factis, et postremo illustrium Cesarum splendore fulgentium".

Per chiudere degnamente questa rassegna riferirò alcune immaginazioni degli Arabi intorno a Roma, immaginazioni che vincono di molto in istravaganza tutto quanto s'è veduto sin qui. Nei geografi e negli storici di quella nazione è assai spesso fatto ricordo di Roma e dei Romani, indicati alcuna volta col nome strano di Benu 'Iasfar, o piuttosto Banu 'l Asfar. Il mare mediterraneo è da essi chiamato il mare di Roma.

Edrîsî, il quale scriveva il suo trattato geografico nel 1153, alla corte del re Ruggero di Sicilia, parlando delle mura di Roma, dice che il muro interno aveva dodici cubiti di spessore e settanta di altezza, l'esterno,

otto di spessore e quarantadue di altezza. Il Tevere era lastricato di rame. La grandezza e la magnificenza di Roma, dice questo scrittore, sono tali che non si possono descrivere a parole. Jâkût(1179-1228) riferisce nel suo dizionario geografico intitolato L'alfabeto dei paesi, una descrizione di Roma lasciata da Ibn al Faqîh, il quale fioriva nella prima metà del X secolo, e piena delle più pazze immaginazioni. Jâkût dice di riferirle perchè molti famosi dotti ne parlarono, ma Dio solo conoscere la verità. Il mercato degli uccelli è lungo una parasanga. Vi sono in città seicentomila bagni(altrove dice seicentosessantamila). I mercati sono meravigliosi: un braccio di mare, condotto entro un canale di bronzo, dà via alle navi, che possano giungere sino ad essi e scaricarvi comodamente le loro mercanzie. La città ne possiede dodicimila, senza contare ventimila più piccoli. La chiesa di S. Pietro e Paolo è lunga mille braccia, larga cinquecento, alta dugento. La chiesa di Santo Stefano è tutta di una pietra sola, e le stanno intorno trentamila stiliti sulle loro colonne. La chiesa delle Nazioni, altrimenti detta di Sion, ha milledugento porte di ottone, quaranta d'oro, e molte altre ancora di avorio, d'ebano e di altre materie. Vi sono mille filari di colonne di quattrocentoquaranta colonne ciascuno. La servono seicentodiciotto vescovi, e cinquantamila fra preti e diaconi. Si parla della Salvatio Romae e si pone nella residenza del papa. Si narra la storia dello stornello di bronzo as-Sûdânî, a cui certo giorno dell'anno gli stornelli di tutto il paese circostante recavano ciascuno nel becco un'oliva,e così tante se ne raccoglievano che bastavano a provvedere d'olio tutta la città. Per dare un'idea della estensione di questa si dice che le sue campagne, sebbene si distendano all'ingiro per più mesi di cammino, sono insufficienti a vettovagliarla. Per dare un'idea del tramestio rumoroso della popolazione nella gran metropoli si riportano le parole di G'ubair ben Mut'im che disse: Se non fossero le voci e il chiasso che levano gli abitanti di Roma, si potrebbe udire il romore che fa il sole quando nasce e quando tramonta. Infilatene tante Jâkût ripete: Dio solo conosce la verità.

Ibn Khaldun, che ha un mirabile sentimento della verità storica, e spesso si duole della credulità dei suoi connazionali, parlando del quinto clima si contenta di dire: "Roma la Grande ha, come a tutto il mondo è noto, immensi edifizii, monumenti meravigliosi e chiese antiche". Tuttavia alla favola del Tevere lastricato di bronzo aggiusta fede ancor egli.

Crede il Guidi che queste immaginazioni risalgano per la massima parte a scrittori greci, dai quali, per mezzo dei Siri, gli Arabi attinsero quanto sanno intorno a Roma. Di ciò non mi persuado interamente. Le fantasie testè riferite hanno spiccatissimo il carattere arabico, e ben si accompagnano con altre infinite di simil natura che si trovano sparse in quegli scrittori. Descrizioni di città meravigliose e di telesmi singolari s'incontrano ad ogni passo nei geografi e negli storici.

Alle immaginazioni arabiche possono fare conveniente riscontro le rabbiniche. Nel trattato Pesachim del Talmud si dice: "Nella grande città di Roma sono trecentosessantacinque vie, ed in ciascuna via trecentosessantacinque palazzi, ed in ciascun palazzo trecentosessantacinque gradini, e per ciascun gradino tanto quanto basterebbe a nutrire tutto il mondo". Nel trattato Meghilla si legge: "L'Italia della Grecia(?) è la grande città di Roma, la quale ha trecento miglia di lunghezza e di larghezza(ogni miglio formato di quattromila passi) e conta trecentosessantacinque vie, quanti sono i giorni del sole, delle quali la più piccola è quella dove si tiene il mercato degli uccelli, lunga sedici miglia e larga altrettanto. Il re desina ciascun giorno in una di esse, e ciascuno di coloro che vi abitano, se non vi è nato, riceve dalla casa del re una razione di cibo, e se vi è nato, anche se non vi abiti, la riceve dal re. Vi sono anche tremila terme, e cinquecento finestre(?), le quali mandano il fumo al disopra dei muri. Da una parte della città è il mare, da un'altra sono monti e colline, da un'altra un muro di ferro, da un'altra una campagna sterile e sassosa con profondi fossati."

Così coloro stessi che più odiano Roma sono costrettia celebrarne ed esagerarne la grandezza e lo splendore.

CAPITOLO V. I tesori di Roma.

Nella Chanson de Roland la regina Bramimonda, moglie di re Marsilio, nel dare a Ganellone, in premio del suo tradimento, due braccialetti da regalare alla sposa, dice valere essi più che tutti i tesori di Roma:

Bien i ad or, matices et jacunces,

E valent mielz que tot l'aveir de Rume.

La fama della ricchezza di Roma era pari alla fama della sua potenza.

Nè poteva essere altrimenti, giacchè non solo le rovine delle antiche fabbriche facevano testimonio di impareggiabile opulenza, ma le storie

ancora, ricordando come i Romani avessero esteso il loro dominio sopra tanta parte di mondo, e assoggettati a tributo tanti e così diversi popoli, e i poeti similmente, nei cui versi la città dei sette colli sfolgora d'oro, avvaloravano la opinione che Roma dovesse riboccar di tesori. Ovidio, che il medio evo amò ed ebbe assai familiare, la confermava dicendo:

Simplicitas rudis ante fuit, nunc aurea Roma,

Et domiti magnos possidet orbis opes.

In tempi già tristi Prudenzio la chiamava ancora ditissima. Pisa, come s'è già detto innanzi, fu così chiamata appunto perchè ci si pesavano i tributi che da tutto il mondo traevansi a Roma, e poichè, stante la copia di questi, un luogo solo non era più sufficiente, i Romani provvidero a che ivi presso ne fosse ordinato un secondo, e perciò il nome di Pisa si declinò per grammatica in plurale, Pisae, Pisarum. Non si creda tuttavia che i tributi fossero molto gravosi; poichè, essendo così smisurato il numero dei tributarii, Roma poteva contentarsi di riscuotere da ciascuno un'assai picciola imposta. A tale proposito si legge nel Libro imperiale: "La gente viveva sanza alchuna spesa però ch'el magiore tributo che si arechassi a Roma per la magiore ciptà del mondo erano dieci honce d'oro per anno, sicchè picchola chosa per uomo ne tocchava. E tributi venivano a Roma in vasi di terra invetriati chon diversi cholori, et questo providdono e romani per fare di ciò perpetua memoria, perchè come el tributo era giunto a Roma gittavano et rompevano il vaso in uno luogho di che apare uno grandissimo monte apresso a quella porta che va a santo Pagholo, dove è el sepolcro di Remo, che si dice la meta di santo Pagholo. Tanto vuole dire meta quanto sepoltura, et chosì la chiamavano gli antichi. Molto furono e romani di grande provedimento. Pensando dare fama perpetua alla ciptà di Roma facievano le vase ronpere acciò che la giente, nè per avaritia, nè per altra chagione giamai non faciessino chura di cotali chose avere. Onde e' furo tante le vasa che sene fece a Roma uno grandissimo monte, sicchome ancora appare, et ponevano uno suolo di chocci et uno suolo di terra, et anche tiene quel nome, perchè si chiama el monte de' chocci, dove si fa le feste del toro nel tempo di charnasciale". I Mirabilia Romae pubblicati dall'Höfler di su un codice del XIV secolo terminano con le seguenti parole: "Tanta gloria, tanta leticia die noctuque fiebant in Roma quod quasi nullus pauper habebatur in ipsa, sed de omni parte mundi, per mare, sicut per terram, omnes divicie portabantur ad urbem". Nel già citato Opusculum de

mirabilibus novae et veteris Romae di Francesco de Albertinis è un capitolo intitolato De divitiis Romanorum, dove, con la scorta di antichi scrittori, si ricordano varii esempii di opulenza e di prodigalità, scelti fra i più solenni. L'epiteto di aurea deve certamente aver contribuito a far credere che in Roma si notasse nell'oro, e le statue d'oro massiccio, e i tetti dorati, di cui si fa così frequente ricordo, e certi edifizii che nel proprio lor nome recavano il testimonio dell'antico splendore, come la Casa aurea di Nerone, il Castellum aureum, l'Arcus panis aurei, confermavano vie maggiormente negli animi così fatta opinione.

Le monete d'ogni maniera, i vasi preziosi, le gemme incise, che qua e là cavando si ritrovavano per le varie province d'Europa, rifacevano presente agli spiriti l'opulenza romana. Tutto quanto si ritrovava sotterra si attribuiva ai gentili, e mescolandosi alla meraviglia la superstizione e come un religioso sospetto, facilmente s'immaginavano fole d'incanti e di diaboliche delusioni. Di tanto in tanto la scoperta di qualche maggiore tesoro, che a ragione, o a torto si reputava di origine romana, veniva ad accendere le fantasie. Nelle cronache si fa assai spesso ricordo di tesori trovati. Fredegario racconta che l'anno VII del regno di Childeberto I(517) un certo duca Rodino trovò dentro una tomba un gran tesoro, e Sigiberto Gemblacense che il re franco Gontrano uno ne scoperse grandissimo, e in assai strano modo, entro il cavo di un monte. Poi scoperte così fatte si moltiplicano nei tempi posteriori, e di alcuna che più particolarmente risguarda Roma è appunto mio intendimento discorrere nel presente capitolo.

Che in Roma grandi tesori dovessero essere sepolti sotto le rovine era naturale si credesse da molti, e tale credenza rimontava molt'alto. Il Curiosum urbis del V secolo ha un passo dove si accenna a un tesoro nascosto sotto una statua di Ercole. Giacomo da Acqui racconta a proposito delle origini della famiglia Colonna, nell'assegnare le quali si discosta da tutti gli altri scrittori, la seguente istoria: "Non inveni millesimum nec aliquod bene certum nisi utinfra scribitur. Dicitur enim quod in illo tempore fuit in Roma quidam ferrarius qui habebat suam vacham, que omni die per se ibit ad pascum et sero domum revertebatur sola. Miratur ferrarius de via istius vache. Quid facit? insequitur eam et observat quo vadit. Et invenit quod intrat quamdam magnam testudinem obscuram cuiusdam maxime ruine murorum. Vadit ferrarius ulterius, et invenit vacca quemdam magnum foramen et genibus flexis intrat vacha, et invenit quemdam pratum sicut esset

claustrum, et ibi comedit vacha. Intrat ferrarius ibi curiose, querit et invenit quoddam edificium, et in medio edificii erat quedam columpna lapidea, et supra columpnam vas de ere plenum maxima pecunia. Vult ferrarius accipere de ista pecunia, et audit vocem sibi dicentem: Dimitte, dimitte, quia non est tua. Iterum temptat accipere, et sic usque tertio. In tertia vice dicitur sibi: Accipe tres denarios, et invenies in foro cuius est hec pecunia. Accepit ferrarius tres denarios et proiecit in foro hinc inde. Et ecce quidam pauper iuvenis despectus invenit unum et accepit, et invenit duos, invenit tertium, et ferrarius illum domum suam introduxit, a sordibus mundavit, induit, et filiam suam in uxorem dedit. Iste iuvenis de illa multos filios generavit, de pecunia vero predicts multas possessiones acquisivit. Et in brevi tempore crevit in Roma in populum et fecit armam suam una columpna intus, et vocavit se cum sequacibus suis dominus O. de Collumpna. De facto predicto aliam certitudinem nisi predictam inveni".

Narra Flaminio Vacca, parlando del così detto Arco di Portogallo, che ai tempi di Pio IV(1559-1565) capitò a Roma un Goto(sic) con un libro antichissimo il quale dava notizia di un tesoro nascosto nelle fondamenta di esso arco. Ottenutane licenza, cominciò a cavare in una delle pile, ma il popolo si levò a rumore, talchè egli ebbe a smettere e si partì. Lo stesso scrittore racconta anche di certi tesori probabilmente ritrovati da uomini incogniti nel circo di Caracalla.

Come abbiamo già veduto, Roma fu immaginata opulenta e magnifica sino dalle origini. Secondo una leggenda napoletana riferita da Corrado Cancellario, più conosciuto sotto il nome di Corrado di Querfurt(m. 1202), i tesori dei primi sette re sarebbero stati nascosti entro le viscere di un monte nell'Isola d'Ischia. Ecco le proprie parole di Corrado: "Est ibidem mons barbarus, ad quem per viam subterraneam per medium maximi montis accessimus per tenebras infernales, tanquam ad inferos descensuri. In quo monte, in ipsius montis visceribus, maxima sunt palatia et vici, quasi maximae civitates, subterranei; quos quidam ex nostris viderunt, et sub terra quasi per spatium duorum miliarium processerunt. Ibidem thesauri septem regum asseruntur repositi, quos daemones custodiunt in aereis imaginibus inclusi, diversas terribiles imagines praetendentes, quidam arcutenso, quidam gladiis comminantes". Veramente Corrado non dice che i sette re di cui parla fossero quegli stessi di Roma, i quali non lasciarono molte tracce nelle leggende del medio evo, ma parmi che non si possa intendere d'altri che

di loro. Ciò che dice della città sotterranea è da riferire molto probabilmente a una qualche cava di tufo.

Questa leggenda, se pure fu popolare a Napoli e nella circostante regione, non sembra sia stata conosciuta dagli scrittori, giacchè io non trovo che altri ne faccia ricordo; conosciutissima, per contrario, e accolta in un gran numero di svariate scritture, in Italia e fuori, fu quella di cui ora mi accingo a parlare. Nei Gesta Romanorum si legge quanto segue: "Erat quedam ymago in civitate romana, que rectis pedibus stabat habebatque manum dextram estensam et super medium digitum erat superscriptio: Percute hic! Imago ista a longo tempore sic stabat eo, quod nullus sciebat, quid hoc significaret: Percute hic! Multi admirati sunt et sepius ad imaginem venerunt titulum respiciendo, et sic recesserunt, quod superscriptionem penitus ignorabant. Erat quidam clericus subtilis valde, qui cum de imagine audisset, multum sollicitus erat eam videre; dum autem eam vidisset et superscriptionem legisset: Percute hic! vidensque solem super imaginem per solis umbram digitum discernebat, per quem dicebat: Percute hic! Statim ligonem accepit et vix per distanciam trium pedum fodiebat et quosdam gradus descendentes inveniebat. Clericus non modicum gaudens desuper gradatim descendit, quousque sub terra nobile palacium invenit, et aulam intravit, vidensque regem et reginam et multos nobiles in mensa sedentes respexit et circumquaque totam aulam plenam hominibus et omnes erant vestimentis preciosis induti, et nullus ex omnibus unicum verbum ei loquebatur, respexitque ad unum angulum et vidit lapidem politum, qui vocatur carbunculus a quo tota domus lumen recepit, et ex opposito carbunculi angulo hominem stantem habentemque in manu sua arcum paratum cum sagitta ad percuciendum et in fronte ejus erat scriptum: Ego sum qui sum, nullus arcum meum vitare potest et precipue carbunculus ille qui relucet tam splendide. Clericus cum hoc vidisset admirabatur, cameram intravit, mulieres pulcherrimas in purpura et pallio operantes invenit et nullum verbum ei dixerunt. Deinde stabulum equorum intravit et optimos equos et asinos et sic de ceteris invenit, eos tetigit et ad tactum suum lapides apparuerunt. Hoc facto omnia habitacula palacii visitavit, et quidquid cor eius desiderabat, hoc invenit; deinde sicut prius aulam intravit et de recessu cogitabat ac in corde suo dicebat: Mirabilia vidi hodie, et quidquit cor desiderat, hoc poterat invenire; verumtamen nullus dictis meis credet de istis que vidi; et ideo bonum est in signum veritatis aliquid mecum portare. Ad mensam superiorem respexit, ciphos aureos ac cultellos optimos vidit;

ad mensamaccessit, unum ciphum cum cultello de mensa levavit ut secum portaret. Cum vero in sinu suo collocasset, imago que in angulo cum arcu et sagitta stabat, ad carbunculum sagittam direxit et illum percussit et in multas partes divisit. Incontinenti tota aula facta est sicut nox tenebrosa; clericus videns totaliter est contristatus; viam exeundi propter nimiam obscuritatem invenire non poterat; et sic in eodem palacio misera morte mortuus est".

Qui si parla di un semplice chierico di cui non è nemmeno ricordato il nome, ma in altre versioni di questa medesima storia comparisce in suo luogo Gerberto, che fu poi Papa Silvestro II, del quale è nota la riputazione di mago, e la tragica morte raccontata dalla leggenda. Il più antico scrittore in cui si trovi fatta questa sostituzione è, per quanto io so, Guglielmo di Malmesbury, da cui attingono poscia Vincenzo Bellovacense, Alberico delle Tre Fontane, altri. Parmi che la versione della leggenda, quale si ha nei Gesta Romanorum, debba reputarsi più antica che non l'altra ricevuta da Guglielmo; giacchè quanto è naturale e conforme alle consuetudini della fantasia popolare che Gerberto Mago abbia attirata e legata a sè una leggenda che a lui sommamente si confaceva, e che non erasi congiunta ancora con nessun nome illustre, altrettanto sarebbe insolito e contrario a quelle consuetudini che la leggenda si separasse da Gerberto per legarsi a un ignoto. Ma or ora vedremo che nemmeno la versione dei Gesta può considerarsi come la forma più antica e veramente primitiva della leggenda in discorso.

Pietro Berchorio(m. 1362) accetta la versione di Guglielmo, ma poi ne produce anche un'altra, che si scosta pure da quella dei Gesta, e accenna a fonte diversa. La statua di rame era in Roma, non si dice dove. Essa non recava le parole Percute hic, nè sul dito nè in fronte, ma aveva questa iscrizione: Calendis Martii oriente sole habebo caput aureum. Un tale, più astuto degli altri, conobbe il significato di quelle parole, e scavato nel luogo opportuno, trovò e si appropriò un grandissimo tesoro. Questo racconto ci pone sulle tracce della leggenda primitiva che era, secondo il solito, molto più semplice che non le versioni posteriori. Lo stesso fa un racconto inserito nel Libro de los Enxemplos(XIV secolo?), salvo che quivi il fatto si pone in tempo antico, e l'ingegno, diciam così, della favola, si semplifica per una parte, e per un'altra si complica. Ecco il racconto: "Un noble romano poderoso é mucho rico, veyendo que Roma era venida a pobreza por las grandes guerras que habien habido, dió todas sus riquezas para la comunidat, en

manera que quedó del todo pobre. E unavegada, andando por un desierto, doliéndose mucho de la pobreza de los romanos é de la suya, fallò una colupna en aquel desierto muy alta, é encima della una estátua en figura de homme que tenia la una mano alzada contra un monte, é la otra tenia al su costado. El caballero parò mientes con diligenza, é vió que la sombra de la mano se enderezaba á un monte onde estaba una peña; el caballero fué luego allá, é falló de yuso de aquella peña una cueva que tenie una puerta de fierro cerrada, é maravillándose dijo entre sí: "Quiero ir á la estátua é ver que tiene yuso de la otra mano". E falló de yuso della en el cuerpo del estátua una portuezela de fierro é abrióla, e falló una llavecilla pequeña, é luego pensó qué aquella llave era para abrir la puerta de fierro que fallara en la cueva del monte. E luego fué allá, é abrió la puerta de la cueva, é falló ende muy mucho tesoro, lo qual levó todo á Roma, é lo dió para los menesteroros".

Qui la statua e il tesoro non sono più in Roma, ma con Roma si legano strettamente. Il racconto dei Gesta non può essere altro che l'amplificazione romanticamente abbellita di un tema più antico e più semplice. Basterebbe a provarlo ciò che quivi improvvidamente si narra della morte del chierico temerario, giacchè il motto Percute hic, che è appunto un additamento oscuro del tesoro nascosto, e un invito a farne ricerca, presuppone, in certo modo, l'esito felice dell'impresa. La reggia e le figure e l'altre meraviglie che pur si trovano nel racconto di Guglielmo sono accessioni di tempo posteriore.

I varii racconti esposti sin qui hanno comune la statua che copertamente indica il tesoro; la statua adunque è come dire il primo nocciolo della leggenda, la forma più semplice della quale è la seguente: una statua indica mediante certe parole, ma in modo ambiguo, l'esistenza di un tesoro nascosto; nessuno riesce ad interpretarle secondo il loro vero senso, finchè viene uno più avveduto degli altri che le intende a dovere, scopre il tesoro, e se ne fa signore. La leggenda in questa forma non apparteneva a Roma, ma fu tratta, come avvenne di altre parecchie, entro l'orbita delle leggende romane, dove si ampliò, si abbellì e si legò coi nomi illustri di Gerberto e di Virgilio. In essa l'eroe dell'avventura è un Saraceno. Vincenzo Bellovacense, che pure riporta il racconto di Guglielmo di Malmesbury, la narra in un altro luogo dello Speculum historiale, e dice il caso essere avvenuto in Puglia aitempi di Roberto Guiscardo, e lo stesso dicono la Cronaca degli imperatori romani, composta nel 1301, Pandolfo Collenuccio nel Compendio delle

historie del regno di Napoli, il Magnum Chronicon Belgicum, il Platina, il Bonfinio, ecc. In certe recensioni dei Gesta Romanorum il fatto si pone ai tempi di un imperatore Enrico. Il già citato Chronicon de VI etate lo pone in Apulea in civitate Neapoli, e dice che il Saraceno era un gran filosofo. Il Petrarca nel trattato delle Cose Memorabili, lo dice avvenuto in Sicilia.

Non è impossibile, e nemmeno improbabile, che questa storia sia di origine arabica; e chi pensi quante favole ci vennero dall'Oriente nel medio evo, e vegga questa, nei riferimenti più antichi, scendere sino in Puglia e in Sicilia, che un tempo furono terra di Arabi, non crederà troppo avventata la congettura di quella origine, avvalorata com'è dal carattere e dal colorito della intera finzione. Pandolfo Collenuccio, che, come abbiamo veduto, pone il fatto ai tempi di Roberto Guiscardo, dice di trarne il racconto da fideli auttori, ma io non trovo che se ne faccia ricordo da nessuno degli scrittori più antichi che, come Galfredo Malaterra, Amato di Montecassino, Guglielmo di Puglia, narrano le storie normanne e le gesta di Roberto.

Ho detto testè che questa storia della statua e del tesoro finisce per legarsi al nome di Virgilio. Infatti racconta Enenkel nel suo Wellbuch che Virgilio fabbricò a Napoli una statua di bronzo, la quale con l'una mano indicava un monte, con l'altra si accennava il ventre: una scritta lasciava intendere che la statua mostrava un tesoro. Molti andarono a scavare nel monte e non trovarono nulla. Un giorno un ubbriaco, volendo punire la statua della falsa indicazione, con un colpo la infranse, e trovò ch'era tutta piena d'oro. Non so se Enenkel abbia immaginata egli stesso questa variante, la quale sembra fatta apposta per moralizzarci sopra, o se l'abbia tratta d'altronde, che forse è più probabile; ma non voglio tralasciar di accennare ad un riscontro, per quanto fortuito e remoto. Narrasi pertanto che ai tempi di Leone Magno(457-474) Ardaburio prefetto delle milizie, trovò in Tracia una statua di Erodiano curva ed obesa, e che infrantala, ne trasse centotrentatrè libbre d'oro. L'imperatore, risaputa la cosa lo fece morire.

Finalmente nella Historia di cose memorabili della Città di Bologna, scritta per uno della famiglia dei Ramponi, si trova la seguente narrazione che io riporto per intero, e perchè serve ad illustrare vie maggiormente la leggenda testè esposta, e perchè è un documento importante del concetto in che si ebbero nel medio evo la ricchezza e la magnificenza dei Romani . "Elapsis tribus milibus fereannis ab hedificatione civitatis Ravenne, a Roma condita .VIC. 93. Julius Cesar

cum subiugasset omnes occiduas provincias cum .7. legionibus militum venit Ravennam, nobilissimam civitatum, et ibi diu repausavit, mandans inde legatos Romam quod propter victorias feliciter gestas sibi Romani secundum decernerent consulatum, cui contradictum est et decretum quod nullus nuntius urbis rediens de sua legatione quantumcumque felici possit Romam accedere, nisi prius depositis armis prope Ariminum. Hec audiens Julius Cesar egre tulit, et adspirans ad imperium omnino proposuit ire Romam cum multitudine armata. Unde, stans Ravenna tanquam potestatem habens, fecit fieri quedam insignia, magnificare se volens. Hic mandavit fieri supra portam auream quamdam portam de auro, et subtus eam domunculam que habebat hostia de auro de Arabia. Item, in medio muro, supra portam, fecit sculpiri se sedentem in trono de auro in statua de ere, idest quod ibi erat de ere Julii Cesaris, cuius venter plenus erat numis aureis, et habebat caput de lapide precioso, et in manu tenebat gemmam preciosam et inextimabilis valoris que refulgebat ut stella matutina, et ante se habebat mille libras de auro purissimo ad pondus Regis, et ex tunc illa porta vocata est aurea, que prius dicebatur asiana. Procedente tempore, Tiberius tercius imperator post Julium, mandavit ducem Anthipoti regis, qui asumpto Jape, sapientissimo in arte rectoria, fecit inscribi super portam auream quasdam literae, quae nullus intelligere poterat, et erant scriptae super caput statue Julii Cesaris. Erat autem scriptura talis: Prima die madii habebo caput aureum, cum tamen statua haberet caput de lapide precioso. Cumque diu eius interpretatio latuisset, et multi conati fuissent intelligere epigrama, tandem inventus est unus, , nescio cuius arte, prima die madii, oriente sole, respexit ubi in terra caput statue faciebat umbram, et ibi faciens fodi invenit aurum in magna copia."

Ma poichè Roma toccò il sommo della prosperità e della gloria sotto il magnifico reggimento di Augusto così per quella consuetudine propria del medio evo di tutto riferire al principe quanto v'è di più spiccato nella vita di un popolo, si cominciò a considerare il primo imperatore di Roma come un rappresentante, anzi come un depositario della universale ricchezza romana. Augusto, che si gloriava d'aver trovato Roma laterizia e di lasciarla marmorea, fece stupire gli uomini del suo tempo per la munificenza e la liberalità onde dava prova continua, e il medio evo, che leggeva nei maggiori poeti le lodi di lui, non poteva dimenticarlo. Si sapeva aver egli portato tanta copia d'oro in Roma da sminuirne in modo notabile il prezzo, e il concetto che si aveva delle ricchezze da lui raccolte se ne accresceva. Il tributo di tutta la terra affluiva nel suo

tesoro; egli arricchiva delle spogliedei principi e dei popoli vinti. Dice Massudi nella sua storia intitolata I Prati d'oro, che Augusto s'impadronì dei tesori dei re di Alessandria e di Macedonia, e li portò a Roma. Si credeva inoltre che nell'universale censimento che si fece al tempo della nascita di Cristo, Augusto avesse obbligato ciascuno degli innumerevoli sudditi suoi a pagargli una moneta. A poco a poco la ricchezza dell'imperatore si fa proverbiale. Ranulfo Higden, vantando in un luogo delle sue storie l'opulenza della Gran Bretagna, cita alcuni versi di cui gli ultimi quattro suonano così:

Insula praedives quae toto non eget orbe,

Et cujus totus indiget orbis ope;

Insula praedives cujus miretur et optet

Delicias Salomon, Octavianus opes.

Ed ecco nascere spontaneamente una leggenda secondo la quale i tesori inestimabili ammassati da Ottaviano giacciono sepolti entro certe cavità della terra, affidati alla custodia di spiriti maligni, o di singolari ingegni, artifiziosamente e per arte magica composti. Anche qui ci troviamo dinnanzi per primo Guglielmo di Malmesbury, il quale nel l. II della sua storia De gestis regum Anglorum inserisce il seguente racconto udito da lui, quand'era ancora fanciullo, dalla bocca di un frate d'Aquitania, eroe della strana avventura. "Ego, aiebat, septennis, despecta exilitate patris mei, municipis Barcinonensis admodum tenuis, transcendens nives Alpinas, in Italiam veni. Ibi ut id aetatis pusio summa inopia victum quaeritans, ingenium potius quam ventrem colui. Adultus multa illius terrae miracula oculis hausi et memoriae mandavi. Inter quae vidi montem perforatum, ultra quem accolae ab antiquo aestimabant thesauros Octaviani reconditos. Ferebantur etiam multi causa scrutandi ingressi per anfractus et semetra viarum intercepti perisse. Sed quia nullus fere timor avidas mentes ab incepto revocat, ego cum sodalibus meis, viris circiter duodecim, seu praedandi seu videndi studio, illud iter meditabar aggredi. Itaque Daedali secuti ingenium, qui Theseum de labirinto filo eduxit praevio, nos quoque glomus ingens portantes paxillum in introitu fiximus. Ibi principio fili ligato, accensis laternis ne praeter devia etiam caecitate impediremur, devoluto glomere et per unumquodque miliarium paxillo apposito sub caverna montis quomodocumque iter nostrum direximus. Caeca erant omnia et magni orroris plena. Vespertiliones de concavis egredientes, oculos et ora infestabant. Semita arcta et a laeva praecipitio et

subterlabente fluvio timenda. Vidimus tramitem vestitum nudis ossibus; flevimus cadavera tabo adhuc fluentia hominum, quos eadem quae nos spes raptasset, post montis introitum non valentium invenire exitum. Sed tandem aliquando post multos timores ad egressum ulteriorem pervenientes, vidimus stagnum placidum aquis crispantibus, ubi dulcibus illisa lapsibus alludebat unda littoribus. Pons aereus utramque ripam continuabat. Ultra pontem visebantur mirae magnitudinis equi aurei cum assessoribus aeque aureis, et cetera quae de Gerberto dicta sunt. In quibus die medio Phoebi iubar infusum duplicato fulgore oculos intuentium hebetabat. Nos quihaec eminus videntes propriori aspectu delectaremur, asportaturi, si sors sineret, aliquam splendidi metalli crustam, hortamine alterno animati, stagnum transire paramus. Sed nequicquam. Dum enim quidam ceteris praeruptior citeriori margini pontis pedem imponeret, continuo, quod mirum auditu sit, illo depresso, ulterior elevatus est, producens rusticum aereum cum aereo malleo; quo ille undas verberans, ita obnubilavit aera ut diem coelumque subtexeret. Detracto pede, pax fuit. Temptatum idem a pluribus, idemque expertum. Itaque desperatu transitu, aliquantulum ibi constitimus, et quamdiu potuimus, solo saltem visu libavimus aurum. Mox per vestigia fili regressi, pateram argenteam reperimus. Qua in frusta desecta et minutatim partita, pruritum aviditatis nostrae tantumodo irritantens, non etiam fami fecimus satis. Postero die collato consilio, magistrum quendam illius temporis adivimus, qui dicebatur nomen Domini ineffabile scire. Interrogatus scientiam non inficiatur, adiciens quod tanta esset eius nomini virtus, ut nulla ei magia, nulla mathesis obsistere posset. Ita multo pretio redemptus, ieiunus et confessus, nos eodem modo paratos duxit ad fontem. De quo hausta aqua in fiala argentea, tacens digitis literas figurabat, donec oculis intelleximus quod ore affari nequiremus. Tunc fiducialiter ad montem accessimus; sed exitum ulteriorem a demonibus credo obstipatum offendimus, invidentibus scilicet nomini Domini quod eorum commenta refelleret. Venit mane ad me nigromanticus Iudeus, quem audita gestorum fama exciverat; percuntatusque rem ubi socordiam nostram accepit, multo cachinno bilem succutiens: ""Quin tu inquit, videas, licebit, quantum potentia meae artis valeat"". Et incunctanter montem introiens, non multo post egressus, multa quae ultra fluvium notaveram ad iudicium transitus sui afferens: pulverem sane locupletissimum, quo quicquid contingeretur in aurum flavescebat; non quod ita pro vero esset sed quia ita videretur quoad aqua dilueretur. Nihil enim quod per

nigromantiam fit potest in aqua aspectum intuentium fallere."

Dice Guglielmo di Malmesbury che questi tesori di Ottaviano erano quegli stessi scoperti da Gerberto in Roma; ma nel supposto racconto del monaco di Barcellona nulla fa sospettare che il monte forato sia in Roma, ed oltre a ciò, fra le due descrizioni corre troppa diversità perchè si possano tutt'e due riferire ai medesimi obietti. Del resto il racconto che precede, si trova riportato, più o meno succintamente, da Vincenzo Bellovacense, da Pietro Berchorio, dall'autore del Magnum Chronicon Belgicum e da altri parecchi. È da notare che storie a questa somiglianti di persone che penetrarono in qualche segreta cavità e vi trovarono tesori e altre meraviglie, sono molto frequenti nelle cronache del medio evo. In pressochè tutte i tesori severamente custoditi da misteriose potenze, non debbon esser toccati, e chi s'attenta di portarvi la mano è punito della temerità sua. Di solito il custode è un drago, o un cane diabolico. Non m'indugio a ricercare il mito primitivo che certamente si nasconde sotto a questapopolare credenza; ma faccio osservare che nel medio evo si aveva una ragione specialissima per credere che i tesori sepolti non potessero essere involati. Credevasi che essi fossero serbati all'Anticristo, il quale se ne gioverebbe per procacciarsi aderenti e per premiare i suoi apostoli. Però i diavoli n'erano fatti naturali e legittimi custodi. Quanto al villano di bronzo che nel racconto del monaco di Barcellona impedisce l'accesso agl'intrusi, esso ha molti riscontri nella letteratura romanzesca del medio evo.

Dei tesori di Ottaviano si parla ancora in alcune versioni del Libro dei Sette Savii, là dove si narra la storia del tesoriere infedele, che, colto in un tranello tesogli dal suo signore, per non essere riconosciuto, e per salvare dall'infamia sè e la famiglia propria, si fa mozzare il capo dal figliuolo(Gaza). Ottaviano è rappresentato in questo racconto quale un grande amatore e raccoglitore di ricchezze.

Octoviiens fu ia a romme;

En cest siecle not plus sage homme.

Ne miels amast argent ne or,

Em pluisors lius fu son tresor.

"In questa città ebbe un 'nperatore chiamato Ottaviano che amò più l'oro e l'argiento che altre cose, e amollo tanto che n'empiè tutta la Torre della Luna."

A poco a poco il liberale e magnifico Augusto si trasforma in un

principe cupido e avaro. In alcune versioni dei Gesta Romanorum e del Libro dei Sette Savii si narra ch'egli per avidità di tesoro, lasciò distruggere la Salvatio da certi fraudolenti emissarii dei nemici di Roma, come si dirà più distesamente nel capitolo che segue. Nella versione tedesca dei Sette Savii stampata in Augsburgo nel 1488, si dice che in pena di ciò egli fu sotterrato vivo con la bocca piena d'oro. Così toccava in certo modo ad Augusto la sorte di Marco Crasso.

Giacomo da Voragine racconta nella Legenda aurea una storiella assai appropriata al concetto che nel medio evo si ebbe della ricchezza dei Romani. Quando a Roma si prese a costruire il Pantheon, di forma rotonda per significare l'eternità degli dei, si vide che stante l'ampiezza del giro non sarebbe stato possibile di alzare, con gli ajuti ordinari, la testudine, ossia la cupola. Allora si pensò di riempiere di terra, mescolata con denari, tutto il vano dell'edifizio mano mano che le mura crescevano sopra suolo. A questo modo si potè compiere agevolmente l'opera, e compiuta che fu, si diede licenza a chiunque volesse trar fuori di quella terra di appropriarsi le monete che vi avrebbe trovato. Accorse gran moltitudine di gente, e in poco d'ora fu votato il tempio.

Per concludere ricorderò ancora una favola rabbinica, la quale spiega molto bene, a suo modo, l'opulenza romana. Nel trattato Pesachim del Talmudsi narra come l'argento e l'oro di tutto il mondo, raccolti da Giuseppe in Egitto, passando da uno ad un altro popolo, da uno ad un altro principe, furono portati finalmente in Roma. Gli Ebrei, che primi li tolsero agli Egizii, ne ridiventeranno padroni quando venga il Messia.

Nè certo il concetto che il medio evo si formò della ricchezza di Roma può dirsi esagerato, se si pensa che, come or ora vedremo, il solo Campidoglio era stimato valere la terza parte di tutto il mondo.

CAPITOLO VI. La potenza di Roma.

La memoria della potenza formidabile e dello sconfinato impero di Roma eccita in particolar modo le fantasie nel medio evo. Se pochi ricordano che nel nome stesso di Roma si conteneva, secondo una delle etimologie spacciate già dagli antichi, come un vaticinio della potenza futura,(ῥώμη); se pochi conoscono l'altro nome di Valenza, onde pure s'era fregiata un tempo la città dominatrice del mondo, molti immaginano che la potenza romana sia stata così grande sin dal principio come fu solamente di poi. Costoro non sanno figurarsi una

Roma umile e debole.

In sul chiudersi dell'evo antico, quando già della passata fortuna non altro rimane che un doloroso ricordo, Simmaco chiama ancora Roma arx terrarum. Durante tutto il medio evo, nei tempi più sciagurati, in fondo alla maggior miseria, Roma serba un'aria di signoria che impone rispetto.

Se non che quella potenza, che non ebbe l'eguale nel mondo, appare agli spiriti inesplicabile e miracolosa. Mal note le condizioni della vita antica, ignorati affatto gli espedienti e i procedimenti della politica e dell'amministrazione di Roma, di cui noi stessi, dopo i lunghi studii fatti, intendiamo a mala pena il complicato e vigoroso meccanismo, non era possibile allora trovare la spiegazione puramente naturale dell'incontrastato ed incontrastabile dilargarsi della dominazione romana sopra la terra. Non s'intendevano quelle spedizioni audaci e gloriose, eseguite con l'animo stesso, e con la stessa prontezza con cui erano decretate; non s'intendevano quei trionfi mirabili per cui vaste, inesplorate regioni diventavano dall'oggi al domani province di Roma, e diventavano soggetti di Roma popoli barbari e bellicosi, insofferenti di giogo. Per intendere ciò bisognava necessariamente ricorrere alle spiegazioni soprannaturali, che per giunta erano le più omogenee allo spirito dei tempi e le più comunemente accette. Si disse che Roma, chiamata a preparare il mondo alla venuta del Redentore, era, per decreto della stessa Provvidenza, destinata a soggiogare tutti i popoli; si disse che, soggiacendo essa al segno del Leone, doveva, per virtù d'influssi celesti, ottenere necessariamente l'universale dominio, e si disse ancora che con arti magiche essa provvide alla sicurezza e alla gloria propria. Ed ecco qui presentarcisi la leggenda famosa della SalvatioRomae, della quale ora intendo discorrere alquanto diffusamente.

Il vigore con cui da Roma si tenevano sotto il giogo tanti e così diversi popoli, la prontezza con che si reprimevano le ribellioni, facevano stupire. Nella Kaiserchronik si dice che ai Romani nessuno poteva resistere, nè in terra, nè in mare, e Benzone nel suo scritto Ad Heinricum IV imperatorem inserisce questi versi:

Sicubi forte surgebat nociva sedicio

Ut in coelis est exorta in rerum initio:

Protinus suffocabatur Romano iudicio;

Tunc humanitas vacabat omni gravi vicio.

Alla pronta repressione delle ribellioni Roma aveva provveduto appunto con la Salvatio, artifizio magico singolarissimo che, di solito, si pone in Campidoglio.

Di tutti gli antichi edifizii di Roma il più famoso nel medio evo è il Campidoglio, della cui magnificenza si dicono meraviglie, e reputato valere a dirittura la terza parte del mondo. Fondato da Romolo, o da altro dei primi re, esso era coevo con la città, era il capo di Roma e del mondo, la sede del senato, la stanza augusta della potestà suprema. Era al tempo stesso un tempio, un propugnacolo, un tribunale. Non di rado, nelle cronache, è fatto ricordo del teschio che fu trovato nella terra, quando si cavò per gettarvi le fondamenta, e che, quasi un simbolo del futuro primato, diede al Campidoglio il suo nome. Nel Roman d'Eneas di Benedetto di Sainte-More, il quale viveva nella seconda metà del XII secolo, il Campidoglio è così descritto:

Li Capitoiles sist à destre,

Hors du chastel à une part

Où furent par comun esgart

Li senateur mis pour juger,

Pour tenir droit, pour tort plessier;

Ce fu liex pour tenir les plaiz.

Par merveilleux enging fu fez;

Moult fu larges et biaus dedenz

Voutes et ars y ot II cenz.

Ja n'i parlast uns si tres bas

Ne fust oiz en elle pas

Par tout le Capitoile entier.

Li XXIIII senateur

I estoient ja esgardé,

Puis ot Romme la poesté

D'ilusc à moult lointien sage.

Qui di artifizii magici propriamente non si fa parola; ma già accenna a qualche cosa di magico, già esprime assai acconciamente il concetto che i reggitori sedenti in Campidoglio erano in grado di risapere ogni più secreta cosa, quanto si dice della mirabile diffusione dei suoni in tutto l'edifizio, proprietà che fa tornare in mente il famoso Orecchio di Dionigi

e la sua antica leggenda. Che il Campidoglio servisse anche di tribunale è creduto comunemente. A proposito della ingiusta sentenza pronunziata da Teodorico contro Boezio si legge nel noto poema provenzale:

El capitoli l'endema al di clar

lai o solien las altras leis jutjar,

lai veng lo reis sa felnia menar.

Fazio degli Uberti fa dire a Roma, in un luogo già citato del Dittamondo:

Vedi l'anticoe ricco Campidoglio;

Quello era il capo mio, e dir potrei

Di tutto il mondo l'altezza e l'orgoglio.

Si ricordava che nel Campidoglio era stato il tempio e il simulacro di Giove conservatore o custode, e imperatori e poeti non potevano bramare più solenne onoranza che di ricevere in Campidoglio, quelli la corona imperiale, questi la corona poetica.

I Mirabilia e la Graphia pongono la Salvatio in Campidoglio, e dicono com'era composta. C'erano tante statue quanti erano i regni di tutto il mondo, e ciascuna aveva un campanello appeso al collo. Quando un regno insorgeva contro la signoria di Roma, il campanello di quella tale statua che stava a rappresentarlo in Campidoglio ne dava annunzio sonando. Allora i sacerdoti che avevano quelle statue in custodia ne avvertivano il senato, e il senato incontanente mandava le sue legioni a reprimere la ribellione. Così fu fatta la spedizione di Agrippa e quella di Decio contro i Persiani. Io espongo anzi tutto la leggenda conformemente alla versione che se ne ha nei Mirabilia e nella Graphia, perchè i Mirabilia e la Graphia rappresentano in certo modo la maturità delle leggende medievali intorno a Roma; ma fanno menzione della Salvatio assai prima un testo latino dell'XI secolo conservato nella Vaticana, l'Anonimo Salernitano nella sua Cronaca composta verso il 978, sul cui racconto dovrò tornare fra breve, San Cosma di Gerusalemme(Agiopolita) nel secolo VIII, l'autore del citato opuscolo De septem miraculis mundi. Tutti costoro pongono la Salvatio nel Campidoglio. Se l'opuscolo De septem miraculis mundi fosse veramente di Beda, la descrizione che vi si contiene sarebbe fra tutte la più antica, e risalirebbe al secolo VII; ma ad ogni modo trovandosi essa come ho accennato più sopra(v. p. 112, n. 10), anche in un codice dell'ottavo

secolo, e di questo medesimo secolo essendo quella di San Cosma, noi abbiamo piena certezza che la leggenda in discorso era già sorta e costituita nel settecento. Ma nulla vieta di credere che fosse anche più antica, e che l'origine sua risalga ai tempi della già inoltrata decadenza di Roma quando più meravigliosa pareva l'antica fortuna, e si stentava a intenderne le ragioni.

Il Campidoglio era certo per la Salvatio il ricetto più acconcio e più degno, e quivi noi lo vediam porre dagli scrittori più antichi che ne fecero memoria, e quivi ancora da molti altri che vennero poi, come Giacomo da Acqui, Armannino Giudice, l'Autore dei Faictz merveilleux de Virgile, ecc. ecc. Ma in seguito, per quella mobilità propria e nativa delle immaginazioni popolari, per cui facilmente si tramutano da persona a persona e da luogo a luogo, noi vediamo la Salvatio, in forza di certe suggestionifantastiche più o meno facili a essere riconosciute, trasferita in altri fra i più cospicui edifizii di Roma, e cioè nel Pantheon, nel Colosseo, nel Tempio della Concordia. Il Libro Imperiale la mette in istretta relazione col tempio di Giano nel passo seguente: "Una porta artificiata era in Roma sotto el monte Giannicolo, dove anticamente abitò lo re Jano primo re d'Italia da cui è nominato el monte Giannicolo. La detta porta era di metallo, ornata maravigliosamente, et con grande artificio, però che quando Roma avea pace stava la detta porta sempre serata, et quando si ribellava alcuna provincia la porta per se stessa s'apriva. Allora gli Romani corevano al Panteon, ciò è a Santa Maria Ritonda dove erano in luogo alto statue, le quali rappresentavano le province del mondo, et quando alcuna si ribellava quella tale statua voltava le spalle, et però gli Romani, quando vedevano aperto el delubro di Jano ricorrevano al Panteon, et riguardata la statua, formavano le melizie, et prestamente andavano in quella parte".

Secondo Yâkût, della cui descrizione di Roma si è già parlato, la Salvatio trovavasi in San Giovanni in Laterano, che, essendo sede del pontefice, era diventato il vero caput urbis. Ma molto spesso ancora essa non è in nessuno dei luoghi sinora indicati: la sua sede è un tempio magnifico, o un sontuoso palazzo, o una torre meravigliosa, senz'altra più particolare designazione. Così in Elinando e in Vincenzo Bellovacense che lo copia, in Giacomo da Voragine, in Ranulfo Higden, nel De naturis rerum di Alessandro Neckam, nei Gesta Romanorum, in Jacopo della Lana, nella Weltchronik di Rudolph von Ems continuata da Heinrich von München, nella Dyocletianus Leben di Hans von Bühel, nel Weltbuch di

Enenkel, ecc. In tal caso la Salvatio è molto spesso descritta come opera di Virgilio, il quale è al tempo stesso il costruttore del tempio, del palazzo, o della torre che la contiene, mentre ciò accade più di rado quando la Salvatio sia posta nel Campidoglio, nel Pantheon, o nel Colosseo.

Nella descrizione delle statue che compongono la Salvatio s'incontrano molte diversità fra gli scrittori. La statua che occupa il luogo di mezzo è, di solito quella di Roma, ma qualche volta ancora quella di Romolo, di Cibele o dell'imperatore. Le statue che stanno all'ingiro rappresentano le province soggette, o altrettante divinità adorate in quelle, o anche i principi obbedienti a Roma. I campanelli denunziatori appesi al collo delle statue si agitano da sè, oppure sono scossi dalle statue stesse che li tengono in mano, le quali, in alcune descrizioni, fanno anche manifesta la ribellione con voltare il dorsoalla statua di mezzo, o con drizzare l'armi verso di lei, o con altro atto. In luogo di campanelli si hanno anche scudi, che, percossi, risuonano. Qualche volta la statua di mezzo indica col dito quella il cui campanello ha dato segno di ribellione, o agita un campanello anch'essa. In cima all'edificio si pone per giunta un cavaliere di bronzo che volge l'asta verso la provincia ribelle. Le statue sono in numero di settantadue, quanti i popoli della terra usciti dalla progenitura di Noè, il che esprime l'universale dominio di Roma. Così la leggenda, passando di bocca in bocca, e di libro in libro, si variava, si accresceva, si complicava.

Ma quale ne può essere stata la origine? Che sia nata nell'Occidente di Europa, anzi nella stessa Roma, mi pare, se non affatto sicuro, molto probabile, sebbene i ricordi più antichi che ce ne sieno venuti si trovino a un tempo stesso, nell'VIII secolo, in un Greco di Gerusalemme e in un testo latino. Inoltre, costituita già, come noi la vediamo, nel secolo VIII, essa deve necessariamente essere alquanto, e forse molto più antica. Non sarà estraneo all'argomento spendere qualche parola intorno a quel tanto che sulla origine sua si può congetturare.

Il Massmann inclina a credere che suo primo principio sia stato qualcuno di quegli orologi figurati e adorni di statue mobili, che, per testimonianza di parecchi scrittori, si ammiravano in Roma. Orologi così fatti possedevano il tempio di Quirino, il tempio di Diana sul monte Aventino, il Campidoglio, dov'erano tante altre meraviglie. Il Bock fa sua questa ipotesi, senza citarne la fonte; ma a me non sembra essa molto plausibile. L'uso degli orologi doveva essere troppo universalmente

cognito in Roma, e troppo grande era il numero loro, perchè da uno di essi, dimenticati gli altri, potesse nascere una leggenda quale quella della Salvatio. Il Comparetti propende a credere che questa sia bizantina di origine, e ne mostra il principio nella famosa favola delle oche capitoline, alla quale Dante credeva ancora. Ma nemmen questa opinione finisce di persuadermi. A Costantinopoli, dove non poche favole s'immaginarono in sostegno delle pretensioni imperiali, nessuno poteva propriamente avere interesse d'inventarla, e gli scrittori bizantini, se se ne toglie Cosma, non pare che l'abbiano conosciuta. Ma Cosma stesso potrebbe averla udita raccontare da qualche pellegrino.

Le favole dei Mirabilia pajono essere tutte di origine occidentale, e non c'è ragione per credere che quella della Salvatio faccia eccezione alla regola. Ora Cosma accenna evidentemente ad altre favole, quando parlato della Salvatio, soggiunge: πολλὰ δὲ καὶ ἄλλα θαύματα ἄξια κατὰ ̔Ρώμην ἐστίν, e con quest'altre favole, non nate, e, per la più parte non conosciutea Costantinopoli, quella della Salvatio doveva far corpo. La testimonianza di Cosma mostra l'antichità, ma non la origine della leggenda.

Io credo la leggenda della Salvatio nata in Roma, nel quarto o nel quinto secolo, da un complesso di cause che esporrò brevemente.

Ricordiamo anzi tutto che, secondo la tradizione più antica, sede della Salvatio è il Campidoglio; nel Campidoglio dunque debbono essere le ragioni della sua origine. Ora il Campidoglio era l'arx, era il cuore di Roma. Ivi i templi più augusti, ivi i simulacri degli dei e degli eroi, ivi le tavole delle leggi. Il tempio di Giove Custode sorgeva nella parte più nobile del colle, e di una delle statue del dio massimo si credeva avesse virtù di scoprire le celate insidie che minacciavano l'onore e la sicurezza di Roma. Secondo si narra, questo simulacro precipitò per la congiura di Catilina, e fu rifatto maggiore. Di esso diceva Cicerone nel l. II De Consulatu:

Tum fore ut occultos populus sanctusque Senatus

Cernere conatus posset, si solis ad ortum

Conversa inde Patrum sedes populique videret.

Nel Campidoglio ancora erano i simulacri della Bona Fortuna e del Bonus Eventus, opera, dicevasi, di Prassitele, e ivi consacrava Cicerone una statua di Minerva Custoditrice. Che Roma dovesse durare quanto il Campidoglio era comune credenza, e Virgilio dice nel IX dell'Eneide:

Dum domus Aeneae Capitolii immobile saxum

Accolet imperiumque pater romanus habebit.

Del resto i Romani credevano di avere tra le loro mura molti firmamenta imperii, dei quali non mi trattengo a discorrere; ma non tralascerò di ricordare come sotto gl'imperatori fosse venuto in costume di consacrare in dati luoghi statue metalliche, le quali si credeva avessero virtù di trattenere i barbari ai confini; e nel testo dell'VIII secolo pubblicato dal Docen, e in quello dell'XI pubblicato dal Preller, e nel racconto di Elinando, e altrove, si parla di una consecratio statuarum. La narrazione di Olimpiodoro, testè citata, si riferisce appunto a tale costume. Le tre statue di cui egli parla erano fatte a immagine dei barbari contro ai quali le avevano poste, ed è noto che le statuette di cera, o d'altra sostanza, usate in certe malìe, così nell'antichità, come nel medio evo, dovevano essere fatte a immagine delle persone in cui danno se ne voleva sperimentata la virtù. Si ricordi ora che Augusto fece costruire in Campo Marzio un portico, detto porticus ad nationes, nel quale erano raccolti simulacri rappresentativi di tutti i popoli soggetti all'impero di Roma. Questo portico non aveva certamente avuto nel pensiero di chi lo costrusse altro scopo che la glorificazione di Roma dominatrice delle nazioni; ma facilmente nella fantasia popolare potè poi nascere la credenza che le statue quiviraccolte fossero un artificio magico inteso ad assicurare la soggezione delle province.

Avremmo qui un primo germe, ma non il solo, della leggenda nostra, nella quale rimane forse un documento curioso della reazione pagana contro il cristianesimo trionfante. Tutti sanno come i più ostinati seguaci dell'antica credenza ricordassero volentieri, nel tempo che la fortuna di Roma cominciava a declinare, la potenza e la gloria passata, e come del tristo mutamento dessero colpa ai cristiani, disprezzatori delle antiche divinità, e introduttori di un nuovo culto. In fatti la fortuna di Roma sembrava morire coi numi sotto la cui tutela era prima sorta e cresciuta.

Gli apologeti ebbero a combattere con tutte le forze loro e con tutti gli argomenti della fede e della ragione questa superstizione vivace ed aggressiva, a cui cresceva vigore la carità di patria, e che si traeva innanzi con una certa sembianza speciosa di verità da poter facilmente sedurre gli spiriti non ben fermati ancora nella nuova dottrina. A Roma si ricordava che quando vigilavano in Campidoglio i simulacri degli dei le province non si ribellavano impunemente, e i barbari non erano tanto arditi di varcare i confini. A questo modo il Campidoglio diventava sede

di un arcana e soprannaturale potenza, divina pei pagani, diabolica pei cristiani. A poco a poco, perdendosi la memoria esatta delle cose, e confondendosi le dubbie reminiscenze, la leggenda si forma. I simulacri delle nazioni migrano dal portico di Augusto al Campidoglio, si confondono con le divinità ivi esistenti, si trasformano in altrettante divinità proprie delle nazioni soggette. Poi, crescendo la barbarie e l'ignoranza, la rappresentazione di questa misteriosa potestà si fa sempre più grossolana, e ne vien fuori l'artifizio tra il magico ed il meccanico, con le sue statue girevoli, e co' campanelli denunziatori. Ecco in qual modo si formò a mio credere la leggenda della Salvatio, la cui origine sarebbe da porre dopo il trionfo definitivo del cristianesimo, e dopo i primi rovesci che menomarono e avviarono alla dissoluzione la potenza romana. Il medio evo, che trova la leggenda già fatta, lascia da prima sussistere la Salvatio nel Campidoglio, poi la tramuta, obbedendo agl'impulsi della propria fantasia, nel Colosseo, nel Pantheon, altrove. Rinnovellato il sogno della monarchia universale, le statue, rappresentino esse le nazioni soggette, o le divinità di quelle nazioni, saranno settantadue, quanti i nepoti di Noè, quante le lingue uscite dalla torre di Babele, quante le diverse generazioni che, dopo il diluvio, si sparsero a ripopolare la terra.

La narrazione già citata dell'Anonimo Salernitano pare che confermi in singolar modo la opinione ch'io seguo. Eccola nelle proprie parole del testo: "Nam septuaginta statuae, quae olim Romani in Capitolio consecraruntin honorem omnium gentium, quae scripta nomina in pectora gentium, cuius imaginem tenebant, gestabant, et tintinnabulum uniuscuiusque statuae erat, et sacerdotes die ac nocte semper vicibus vigilantes eas custodiebant, et quae gens in rebellionem consurgere conabatur contra Romanum imperium, statua illius gentis commovebatur, et tintinnabulum in collo illius resonabat. Ita scriptum nomen continuo sacerdotes principibus deportarent, et ipsi absque mora exercitum ad reprimendam eandem gentem dirigerent. Sed dum fuissent praedictae statuae aereae Constantinopolim deportatae, ille iam fatus imperator Alexander huiusmodi verba depromsit: Illo denique tempore Romanorum imperatores erant gloriosi, quando istae statuae venerabantur. Unde statim sericis vestibus venire iussit et singulas circumdedit Nocte igitur subsecuta cum se sopori dedisset, vir clarissimus ei apparuit, et comminanter super eum venit, eumque in pectore forti yctu percussit et nomen suum protinus propalavit, adiciens: Ego sum, inquit, Romanorum princeps Petrus! Et statim cum magno

taedio evigilavit, sanguinemque suum vomere coepit, et sic exitiale morte defunctus est". L'Alessandro di cui qui si parla regnò dal 911 al 912. La prima parte del racconto coincide quasi interamente con la narrazione più antica del codice di Wessobrunn e con l'altra del codice Vaticano.

Ma la Salvatio non è sempre composta di statue come nelle varie narrazioni riferite e ricordate sin qui; secondo altri racconti, assai più recenti, essa consiste in uno specchio magico in cui si scoprono i nemici di Roma. Autore di esso, come di tant'altre meraviglie, è Virgilio. Di questa seconda leggenda si trova anche fatto ricordo assai spesso. Nei Seven Sages pubblicati dal Wright l'autore di esso non è Virgilio, ma Merlino:

Sire, hit was a mane,

Merlyn he hatte, and was a clerke,

And bygan a wondir werke;

He made in Rome thourow clegyse

A piler that stode fol heyghe,

Heyer wel than any tour,

And ther-oppon a myrrour,

That schon over al the tovn by nyght

As hyt were day lyght

That the wayetys myght see;

Yf any man come to cité

Any harme for to doon,

The cité was warned soon.

Ma è questa una eccezione; del rimanente lo specchio magico è sempre descritto come opera di Virgilio. Di specchi magici che hanno virtù di fare scoprire le insidie o le minacce dei nemici è grande numero nella letteratura leggendaria in genere, e questo di Roma non è se non copia di altro più antico.

Coll'ajuto della Salvatio i Romani soggiogarono il mondo, e quanto il mondo, fu vasto il loro impero. Giovanni Cavallino, parlando, nella sua Polistoria, della porta Collina, nota: "Vel Collina porta potest dici a colle finitimo dicte porte per quam itur ad eum qui hodie dicitur Mons Marus, ubi imperator Romanorum, post coronationem suam, statim ascendit, et

volvendo se undique dicit: Omnia que videmus nostra sunt etnostris mandatis obediunt universa mundi".

La Salvatio fu distrutta per fatto dei nemici di Roma, i quali non potevano sperare, nè di vincere, nè di conservarsi liberi tanto che quella sussisteva. Coloro che la fanno distruggere sono i Cartaginesi, oppure tre re che dai Romani avevano sofferto molte prepotenze, o il re di Puglia, o il re di Sicilia, o i principi di Germania, o un re di Ungheria. Guiraut de Calanson ricorda un Menelas che:

Fel mirail de Roma fremir.

La distruzione si compie mediante un'astuzia a cui ho già accennato nel capitolo precedente. Alcuni emissarii dei principi nemici danno ad intendere all'imperatore di Roma, il quale spesso è Ottaviano, oppure ai senatori e ai consoli, che sotto la torre della Salvatio sono nascosti grandi tesori. Ottenuta licenza di cercarli, cavano nelle fondamenta della torre, e operano in modo che questa precipita quando essi sono già lontani da Roma. Questa storia della distruzione non accompagna in principio la leggenda più antica, dove la Salvatio è formata di statue; essa vien fuori la prima volta insieme con la leggenda più moderna dello specchio, ma poi, naturalmente, si appicca anche all'altra. Ch'essa sia di origine orientale può darsi, e qualche indizio il farebbe credere. Secondo un'altra leggenda l'edifizio e le statue della Salvatio precipitano quando nasce Cristo, conforme da Virgilio, loro artefice, era stato profetizzato. Ma qui la leggenda della Salvatio interferisce con un'altra di cui dovrò far parola a suo luogo.

Ma la leggenda non provvede soltanto alla sicurezza esterna di Roma, provvede ancora alla sicurezza interna. Essa dice che Virgilio fabbricò per l'imperatore Tito una statua che scopriva tutti i delitti commessi secretamente in Roma.

Sin qui delle leggende che mostrano Roma munita di soprannaturali difese e inespugnabile; passiamo ora a dir qualche cosa di alcune leggende di carattere al tutto opposto, le quali mostrano Roma esposta a pericoli, o vinta da nemici di cui la storia non serba ricordo.

Cominciamo da Alessandro Magno. Era impossibile che la leggenda, tendendo ad allargare sempre più la cerchia delle portentose avventure e delle conquiste del gran Macedone, non andasse, o prima, o poi, ad urtare contro Roma. Già Arriano dice che secondo Aristo ed Asclepiade, i quali scrissero dei fatti di Alessandro Magno, i Romani, al par dei Bruzii, dei Lucani, dei Tusci, mandarono legati al Macedone, e che questi augurò

bene della futura loro potenza. Egli nè nega, nè afferma, ma avverte solo che nessuno storico latino fece mai ricordo di ciò, e Tito Livio crede anzi che Alessandro Magno non sia stato noto ai Romani nemmeno di nome. La legazione era asserita anche da Clitarco, secondo la testimonianza di Plinio,e Clitarco seguitarono Diodoro Siculo, Quinto Curzio, Memnone. Lo Pseudo-Callistene dice che Alessandro Magno ricevette l'ossequio dei Romani, e conquistò i regni di Occidente, e ancora che i Romani gli mandarono per Emidio console una corona d'oro adorna di perle, quattrocento talenti, e duemila soldati, scusandosi di non poter mandare di più, impegnati, com'erano, nella guerra contro i Cartaginesi. Ciò avveniva nell'Italia stessa, dove Alessandro si suppone passato sino dai primordii del suo regno. Giulio Valerio, traduttore dello Pseudo-Callistene, e l'Arcipresbitero Leone, autore della Historia de preliis, divulgano questo racconto, orientale di origine, nell'occidente di Europa, dove da indi in poi si ritrova assai spesso ripetuto, con varianti di maggiore o minore rilievo, nelle numerose storie di Alessandro Magno, che, in prosa e in verso, si hanno in tutte le letterature del medio evo. Il Gorionide, esagerando al solito, dice che i Romani accolsero Alessandro come signore, e che egli vi dominò sino alla sua morte. Armannino nella Fiorita dice similmente che Alessandro ebbe la signoria di Roma, e che dagli indovini era stata profetizzata la sua venuta, alla quale non era possibile opporsi, tale essendo la volontà di Dio. Ekkehard ricorda che in sul principio delle sue conquiste Alessandro andò a Roma, e tace di tutto il resto. Jacob van Maerlant racconta che i Romani mandarono ad Alessandro la corona romana,

En gaven hem die roemsce croene.

In qualche codice dei Mirabilia le terme di Alessandro Severo pare si mutino in un palazzo di Alessandro Magno. Nei Mirabilia del già citato codice Marciano si legge il seguente curioso passo: "In thermis olimpiadis, ubi assatus fuit sanctus Laurentius, et vocatur ibi Panisperna; ideo dicitur Panisperna quia Olimpias, uxor Philippi regis macedonii ibi colebatur pro dea, et offerebatur ei panis, pola et perna, vel caro porcina". Anche tra gli Arabi pare siavi stata una leggenda, comunicata ad essi probabilmente dai Greci per le trafile solite, la quale attribuiva ad Alessandro la conquista di Roma.

Ma se la grande ammirazione che per Alessandro si aveva nel medio evo bastava a fare accettare una leggenda manifestamente greca di origine e non troppo lusinghiera per gli occidentali in genere, e per

quanti si credevano discendere dagli antichi Romani in particolare, non mancano tuttavia scrittori che negano di accoglierla, e che, più o meno direttamente, le contraddicono. Ottone di Frisinga dice, che Alessandro morì quando appunto si preparava a soggiogare Roma e tutto l'Occidente; altrove parla del Macedone come di un incomodo pedagogo, che dava soggezione a Roma, la quale solo dopo la morte di lui prese a crescere liberamente e a coprirsi di gloria. Gotofredo da Viterbo ricorda nella parte XI del Pantheon,che Alessandro ricevette in Babilonia i legati di tutti i re dell'Occidente che a lui si sottomettevano. Ai Romani ricalcitranti scrisse: Si venero venero; e quelli con nobile audacia risposero: Si veneris inveneris. Dante esclama nel l. II del De Monarchia: "O altitudo sapientiae et scientiae Dei, quis hic te non obstupescere poterit? Nam conantem Alexandrum praepedire in cursu coathletam romanum, tu, ne sua temeritas prodiret ulterius, de certamine rapuisti". Finalmente Federico Frezzi ha questi versi nel Quadriregio:

Il quarto che ha la luce chiara e pura

Su nella testa, è Alessandro altero,

Che fece a tutto il mondo già paura.

Egli ebbe l'Oriente tutto intero.

Forse, se non che morte il levò tosto,

Di vincer Roma gli riuscia il pensiero.

A far nascere la leggenda testè riferita contribuì per molta parte, come fu giustamente osservato dal Mai, l'essersi scambiato con Alessandro Magno Alessandro re dei Molossi e fratello di Olimpia. In molte cronache si narra prima la venuta in Italia di questo, poi la venuta di quello; ma in altre, come per esempio nella Historia miscella, si narra solamente la prima e della seconda non si fa parola.

Ma già molto prima di Alessandro Magno Roma ebbe, come abbiam veduto, in Davide un pericoloso avversario. Beniamino Tudelense parla nell'Itinerario di una via lunga quindici miglia aperta da Romolo nelle viscere dei monti, presso Napoli, per paura di Davide. Del resto Roma fu assediata, presa e distrutta più volte, se s'ha a credere alla leggenda. Di un assedio postole da un re negromante si parla nei Mirabilia a proposito del Cavallo di Costantino, della cui storia dirò più oltre a suo luogo. Di un altro assedio per parte di una gran moltitudine di barbari discorre Beda nel suo trattato De divisionibus temporum. Giano, re dell'Epiro, rifugiato in Roma, salva la città, ed è poi adorato come dio. Giovanni

d'Outremeuse racconta che l'anno 410 dopo la cattività di Babilonia i Sicambri la espugnarono, uccidendo 60000 persone. Allora il duca Cleto lasciò Roma e tutta la signoria a' suoi due figliuoli Alessandro e Flandrino.

Fra gli Ebrei corse un tempo la credenza che i Romani, distruttori del Tempio, sarebbero stati ridotti in soggezione dai Persiani: se i Persiani sino ad ora non vennero, vennero invece, e molto numerosi, e più volte, i Saraceni, come si legge in parecchie chansons de geste. Giovanni d'Outremeuse, favoleggiatore inesauribile, ricorda parecchie altre espugnazioni di Roma. L'anno 457 la prendono gli Ungheresi e i Danesi, i quali, "jasoiche que ilh fussent Sarasiens ne se voirent onques rien forfaire aux englieses". L'anno 567 Peris, re di Francia, passò in Italia, sconfisse i Romani, uccidendone 12000, assediò Roma e la prese; ma,vinto dalle preghiere del papa, non la distrusse. L'anno 517 Artù vinse i Romani in Bretagna e passò in Italia; ma concluse la pace prima di avere espugnata Roma. Ciò nondimeno l'anno 541 fu ricevuto dai Romani per signore. L'anno 622 Cosroe venne, distruggendo le terre, sin sotto Roma, dove fu vinto dall'Imperatore Eraclio.

Ma quando Attila si presentò sotto le mura di Roma combatterono insieme sino l'anime dei morti. Il Flagello di Dio fu per le preghiere del Papa incenerito da un fulmine, e gli Unni fuggiaschi perirono in mare. Armannino Giudice narra invece che Attila e Totila, i quali erano prima di Costantino, occuparono l'Italia e Roma gran tempo e fecero stalle delle chiese.

Ma da quanto si è detto della leggenda della Salvatio non si argomenti che nella credenza del medio evo Roma debba la sua grandezza e la sua signoria soltanto agli ajuti soprannaturali dell'arte magica. La giustizia, il senno e il valore dei Romani sono ricordati continuamente, e proposti come nobile esempio da imitare. Senza quelle virtù Roma non sarebbe mai salita a tanta altezza di gloria a quanta salì veramente. Dei Romani dice Giovanni Villani che "per forza d'arme, e virtù e senno di buoni cittadini, quasi tutte le provincie, e reami e signori del mondo domarono, e recaro sotta sua signoria". In certe Histoires romains manoscritte si dice: "Mais de toute la glore et de toute la noblesse qui fut oncques a Romme n'en y eut si noble, ne qui tant face a prisier comme fait celles des vaillans hommes, lesquels en divers temps y eurent en gouvernement et seignorie, et qui prefererent tousiours, le bien publique a leur propre bien". Nel Livre du Chevalier errant di Tommaso marchese

di Saluzzo si legge: "Heromulus, le riche prince honnoures, qui Rome fist, et fonda la plus noble cite qui soit: la nasquirent les meilleurs hommes qui ou monde feussent. Celle par force subgiga le monde VIIc ans, mez Lombardie ne pot que IIIIc ans subgiguer qui estoit pres de la". Tutta la vita pubblica di Roma si considera come un concorso armonico e una gara delle virtù più nobili che si palesano con forti e generose opere. Gli esempii massimi, Lucrezia, Giunio Bruto, Muzio Scevola, Marco Curzio, sono continuamente e con ammirazione ricordati. Si celebra la prodezza dei Romani nell'armi; ma si ricorda ancora la loro longanimità, la fede nei trattati, l'amore della giustizia. Il senno latino è riconosciuto e ammirato.

La potenza di Roma fa stupire il medio evo. Per ispiegarla più pienamente s'immagina la leggenda della Salvatio, poi, per una di quelle antitesi poetiche esignificative, familiari alla fantasia popolare, si vuol connessa tutta quella potenza, e la superba dominazione, ad alcun che di eccessivamente fragile e tenue. Di Napoli si diceva che fosse fondata sopra un uovo; di Roma si pensò che fosse sospesa a un filo di seta.

CAPITOLO VII. La Leggenda degl'Imperatori.

Il periodo della storia romana che più sta a cuore al medio evo è il periodo imperiale. Nelle cronache senza numero in cui si dà un compendio di quella storia, sull'era repubblicana e consolare si sorpassa assai leggermente. Detto della fondazione della città, accennati gli avvenimenti principali occorsi sotto i re, ricordata la cacciata e la morte di Tarquinio il Superbo, e il mutato reggimento, si salta a Giulio Cesare e alla narrazione de' suoi gran fatti. Libri interi si compongono, che dagli imperatori prendono il nome e dalle lor vite l'argomento, come il Libro Imperiale, il Libro Augustale, la Historia Imperialis di Giovanni da Verona, il Fioretto di croniche degl'imperadori fra noi, la Kaiserchronik in Germania, ecc. Il Romuleon che dal titolo parrebbe dover essere più particolarmente una storia di Romolo e delle origini della città, passa oltre e giunge sino a Diocleziano. L'interesse per Roma repubblicana è, generalmente parlando, un frutto del Rinascimento avanzato. Dante ricorda con riverenza ed ammirazione Tito Manlio Torquato, Cincinnato, i Decii, i Fabii, gli Scipioni, e fa di Catone, l'ultimo dei repubblicani, il custode del Purgatorio; ma le sue dottrine politiche non gli permettevano

di considerare la repubblica altrimenti che come una forma meno perfetta e meno legittima di reggimento. Quel Bruto che cacciò Tarquino è bensì posto da lui nel limbo, ma senza nessun segno di onoranza speciale. Il Petrarca esalta la Roma degli Scipioni, di Bruto, di Fabrizio, ricorda Catone,

. . . . . quel sì grande amico

Di libertà che più di lei non visse,

celebra, nel Trionfo della Fama, i più illustri figliuoli della repubblica e pone Scipione alla pari con Cesare; ma il suo sogno è la monarchia universale, la monarchia di Augusto glorificata da Virgilio, da Orazio, da Ovidio. Lo stesso Cola di Rienzo era ammiratore caldissimo di Giulio Cesare, di regola considerato nel medio evo come il primo imperatore. Il buon Boccaccio, sebbene consilii il tirannicidio, e chiami tiranni tutti i prìncipi del tempo suo, è tutt'altro che un repubblicano. I veri repubblicani, conscii di sè e de' proprii intendimenti, non compariscono se non molto più tardi, per direttissimo influsso del pensiero greco sulla nuova coltura del Rinascimento, coltura che ne' suoi principii fu, com'è noto, pressocchè esclusivamente formata di elementi latini. Un catilinario dello stampo di Stefano Porcari non può sorgere che nel bel mezzodel secolo XV; il medio evo non se lo sarebbe nemmen potuto immaginare. Esempii come quelli di Crescenzio, di Arnaldo da Brescia, di Cola di Rienzo, confermano assai più che non ismentiscano quanto asserisco. Il nome stesso di respublica non conservava più l'antica genuina significazione; nell'VIII secolo, in Italia, per Respublica s'intendeva l'Esarcato di Ravenna soggetto agl'imperatori d'Oriente, e su questa Respublica cominciavano i papi a vantare diritti, e Respublica Romanorum si chiamava poi il dominio della Chiesa, sopra il quale stendevasi la sovraneggiante tutela dei re di Francia.

La Roma dunque che il medio evo sogna e vagheggia è quella imperiale, non quella dei consoli: con gl'imperatori soltanto Roma sembra venire nel suo più bel fiore, con gl'imperatori prendere ad esercitare risolutamente nel mondo l'alto e misterioso suo ufficio. La magnificenza senza pari della città divenuta sede dei Cesari, le dimostrazioni infinite e le pompe di quella sconfinata potenza, di quella vita fastosa ed esuberante, erano, certo, più di checchessia, atte a colpire fortemente le fantasie in tempi naturalmente propensi al meraviglioso; ma non era questa la sola causa del fatto. Tutto richiamava gli spiriti alla Roma imperiale. I prosatori e i poeti latini che il

medio evo non si stancava di leggere, di chiosare, di tradurre, erano venuti su con l'impero, celebravano l'impero. L'era nuova, con la quale cominciava la seconda vita della umanità, prendeva, gli è vero, la origine dal nascimento di Cristo; ma quasi in quel tempo medesimo ancora l'impero aveva avuto principio. L'impero sorgeva

. . . presso il tempo che tutto il ciel volle

Ridur lo mondo a suo modo sereno;

così che, sebbene tutta la storia di Roma fosse provvidenzialmente legata coi nuovi destini della umanità, tuttavia i legami non si cominciavano propriamente a scoprire se non quando avveniva l'impero. Da indi in poi questi legami non si sciolgono più. La Chiesa nasce e cresce nel grembo di Roma imperiale. Sopraggiungono le persecuzioni, ed ogni nome di martire rimanda a un nome d'imperatore. Degl'imperatori e dei papi si formano naturalmente due serie parallele che si richiamano a vicenda, e l'una è come complementare dell'altra. Sotto il titolo di chronica imperatorum et paparum si hanno del medio evo, manoscritti e a stampa, innumerevoli elenchi degli uni e degli altri, alcuna volta con la sommaria indicazione dei fatti principali avvenuti sotto il loro reggimento, alcun'altra volta invece, senz'altra indicazione che del nome e del tempo che durarono in dignità. Costantino porta la nuova fede sul trono, e tramutando in Bizanzio la sede dell'impero, cede alla Chiesa, secondochè dalla leggenda è narrato, i suoi diritti su Roma, e le prerogative sovrane; ed ogni pontefice che si veggaminacciato ne' suoi presunti diritti, o che voglia acquistarne di nuovi, si fa forte del nome di Costantino, e si dichiara legittimo erede della imperial potestà. L'idea dell'impero non si spegne mai, rimane anzi viva ed è a tutti familiare. Per ricostituire l'impero di Occidente, dopo più che tre secoli d'interruzione, non c'è bisogno nè di preparare gli spiriti, nè di forzare gli avvenimenti; la ricostituzione si compie come un fatto normale, universalmente inteso e lungamente aspettato.

Se a queste ragioni si aggiunga che nella non breve lista degl'Imperatori romani parecchi ve ne sono, i quali, o per la bontà, o per la malvagità loro, o per alcun caso singolare della loro vita, naturalmente sollecitano la curiosità e l'attenzione, e se si considera essere una propria generale tendenza delle immaginazioni popolari raccogliersi intorno a personaggi di molto conto, di guisa che l'imperatore, il re, la regina, sono figure consuete e quasi obbligate della fiaba, s'intenderà di leggieri come intorno agli imperatori romani siensi accumulate tante

leggende e tante strane finzioni quante ne ha immaginate e trasmesse sino a noi il medio evo.

Queste leggende e queste finzioni per lo più si trovano sparse in iscritture d'ogni generazione; ma alcuna volta si raggruppano, e formano corpo insieme, come nella famosa Kaiserchronik tedesca, libro singolarissimo, d'ignoto autore, d'incerta età, ma composto probabilmente verso il mezzo del XII secolo, e continuato più tardi; compilazione indigesta e curiosa, dove in circa 18500 versi si viene narrando con infinite favole, tolte di qua e di là, trasposte, mescolate, la storia degl'imperatori, da Giulio Cesare a Rodolfo di Absburgo. Alla Kaiserchronik si stringono, imitando, amplificando, alterando, il Weltbuch di Enenkel, e la Weltchronik di Rudolf von Ems, o, per meglio dire, del suo continuatore Heinrich von München. Queste storie, dove degl'imperatori si narra e si favoleggia assai largamente, dovevano essere accolte con particolar favore nel paese a cui era toccata in sorte la potestà dell'impero; ma anche tra noi non mancarono le simili, benchè fossero, o più compendiose, o composte con altro spirito e con altri intendimenti. Nel nostro Fioretto di croniche degl'imperadori, e nella Cronica degl'imperatori romani, le favole non fanno difetto, ma sono in copia molto minori e narrate con assai meno amorosa prolissità, e lo stesso si può dire della Historia Imperialis di Giovanni da Verona. Al Libro Imperiale, infarcito di favole, si contrappone il Liber Augustalis, che n'è interamente scevro.

Le leggende che io chiamerò imperiali possono distribuirsi in due classi; la prima, di quelle che si appiccano a imperatori reali, la seconda, di quelle che creano imperatori immaginarii. Delle principali tra le prime, che sono indubitabilmente le più curiose e le più importanti, parlerònei capitoli che seguono: esse, legandosi insieme, vengono spesso a formare una storia compiuta, seguono l'imperatore, la cui vita porge ad esse argomento, dalla nascita alla morte, e s'intrecciano più o meno con la storia reale. Per lo più è un fatto storico quello da cui esse traggono la prima suggestione, e che porge loro la base o il contorno. Delle altre, che sono come sporadiche e accidentali, e di quelle ancora della seconda classe, dirò qui stesso brevemente quel tanto che basti.

Cajo Caligola è fatto morire di un fulmine nella Kaiserchronik, la quale pone inoltre sotto il suo reggimento il fatto di Marco Curzio. Galba ha per avversario Pisone: dividono la signoria; quegli regna in Roma e fonda Capua, questi nel territorio e fonda Pisa. Vitellio aveva fatto morire

Ottone insieme con cinquantamila de' suoi seguaci. La famiglia di costui gli contrasta l'impero e medita vendetta. Per consiglio de' suoi fautori egli esce di Roma e l'assedia. Da principio i Romani si difendono strenuamente, ma poi, vinti dalla fame, sollecitano il senato perchè apra al nemico le porte. Il senato ricusa; allora Odenato si offre di liberare egli la città; sceglie dodici compagni, parati ad ogni suo cenno, e s'accorda con essi di uccidere Vitellio. Egli tenterà primo l'impresa; se non gli riesca di condurla a termine, gli altri verranno dopo lui, e la compiranno. Si ripete il fatto di Muzio Scevola. Vitellio fa grazia della vita a Odenato, che in premio del suo eroismo riceve dai Romani in dono il palazzo di Bruto. Si concorda una tregua; ma in capo di nove mesi, quando il termine della tregua è già presso a spirare, dodici seguaci di Vespasiano, una notte, rapiscono Vitellio, e lo sotterrano vivo. Nerva prende il posto di Falaride di Agrigento nella notissima storia di Perillo. Decio, che ha non piccola parte nelle leggende famose di San Lorenzo e dei Sette Dormienti, muore fatto a pezzi dai diavoli.

Il romanzo dei Sette Savii si lega ai nomi di Vespasiano e di Diocleziano, e inventa l'imperatore Ponziano. Non ho bisogno di ricordare qui quale storia serva di cornice ai racconti di questo libro famoso. Nei Gesta Romanorum si trovano attribuiti a imperatori, romani o posti sotto il loro reggimento, fatti e casi che in origine non hanno nessun'attinenza con Roma. Quivi la storia del re Lear si riferisce a Teodosio; a Domiziano la novella dei tre avvertimenti che salvano tre volte la vita; ad Aglae, figliuola dell'imperatore Pompeo, la storia classica di Atalanta e d'Ippomene; ad Adriano, o a Teodosio, il noto apologo della campana, della serpe e del rospo, che si suol raccontare diCarlo Magno; a Tiberio, a Claudio, a Vespasiano, a Tito, a Massimiano, a Gordiano, altri fatti e altre storie che sarebbe lungo ripetere. La novella del re che fece nodrire uno suo figliuolo dieci anni in luogo tenebroso, e poi li mostrò tutte le cose, e più li piacque le femmine, indiana di origine, narrata nel Novellino, ripetuta con varie mutazioni nel Prologo della giornata IV del Decamerone, nelle Vite dei Santi Padri di Fra Domenico Cavalca, in un vecchio poemetto tedesco intitolato Daz Gänslîn, nel Libro de los Enxemplos, ecc. si riferisce nel Fior di Virtù all'imperatore Teodosio. Una novella di Costanza, figlia di Tiberio, racconta il Gower.

Di Diocleziano, che nei Gesta Romanorum diventa inaspettatamente un modello di virtù, ma che va coperto di molta infamia nelle leggende dei martiri, e più specialmente in quella famosa della legione Tebea, di

Diocleziano si narra nel Libro de los Enxemplos una curiosa storia, la quale ha pure nella verità qualche piccola radice. Fu un tempo che genti straniere turbavano in molte parti l'impero di Roma, e interrogando i cittadini gli oracoli, per sapere come dovessero governarsi, fu loro risposto eleggessero principe colui che trovassero a mangiare a una tavola di ferro. I Romani mandarono lor cavalieri nelle province a far indagine di cotal uomo, e avvenne che passando alcuni di questi per la Dalmazia, s'imbatterono in un contadino, il quale, avendo sciolto i buoi dall'aratro, desinava, servendosi del vomere come di desco. Parlando con esso lui trovarono ch'era buon discorritore, e molto sensato e discreto nelle sue ragioni; per modo che, espostagli la causa del loro venire, seco ne lo condussero a Roma, e quivi fu fatto imperatore. Massimiano allora, risaputa la cosa, essendo ancor egli di Dalmazia, e amicissimo di Diocleziano, si recò a Roma. Ma Diocleziano intanto, soffrendo della mutazione del clima e dei cibi, ammalò. Non potendo altrimenti giungere sino a lui, Massimiano s'infinse medico, e ricevuto assai amorevolmente dall'antico compagno, tanto si adoperò con savii consigli che questi tornò alle costumate vivande e agli esercizii del corpo e racquistò in breve la sanità. Di ciò ebbero grande allegrezza il senato e il popolo di Roma, e Diocleziano, volendo mostrare il suo grato animo, si tolse Massimiamo collega nel reggimento. Ma poi, volgendosi al male tutt'a due, e perseguitando i cristiani, Dio li punì facendoli uscire del senno, per modo che, rinunciata la potestà imperiale, di propria risoluzione si ridussero novamente in condizione di privati, e da ultimo Diocleziano morì di veleno e Massimiano s'impiccò. Il modo della elezione di Diocleziano ricorda altre storie affini, per esempio quella del Goto Vamba. Di un re di Ravennache ammalò per aver mutato vitto e costumi si narra nello stesso Libro de los Enxemplos.

Nella Kaiserchronik si confonde l'imperatore Gallieno col medico Galeno. Gallieno fu il più dotto medico che mai nascesse in Roma, e operò gran cose con la sua scienza; ma odiava i cristiani, e nelle loro persone sperimentava i farmachi e l'arti sue. Faceva tagliar loro i piedi e le mani, faceva aprire loro le vene; egli fu il primo che introdusse il costume di strappare gli occhi alla gente. Tuttociò faceva in servizio dell'arte sua, e i pagani lo lodavano della sua sapienza. Gallieno era anche savio fiosofo, che qui tanto vale quanto indovino. Una notte lesse nelle stelle che il giorno seguente i suoi camerieri avrebbero tentato di avvelenarlo. Non fece mostra di nulla. Quando a mensa il coppiere gli mise innanzi una tazza avvelenata, egli, conoscendo l'inganno, costrinse

il traditore a bere in suo luogo, e tanta fu la forza del veleno che al malcapitato schizzarono gli occhi dal capo. Gallieno allora si partì da Roma, imprecando alla città, e minacciando vendetta ai suoi abitatori. Andò al castello di Boemondo, e fatta venire una gran cassa di bronzo, la empiè di veleno, e ordinò fosse sommersa nel Tevere. L'acqua del fiume, quivi passando, rimaneva attossicata, e quanti poi ne bevevano non potevano scampare la morte. In Roma ne morirono tredicimila persone. Un buon medico venne in ajuto dei Romani; la cassa fu ritrovata e levata dal fiume. Gallieno, avvertito che i cittadini lo volevano mettere a morte, fuggì in Siria; ma quivi fu poi ucciso a onor dei Romani.

Gautier d'Arras, Otte(Ottone di Frisinga?), Enenkel, raccontano di Foca e di Eraclio una storia romanzesca, greca forse di origine, dalla quale si ritrae questo insegnamento, che chi tiene le donne sotto guardia troppo rigorosa è spesso cagione del loro fallire. Altre invenzioni e attribuzioni così fatte si trovano in copia, specie nella Kaiserchronik e negli scrittori che attinsero da essa; ma io non credo di dovermi più oltre indugiare a discorrerne, giacchè non è in esse, generalmente parlando, nessuna delle qualità che fanno pregevoli e degne di studio le leggende. La leggenda, dirò così, genuina e legittima ha la sua necessità logica, più o meno facile a essere riconosciuta, nasce di una certa applicazione protratta e sistematica della fantasia a certi fatti, a certe persone, come mostrano con luminoso esempio le immaginazioni che si raccolsero intorno ai nomi di Alessandro il Macedone e di Carlo Magno; mentrechè le finzioni di cui ho fatto cenno nelle pagine precedenti sono per lo più fortuite e scioperate, congiunte a tali o talipersone solo in grazia del capriccio o del caso, e pronte a slegarsene come appena se ne porga occasione. Tuttavia, nel caso nostro, una certa importanza indiretta l'hanno ancor esse in quanto mostrano la tendenza degli spiriti nel medio evo a stringere intorno a Roma l'errante popolo delle favole, a raccorlo sotto la sua alta dominazione morale, e affermano la virtù attrattiva di quella Roma medesima, divenuta centro di gravitazione a tutto il pensiero dei tempi.

Delle trasposizioni d'ogni maniera che s'incontrano nelle liste degl'imperatori non parlo, perchè sono troppo naturali; dirò invece qualche cosa degl'imperatori fantastici e non mai esistiti. Nei Gesta Romanorum se ne trova una lunghissima filza: Dorotheus Gorgonius, Adonias, Miremis, Olimpus, Lampadius, Coronius, Onias, Mamertinus, e dieci e dieci altri. Anche nella Kaiserchronik se ne trovano parecchi.

Pompeo è fatto imperatore assai spesso, e un imperatore si fa di Romolo, l'ignoto raccoglitore di favole. Nei Gesta Romanorum, nel Novellino, nella Kaiserchronik, altrove, si narra la storia di Foco, che di fabbro diventò imperatore. Tito aveva decretato che in certi giorni tutti dovessero astenersi dal lavoro, e Virgilio aveva fabbricato una statua che rivelava il nome dei trasgressori. Foco, non avendo osservato la legge, minaccia la statua di spezzarle il capo se lo denuncia, e però questa da prima non vuole svelare il colpevole, poi lo svela. Condotto davanti all'imperatore, Foco dice come debba ogni giorno buscarsi otto denari, de' quali due servono a pagare un debito, due impresta, due perde, due spende per mantenere il padre, la moglie, il figlio, sè stesso. Tito lo lascia andare. Morto Tito, Foco è fatto imperatore: l'immagine sua è contraddistinta da otto denari. Questa favola ebbe origine probabilmente da qualche antica moneta, de' cui emblemi si volle dare spiegazione.

La romanzesca storia di Faustiniano, padre di San Clemente papa, e imperatore di Roma, il quale perde per una serie di sventurati casi, che un po' ricordano la leggenda di Sant'Eustachio, i figli, la moglie, e si riduce egli stesso in miserabilissima condizione, poi ritrova i suoi, racquista il trono, e si fa cristiano, occupa nella Kaiserchronik più di 1800 versi. Di Gioviniano si narra nei Gesta Romanorum e altrove, come, avendo voluto essere tenuto un dio, fu punito della sua tracotanza. Un giorno, a caccia, Gioviniano, sollecitato dalla caldura, s'immerge in un fonte. Un angelo veste i suoi panni, prende il suo posto, è da tutti creduto l'imperatore. Questi tenta invano di farsi riconoscere, ed è, per comandamento dell'angelo, bastonato ben bene. Da ultimo, palesato il miracolo, egli, pentito, torna nella condizione di prima. La storia popolarissima di Crescenzia si rappicca nelle varie sue forme a un imperatore Narciso, o aqualche altro imperatore. Nella storia di Fiorio e di Biancofiore in ottava rima, stampata in Roma nel XV secolo, Fiorio, compiute le sue gesta, diventa imperatore di Roma.

& poi di Roma fu decto imperadore

& gran tempo visse con bincifiore.

Così le fantasie più disparate nel medio evo gravitano intorno a Roma come a loro centro di attrazione, e molte di esse, o si legano a imperatori reali, o introducono nella storia romana imperatori fantastici. Non so se a questa generale tendenza non obbedisse ancora Pietro Aretino, o chi altro si fosse, quando del nome di Eliogabalo insigniva una Oratio protreptica sive adhortatoria ad meretrices, che si trova nella Historia

Augusta stampata da Aldo Manuzio nel 1519 in Venezia.

CAPITOLO VIII. Giulio Cesare.

Giulio Cesare è generalmente considerato nel medio evo quale primo imperatore, e la sua celebrità viene in gran parte dall'opinione appunto ch'egli avesse fondato l'impero, e dato principio all'era più bella e più gloriosa di Roma. Come nascesse questo errore non andrem ricercando, se pure non s'ha a dire che quanto si conosceva dei fatti di Cesare, e la consuetudine di confondere le cose aventi affinità tra di loro propria dei tempi a cui faccia difetto la critica, lo rendevano necessario ed inevitabile. A farlo nascere può anche avere contribuito Svetonio con porre Giulio Cesare primo nelle sue Vite degli Imperatori.

La celebrità di Cesare è maggiore assai che non quella del munificentissimo Augusto, primo riconoscitore della divinità di Cristo, secondo la leggenda, e del pio Costantino che procacciò il primo trionfo politico della fede cristiana sul gentilesimo. Gli è che le gesta di lui erano fatte per provocare l'ammirazione, per eccitare le fantasie, e per porgere acconcio argomento alla poesia romanzesca. La Farsaglia di Lucano, come ho già detto, molto diffusa e spesso tradotta nel medio evo, benchè ripiena di uno spirito avverso a Cesare, pure contribuiva per la parte sua a divulgarne maggiormente il nome. Il trovero narrava volentieri

De l'emperor Cesar, qui, par sa baronnie,

Le plus du monde conquist et mist en sa baillie.

Il giullare non doveva ignorarne la storia: Guiraut de Calenson nell'enseinhamen ne lo fa avvertito:

E pueis aprens

Con cil den Rens

En feron Julius fugir.

. . . . . . . . .

E de Brutus

De Cassius

Con saubron lor senhor aucir.

Altri trovatori ancora fanno ricordo della storia di Cesare. Nel Roman de Rou si legge:

Cesar, ki tant fist e tant pout,

Ki tut le munt cunquist e out,

Vnkes nuls hom, puis ne avant,

Mien escient ne cunquist tant,

Puis fu ocis en traisun

El capitoile, ceo sauum.

Dante pone Cesare armato con occhi grifagni nel Limbo insieme con gli altri illustri dell'antichità. Tommasodi Saluzzo così parla di Giulio Cesare nel Livre du Chevalier errant:

Chascun scet de voir et de certain.

Et ce n'est mie certes en vain.

Comment Cesar, le fort empereur,

Par sa force, sens et valeur

Conquist le monde entierement,

Tout fu en son commandement,

Dont il mist tel ordonnance,

Car devant n'avoit nulle sentence,

Qu'Ytaliens orent le gouvernement

VII.c ans du monde entierement,

Et pour celles oeuvres accomplir

On puet penser, sanz point mentir,

Que ce ne fu sans grans vertus

A monter si hault sanz reffus.

L'autore del Libro Imperiale dice nel dar ragione dell'opera sua: "Onde, volendo passare tempo, e volendo rubare alla fortuna gli accidiosi pensieri, io Can dal Chastello, studiando sopra gli autori e quali parllano della reale e nobile città, di Roma, la quale di begli esempli a alluminato el mondo, e letti gli affanni e le fatiche innistimabile onde Julio Ciessare divenne del mondo singniore, disposi nell'animo mio cierchare che fussi di Cessare suto dopo le battaglie fatte". Il Liber Augustalis ha in principio queste parole: "Primus igitur qui romanum arripuit imperium fuit Julius Caesar, Lucii filius, valentissimus omnium principum, qui in vigore animi non habuit parem, nec ante se, nec post se". Lo stesso Cola di Rienzo si dilettava di raccontare le storie di Cesare: moito li delettava le

magnificientie de Julio Cesare raccontare.

La storia di Giulio Cesare diede argomento a parecchi libri nel medio evo. Nel XIII secolo Giovanni di Tuim compose una Hystore de Julius Cesar in prosa, compilata su Lucano e i commentarii de bello civili, de bello Alexandrino, de bello Africano, de bello Hispaniensi. Ma già prima possedeva la letteratura francese un romanzo in prosa, tratto da Lucano, da Sallustio e da Svetonio, contenuto in molti codici, e nel XIV secolo recato in italiano sotto il titolo: I Fatti di Cesare. Da Giovanni di Tuim principalmente, ma anche da fonti latine, attinse Jacot de Forest, autore di un Roman de Julius Cesar in circa 9800 alessandrini. Tutte queste storie, sebbene si tengano molto strette alla Farsaglia, pure, quanto all'intenzione generale se ne scostano in modo notabile, essendo per Cesare piene di benevolenza e di ammirazione. Quel tanto che di Cesare si narra nel poema dell'Intelligenza deriva dal romanzo francese anonimo, ma forse anche da qualche altra fonte. Delle quattro parti che compongono il Libro Imperiale due sono consacrate a Giulio Cesare, due ai successori suoi sino ad Enrico VII, e di Giulio Cesare si narra lungamente nel Fiore d'Italia di Fra Guido e nell'Aquila volante. Anche nella Fiorita di Armannino Giudice si trova, verso la fine, la storia di Cesare, salvo che non vi viene a compimento. Nel Triumphe des neuf preux, curiosolibro composto ai tempi di Carlo VIII, Giulio Cesare è posto insieme con gli altri eroi massimi, Giosuè, Davide, Giuda Maccabeo, Ettore, Alessandro Magno, Artù, Carlo Magno, Goffredo di Buglione. Il Libro de los enxemplos ricorda una storia intitolata: Las trufas de los pleitos de Julio Cesar, la quale pare sia andata perduta. Finalmente i fatti di Giulio Cesare porsero anche argomento a misteri: un Mistaire de Julius César si doveva rappresentare ad Amboise nel 1500 in presenza di Luigi XII.

Caesar è, come a tutti è noto, il nome di una famiglia della gens Julia. Di quel nome già gli antichi diedero varie etimologie, narrando alcuni che il primo fondatore della famiglia fosse stato estratto dall'alvo materno con l'ajuto dei ferri chirurgici(caesus est, Caesar), altri che fosse nato con una folta capigliatura(caesaries), altri che avesse avuto occhi azzurri (Caesi oculi), altri finalmente ch'egli avesse ucciso con un sol colpo un cavaliere ed un elefante, combattendo contro i Cartaginesi, i quali l'elefante chiamavano Caesar. Nel medio evo lo straordinario nascimento, e la folta capigliatura, e gli occhi azzurri si attribuiscono a dirittura a Giulio Cesare. Di solito si dice che questi fu estratto dal ventre

della madre già morta; ma l'autore del romanzo francese anonimo testè citato pare che accenni ad altro quando dice: "Cesar fu tant el ventre sa mere que il convient le ventre trenchier ainz que il en issist". Nella cronica di Alfonso il Savio si recano cinque ragioni del perchè Cesare s'avesse quel nome. "Cinco razones ponen los Sabios porque fue dicho este nombre Cesar". Le cinque ragioni sono: 1º, perchè Cesare fu estratto dal corpo della madre, "è en latin dizen scindere(l. caedere) por tajar ò ferir ò batir con verga ò alguna otra cosa tal"; 2º, perchè nacque capelluto "è en latyn dizen cesaries por vedija ò por cabelladura ò por cerda de cabellos"; 3º, perchè cominciò la usanza di tagliarsi i capelli, "porque fue el primero que cabellos se cerceno"; 4º, perchè essendo nella prima gioventù uccise un elefante, "è porque en griego dizen ceson por elefante tomaron los sabios desta palabra Cesar"; 5º, perchè vinse ed uccise tanti nemici quanti nessun altro capitano mai, "è porque dizen en latyn como oystes cedere por bater ò por ferir tomaron segund esto desta palabra cedere Cesar". In una cronaca catalana inedita, intitolata Flos Mundi la nascita di Cesare è narrata in assai strano modo. "Abans que Julius Cessar nasques ac .I. dia en la ciutat de Roma gran bregua entra ells que y mori gran gent. Et quant fo pasada la bregua, anant .I. cavaler per la ciutat, en tralos morta viu gaer una dona morta, qui era prenys, e viu que li balugava la criatura dins la ventra. E deveyla del cavayl, e obri la dona, e trach li la criatura, e aco fo al temps de iuliol, e per lo nom del mes meseran nom a aquella criatura Iulius, e per tal com la dia en enans qu'ell nasques eran estats pecegats son pare e sa mare, e meseran li sobra nom Cesar. En axi ac nom Iulius Cesar. E quant saberan que era estat de bon linatga nodriren lo be". Abbiamo in tutto ciò un esempio della tendenza che ha la fantasia popolare, e l'erudita ancora, a dare ai grandi uomini origini singolari e meravigliose.

Delle guerre combattute da Giulio Cesare si narra molto diffusamente, come dal gusto del tempo si richiedeva. Secondo le varie cronache nazionali, egli, prima di trionfare, patì grandi sconfitte in Gallia, in Germania, in Bretagna; ma alla lunga nessuno poteva resistergli. Non mette conto tener dietro a queste narrazioni prolisse, piene di particolari favolosi, ma assai poco istruttive, e punto dilettevoli. Il solo valore ch'esse abbiano sta nel sentimento di amor patrio di cui sono ripiene, e di cui fanno testimonianza onorevole. Un breve cenno in proposito potrà dunque bastare. Secondo le già citate Chroniques de Tournay, Giulio Cesare non riesce ad espugnare la città di Tournay, che strenuamente si difende contro l'armi romane, se non con l'ajuto di parecchi principi di

Francia, di quattro re d'Africa, che si traggono dietro centomila uomini, e persino dei diavoli dell'inferno. Nella Kaiserchronik si narra come Giulio Cesare trionfò dei varii popoli di Germania, ma seppe in pari tempo, con la mitezza e generosità di cui diede prova, conciliarsi l'amore dei vinti. Respinto dai Romani, che non lo vogliono ricevere in città, Giulio Cesare ricorre ai suoi amici Tedeschi. Dalla Gallia e dalla Germania accorrono i baroni armati in suo ajuto:

Dô sie virnâmen sînen willen,

dô samenten sich die suellen

ûzir Galliâ und ûzir Germânie

kômen schare manige

mit schûninden helmen,

mit vesten halspergen.

sie leitten manigin schônin schildes rant

zuo Lancparten in daz lant.

Col loro ajuto Giulio Cesare trionfa dei suoi oppositori. Da indi in poi i Tedeschi furono sempre amati in Roma.

Le imprese veramente compiute da Giulio Cesare non sembrano più bastare alla sua gloria, e se ne inventano di nuove. Enenkel racconta che egli vinse i Monocoli, o Sciapodi, noti nella etnografia fantastica del medio evo, e li rincacciò sino in India. Nel Libro Imperiale si parla di certe spedizioni che Giulio Cesare aveva in animo di fare. "Apresso pensava andare verso e turchi, per mezo della Magiore Erminia, per vendicarela morte di Crasso e degli altri Romani". Armannino Giudice racconta nella Fiorita che Cesare, dopo avere conquistato Francia, Inghilterra, Germania e Ungheria, domò i Tartari, i Goti, i Garamanti, e conquistò l'India maggiore e la minore, dove "gli venne incontra lo prest Jan sança alcuna arme, ma humilemente e con grande riverença, però ch'egli avea dagli suoi indovini che Cesare per voglia di dio tucto il mondo dovea conquistare". Dopo di ciò Giulio Cesare si spinge sino al Caucaso, e giunge alla regione di Gog e Magog. È noto che anche Alessandro Magno fu fatto arrivare al paese di Gog e Magog; la leggenda di Giulio Cesare si allarga a spese di quella di Alessandro Magno. Del resto il remoto Oriente, paese di meraviglie, esercitava una irresistibile attrazione su tutti gli eroi leggendarii: Carlo Magno giunse nella leggenda sino a Gerusalemme, ma Artù arrivò nel cuore dell'Asia.

La guerra contro Pompeo è narrata per disteso nelle varie opere citate più sopra. Secondo riferisce Alberto Stadense nel Chronicon, alcuni credevano che Cesare avesse assediato Pompeo in Roma, e citavano un verso da lui composto in quella occasione, il quale diceva:

Te tero, Roma, manu nuda, date tela, latete.

Degli onori tributati a Cesare dopo le sue grandi vittorie si parla anche frequentemente. Nei Gesta Romanorum si fa ricordo di una colonna che il popolo romano gli dedicò l'anno ventesimosecondo(sic) di Roma. Bisogna leggere nel Libro Imperiale la narrazione delle onoranze che si fecero a Cesare, quando, vittorioso, tornossene a Roma; e poichè le stampe del Libro Imperiale sono assai rare, siami lecito di riportarla qui per intero.

Dee trionfi e quali aparecchiorono e Romani a Cessare e della morte di Sexto figliuolo di Ponpeo. Cap. 8.

E Romani aparecchiorono all'onore di Cessare cinque trionfi, benchè dall'uno all'altro mettessino alchuno dì di tempo per più dilunghare la onorevole festa. Lo primo fu per la vittoria di Francia, lo sechondo fu per la vittoria di Tesaglia, el terzo fu per la vittoria d'Erminia, dove morì Farnacie re, lo quarto fu per la vittoria d'Africha, dove morì Giubba re di Linbia, lo quinto fu per la impresa d'Aimunda, dove morì Ingnieo e Sexto, benchè no morì Sexto in bataglia; anche dopo la impresa d'Aimunda fuggì alla marina e chapitò a una isola signoreggiata d'Agrippa di mare, la quale, vedendolo, lo sgridò e disse: Honde vieni, misero? che vai erando? che per tua viltà no meriti esser chiamato figliuolo di sì fatto padre; e perchè a viltà ti se' senpre dato dengna chosa è che vilmente muoia, cioè pelle mani d'una femina. Allora chosì diciendo chon una mazza turchiescha l'uccise. Ora torniamo anostra materia.

Del primo trionfo ch'ebbe Cessare all'entrare di Roma. Cap. 9.

Aparecchiati che ebbono gli Romani gli trionfi, Cessare si misse uno vestimento porporeo vermiglio tutto, hornato di margherite, e in chapo si misse una chorona di foglie d'alloro a chapo schoperto. Apresso salse in sun un charro tutto lavorato e messo ad oro, menato da quattro destrieri bianchi. Dinanzi andavano tutt'i ballatori, armeggiatori, et ongni giente festa faceva con infiniti stormenti. Apresso al charro andavano tutti gli uficiali di Roma cho' luminari in mano, e dall'altro lato andavano donne e giovane faciendo festa. Drieto a lui venivano tutti li principi et baroni ch'erano stati presi nelli assedi et nelle battaglie. Et chosì andando tennono verso el Chuliseo, dove scese del charro et entrò dentro chon

molta riverenzia ringraziando gl'iddii di tanta vittoria. Apresso donò alli sacierdoti quello chavallo chol quale avea senpre chonbattuto, el quale fu chosa mostruosa, perchè aveva nel chapo uno chorno chol quale senpre feriva gli nimici, ed avea due chode e fu di pelo baio. Poi donò ai sacerdoti, ricevendo in onore degli iddii tutt'i prigioni. Apresso, fatto solenne sagrificio rimontò nel charro, e passò sotto all'archo trionfale, lo quale aveva fatto fare el popolo in onore di Ciessare, ed era tra Palagio maggiore e 'l Chuliseo. Passato ch'ebbe l'archo disse Ciessare di sua bocha: Delli due triunfi neghati siamo all'uno; chome volessi dire: morti sono choloro che mi negharono l'onore dell'acquisto di Francia. Andando in Chanpidoglio siedè nella sieda de' dittatori, et quivi per quella notte alberghò: lo giorno all'alba tornò alle sue proprie abitazione.

Del sechondo trionfo chominciando alla Minerva. Cap. 10.

Lo sichundo triunfo fu per la vittoria di Tesaglia, et questo fu a tre dì apresso al primo. El quale s'aparecchiò alla Minerva, dove andando Cessare, e pontefici el choronaro per brivilegio di chorona d'alloro, et missogli in dosso un vestimento biancho d'un drappo turchiesco, in abito pontifichale: poi salì Cessare in uno destriere, el quale rechava e sachrifici al tenpio, nel quale non era lecito a niuno salire. Questo era choperto di porpora vermiglia. Apresso e sacerdoti portavano sopra il chapo uno padiglione di seta vermiglia, et cholle luminare de' sacrifici, et cho' sopradetti honori andarono in Chanpidoglio; et al salire di Chanpidoglio disse Cessare queste parole: Honore di chocente travaglio; chome volessi dire: ho Roma, di che mi fai honore? della terra choperta nel chanpo di Tesaglia della charne et del sangue de' tua et de' mia cittadini? Apresso siedè nella sedia de' chonsoli, e tornò alle sue abitazioni.

Del terzo trionfo chominciando alle sua abitazioni. Cap. 11.

Et presso alli cinque dì seghuenti ebbe et el terzo trionfo pella vittoriadi Linbia. Pre questo si levò dalla sua chasa, e fu in questo modo. Quattro chavagli portavano una sedia tutta lavorata ad oro, nella quale sedeva Cessare vestito d'uno palio ad oro di nobile lavoro. Sopra el chapo gli portava uno chavaliere uno stendardo tutto ad oro, con una aquila nera, sotto la quale insengna aveva avute sue vittorie; et chosì cho molti stormenti, et achonpangnato da tutti e chavalieri di Roma andò in Chanpidoglio, dove, chome giunse, siedè nella sedia de' sanatori, la quale dengnamente avea aquistata per lo re Giubba ch'era cittadino di Roma, et in quello anno chiamato senatore; et levandosi

disse di sua bocha: Grande fu la potenzia de' mia chome la torre. Questo volle dire richordandosi di quelli alifanti, e quali assenbrò lo re Giubba a Chartagine, che per lo 'ngegno de' sua chavalieri furono tutti spaventati.

Del quarto trionfo ch'ebbe Ciessare chominciando a Panteone. Cap. 12.

El quarto trionfo fu dì sei dopo il terzo, et questo si chominciò al tenpio del Panteon, dov'era l'orrigine di tutti gl'iddii. Oggi si chiama santa Maria Ritonda. Cessare salì in un charro d'avorio intagliato cholle storie troiane, e tirato da quattro alifanti tutti choperti di chandido ermellino, e 'ndosso avea uno vestimento ad agho lavorato chon grande maraviglia, lo quale avea fatto la reina Ames per amore che portava a Cessare. Et andando a Chanpidoglio colli sopradetti honori, et cholle chorone dell'alloro in chapo, nel salire di Chanpidoglio disse queste parole: Andai, viddi et vinsi. Questo disse perchè grande maraviglia gli parve, perchè lo re Farnacie con tutti gli Ermini furono vinti in meno di quattro hore. In questo quarto trionfo siedè nella sedia de' dittatori, perchè li pretori aveno scritto a Farnace chonfortandolo contro a di Cessare.

Del quinto et ultimo triunfo inchominciato in Chapo di marzo. C. 13.

Lo quinto et ultimo trionfo si chominciò in Chapo di marzo, perchè nel detto luogho Ponpeo avea più volte neghato a Cessare il trionfo. Quivi salse in un charro choperto di porpora, choperto d'un gram padiglione ad oro con aquile nere, ed intorno al padiglione pendevano molte charte bianche. Nel mezo n'era una a lettere d'oro, la quale dicieva: chomanda, et chome singnore sarai ubbidito; et chon gli detti honori andò in Chanpidoglio; ed al passare della strada Apia di Chanpidoglio gli fu messo sotto el charro, lo quale tirava correnti destrieri, uno giughante, el quale avea presso Cessare nelli stormi, el quale morì del peso del charro. Giunto in Chanpidoglio siedè nella sedia inperiale. Et usanza era in Roma che quando alchuno ricevea trionfo hogni persona gli potea dire quanta villania voleva, et questo si facieva perchèniuno si levassi in superbia. Per tema niuno ardiva questo dire a Cessare; ma uno si levò et disse: Iddio ti salvi, reyna. Questo disse perchè Nichodemo re di Belchime lo tenne, quando era giovane, chome moglie. Di questo Cessare si rise. Allora gli fu posta la chorona inperiale a dargli ad intendere ch'egli era singnore de Roma et de' chomuni del mondo. Et allora chominciorono a trovare per lui quello parlare che dicie vos, che insino a quel dì giammai e Romani non arebbon detto a persona altro che tu; hora inchominciorono a dire chon Cessare vos. Poi lo stabilirono a tutti gli ufici

et feciono gienerale singnore Cessare del tutto, et chome a singnore gli portavano riverenza, dimentichando ogni loro fatto passato; et in questa quinta sedia tenne l'onore de' tribuni, sicchè Cessare honnia erat, et ongni honore et ongni singnoria ricevette.

Fatto imperatore, Cesare riforma le leggi, gli ordinamenti, i costumi, edifica, apre strade e porti, tutto governa, a tutto provvede. Dice Armannino Giudice che Cesare fermò la gerarchia dei re, duchi, marchesi, conti, principi, cattani e valvassori. Che il mese di luglio prese il nome da lui non si dimentica; ma la gloria militare offuscò alquanto la gloria letteraria del gran capitano. Benchè conosciuti, i Commentarii non sono tra i libri più frequentemente citati nel medio evo.

Una leggenda italiana, anzi fiorentina, attribuisce la fondazione di Firenze a cinque signori di Roma, Cesare, Macrino, Albino, Gneo Pompeo, Marzio, che tutti insieme avevano combattuto contro Catilina. Che Giulio Cesare non fu in tutto estraneo alla congiura di Catilina è noto; ma in questa leggenda si assume il contrario e si costituisce Cesare campione e tutore di Roma. Giovanni Villani, narrata, sulla fede di Sallustio, la congiura, la disfatta e la morte di Catilina sotto Fiesole, passa a dire della guerra che seguì tra i Fiesolani, i quali avevano seguita la parte del ribelle, e Quinto Metello e Fiorino, nobile cittadino di Roma della schiatta de' Fracchi, ovvero Floracchi. Questo Fiorino è, come ben s'intende, personaggio tutto fantastico. L'assedio di Fiesole dura molti anni, sinchè i Fiesolani disperati, una notte, danno l'assalto al campo romano, da cui erasi partito Metello con le sue genti, e uccidono di sorpresa Fiorino e quasi tutti i suoi. Allora muove alla espugnazione di Fiesole, mandatovi dai consoli, dai senatori e da tutto il comune, Giulio Cesare insieme con Rainaldo conte, Cicerone, Tiberino, Macrino, Albino, Gneo Pompeo, Camertino, Sezio conte Tudertino. "Cesare si pose a campo in sul monte che soprastava la città, che è oggi chiamato Cecero, ma prima ebbe nome monte Cesaro per lo suo nome, ovvero per lonome di Cicerone. Ma innanzi tengo per Cesare, però che era maggiore nell'oste. Rainaldo pose suo campo in sul monte allo incontro della città di là da Mugnone, e per suo nome insino a oggi è così chiamato; Macrino in sul monte ancora nominato per lui; Camertino nella contrada, che ancora per li viventi e per lo suo nome è chiamata Camerata. E tutti gli altri signori di sopra nominati, ciascuno pose per sè suo campo intorno alla terra, chi in monte e chi in piano. Ma di più non rimase proprio nome, che per lo presente ne sia memoria". Dopo alcun tempo, partitisi gli altri, Cesare si

rimane solo all'assedio, e ordina che nella villa di Camarti, presso al fiume d'Arno, fosse edificato un parlatorio per potere in quello fare suo parlamento, e per una sua memoria lasciarlo. In capo di due anni, quattro mesi, sei dì, Fiesole si arrende, e Giulio Cesare, distruttala, scende al piano, e comincia a edificare una nuova città, acciò che Fiesole non fosse mai più rifatta. Sopravvennero gli altri quattro signori nominati di sopra, e fu da essi a gara costrutta la città, cinta di buone mura, provveduta d'acquedotti, insignita di un Campidoglio al modo di Roma; e questa fu poi Firenze. Ma a raccontare tale storia non fu primo Giovanni Villani; già altri l'aveva raccontata prima di lui, raccogliendola, senza dubbio, dall'antichissima tradizione. Poi lo Pseudo-Ricordano la ripete, ma con qualche diversità. Distrutta Fiesole, Catilina fu vinto da Cesare presso Pistoja, e rimase morto sul campo: cinquecento anni dopo Attila, ovvero Totila, volendo vendicare la morte di Catilina, distrusse Firenze e riedificò Fiesole. A questo racconto si mesce la storia romanzesca di Bellisea e di Teverina, moglie l'una, figliuola l'altra di Fiorino, re dei Romani, e degli amori di Catilina e del Centurione. Di questa storia in Giovanni Villani, e negli altri più antichi non si trova vestigio. La leggenda della fondazione di Firenze è ricordata anche nell'Ameto del Boccacio, la guerra combattuta fra Romani e Fiesolani nell'Avventuroso Ciciliano di Busone da Gubbio. Brunetto Latino ne parla nel Tesoro, e Dante accenna alla leggenda quando in bocca di Brunetto pone aspre parole di biasimo per

. . . quell'antico popolo maligno

Che discese da Fiesole ab antico,

E tiene ancor del monte e del macigno.

Del resto, nelle tradizioni popolari Giulio Cesare passa per fondatore di molte città, come, per esempio, di Siviglia, di Merseburg, di parecchie sul Reno, persino di Parigi.

Ma il fatto che sopra tutti gli altri si ricorda e si rinarra è la morte violenta di Cesare; questa morte è nel medio evo vivamente deplorata, egli autori di essa sono fatti segno alla universale esecrazione. Nelle cronache si registrano diligentemente, seguendo gli antichi scrittori, i prodigi che precedettero ed annunziarono al mondo la grande sciagura; ma altri ancora, nuovi e maggiori, se ne inventano. Giovanni D'Outremeuse dice che Virgilio profetizzò il fatto ai senatori un anno prima che accadesse. In molte cronache si ricorda come alcun tempo prima della morte fosse scoperta in Capua la tomba del Trojano

Capus(Capys), fondatore di quella città, e come ci si trovasse dentro uno scritto, che annunziava alla fatta scoperta dover seguire la morte del più gran principe del mondo. Nel Libro Imperiale questa meraviglia è narrata con alcune particolarità che altrove non si hanno. "Una città in Terra di Lavoro, la quale è chiamata Chapoa, tenendo el nome dal suo edifichatore Chapus, lo quale fu Troiano, e fu grande agurio. Egli nel suo tenpio fece fare uno sepolcro, el quale chollocò braccia dieci sotto al monte chapoano. Disopra la pietra scrisse lettere greche messe a oro: Io Chapus lascio questo segnio al mondo che giamai questo sepolcro non debba essere schoperto per insino a tanto che 'l primo imperio del mondo non fornisse la sua vita; e chome cholui per chui si pone questo segnio sarà ripieno d'infinito tesoro, chosì dentro da questo monte, lo quale naturalmente produce argento e oro e stagnio questo segnio in forma di sua sepultura". Un giullare pazzo conferma a Giulio Cesare il significato della scritta. Ma i più numerosi e più strani prodigi si trovano descritti nel già citato poema di Antonio Cornazzano De viris illustribus.

La nocte oscura circa l'hore sei,

Ordinata la fraude si sentiro

Horribil voci in ciel gridare oimei.

La terra come tracto un gran sospiro

Fe terremoti, et con sanguinea chioma

Faci per l'aria combattendo giro.

Parlon le fiere, et uno agnel si noma,

Carne, carne, gridò: nascendo un putto

Disse a voce alta: Oimè, guai a te, Roma.

Un bove al suo arator disse: A che frutto

Tanto mi pongi, che el gran non pure uno,

Ma in breve el seme uman mancherà tutto?

Piobber sassi di cielo, e in color bruno

Tre dì pel Tevre andar saltando draghi:

Lì non rimase navarolo alcuno.

Mille altri mostri et errabondi e vaghi:

Par ch'ogni specie in drieto si ritorcha

Coma mutata per versi di maghi.

Viva col capo human naque una porcha,

Un putto colla testa d'elefante;

Un ladro morto pianse in sulla forcha.

Sulla moneta ben stampita errante

Mutonsi i volti imperiali allegri,

E dolorosi si guardon le piante.

Cambionsi i lupin bianchi in lupin negri,

El messor della biada spiche accolse

Rosse e piene di sangue i grani integri.

La terra in certe partisi disciolse,

E fe profondo abisso, ove una voce

Sempre gemendo trenta dì si dolse.

Visto fu il ciel da sè schiapparsi in croce,

Spargendo foco, onde temè el iudicio

Del sommo padre la turba ch'el noce.

Che dirò delle fiere al sacrificio

Morte, che tracte le ventraglie fuore

Diè ognuna più di lui cattivo indicio?

Cesar proprio alcun giorni anzi ch'el more,

Ucciso uno agno per augurio d'esso,

Cerchò gran tempo e non gli trovò il cuore.

Nel Libro Imperiale si dice che la congiura fu tramata in luogo sotterraneo, che così si descrive: "Quello luogho dove era el chonsiglio ragunato era sotto terra, sotto el palagio della ragione, ed era uno luogo fatto in tondo. Lo suolo di sotto era tutto lavorato a porfido, chosì erano le sedie d'intorno fatte a molte poste. Di sopra avea una volta a musaico lavorata, nel mezo della quale era scolpita la 'magine del sommo Giove. Apresso d'intorno stavano scolpite le imagine di tutti gl'iddei e iddee; e 'l detto luogo stava sì per ragione e achoncio che giamai non s'udiva di fuori chosa alchuna che dentro si facesse o dicesse". Poscia si riferiscono per disteso i discorsi di Bruto e di Cassio.

La uccisione è narrata e spiegata in varii modi. Nelle Chroniques de Tournay si legge a tale proposito la narrazione che segue: "Souveraine envie quy ne peut estre estainte esmeut Cesar envers les senateurs d'une chose qu'il fist, pourpuoy ilz le hayrent a merveille. Il se seoit un

iour devant un temple de Veneris, la ou tous les senateurs vindrent pour parler a luy; mais il ne se leva point contre eulx, dont les aulcuns quy dient que Cornille le barbe le retint ad fin que il ne se levast, ainsy qu'on fait a un homme de coustume quant il se voelt lever contre un aultre. Et les aultres dient qu'il ne fist nul semblant de se lever. Il advint une aultreffois que un grant senateur, que on nommoit Ponce l'esgle, estoit avec grant plente d'aulcuns senateurs, quy tous se leverent contre Cezar, fors ce Ponce, dont Cesar eut sy grant despit que moult de iours aprez il n'otroya chose qu'on lui demandast qu'il ne desist tousiours: Ie le feroie s'il me loisoit pour Ponce l'esgle; qui estoit un des enfans bastars de Tournus, lequel par ce despit il le demist et osta du nombre des senateurs. La conmune voix courut a Romme que Cezar s'en devoit aler a Troyes l'anchienne, ou en Alixandrie, a tout la ricesse de l'empire et la iouvente de Romme et du pays environ, et baillier a procurer en la main de ses amis,et feroit de Troyes, ou d'Alixandre, le siege de l'empire. Pour toutes ces choses, et pour plusieurs aultres, fut Cezar mult hays, si que ilz furent bien quarante senateurs, ou plus, tant des bastars du roy Tournus, comme de ceulx de leur lignage, et mesmement aulcuns des pares de Cezar, lesquelz tous pourchasserent sa mort. En especial Cassius et Bructus furent les principaulx de ceste trayson, et moult penserent ou ce pourroit estre fait. Les ungz disoient au pied du pont du champ Marceau, car la il passeroit oultre pour partir les honneurs, et que illec le sacheroient ius et occiroient, et les aultres disoient qu'il vauldroit mieulx de le prendre quant il yroit ou theatre des gieux scenicques. Ne demoura puis guere que l'en cria le iour du senat remuer, ainsy qu'on le faisoit chascun an. Le iour fut assigne au XVe iour du mois de marcz ensuivant en la cour qui fu Pompee. Quant les coniures l'oyrent ilz dirent que ceste place estoit bonne pour adcomplir leur euvre, et que bien povoient attendre iusques adont, et que la sans nule faulte il seroit occis". Segue il racconto dei segni precursori e della morte.

Nel Perceforest la uccisione di Giulio Cesare è rappresentata come una vendetta della vinta Bretagna. La difficoltà dell'impresa sta nel saper cogliere il momento opportuno: Zephir, essere soprannaturale, così dice a Durseau, uno dei vendicatori: "Touttefoys ie te advise que tant est bien fatalize que fortune ne sera contre lui que ung iour et une nuyt et s'il eschappe ce terme sa bonne fortune croistra toute sa vie et pource te convient scavoir quant fortune se partira de luy. Ce sera que a son departement les huys et les fenestres de son palais meneront telle noyse de clorre et ouvrir que toute Romme en sera espoventee". In una

Chronique des Evesques de Liege compilata nel XV secolo, e conservata fra i manoscritti della Biblioteca di Berna, si narra come Giulio Cesare fu ucciso dagli amici di Virgilio, il quale dalla figliuola di lui era stato, secondo che narra la nota leggenda, ingannato, sospeso in un canestro, ed esposto agli scherni di tutto il popolo di Roma.

Il misfatto si compie nella casa o nel teatro di Pompeo, oppure nel tempio di Achille sulla rupe Tarpea, come si trova scritto in qualche testo dei Mirabilia, o nel palazzo di Campo Marzio dove si teneva ragione, o più spesso nel Campidoglio. Ranulfo Higden dice che Cesare fu ucciso con pugnali da gladiatori, e che nel corpo suo non si vide segno di ferita. Secondo il Libro Imperiale, Cesare, prima di soccombere, uccise seidegli aggressori, i corpi dei quali furono poi gettati dal popolo in piazza in pasto ai cani.

I funerali sono così descritti per disteso nel Libro Imperiale.

Dell'honore hordinato sopra el chorpo di Cessare. Cap. 30.

Per volere et potere più abilmente honorare el chorpo di Cessare, prima l'achonciorono per modo potesse aspettare el tenpo; e bene che ci fussi assai da fare, però che gli furono trovate ventidue fedite, pure cho gli arghomenti del balsimo e d'altre nobili et chare unzioni l'achonciorono per modo ch'el tennono venti dì. In questo tenpo mandorono messi et imbasciate alli baroni et alli re più pressimani, bene che allora per cierto parllamento che Cessare avea fatto in Roma, si ritrovorono in Roma trentadue re di chorona di diverse parte del mondo, e quali un anno innanzi erano istati richiesti, et anchora non era el tenpo loro spedito. Gli Romani feciono gran pianto, però che sechondo l'usanza anticha lo piansono quaranta dì, venti prima che fussi seppellito, et venti dì dopo la sua sepoltura; et non vi fu niuno el quale avessi da poterllo fare, che non si vestissi a nero, ho a seta, ho a sciamiti, e chi di più comuni vestiri. Tutti e sacierdoti et maestri de' tenpli che poterono al tenpo venire trassono a Roma, et tanta era la giente che v'era venuta che l'abitazione di Roma non bastavano; anche facievano tende et padiglioni per giardini et per le piazze di Roma. Ora assenbrato tanto popolo diliberano et re et duchi che non si indugiassi più, però che per la strettezza della giente non si poteva andare per Roma, et già chominciava la roba a manchare. Et ragionando el luogho della sua sepoltura, ho doue el dovessono ispolvereczare, alchuno dicieva: Facciasi in quello luogho dove e' fu morto; altri dicieva che si faciessi in Chanpidoglio.

Del pianto prima ch'el traessino del palagio, et chome el portorono al

tenpio di Minerva. Cap. 31.

Venuto el deliberato giorno tutti i baroni la mattina all'alba furono chongreghati intorno al palagio di Cessare chon sì gran pianto, che se iddio avessi tonato non si sarebbe udito. O chi non arebbe pianto vedendo tanto popolo vestito a nero, et vedere e chavalieri chonpagni di Cessare, et gli altri e quali erano stati cho lui alle battaglie farsi spesso alle finestre gittando bandiere schuartate, et gittando e vestiri festerecci apresso, tutti vestiti a seta oschura, chon visi arossichati di sanghue, e quali gridavano sotto una boce: Morto è il singnore nostro! morto è er rettore del mondo! perduto abbiamo te, Cessare, padre de' Romani! El popolo stava tutto trafitto, et facieva gran romore per vedere el chorpodi Cessare. E baroni apparecchiorono uno nobile cataletto di gran misura, lo quale era d'avorio lavorato ad oro et a perlle, fornito d'infinite pietre preziose, sopra al quale posono uno riccho letto di seta, apresso un palio lavorato ad oro cho pietre preziose, lo quale avea rechato Cessare d'Erminia, che era il più sottile e 'l più riccho maestero che giammai fusse veduto ho trovato al mondo. A chapo gli posono ghuanciali di Turchia, fatti nel loro lavoro d'abisso chomessi, changiando el cholore, lo quale panno riluscie come specchio. Poi hornarono quello mirabile chorpo chon vestimenta inperiale, nell'abito, quanto a tanto fatto si chonviene, d'una porpora chandida lavorata tutta chon perlle et margherite, chalzato d'un drappo vermiglio, et in chapo gli posono una chorona inperiale, tutta choperta era di puro et fino horo d'Arabia chon dodici rocche a somo d'intorno rilevate. Nella sommità loro era per ciaschuna uno riluciente charbonchio al quale lume si sarebbero armati diecimila chavalieri. Poi presono quello venerabile chorpo et posollo nella bara sopra di quello magnificho letto, et chon grandissimi pianti, et chon infinita luminaria al tenpio di Minerva, dinanzi al quale nella piazza el posono sotto uno mirabile padiglione.

Del pianto della inperadrice el delle altre donne di Roma. Cap. 32.

Le donne di Roma erano tutte al tenpio raghunate cholla inperadrice vestita a bruno per aspettare il chorpo di Cessare. Quando la donna vide chome el chorpo era nella piazza, uscì del tenpio a seta nera vestita, achonpangniata da molte donne et da baroni et da tutte le Romane. Quivi fecie smisurato pianto, gittandosi più volte sopra el chorpo, et molte volte era dalle donne richolta da terra chome morta; ma quando prendeva tenpo di lena, parllava et dicieva nel pianto: o alto singnore, et dove si riposa la tua infinita potenzia, et chome ti vegho morto stare? O

singnor mio, el songnio delle cholonne, et chome in propria forma m'è il vero adivenuto! O Bruto traditore! Chi si sarebbe dalle tue lusinghe guardato? O non eri tu singnore della chorte? O Cessare, o Cessare! chome giamai t'abandonassi alle parole di Bruto! Singniore mio, hor fuss'io stata techo morta, che almeno non vedrei tante morti! Et a chui, singniore mio, mi lasciasti, che n'avesti tenpo di potere parllare? Ho, padre de' Romani, ho, chonsorto degli afflitti, chi sarà homai difesa delle vedovelle et de' pupilli abbandonati? Fiore di provedenza, cholonna di giustizia, splendido lume di piatà et di miserichordia! Et chon queste parole facieva siffatto pianto che facieva piangere hongni creatura che quivi era presente, et spesse volte chadeva sopra el chorpo tranghosciata, et re et baroni, che stavano d'intorno, ciaschuno piangevachon amaro duolo. Lo re Antonio d'Egitto, lo quale negli stormi fu suo sinischalcho stava cho gli altri baroni d'intorno anchor esso piangendo, et dicieva: Singnore mio, chome vegho el chapo fiero adorno già di mirabili cimieri, et chome negli stormi dimostravi tua potenzia! Dove sono le braccia di tanta achortezza, harmate di schudo et di riluciente spada? Dov'è quel chorpo tanto virtuoso, che sì bene vestiva di splendido sbercho? Ora lo vegho morto stare. Et non sarà però che l'anima non vegha lo spirito volare de' traditori che ebbono ardire di mettere mano a sì fatto singnore. Gli altri re et baroni et donne facievano sì grande el pianto che pareva ch'el mondo dovessi finire per pianto. Et già era passato il mezzo dì; ma li maestri a chui era dato l'ordine a chonducere l'onore, vedendo che l'ora era tardi, ritrassono in drieto gli re e le donne et gli altri, per fare al chorpo l'uficio di Minerva. Et prima presono el chataletto hotto re di chorona, vestiti in abito reghale colle chorone in testa; e fu dinanzi posto lo re d'Ungheria et lo re d'Inghilterra; gli altri due apresso fu lo re di Portoghallo e lo re di Schozia; gli altri due apresso fu lo re d'Erminia e lo re di Spangna; gli due che seguitorono drieto furono lo re di Francia e lo re di Buemia. E levorono el chorpo chon grande riverenzia, et portorollo dentro nel tenpio dove s'assenbrorono solamente e re et baroni cholli pontefici maggiori de' tenpli; et sopra el chorpo posono tavole d'oro, sopra le quale feciono a Minerva solenne sagrificio, rachomandandogli con solenni chanti et uficio l'anima di Cessare. Intorno al chorpo ardeva tanti lumi che pareva ch'el tenpio ardessi. E fatto questo, et tutto l'uficio, presono la statua di Minerva, et tolsono la chorona dello alloro che aveva in chapo, e posolla a Cessare sopra el petto; et questo fu el più singhulare honore che mai si faciessi a nessuno chorpo morto. Poi e detti

re adoperorono el loro uficio, presono el chorpo et riportorollo nella piazza sotto l'onorato padiglione.

Chome Cessare fu tratto del tenpio cholla chorona di Minerva, et dell'onore de' chavalieri choperti a bruno. Cap. 33.

La giente che stava di fuori ad aspettare, vedendo tornare nella piazza el chorpo di Cessare cholla chorona di Minerva sopra il petto, dicievano che Minerva avea parllato con Ciessare, et in sengnio di ciò gli avea donato la chorona della sapienza. Apresso le donne, e chavalieri e tutto el popolo ricominciorono amarissimo pianto, tanto che impedivano molto gli ordini degli honori et fattori degli onori. Aparecchiorono apressoagli onori, intorno alla piazza, tutte luminarie atorno, sicchè pareva che Roma ardessi. Apresso tutti gli pontefici parati choll'ufficio, chantando. Prima s'aviorono innanzi per andare a Chanpidoglio mille chavalieri, hornati di chavalleria, a chavallo in chorrenti destrieri, vestiti a seta nera, e chavagli coperti insino a terra; et portavano parte di loro bandiere in mano, chon amare strida et pianti; altri portavano spade cholle punte rinchinate a terra; altri portavano elmi, e chi schudi, e chi strali, chonfaloni acquistati nelle battaglie. Nel mezo di tutti erano sei chavalieri vestiti a nero, chogli destrieri choverti. El primo dinanzi portava un elmo choperto a nero, sopra el quale era el chapo e 'l collo d'un cieciero d'ariento; el sechondo portava una spada et speroni ad oro; el terzo portava uno schudo ad aquila nera nel chanpo d'oro a ritroso; el quarto portava tutta sua armadura di dosso, cholla quale avea senpre chonbattuto; el quinto portava la sua lancia chol pennone ad aquila; el sesto portava libri e quali Cessare avea scritti di sue vittorie.

Della chericieria e luminaria e chompagnia de' re et principi andando in Chapidoglio. Cap. 34.

Apresso a' chavalieri veniva tutta la chericieria, hordinati cho lunghissima schiera, tutti cho luminare accese in mano; poi veniva tutt'altra luminaria. Apresso furono hordinati e re, e duchi et principi di grande affare. Intorno al chorpo venivano tutti e proposti delle città sogioghate a Roma, e tutti gli uficiali di Roma; e fatto el lamento, le donne furono tutte rimesse nel tenpio di Minerva, et quegli hotto re presono el chorpo cho molta riverenzia, et di questo modo et di questo hordine n'andorono in Chapidoglio.

Come e' fu spolverezzato e posto nella gullia. Cap. 35.

Giunti che furono in Chanpidoglio e chavalieri si trassono tutti da parte, e baroni cogli re feciono largho cierchio intorno alla bara, et nel

mezzo della piazza posono el chorpo, et acchonciorono intorno tutta la luminaria, et tutta giente si fece adrieto, et chominciorono un sì grande pianto che mai non fu simile a quello; et rimaso alquanto el grido aspettavano nel pianto l'uno l'altro; et prima chominciorono e re a uno a uno, hognuno chomendandolo di Sua virtù, et chosì seghuitorono e baroni, et gli altri chavalieri; e fatto fine a questo dire richominciorono tutti insieme a fare dirotto pianto; poi ristette el pianto; e' pontefici de' tenpii presono quel chorpo et posollo sopra gientilissime legne, fra quali missono pietre preziose et di soma valuta, et sechondo el chostume anticho arsono et spolverezorono la charne di quello nobilissimo chorpo, poi la richolsono cho molta riverenzia, presente tutto il popolo, e si tolsono l'ossa insieme choll'altrapolvere, et missolla in una chassetta d'oro; e fatto questo, chon tutti questi honori la portorono al tenpio di Marte, nel quale primamente posono in alto tutte sue armi, apresso tutte insengnie et bandiere, et infra queste chose apicchorono quegli stocchi et quegli stili che furono trovati nel luogo del chonsiglio, et dinanzi alla statua di Marte posono el libro che trovorono nell'armario, dov'era la chongiura iscritta. A' sacierdoti del tenpio di Marte assengniorono e libri scritti per mano di Cessare, et fatto questo, tolsono una gran palla di grosso metallo, tutta messa ad oro, sopra la quale era una aquila nera, sicchome portava per arme Iulio Cessare, nella quale missono quella chassetta de l'oro, et fatto al tenpio solenne sacrifizio, sì la puosono in sun una e lungha pietra, et alta, che hoggi si chiama la gullia di santo Pietro. Alla quale in quel tenpo gli stava d'inchontro el tenpio di Marte, et fra l'uno e l'altro era grandissima piazza, dove s'assengnavano et rapresentavano tutti e chavalieri, quando tornavano da niuno stormo ho d'alchuno chomune bisongnio; et questo era nel martedì, a chui, cioè a Marte, è dedichato el detto dì. Hor eccho raghunati tutti e chavalieri: si facieva al tenpio solenne sacrificio, poi si levava el somo pontefice in cierto luogho alto et chontava a tutto el popolo per nome e morti nelle battaglie; apresso chontava per nome choloro che s'erano me' portati a loro chomendazione; et però che Cessare fu armigero et bellichoso, fu posto el chorpo suo nel detto luogho, e fu chiamata quella alta pietra lungha per lo maestro che fu hoperatore di tale ufizio, lo quale fu grecho, et ebbe nome Lugolo; ma poi che vi si pose la polvere di Cessare, per chagione dell'aquila sua arme, la quale v'era di sopra, fu chiamata l'aquila di Cessare. Gli Toschani dicono aguglia, et indi è discieso gullia, honde si dice la gullia di santo Pietro.

Contrariamente a quanto si narra nel Libro Imperiale, e attingendo a

non so quali fonti, Jacopo della Lana dice nel suo Commento: "Morto Cesare secretamente la notte lo seppellinno, e costituinno Ottaviano Imperadore".

Nei Mirabilia si descrive il sepolcro di Cesare accosto al Vaticano: "iuxta quod est memoria Caesaris id est agulia, ubi splendide cinis eius in suo sarcophago requiescit, ut sicut vivente totus mundus ei subiectus fuit, ita eo mortuo usque in finem saeculi subiciatur. Cuius memoria inferius ornata fuit tabulis aereis et deauratis, litteris latinis decenter depicta. Superius vero ad malum ubi requiescit auro et pretiosis lapidibus decoratur, ubi scriptum est:

Caesar tantus eras, quantus et orbis,

Sed nunc in modico clauderis antro.

Et haec memoria sacratafuit suo honore, sicut adhuc apparet et legitur". Questa descrizione si trova ripetuta infinite volte in libri d'ogni maniera. Nella Kaiserchronik si dice che le ossa di Cesare furono poste in cima a un irmensûl;

sîn gebeine ûf ein irmensûl sie begruoben.

L'Holkoth si scosta dalla comune tradizione, dicendo: "Legitur in Chronicis, quod anno ab urbe Roma condita XXIII.(sic) populus Romanus columnam in foro Romano statuit: et ibi statuam quoque Julii Caesaris statuerunt, et super caput statuae nomen IULII scripserunt et sub ipsa statua eum sepeliverunt". Giovanni Beleth chiama l'agulia piramide nel Liber de ecclesiasticis officiis: "Pyramis dicitur a Pyr, quod est ignis. Sicut ignis a lato incipit et tendit in altum, sic et pyramis, et est altissimum genus sepulture. Talis est Rome, in qua fuerunt positi cineres Julii Cesaris, et vocatur acus sancti Petri". In una breve storia francese degli imperatori, che si conserva manoscritta nella Nazionale di Torino, il nome dell'agulia diventa il nome di una piazza: le ceneri di Giulio Cesare riposano "en une pomme d'ereen doree sor une haulte colombe de marbre ou marchiet qu'on dist Julie a Romme". Enenkel sembra confondere l'agulia con la colonna Antonina o Trajana.

Che la tradizione riportata nei Mirabilia si leghi per qualche parte a quanto della colonna di Cesare narra Svetonio mi sembra innegabile. Dice Svetonio che il popolo eresse in onore di Cesare morto una colonna alta venti piedi: "Solidam columnam prope XX. pedum lapidis numidici in Foro statuit scripsitque Parenti Patriae, apud eandem longo tempore sacrificare vota suscipere, controversias quasdam interposito per

Caesarem jurejurando distrahere perseveravit". Sebbene Svetonio non fosse nel medio evo tra gli scrittori più conosciuti, non era però tra gl'ignorati, e questo passo deve avere contribuito a far nascere la leggenda dei Mirabilia. L'Anonimo Magliabecchiano ritorna in parte alla tradizione classica. Egli sa che la guglia in Vaticano non è il sepolcro di Cesare, ma asserisce invece che vi erano state poste le ceneri di Ottaviano e di Tiberio. Nel capitolo delle agulie egli dice: "Alia vero minoris longitudinis posita fuit in Vaticano cum cineribus duorum imperatorum, scilicet Octaviani et Tiberii." Poi soggiunge: "Alia vero fuit posita in Foro maiori, sub Capitolio, a latere sancti Adriani, unde per Viam Sacram intrabatur per eam, et ibi cum cinere et ossibus Iulii Caesaris posita fuit, et fuit quadraginta pedum cum stella in vertice, propter quod in illis diebus mortis Caesaris apparuit stella comata que visa fuit ab omnibus, ut Suetonius ait animam Caesaris esse in coelum ascensam". E più oltre dice ancora: "..... cadaver Iulii Caesaris fuit combustum iuxta tumulum Iuliae praedictae, et postea positum in agulia in Foro publico, ut vult Suetonius particulariter narrando de vita, morte, virtutibuset viciis ipsius". Ma la storia francese anonima di Giulio Cesare si raccosta ancor più a Svetonio quando dice: "Puis fist fere li pueples a Cesar une piramide numidienne quarree sor .III. colombes de cuivre haute et masseice; en son fu mise la poudre dou cors Cesar en un pomel de cuivre dore. Li cors de la colombe disoit: Ci gist li peres dou pais. Lonc tens fist hom illec sacrefices et veuz et iuroient illec de leurs quereles par Cesar ainsi et ainsi".

Ma non piccola parte nella formazione della leggenda medievale ebbe probabilmente il nome stesso di agulia. Il Massmann pone innanzi, ma senza risolverlo, il dubbio se mai agulia non derivi da Julia, e ricorda come in Roma ci fosse la basilica Julia, la curia Julia, la porticus Julia, ecc.. Ma non vi può essere luogo a così fatto dubbio quando l'etimologia di aguglia(agulia è forma latinizzata) è conosciuta e manifesta: acus, acucula, agucchia-aguglia, come speculum, specchio-speglio. Nel medio evo si credette che guglia altro non fosse che una corruzione di giulia, e su questo epiteto(Colonna giulia, o, a dirittura, la Giulia) si fabbricò, secondo il vezzo dei tempi, la leggenda. Molti scrittori affermano che in origine la guglia si chiamò Julia, e Gervasio di Tilbury la chiama Julia Petra. A tale proposito si hanno nel Pantheon di Gotofredo da Viterbo questi versi:

Mira sepultura stat Caesaris alta columna,

Dicta fuit Julia, sed populus dicit Agullam,

Aurea concha patet, qua cinis ipse jacet.

Nelle già citate croniche latine da Noè sino all'anno 625 dell'era volgare si dice: "Eius vero Iulii cadaver fuit incineratum et positum in cacumen cuius- columne mirabilis altitudinis, que longo tempore dicta fuit Iulia, modo vulgari sermone dicitur Agugia". E in certe cronache francesi: "Et fut intimules a Romme ou marchie, en la columpne laquelle est nommee Iule". Più esplicitamente ancora Honoré Bonnor: "Mais apres sa mort les rommains le firent mettre en ung moult riche tombel sur une columpne de marbre, en la plus belle place du marchie de Romme..... Et fut appellee la colonne iulienne, et est encores". Nella Cronaca di Alfonso il Savio si legge: "..... è metieron los polvos del en una mançana de oro, y fizieron un pilar mucho alto à maravilla è muy fermoso de muy fuerte piedra, è pusieron aquella mançana eu somo, è pusieron nombre aquel Pila Iulla, por honra de Iullo Cesar, è agora es llamada el Aguja de Roma". E Francesco da Buti: "..... il corpo suo fu incenerato e messo in uno vasello di metallo in su una pietra altissima che oggi è chiamata la Giulia, e che comunemente si dice laGuglia". Persino il Boccaccio, parlando di Cesare nel De casibus illustrium virorum, dice che il vero nome di quella che il volgo chiama Agulia è Giulia.

A far sì che la leggenda si legasse piuttosto all'obelisco vaticano che non ad altro può avere anche contribuito l'iscrizione riportata di sopra, e le parole dei Mirabilia lo farebbero credere.

Circa l'altezza della guglia discordano molto le indicazioni. I venti piedi assegnati da Svetonio alla colonna eretta in onor di Cesare ricompariscono qua e là, ma sono più spesso oltrepassati di molto. Enenkel parla di 6 klafter, ossia 36 piedi; una versione tedesca di Martino Polono, citata dal Massmann, di 120 piedi, e così ancora Honorè Bonnor; Ranulfo Higden di 250. La meraviglia che un monumento sì fatto inspira nel medio evo si palesa in due versi, che compajono in alcune recensioni dei Mirabilia e in molte altre scritture:

Si lapis est unus dic qua fuit arte levatus,

Si lapides multi dic ubi contigui.

Ma Alessandro Neckam è il solo che spieghi il miracolo:

Julia stat cinerum servatrix fida tuorum,

Juli, materiam consulis, error adest.

Marmoreus pulvis contritus, aquae sociatus,

Trullam commendat artificisque manum.

Sic surrexit opus, sic est erecta columna,

Basi bis bino fulta leone sedet.

I due versi che nel passo dei Mirabilia riportato più sopra formano l'epitafio di Giulio Cesare, si ritrovano anch'essi in molti luoghi, o semplicemente ripetuti, oppure variati, parafrasati, tradotti. In una cronaca francese manoscritta si leggono i seguenti:

Cesar, tu voulsis tout le monde.

Et tu es en boullecte ronde:

Saiche chascun qu'il morra;

Ia la mort gloire ne tendra.

Talvolta la iscrizione si riduce di un verso solo, come:

Vase sub hoc modico clauditur orbis heros.

Secondo la già citata versione tedesca dei Mirabilia sulla guglia era scritto:

Roma caput mundi tenet orbis frena rotundi,

Roma caput mundi super omnes esse novisti.

I versi: Caesar, tantus eras, ecc., fanno parte di un lungo epitafio, che appartenne, o ad Enrico III(m. 1056), o a Lotario II(m. 1137). Una poesia di Benzone nel VI libro del suo scritto Ad Heinricum IV imperatorem comincia col verso:

Tantus es, o caesar, quantus et orbis.

All'epitafio di Giulio Cesare possono fare riscontro questi due versi di un epitafio di Alessandro Magno riportato nel Libro de los Enxemplos:

El mundo non me bastava a mi todo sometido;

Tiéneme logar breve que en el mundo non era cabido.

Il sepolcro di Giulio Cesare, creduto anche da taluno opera di Virgilio, ebbe diffusa e durevole celebrità. Nel Dittamondo Roma lo fa vedere tra l'altre meraviglie al poeta:

Vedi là il pome ove il cener fu miso

Di colui che già fe' tremar il mondo

Più ch'altro mai, secondo il mio avviso.

Nel secolo XVIla tradizione doveva essere ancor viva, giacchè nel Capitolo a M. Daniello Buonriccio Lodovico Dolce ricorda:

. . . la Guglia, ov'è il pomo, ch'accoglieo

Il cener di chi senza Durlindana

Orbem terrarum si sottometteo.

Il valore e la sicuranza di Cesare sono dagli scrittori del medio evo ricordati e celebrati assai spesso. Ma Giovanni Fordun narra, citando un Riccardo(Cluniacense?), cosa che non parrebbe troppo onorifica all'eroe, nè consona col disprezzo ch'egli soleva mostrare dei pericoli. Dice questo cronista che Cesare si portava dietro nelle sue spedizioni una piccola casa, fatta di grandi pietre lisce, le quali facilmente si potevano scommettere e ricommettere. In essa usava Cesare di ripararsi, per istarvi più sicuro che non sotto la tenda: "ut in ea singulis diebus qualibet statione reedificata, securius quiesceret quam tentorio".

Bruto e Cassio, uccisori, come si diceva, per invidia, ne vanno durante tutto il medio evo coperti d'infamia. Guiraut de Calanson li considera come traditori del loro signore; nel Fioretto di Croniche degli imperadori si dice che essi per astio e per invidia uccisero Cesare a grande tradizione in sul palazzo del Campidoglio dove si teneva la ragione. Dante li condanna alla pena più fiera insieme con Giuda Iscariotto, nell'ultimo fondo dell'inferno. In un poemetto in terza rima di Manetto Ciaccheri su tutti i traditori del mondo è la seguente terzina:

Conobbi cierto che questo era Bruto,

Che vedova fe' Roma del suo figlio,

Iniquo traditore e disoluto.

Perchè la riputazione di Bruto e di Cassio si risollevi alquanto bisogna aspettare il Rinascimento: nel Trionfo della Fama il Petrarca trova luogo ai due Bruti.

Della famiglia di Giulio Cesare poco si parla. Il Libro Imperiale ricorda ch'egli amò Cleopatra ed ebbe un figliuolo da lei. "Ma Chreopatra amò egli sopra tutte l'altre, la quale egli fece venire a Roma, e tennela gran tempo, et di lei ebbe un figliuolo che si chiamò Ceserano(altrove Cesario); poi la rimandò in Egitto chon grandissimi doni. Cessare fu molto lussurioso, e pocho innanzi che egli morisse avea fatto una legge che ongni uomo et donna fusse lecito a usare charnalità per cresciere et multiplichare il popolo, et questo faceva per levare da se el biasimo magio". Di questi amori con Cleopatra Giovanni di Tuim narra molto diffusamente; ma non è da esso per certo che attinge l'autore del Libro Imperiale. In Germania si diede a Cesare una sorella per nome Germana.

Giovanni d'Outremeuse nomina Evia sua moglie, e Felibia sua figliuola, quella che fece la burla del canestro a Virgilio. Nell'Huon de Bordeaux Giulio Cesare sposa la fata Morgana, sorella di Artù, e diventa padre del nano Oberon. In alcuni romanzi in prosaderivati dall'Huon de Bordeaux Oberon nasce dalla Signora dell'Isola Nascosta, cioè dell'isola di Cefalonia, la quale Signora aveva ricevuto Giulio Cesare e se n'era innamorata. Nel Prologo di quel poema Giulio Cesare è fatto figliuolo di Cesario, imperatore di Roma, e di Brunehaut, figliuola di Giuda Maccabeo e regina delle fate. Nella Saga islandese di Helis, il Cavaliere del Cigno, questi è detto figliuolo di Giulio Cesare, e figliuolo di Giulio Cesare è il buon cavaliere Tronc nel romanzo d'Isaie le Triste, e persino San Giorgio. Abbiamo veduto i Colonnesi ed altre famiglie illustri di Roma gloriarsi di discendere da Giulio Cesare: nella storia francese anonima, e nella versione italiana di essa, si dice che del suo lignaggio nacquero quattordici papi, diciannove imperatori, molti re, quaranta senatori, molti consoli. Il Fioretto di croniche degl'imperadori dice ventiquattro papi.

Giulio Cesare, che conquistò tutto il mondo, que tot lo mon conques, come dice il trovatore Bertran de Paris, è agli occhi degli uomini del medio evo la più grande e nobile personificazione della potenza. Jacot de Forest, giunto in fine del suo poema, esclama:

Ensi fu emperere Cesar li combatanz

Et si fu dedenz Rome à son vouloir regnanz;

Si fu plus que nuls homs en ce siecle puissanz

Que des trois parz du siecle qui molt est lez et granz

Fu en sa poesté la plus granz parz tenanz,

Que totes ot conquises li bers entreprendanz,

Si conquist en sa vie plus que nus hom vivanz,

Ne rois, ne empereres, ne fu ainc conqueranz,

Et portant s'en doit estre prisiez li ber vaillanz;

Ensi ert il tosjorz tant comme Rome ert duranz.

La gloria di Giulio Cesare oscura quella di Alessandro Magno.

Ma tanto più doloroso e formidabile a fronte di questa gloria si affaccia alle menti il pensiero dell'intima vanità, della irreparabile ruina di ogni umana grandezza. Nelle lodi e nelle celebrazioni onde il medio evo esalta i grandi della terra si sente fremere sempre, come una nota sorda, il Memento homo, quia pulvis es. Al Trionfo della Fama, dove Giulio

Cesare tiene il luogo più degno a fianco della dea, segue il Trionfo del Tempo, che canta ai mortali:

Passan vostri trionfi e vostre pompe,

Passan le signorie, passano i regni;

Ogni cosa mortal tempo interrompe.

E la vera, inesorabile regina degli uomini è la Morte. Gran tempo prima che Amleto almanacasse sulla polvere di Giulio Cesare, usata forse a ristoppare le fenditure a un tugurio, un ignoto poeta del medio evo aveva detto:

Quo Caesar abiit celsus imperio?

A questa dolorosa domanda rispondono rozzamente, ma recisamente, i seguenti versi.

Verba Cesaris in sepultura sua.

Guardate a me, o voi che al mondo sete,

Guardate benet ben mi contemplate;

In me sol vi specchiate,

O voi che non sperate il ben secondo.

Io son colui cho dominai lo mondo,

E 'l gran Pompeyo, et la mia patria Roma;

Non fu sì alta chioma

Ch'a me non ubidisse per timore.

Cesar io son, che per humano amore

Tucto mi diedi a l'arte bellicose:

Cagion ne fu due cose:

Vedermi di persona bello e forte.

Ma crudel doni a quanti detti morte

Eterna, et anche al mondo corporale.

O quanto, quanto male

Escie di questi corpi forti e belli.

Ne' illustri vasi stanno ascosi i feli

Mortal veneni più che ne li brutti:

Gran doni han color tucti

Che de' corpi son brutti e de buon senso.

Che mi giova hora havuto fama e censo

De l'universo, et che mi valse il vivere,

Et anco il farmi scrivere

De tucto il mondo imperatore e duce?

Che hor mi giova la mondana luce?

Che giova l'esser stato triumphato?

Et anco l'haver dato

A tucto quanto il mondo norma e lege?

Sì come fa colui che non correge

Da prima il morso del caval domato,

Di che è facto sboccato,

Insieme col patron traripa e pere;

Cossì ho facto io sfacciato nel volere

Thesor nel mondo, fama, honor e gloria:

Che havesse pur victoria

Del mio voler credeva esser felice.

Ma dove voluntà tien la radice

Ivi convien ch'el vito(e) il sceptro tenga,

Et che nel fine havenga

Sì come a me che l'alma e il corpo ho perso.

Ai, mercè, pietà! ch'io son somerso

In tante crudel pene, in tanti guai!

Ai, quanto mal pensai

Con dar piacere al corpo anzi che a l'alma.

Contempla, o tu che legi, se l'è palma

De ulivo o lauro che me vidi in testa,

Che ne portavo in festa

Girlanda in capo sopra li capilli.

La fronte guarda e gli ochi si son quilli

Ch'el mondo fece già tanto tremare;

La lingua demenare

De guarda se la vidi in fra la bocca.

Per tucto è da topi cossì tocca.

De mio volere e quanto fui gagliardo!

Mai fu in selva pardo

Com'io sì destro et orso sì robusto.

Raguarda adonque il pecto, i fianchi e il busto,

E dimi un poco quel che a te ne pare,

Et se ad armegiare

Te pareno apti come far solieno.

O huom caduco, vedi che sei fieno

Quale in un'hora verde e secco il vidi.

O miser(o), che far cridi!

Specchiati in me che fui signor de loro.

Che hor mi vale havuto il nobil choro

De' cavalieri e de' varii famigli,

Li qua(l) i tucti eran figli

De excelsi ri, potenti e singulari?

De animal, cani, uccielli mai fu pari

Nel mondo a me che più perfecti havessi,

Nè più ne retenessi

D'ogni maniera e d'ogni chaccia instructi.

De varii suoni e d'instrumenti tucti,

Deballi, canti et d'ogni melodia

Più n'ebbi in vita mia

Ch'altri che fusse mai dal cielo influso.

De donne, de fanciulli e d'ogni luso

In copia n'ebbi, et hora ho questi vermi,

Li quai non stan mai fermi,

Servendomi de crudo et aspro morso.

Ai, mondo ladro, e che non dai soccorso

Al Cesar tuo? non odi che te chiama?

O gloria, o pompa, o fama,

O regno, o stato, o auro, o monarchato!

O gente tante a cui ho comandato

Al mondo, hor dove sete voi andate?

Perchè non agliudate

El duca vostro e il vostro sol signore?

Io son pur Iulio, il vostro imperatore.

O tu, vulgare, o tu, phylosophante,

Artista, o mercatante,

O tu cossì gentile e dilicato;

Ay, riconosci il misero tuo stato,

E quanto la tua vita è curta e breve:

Tanto più el colpo è greve

Quanto si è huom calcato de più pesi.

O crudel piaga a quilli c'hanno spesi

I lor dì male, eterno a lor martire!

Conviensi pur morire!

Oimè ch'el mondo non me ne campone!

Si recto adunque, huom, che quel ch'io sone

E tu sarai, putrida carogna:

Adonque, hor che bisogna

Fama e robba può ch'el fine è questo?

Soffia un gran vento, e mette presto presto

La polver su le torri, e pur è polvere;

Resofia el vento e volvere

La fa cum furia in terra ov'era prima.

Se danna l'huom per figli e no fa stima

Che lui et essi convien pur morire.

S'el non se può fugire,

A che fermare in terra la sua speme?

Non mi bastava tucto 'l mondo inseme,

Hor m'è d'avanzo questo picol sasso;

E a questo simil passo

Ogni huom che nasce per natura subiace.

O vera povertà in te è pace,

In te quiete, in te ogni dilecto:

Per che t'ebbi in dispecto?

E pur è forcia che se lassi el tucto.

O huom terren, se non te se' reducto

A Dio servire fi(n) gi in me la mente,

E sapi certamente

Che com'io sono il simil tu serai,

Nè più ch'el bene e il mal ne porterai.

CAPITOLO IX. Ottaviano Augusto.

La potenza di Augusto è pari a quella di Giulio Cesare; a lui, come a questo, tutto il mondo è soggetto. Enenkel così ne parla:

Er waz dar gewaltigist man

Von dem ich gehort han,

Des nam Augustus hiez,

An gewalt er da nyemant liez,

Im was die weltg gar

Undertan, das ist war.

Lo stesso Enenkel, frantendendo un passo della Kaiserchronik, da lui spesso copiata, dice che Augusto nacque incestuosamente dalla propria sorella:

Man list von künege daz maere

daz er geborn waere

von sîner rehten swester.

Nelle già citate Chroniques abregées des empereurs romains, per non so quale strano equivoco, Enea diventa madre di Augusto: "Et sa mere fut appellee Enea". Massudi confonde Augusto conCesare, il quale, come abbiamo già veduto, era stato confuso col fondatore della famiglia, e dice che Augusto fu il primo a prendere il nome di Cesare, perchè estratto a forza dal ventre materno.

La celebrità di Augusto nasce di due cagioni principalmente: l'avere egli levata Roma al più alto grado di prosperità; l'esser nato sotto il suo

reggimento il Redentore del mondo. Anzi questi due fatti nel pensiero cristiano si compongono in uno. Dopo cent'altri che avevano con altre parole espresso lo stesso concetto, Alessandro Neckam dice a tale proposito:

Salvator voluit sub tanto principe nasci;

Nam pax sub pacis principe nata fuit.

Con Augusto cominciava l'impero, con Cristo cominciava la Chiesa, con tutt'a due la sesta età del mondo. Ma su questo argomento dovrò tornare più oltre.

Nessuna leggenda pertanto è più spontanea, anzi più necessaria logicamente, di quella che mi accingo ad esporre della visione di Augusto e della origine di Ara Coeli. La coscienza cristiana non poteva ammettere che il gran fatto della nascita di Cristo, da cui aveva principio il rinnovamento del mondo, si compiesse senza che il supremo reggitore civile, il quale era stato prescelto appunto a preparare il mondo al grande avvenimento, ne avesse un qualche sentore. Importava inoltre che, sino dai principii suoi, l'impero fosse avvertito ed ammonito che una potestà superiore ad ogni potestà terrena, proponeva nuovi cómpiti al genere umano e tracciava le nuove vie della storia. Una leggenda intesa a figurar ciò nacque forse sino dai primi secoli in Roma, fra la plebe cristiana; e se negli apologeti, che cercavano in ogni banda argomenti e prove in sostegno della causa loro, noi non ne troviamo per anche fatto ricordo, ciò non vuol dire ch'essa non fosse già nata e diffusa, ma dimostra forse solamente l'avvedutezza ed il senno di quegli strenui campioni di una fede che doveva lottare con potenze formidabili, i quali non volevano, con produr prove troppo facili ad essere impugnate, porre a rischio la lenta, ma sicura vittoria.

La leggenda dovette avere per primo germe questo semplice concetto, che, nato Cristo, a cui nelle persone dei Magi s'inchinavano le potestà della terra, non era più lecito a nessuno, nemmeno all'imperatore di Roma, fregiarsi del superbo titolo di signore del mondo; e questo concetto noi troviamo categoricamente espresso nei primi anni del V secolo da Paolo Orosio. Detto come Cristo nascesse quando, sotto il reggimento di Augusto, tutto il mondo era in pace, lo storico soggiunge: "Eodemque tempore hic, ad quem rerum omnium summa concesserat, dominum se hominum adpellari non passus est; imo non ausus, quo verus dominus totius generis humani inter homines natus est". Ma noi sappiamoper testimonianza di Dione Cassio, che il Senato decretò

s'inserisse il nome di Augusto fra quelli degli dei nei canti sacri.

Se non che la leggenda, unica probabilmente in principio, si spartì in due diverse versioni, delle quali l'una fu più particolarmente diffusa in Oriente, l'altra, per contro, in Occidente; e questa è quella che più risolutamente s'appoggia al concetto espresso nelle parole di Orosio, mentre la prima sembra intesa a significarne un secondo, certo a giudizio dei cristiani non meno importante, anzi assai più, e cioè che nato, o stando per nascere Cristo, i falsi oracoli ammutolivano, finiva il regno delle false divinità. Nella versione orientale la stessa religione pagana confessa la propria disfatta; nella versione occidentale la stessa potestà civile confessa la sua soggezione: le due versioni s'integrano a vicenda, e tutt'a due fanno capo a un medesimo centro, l'ara primogeniti Dei, l'ara coeli.

Il tema della versione orientale, che nelle scritture è la più antica, è il seguente. Augusto, volendo sapere chi regnerebbe dopo di lui, consulta la Pizia. Questa da prima non risponde, ma interrogata novamente, ingiunge ad Augusto di partirsi dalle are sue, giacchè un fanciullo ebreo, il quale ha soggetti i numi, le impone di disertare il tempio e di tornarsene all'Orco. Udito tale responso Augusto alza sul Campidoglio un'ara su cui fa scrivere: Ara del primogenito di Dio. Questo racconto si ha già in Giovanni Malala, poi in Cedreno, in Suida, in Niceforo. Giovanni Malala cita un Timoteo, Cedreno cita un Eusebio, che non dev'essere il noto storico, nel quale non si trova traccia della leggenda.

La versione occidentale comparisce nelle scritture molto più tardi. I Mirabilia così la riferiscono: "Tempore Octaviani senatores videntes eum tantae pulchritudinis, quod nemo in oculos eius intueri posset, et tantae prosperitatis et pacis, quod totum mundum sibi tributarium fecerat, ei dicunt: Te adorare volumus, quia divinitas est in te: si hoc non esset, non tibi omnia subirent prospera. Quod renitens indutias postulavit; ad se sibillam Tiburtinam vocavit, cui quod senatores dixerant recitavit. Quae spatium trium dierum petiit, in quibus artum ieiuniun operata est; post tertium diem respondit imperatori:

Judicii signum tellus sudore madescet,

E celo rex adveniet per secla futurus,

scilicet in carne presens ut iudicet orbem.

et cetera quae secuntur. Ilico apertum est celum et maximus splendor irruit super eum. Vidit in celo quandam pulcerrimam virginem stantem

super altare, puerum tenentem in brachiis: miratus est nimis et vocem dicentem audivit: Haec ara filii dei est. Qui statim in terram procidens adoravit, quam visionem retulit senatoribus, et ipsi mirati sunt nimis. Haec visio fuit in camera Octaviani imperatoris, ubi nunc est ecclesia sanctae Mariae in Capitolio. Idcirco dicta est ecclesiasanctae Mariae ara celi". Armannino Giudice trova un'altra ragione del nome. Secondo lui la chiesa si chiama dell'Aere Cielo, "così decta per la vergine qual quivi nell'aere aparve". La Graphia al racconto dei Mirabilia, che riproduce con varianti di poca importanza, ma senza far cenno della chiesa d'Ara Coeli, aggiunge, attingendo certamente da Orosio: "Alia vero die, dum populus dominum illum vocare decrevisset, statim manu et vultu repressit. Nec etiam a filiis dominum se appellari permisit dicens:

Cum sim mortalis dominum me dicere nolo."

I versi qui posti in bocca della Sibilla Tiburtina sono i primi tre della profezia attribuita alla Sibilla Eritrea. Le lettere iniziali dei trentaquattro versi che la compongono formano in greco, riunite, le parole: Ιησοῦς χρειστὸς Θεοῦ ηιὸς Σωτὴρ σταυρὸς, e nella versione latina: Jesus Christus Dei filius Servator Crux. Quanto si dice della bellezza di Augusto, dimostrata più particolarmente negli occhi, deriva da Svetonio.

Dai Mirabilia e dalla Graphia la leggenda si diffonde e passa in un grandissimo numero d'altre scritture, ma non senza riceverne qualche variazione. Invece della Sibilla Tiburtina s'introduce qua e là la Sibilla Eritrea, come, per citare un esempio, nella Fiorita d'Italia di Armannino. Che nè l'una, nè l'altra poteva essere vissuta ai tempi di Augusto, non si badava. Nel Libro Imperiale, per uno scambio curioso, Ara Coeli, diventa il nome della Sibilla. Qualche volta ancora Sibilla diventa nome proprio, come nella narrazione inserita da Heinrich von München nella Weltchronik di Rudolf von Ems da lui continuata, in un poemetto italiano della vita di Maria e di Cristo, e altrove. Il già citato Giovanni da Verona nella Historia Imperialis fa che Augusto chiami, non soltanto la Sibilla, ma ancora i sapienti a consiglio. La ragione che muove Augusto a rifiutare il culto dei Romani, ora è un naturale sentimento di modestia, e la retta cognizione della umana fragilità, ora il timore che, dovendo succedergli nell'impero alcuno maggiore di lui gli onori divini non sieno per tornargli in vergogna. Questo è il sentimento che gli attribuisce Gotofredo da Viterbo nello Speculum Regum. Come è noto, Augusto fu richiesto di permettere gli si tributasse un culto nell'Asia, e ciò egli concedette in parte.

Nella Vita di Maria di Walter von Rheinau, Augusto prima vede la immagine in cielo, poi consulta la Sibilla. Nel Breve Chronicon Magdeburgense, attribuito ad Eike von Repgau, si dice semplicemente, che la notte in cui nacque il Redentore, Augusto vide in sogno un cerchio che cingeva tutto il mondo, e dentro al cerchio una vergine levata sopra la luna, coronata di soli, e con un bambino in braccio. Nella Leggenda aurea e nell'Alte Passional il cerchio che la Sibilla fa vedere ad Augustocinge il sole. Anche per questa parte la leggenda si appoggia ad Orosio.

Nella più parte di questi racconti si fa ricordo della bellezza di Augusto, la quale è insieme con la prosperità grande di cui Roma fruisce sotto il suo reggimento, una delle ragioni per cui i Romani lo vogliono adorare. A questo proposito dice Giovanni d'Outremeuse: "Chis emperere fut le plus beais hons de monde de corps et de tous ses membres, et tenoit x piés de hault, et astoit gros et reons, et si bien fait qu'ilh n'y falloit riens; et tout sa plus grant bealteit li gisoit en ses yeux, car quant alcuns le regardoit ès ses yeux, ilh ly sembloit que chu fussent raez de soleal qui issoient de ses yeux".

Dopo la visione Augusto diventa adoratore del vero Dio. Ciò non toglie tuttavia che si faccia ricordo anche de' suoi vizii, e di quello della lussuria principalmente. Nella già citata Cronica degl'imperatori romani si legge: "Tutol mondo el redusse in una monarchia, zoe in uno volere, ne homo de tanto prexio fo senza vicii, chel serviva a la libidine, zoe a la volonta carnal, e intra XII comare e altre tante donzelle ello soleva zacere".

Nel Libro Imperiale si dà di questo fatto una più onesta ragione: "Ottaviano resse il mondo in molta pacie, et divenne in tanta vecchiezza, che, per conservare meglio sua vita teneva nel letto dodici vergini con dodici vergine".

Un esempio formidabile di crudeltà ricorda la Kaiserchroink: Augusto fece uccidere trentamila schiavi ch'erano fuggiti dalle case dei loro padroni. Ma ricompra ogni colpa la cristiana umiltà di cui la leggenda fa testimonio.

La leggenda della visione è riportata, o ricordata, oltre che dagli scrittori, e nei libri già citati, da Martino Polono, da Heinrich von München, da Gervasio di Tilbury, da Bartolomeo da Trento, da Sicardo, dal Petrarca, da Fazio degli Uberti, nello Speculum humanae salvationis, da Andrea Ratisbonense, e da molti altri. Essa porse inoltre argomento

ad una sacra rappresentazione. Le arti figurative non mancavano di rappresentarla. Nella chiesa stessa di Santa Maria Araceli un mosaico, probabilmente dei tempi di Anacleto II(1130-1138), rappresenta il mistico agnello sopra un altare, a destra la Vergine col bambino, a sinistra Augusto in atto di adorazione. Accompagna il tutto l'iscrizione seguente:

Luminis hanc almam matris qui scandis ad aulam

Cunctarum prima que fuit orbe sita:

Noscas quod Cesar tunc struxit Octavianus

Hanc Ara Celi, sacra proles dum patet ei.

Qui la Sibilla non comparisce, e l'intera rappresentazione, e i versi che la illustrano, pajono accennare piuttosto alla versione orientale della leggenda, che non alla occidentale: ma anche questa fu poi più tardi, nelsecolo XIV, figurata da un discepolo di Giotto, Pietro Cavallini, in un dipinto a fresco, che, sotto il pontificato di Paolo IV, sparve insieme con la tribuna su cui era stato condotto. Inoltre l'edificante soggetto si trova rappresentato in parecchie miniature di codici, in molti dipinti dei secoli XV e XVI, nei Livres d'Heures, su vetri dipinti, su arazzi.

Le due versioni, orientale ed occidentale della leggenda, accennano evidentemente ad origine comune. Così nell'una, come nell'altra, si ha Augusto che interroga; così in quella, come in questa, si ha una veggente, Pizia, o Sibilla, che risponde, e la risposta è fatta in tre versi; l'ara figura in ambedue. Che l'una sia derivata dall'altra sarei meno disposto a credere; ma ad ogni modo la leggenda dovette nascere in Roma, dove l'Ara Coeli le serviva in qualche modo di caposaldo. Giacomo da Voragine riporta ambedue le versioni, citando, per la prima, Timoteo, per la seconda, Innocenzo III papa.

Ma la leggenda non si appaga della visione; essa attribuisce ancora ad Augusto la edificazione di quel tempio della Pace che rovinò la notte del nascimento di Cristo. Giacomo da Voragine dice, sulla testimonianza d'Innocenzo III, che durando in Roma già dodici anni la pace, i Romani costrussero un tempio bellissimo, e vi posero dentro la statua di Romolo. Consultato l'oracolo di Apollo circa la sua durata, fu da questo risposto che durerebbe insino a che una vergine partorisse. I Romani intesero che il tempio dovesse durare in eterno, e se ne rallegrarono; ma la notte in cui nacque Cristo esso rovinò improvvisamente. Qui di Augusto non si fa ancora parola, ma la costruzione del tempio si pone sotto il suo regno: la

statua di Romolo, che non si vede che cosa ci stia a fare, è quivi migrata da un'altra leggenda, o per dir meglio da un'altra versione della stessa leggenda. Armannino Giudice invece dice espressamente nella Fiorita che chi costruì il tempio fu Augusto. Nella già ricordata Rappresentatione et festa di Ottaviano imperatore l'azione procede nel seguente modo. Costruito il tempio, l'imperatore domanda quanto abbia a durare.

Parla l'imperadore a' maestri.

Quanto potrà questo tempio durare

che sì mirabilmente è edificato?

in che modo potrà mai rovinare

che sì perfettamente fu fondato?

Vn maestro di murare.

Di questo non bisogna ragionare

però che 'l durar suo è terminato

ne mai sarà per rovina finito

se vna vergin non ha partorito.

Il popolo vuole adorare Augusto, che consulta la Sibilla. Segue la visione, e la rovina del tempio. In una scena interposta si rappresenta l'adorazione dei pastori. Fatto certo della venuta del Redentore Augusto ordina pubbliche feste.

Nei Mirabilia si narra che Romolo pose nel tempio della Concordia la propria statuad'oro, dicendo: Non cadrà insino a tanto che una vergine non partorisca; e subitamente precipitò come la Vergine ebbe partorito. Si ricordi a tale proposito ciò che la leggenda racconta degl'idoli di Egitto che tutti precipitarono nei templi, come appena Gesù che fuggiva la persecuzione di Erode, fu entrato nel paese dei Faraoni. Gotofredo da Viterbo parla della statua e del vaticinio alquanto diversamente:

Maxima tunc Romae Capitolica stabat imago,

Cujus in hoc titulo lectoribus acta notabo,

Atque Sibyllino dogmate dicta dabo.

Grandis imago nimis, potuit vix recta levari,

Saepe levata satis, nulla valet arte juvari,

Quin cadat ulterius, nam recidiva cadit.

Unius vitulae tandem datur arte levari,

Cujus et ingenio potuit sic ipsa locari,

Ne cadat ulterius, stetque vigore pari.

Sed nec ad huc populus stabat sub imagine tutus,

Spiritus a statua sic est in plebe locutus:

Cum virgo pariet, tunc et imago cadet.

Giovanni Sarisberiense e Ranulfo Higden dicono che fusa la statua, le gambe parvero insufficienti a sostenerne il peso, e che essendo ciò rimostrato all'artefice, questi rispose la statua avere a durare finchè una vergine partorisse. Alcuna volta è il tempio di Pallade(Panadis) quello che precipita; alcun'altra è la Salvatio, come abbiamo già veduto. In un racconto francese di un manoscritto di Torino l'edifizio che rovina è un palazzo magnifico innalzato da un fantastico Nerone in onor dei suoi numi.

Fra i molti segni annunziatori della venuta di Cristo che si ricordano, uno dei principali è la fonte d'olio che si pretende scaturisse in Trastevere, nella Taberna meritoria, allorchè seguì il venturoso nascimento. Se ne parla nei Mirabilia e in altri libri senza fine; ma il primo che le attribuisca il significato che serba di poi è Orosio. Qui ci si presenta un altro caso di usurpazione fatta da cristiani in pro della loro fede. Una vecchia leggenda pagana raccontava che il giorno in cui, dopo aver vinto Lepido, Ottaviano entrò in Roma, scaturì dalla Taberna meritoria una fonte d'olio. Orosio dice essere stato quello un segno e un avvertimento della nascita di Cristo. Il Voragine ne parla come un segno della nascita già avvenuta, e cita una profezia: "Prophetaverat enim Sibylla, quod quando erumperet fons olei, nasceretur Salvator". L'Anonimo Magliabecchiano alla Taberna sostituisce il Templum Ravennanum in quo remanebant omnes servientes in senatu. Battista Fulgoso fa scaturire la fonte in una casa privata. Lo Pseudo Ricordano Malespini confonde cose disparatissime e dice: "..... al tempo di Attaviano Cesere Augusto in Roma si fondò la maggiore di tutte le Chiese, cioè la Casa di mess. Santo Piero Apostolo di Cristo, e tutto quello dì rampollò olio di sotto terra in segno di divina grazia, dopo la morte di messere Santo Piero". Walther vonRheinau dice che la notte in cui nacque il Salvatore fu veduto nascere in Roma un albero, e scaturire da quello un rivo d'olio. Del resto le fonti d'olio sono frequenti nelle leggende, specie ascetiche: di una che scaturì nel mezzo della città di Sorrento fa ricordo Gioseffo Gorionide.

Molti altri segni della venuta di Cristo si ricordano, su' quali non mi tratterrò. Onorio Augustodunense nell'Elucidarium ne registra sette; ma altri va sino a ventiquattro. Inoltre uno stesso segno si faceva servire ad annunziare l'impero e la nascita di Cristo: Vincenzo Bellovacense dice sulla fede di Pietro Comestore, nello Speculum historiale: ". . . . . . apparuerunt tres soles in oriente, qui paulatim in unum corpus solis redacti sunt, significantes quod dominium Lucii Anthonii et Marchi Anthonii et Augusti in monarchiam rediret, vel pocius quod noticia trini Dei et unius toti orbi futura imminebat".

Ma il cristianesimo si voleva annunziato di più lunga mano in mezzo alla paganità, e se ne ricordavano antichissimi vaticinii e presentimenti. Che la Sibilla Eritrea, sino dai tempi della fondazione di Roma, avesse profetata la venuta del Messia si credeva comunemente, e dell'altre Sibille si credeva il medesimo. Nel trattato De Disciplina scholastica, falsamente attribuito a Boezio, si narra che nella tomba di Platone fu trovata una lamina d'oro con suvvi incise le parole: Credo nel figliuolo di Dio, il quale deve nascere di una vergine, patire per il genere umano, e risuscitare il terzo giorno dalla sua morte. Parecchi cronisti, e Vincenzo Bellovacense fra gli altri, fanno ricordo di una tomba trovata presso Costantinopoli e contenente in una scritta l'annunzio del Redentore. Martino Polono racconta che nella città di Toledo, ai tempi di Federico II, fu trovato da un Ebreo, dentro una pietra che non mostrava segno di commessura, un libro in tre lingue, ebraica, latina e greca, nel quale si narrava in parte, in parte si prediceva tutta la storia del mondo, da Adamo all'Anticristo, facendo nascere Cristo in sul principio del terzo mondo, divisa in tre mondi, o in tre età, tutta la storia del genere umano. Nella prefazione al trattato De octo partibus orationis di Virgilio Marone grammatico, si ricorda, sulla testimonianza di non so quali storie greche, un poeta Tarquinio, il quale annunziò fra i Persiani la venuta di Cristo.

Circa la morte di Augusto nulla si racconta di particolare, salvo che Massudi la lega in istrano modo con la morte di Cleopatra. Secondo questo storico, Augusto perì morso da quello stesso serpe che aveva già tolta la vita alla disprezzata regina, e improvvisò, prima di morire, alcuni versi, che diventarono poi famosi. Ben più siparla del sepolcro, che era uno dei maggiori monumenti di Roma. I Mirabilia così lo descrivono: "Ad portam Flammineam fecit Octavianus quoddam castellum quod vocatur Augustum, ubi sepelirentur imperatores, quod tabulatum fuit diversis lapidibus. Intus in girum est concavum per occultas vias. In inferiori giro

sunt sepulturae imperatorum; in unaquaque sepultura sunt litterae ita dicentes: haec sunt ossa et cinis Nervae imperatoris, et victoria quam fecit; ante quas stabat statua dei sui, sicut in aliis omnibus sepulchris. In medio sepulchrorum est absidia ubi sedebat Octavianus; ibique erant sacerdotes facientes suas querimonias. De omnibus regnis totius orbis iussit venire unam cirothecam plenam de terra quam posuit super templum, ut esset in memoriam omnibus gentibus Romam venientibus". Per questa ragione Giovanni d'Outremeuse chiama il Mausoleo di Augusto ly temple de tout terre. Ma in alcune recensioni dei Mirabilia, come in quella pubblicata dal Grässe, Augusto ordina che ciascun suddito porti al suo Mausoleo, non un guanto pieno di terra, ma uno scatolino di mirra. L'Anonimo Magliabecchiano dice che Augusto volle essere seppellito nel Mausoleo con una tavola di bronzo in cui erano descritte le sue gesta, ma che più tardi Tiberio fece porre le sue ceneri nella palla dell'obelisco vaticano, e quivi ordinò fossero poste anche le proprie. Ma secondo il Libro Imperiale Augusto fu sepolto nel tempio di Minerva.

In molte scritture del medio evo si ricorda come la festa solita a celebrarsi in Roma alle calende di Agosto in commemorazione della vittoria d'Azio riportata da Augusto, fosse per gli ufficii dell'imperatrice Eudossia e del papa Pelagio convertita nella festa di San Pietro in Vincoli.

CAPITOLO X. Nerone.

Passiamo a Nerone, saltando Tiberio, del quale sarà migliore occasione a discorrere nel capitolo seguente.

Dopo Giuda, per giudizio concorde di tutta la cristianità, l'uomo più empio e scelerato che sia mai vissuto al mondo è Nerone, e la sua trista celebrità vince la buona di Augusto e di Cesare. La memoria di lui nel medio evo doveva tornare tanto più odiosa, quanto più gli spiriti erano allora portati a foggiarsi un tipo di principe perfetto. Ma la prima e più potente cagione della sua infamia era, senz'alcun dubbio, la persecuzione iniqua ond'egli, primo, afflisse la Chiesa nascente. La Kaiserchronik chiama Nerone il più malvagio uomo che nascesse di madre,

der allir wirsiste man

der von muoter in dise werlt ie quam.

Gotofredo da Viterbo dice di lui:

Scandit Nero tronum blasfemus ubique patronus,

Nulla sorte bonus neque dignus honore colonus,

Saccus opum, scelerum signifer, orbis honus.

Ed Enenkel:

. . . er war ein uebel man

Sin gleich wart nie gesehen an.

Tutto si ricorda di lui: i parricidii, le crudeltà raffinate, il lusso insensato, la mostruosa libidine; non v'èquasi cronista che non parli con esecrazione dell'incendio di Roma, e in Roma si mostra ancora una torre, non molto antica, dalla sommità della quale si pretende che l'incendiario sia stato spettatore plaudente dell'opera propria. Egli diventa termine di confronto e paragone di ogni più sformata malvagità. A proposito di un insigne scelerato si dirà:

Pilate, Herode ne Noiron

n'orent plus male entention.

Quando si vorrà con un sol tratto dipingere la iniquità del clero di Roma, si evocherà a riscontro la memoria di Nerone:

Foris Petrus, intus Nero.

Col nome di Nerone si foggerà persino un aggettivo: neronius, sinonimo di scelerato. Neronior est ipso Nerone, dice di Enrico II d'Inghilterra l'anonimo autore di un carme De adventu Antichristi.

Quasi che i delitti da lui veramente commessi non fossero abbastanza numerosi, altri gliene sono imputati che non commise, e non poteva commettere. In una cronaca francese manoscritta si legge: "Il tua son pere et sa mere et sa soeur et ses deulx freres". Uno di questi fratelli sarebbe quel Grano che, secondo la leggenda, fondò Acquisgrana, e che talvolta è anche detto cognato, o figlio di Nerone. Giovanni d'Outremeuse racconta che questi lo fece ammazzare da un suo servitore per nome Gapoza, e poscia fece morire anche costui perchè non isvelasse il misfatto. Balduino Ninoviense afferma che Nerone "sororem suam stupro polluit, patrem suum similiter stupravit". Che veramente avesse fatto sparare la madre per vedere il luogo dov'era stato prima di nascere, si crede e si ripete da tutti durante tutto il medio evo. Giovanni d'Outremeuse, a cui piace sempre di rincarare la dose, dice che per la stessa mostruosa curiosità fece sparare anche la sua

seconda moglie, e narrato l'eccidio materno, soggiunge che il parricida, sdegnato della viltà del luogo ond'era uscito, sclamò: "Je suy venus de unc ort vasseal. Et puis avalat ses braies, si ordat en ventre de sa mere".

Non è cronista che non ispenda qualche parola a ricordare il lusso stravagante e la insensata prodigalità del tiranno, gli splendori favolosi della Casa Aurea, le reti d'oro e di seta, le feste in cui si dissipavano le ricchezze di una intera provincia, le teatrali ed istrioniche pazzie. Queste notizie derivano la più parte, ma quasi sempre indirettamente, da Svetonio.

Il noto amore di Nerone per le pietre preziose trova, benchè fortuitamente, una curiosa attestazione nel Lapidario che va sotto il nome di Marbodo, e poscia in altri parecchi. Marbodo dice nel Prologo:

Evax rex Arabum legitur scripsisse Neroni

Qui post Augustum regnavit in urbe secundus,

Quot species lapidum, quae nomina, quive colores,

Quae sit his regio, vel quanta potentia cuique.

Se non che qui Nerone usurpa un luogo chenon è il suo: quelle parole: Qui post Augustum regnavit in urbe secundus, lasciano intendere che il libro di Evace in origine deve supporsi dedicato a Tiberio, e a costui veramente si trova ancora dedicato in parecchie versioni. Ma lo scambio si spiega facilmente quando si ricordi che i tre nomi del secondo imperatore furono: Tiberio, Claudio, Nerone. La più parte delle versioni francesi in prosa, e la versione metrica, recano il nome di Nerone. Nelle scritture del medio evo lo smeraldo si trova qualche volta denominato lapis neronianus, e ciò probabilmente perchè si ricordava che Nerone aveva fatto uso di uno smeraldo per veder meglio le pugne dei gladiatori nel circo. Parlando degli smeraldi Marbodo dice:

His usum speculis testatur fama Neronem,

Cum gladiatorum pugnas spectare liberet.

Per ogni altro rispetto l'epiteto di neroniano non si addiceva allo smeraldo, che era tenuta gemma amica della castità.

Quasi ricordo delle magnificenze della Casa Aurea, Ranulfo Higden descrive nel Polychronicon il cielo di bronzo che Nerone si fece costruire, e il quale altro non è che una copia del cielo di Cosroe, di cui è un'altra copia quello del Colosseo.

Le dissolutezze e le lascivie di Nerone sono quelle che più offendono la coscienza cristiana e più attraggono l'attenzione nel medio evo. Non si dimentichi che secondo una credenza assai antica, giacchè si trova riferita da San Girolamo, la notte che Cristo nacque morirono subitamente tutti i sodomiti sparsi sulla faccia della terra, e ciò perchè non fosse insozzata di tanta turpitudine la umana natura il giorno in cui, di essa rivestito, nasceva il figliuolo di Dio. Si ricordava che Nerone era stato marito del giovane Sporo e moglie dei due liberti Pitagora e Doriforo; si ricordava aver egli promesso onori e premii singolari a chi potesse convertirgli in femmina l'amasio; si sapeva essere egli stato di così focoso temperamento e di tanta libidine, che, per moderarsi alquanto, gli conveniva fare uso di unguenti refrigeranti. Di nessun altro imperatore si narrano tante particolarità quante di Nerone. Il vizio di lui più appariscente e più caratteristico, la lussuria mostruosa, finisce per inspirare una leggenda assai strana, ma nella sua stessa stranezza significantissima; la leggenda, cioè, della gravidanza di Nerone. Nerone, non sapendo oramai che altro immaginar di nuovo, da chetare alquanto la stravolta sua fantasia, vuole impregnare e partorire; chiama i suoi medici, e ingiunge loro, sotto pena della morte, di appagare il suo desiderio. I medici, per torsi d'impaccio, gli fanno trangugiare in un beveraggio una piccola rana, che gli cresce in corpo, e ch'egli vomita dopo certo tempo. Questa è la sostanza della favola che si trova narratacon varianti di poco conto da molti. La Graphia e Martino Polono ne fanno ricordo, ma senza insistervi sopra. Forse il più antico monumento letterario in cui essa si trovi narrata è la Kaiserchronik, che vi spende intorno una quarantina di versi. Giacomo da Voragine la riporta molto distesamente, dicendo di trarla da una storia apocrifa, della quale non so che si abbia altrimenti notizia. Ecco le sue proprie parole: "Rursus Nero nefaria mentis insania ductus, ut in eadem hystoria apocrypha reperitur, matrem occidi et scindi jussit, ut videret, qualiter in ejus utero fovebatur, physici vero eum de matris perditione arguentes dicebant: jura negant et fas prohibet, ut filius matrem necet, quae ipsum cum dolore peperit, et cum tanto labore et sollicitudine enutrivit. Quibus Nero: faciatis me puero impraegnari et postea parere, ut, quantus dolor matri meae fuerit, possim scire. Hanc insuper voluntatem pariendi conceperat eo, quod per urbem transiens quandam mulierem parientem vociferantem audiverat. Dicunt ei: non est possibile quod naturae contrarium est, nec est facile, quod rationi non est consentaneum. Dixit ergo iis Nero: nisi me feceritis impraegnare et parere, omnes vos faciam

crudeli morte interire. Tunc illi eum impotionantes ranam sibi occulte ad bibendum dederunt, et eam artificio suo in ejus ventre excrescere fecerunt, et subito venter ejus naturae contraria non sustinens intumuit, ita ut Nero se puero gravidum aestimaret, faciebantque sibi servare diaetam, qualem nutriendae ranae noverant convenire dicentes, quod propter conceptum talia eum observare oporteret. Tandem nimio dolore vexatus medicis ait: accelerate tempus partus, quia languore pariendi vix anhelitum habeo respirandi. Tunc ipsum ad vomitum impotionaverunt, et ranam visu terribilem, humoribus infectam et sanguine edidit cruentatam, respiciensque Nero partum suum ipsum abhorruit, et mirabatur adeo monstruosum, dixerunt autem quod tam difformem fetum protulerit, ex eo, quod tempus partus noluerit expectare. Et ait: fuine talis de matris egressus latibulis? Et illi: etiam. Praecepit ergo, ut fetus suus aleretur et testudini lapidum servandus includeretur. Haec autem in chronicis non leguntur, sed apocrypha sunt". Detto come i Romani cacciassero Nerone, Giacomo da Voragine soggiunge: "Redeuntes igitur Romani, ranam in testudine latitantem invenerunt, et ipsam extra civitatem projicientes, combusserunt. Unde et pars illa civitatis, ut aliqui dicunt, ubi rana latuerat, Lateranensis nomen accepit".

Matteo di Westminster inserisce nei Flores historiarum l'intero racconto del Voragine, mentre lo abbrevia nel Polychronicon Ranulfo Higden, che malamente cita a questo proposito Martino Polono. Dal Voragine attingono inoltre Giovanni da Verona nella Historia Imperialis, e lo Scozzese Barbour(c. 1316 - c. 1395) nella sua Leggenda di S. Paolo. Enenkel, diluendo, com'è da credere, il succinto racconto della Kaiserchronik, narra in 380 versi, con l'aggiunta di molte particolarità, e collegandovi da ultimo la morte di Nerone, tutta lastrana avventura. Secondo Enenkel, Nerone chiama a sè settantadue medici e fa intendere loro il suo desiderio. Questi da prima si scusano, ma minacciati di morte, e rinchiusi in un carcere, ricorrono all'espediente del beveraggio e della rana, poi, liberati e largamente premiati, se ne fuggono. La gravidanza facendosi assai tormentosa, Nerone chiama altri medici, e con l'ajuto dell'arte loro vomita il mal concepito figliuolo, al quale tosto provvede una nutrice perchè lo allevi, e dà per compagni i figliuoli di tutti i principi che si trovano in Roma. Celebra poscia una festa solenne a cui intervengono settantadue re, e fa girare per Roma la nutrice e la rana in un carro di argento con le ruote d'oro, tempestato di gemme, adorno di un magnifico baldacchino, e tirato da un cervo addomesticato. Nel

passare un ponte la rana salta nell'acqua e sparisce. Nerone, furibondo, fa mettere a morte la balia e quindici giovanetti, figli di principi. Allora i padri si ribellano, segue una gran battaglia, e Nerone, vinto, si fa uccidere da uno de' suoi capitani. I principi vincitori edificano il Laterano. Nel Libro Imperiale si dice che Nerone volle impregnare perchè dubitava della fedeltà della moglie: "et chomandò a' filosofi che lo fesono ingravidare acciò che partorisse uno figliuolo maschio che si rassomigliassi a lui, perchè dubitava che la donna sua non partorisse figliuoli legittimi. Et questi filosofi per fare il suo mandato li missono in corpo una ranochia". Giovanni d'Outremeuse dice che Nerone mise a morte i dodici medici che l'avevano fatto ingravidare.

Al parto stravagante di Nerone si lega, come abbiamo veduto, l'origine del Laterano. La Kaiserchronik fa derivare il nome di Latarân da lata rana, giacchè, quando Nerone spregnò, i presenti, veduto il feto, gridarono: Lata rana. La Graphia, e il Voragine fanno derivare Lateranum da latere e rana, latente rana, latitante rana. Martino Polono, o dalla situazione del palazzo, o dalla rana secretamente partorita da Nerone. La residenza di Nerone si poneva, o in Vaticano, o in Laterano; ma più spesso qua che là; del che poteva forse essere cagione una qualche vaga reminiscenza di relazioni di esso Nerone col palazzo Lateranense. Tacito parla di una congiura contro Nerone, della quale era capo Plauzio Laterano, e Giovenale dice che, scoperta la congiura, Nerone s'impadronì del palazzo che Laterano aveva fatto costruire per la sua famiglia.

Per ciò non sarebbe senza qualche fondamento la congettura che facesse derivare la intera leggenda della gravidanza di Nerone dalla fantastica etimologia del nome del Laterano, e la conforterebbero esempii senza numero di leggende nate nel medesimo modo. Tuttavia io credo piuttosto che il nome di Laterano altronon abbia suggerito che la rana, e che il fondo stesso di quella finzione, cioè la gravidanza, abbia ragioni meno fortuite e più consistenti. La popolare fantasia non poteva inventare una leggenda che meglio di questa si attagliasse a Nerone, il più insaziabile dei dissoluti, il più pazzo ricercatore di novità mostruose che la storia ricordi; ed io non conosco nessun'altra leggenda che meglio e più opportunamente di questa illustri la storia. Il sovvertimento di ogni ordine di natura, in che colui si compiaceva, è in essa colto e rappresentato al vivo. Lo stesso ridicolo che vi è profuso si conviene mirabilmente all'istrione coronato, che in mezzo alle maggiori atrocità conserva sempre un non so che di melenso e di giullaresco. Nerone,

diventato Calandrino, è Nerone perfetto. Del resto, la leggenda stessa poteva trovare occasione ed appiglio nella storia autentica, o tale creduta: narrasi, in fatto, che un soldato, interrogato una volta che cosa facesse Nerone, rispose: Partorisce; giacchè in un'azione scenica simulava per l'appunto un parto. Inoltre si vuol ricordare come in un luogo dell'Apocalisse dicasi che dalla bocca del Drago, cioè Satana, della Bestia, cioè Nerone, e del falso profeta escono tre spiriti impuri somiglianti a rane. Nè fu Nerone il solo che operasse questo miracolo di mettere al mondo una rana. Negli Annales Corbejenses, ad a. 1026, si narra: "Mendica in littore Visarab sub saliceto duos simul peperit filios perfecte sanos, aliquot ranas et grandem lacertum: ipsa etiam valida et sana". Di un tristo che, confessatosi, vomitò sette rospi, narra Tommaso Cantipratense. Di una matrona di Fiandra che inghiottì, bevendo, un serpe, e lo partorì poi insieme con un bambino, racconta Cesario di Heisterbach.

Ma, come vive la memoria delle sceleraggini che solo hanno termine con la morte, così vive ancora la memoria de' buoni principii di Nerone, e si giunge anzi a fare di lui un amico di Cristo e quasi un credente, con l'intenzione, oltrechè di mostrare, sin dal principio, un imperatore amico del cristianesimo, forse ancora di rendere più odiosa la mala vita che egli condusse di poi, e darle quasi carattere di apostasia. Racconta Suida che Nerone, essendo ancor giovane attendeva allo studio della filosofia, e parlava di Cristo, il quale credeva fosse ancora tra gli uomini. Saputo che i Giudei l'avevano crocifisso n'ebbe grande sdegno, e fece venire a sè, stretti in catene, Anna, Caifasso e Pilato, e quei due primi, udita in Senato la narrazione dei fatti, assolse, Pilato, per contro, fece decapitare. Ma che Nerone fece mettere a morte Pilato, assai prima che da Suida, si trova barrato da Giovanni Malala. Notisi tuttavia che qui si attribuisce a Neronequanto la più vulgata leggenda attribuisce, come vedremo nel seguente capitolo, a Tiberio, fatto probabilmente lo scambio per la già notata ragione del nome comune ad entrambi. Il seguente racconto si legge in un Liber de inventione ymaginis salvatoris delato navigio Rome per Velosianum, che manoscritto si conserva in Roma nella Vallicelliana: "Eodem tempore suscepit imperium romanum Gaius cesar, et post hunc Nero cesar. Post aliquantos autem annos venerunt discipuli Jhesu Christi ad urbem Romam. Venit et quidam homo samaritanus nomine Simon, in arte magica nimis eruditus, in quo demonia habitabant multa, qui se deum et dei filium dicebat, et ipse apud Judeos fuisset passus, mortuus et sepultus, et tercia die asserebat se surrexisse. Set dum Neroni Cesari

nunciatum fuisset de Jhesu Christo filio dei vivi, et omnia que de eo acta sunt apud Judeos, nunciatum est ei etiam de Pilato. Qui statim direxit milites suos in Amerinam civitatem, et Pilatum ad se accerseri precepit. Et cum ei presentatus fuisset narravit Neroni omnia que de Jhesu Nazareno gesta sunt, presentavitque et discipulos eius Petrum et Paulum. Qui dixerunt Cesari: Bone imperator, omnia ista facta sunt per Jhesum Christum dominum nostrum filium dei. Nam iste Simon magus plenus est mendaciis et diabolicis artibus, in tantum ut dicat se esse deum cum sit homo pollutus, et filium dei se ausus est dicere, in quo nos omnes sumus cultores, per deum et hominem quem assumpsit illa divina maiestas irreprehensibilis, que omnibus hominibus dignata est subvenire. In isto vero Simone duo substantiae esse cognoscuntur, non dei et hominis, set diaboli et hominis, quia ipse seductor per hominem hominibus impedire conatur. His auditis Nero imperator, interrogans Pilatum si vera essent que a Petro audiebantur, respondit Pilatus: Vera sunt omnia que a Petro in vestris auribus sonuerunt. Post hoc autem, propter circumcisionem suam Pilatus, quam a Judeis acceperat in corpore suo, iterum in Amerinam civitatem in exilium a Nerone cesare directus est, ibique animam exalavit. Hec omnia scripta sunt qualiter dampnatus est Pilatus a Tiberio augusto qui credidit in Jhesum Christum dominum nostrum, et baptizatus est atque salvatus, et ab hac luce sublatus est. Nero vero interfector martirum impius et paganus a diabolo percussus interiit, quemadmodum prius a diabolo interemptus fuit Simon".

La leggenda pretende che Nerone fece morire San Pietro e San Paolo per vendicare l'amico suo Simon Mago, che in una gara col principe degli apostoli era rimasto vinto, ed aveva poi perduto la vita nell'ultima prova del volo miracoloso. Tutta questa storia, che io non istarò a riferire altrimenti, è narrata per disteso nell'operetta di un preteso discepolo di San Pietro, per nome Marcello, intitolata De conflictu Simonis Petri et Simonis Magi, d'ondepassa nei Leggendarii, nelle cronache, e in altre scritture senza numero. I lineamenti principali di essa si trovano già in uno scrittore cristiano del secondo secolo, Egesippo. La leggenda rappresenta Nerone e Simone come amicissimi: "Symon autem magus in tantum a Nerone amabatur, quod vitae ejus et salutis et totius civitatis custos sine dubio putabatur", dice Giacomo da Voragine. Simone faceva trasecolare Nerone coi miracoli più stravaganti. Un giorno, stando dinnanzi a lui, prese a trasmutarsi per modo che, ora vecchio, ora giovane si mostrava. Pregò Nerone lo facesse decollare, perchè sarebbe

risuscitato in capo di tre dì, e ponendo in suo luogo un ariete fece credere d'aver mantenuta la promessa. Per questi, e per altri prodigi, Nerone lo teneva veramente, qual egli si spacciava, figlio di Dio. Un giorno, mentr'egli trovavasi in compagnia dell'imperatore, un demonio, assunto il suo aspetto, arringava il popolo, così che questo cominciò ad averlo in grande venerazione, e gli eresse una statua con l'iscrizione: Symoni Deo sancto. Dopo il martirio San Paolo apparisce a Nerone in pien consiglio e gli annunzia la morte eterna: Nerone allora fa liberare San Barnaba insieme co' suoi compagni. Nel mistero francese degli Atti degli Apostoli, composto verso il 1450 dai fratelli Gresban, è San Pietro quegli che, per ben due volte, apparisce a Nerone, il quale cade in profonda melanconia, ed è bastonato dagli angeli. In un altro mistero francese, intitolato Le martyre de saint Pierre et saint Paul, tutt'a due i santi appariscono a Nerone, contro a cui il popolo, sdegnato del loro supplizio, si è ribellato.

Narrata la vita sceleratissima del tiranno, se ne narra anche la morte ignominiosa, e, com'è naturale, si aggiunge al vero più di un particolare fantastico. Secondo la più comune opinione il tristo imperatore si uccide da sè, o con una spada, o con un palo che egli stesso ha rabbiosamente aguzzato co' denti. Nel citato mistero dei fratelli Gresban si uccide per consiglio di Satana, e prima di morire invoca i demonii.

Neron tient une espée.

Ha dyables dampnez

De toutes parta vers moy venez,

Venez à ma fin malheureuse:

Espée, soys moy rigoureuse,

Donne tost fin par grand fureur

A Néron le poure empereur,

Le trist infect et douloureux,

Le malheureux des malheureux,

Le sans par des mal fortunez,

Le desespoir des forcenez.

Dyables, puisqu'il fault que je meure,

A vous suis, à vous je me donne(Il se tue.)

Et le corps et l'ame habandonne

A jamais, pour vostre présent.

Altri lo fanno morire altrimenti: il Gorionide fulminato, il già citato Liber de inventione ymaginis salvatoris ammazzato dal diavolo, come s'è veduto; Marcello, e poi altri, divorato dai lupi; nè mancò chi disse essersi egli sepolto vivo.Il Chronicon Paschale lo fa morire per una congiura dei Giudei.

La Kaiserchronik racconta ch'egli fu dopo morto trascinato pei piedi dal popolo furente, e gettato nei fossati della città, e che i diavoli, in figura di uccelli neri, vennero a prenderne l'anima, mentre i lupi ne divoravano il corpo.

Nella Cura sanitatis Tiberii, di cui avrò a dire nel capitolo seguente, Nerone e Simon Mago sono tutt'a due portati via dal diavolo. Nelle Chroniques de Tournay i diavoli portano via Nerone anima e corpo: "et dist on que les anemis l'emporterent en corps et en ame". Nel già citato mistero francese Le martyre de S. Pierre et de S. Paul, è una scena che merita d'essere qui riportata. Nerone è informato che il popolo di Roma, ribellatosi, viene per ucciderlo.

Néron.

Ains qu'ilz viegnent me vueil tuer

A ce pel que je rongeray

Qu'en la pance me bouteray.

Lor ronge .i. baston et le boute en sa pance et chiée mort.

Les dyables.

Ha! ha! ha! ha! Néron, Néron,

Ou puis d'enfer te porteron.

Lors l'emportent et puis le jetent en une chaudière assise un pou haut enmy le champ.

Le premier dyable.

Néron, Néron, mal esploitas

Quant oultredroit or convoitas,

Quant ta propre mère tuas,

Quant d'une royne t'empregnas,

Quant home pour fame espousas,

Quant Rome ardis, la gent grevas,

Quant les apostres martiras,

Quant en tout mal te démenas,

Quant en rez d'or en mer peschas,

Et or vousis et or buras,

En or boullant boulu seras

Et sans durer y dureras.

Tourmente-le moy, Mauferas,

Et fay du pis que tu pourras.

Le second dyable.

Néron, sans mourir tu mourras.

A ce cop qu'est enfer sauras

Ne jamez remède n'auras.

Lors souffle ly uns soubz la chaudière et face .I. pou de fumée, et l'autre face semblant de ly faire boire or guele baée, et bientôt cessent.

Come si vede, qui è inflitta a Nerone anche la pena di Crasso, che già Enenkel inflisse a Claudio. In un altro mistero francese di San Pietro e di San Paolo, composto nel XVI secolo, Nerone è portato dai diavoli all'inferno anima e corpo. Matteo Palmieri è meno severo con lo sciagurato di Nerone, di cui pone all'inferno l'anima fra quelle di coloro che sono passionati per la cupidità de l'honore. Nel capitolo 22 del l. II della inedita Città di Vita, Sibilla dice al poeta(cod. Laurenz, pl. XL, 53):

Nomar porre' tra queste degne sorte

D'anime degne fur nella tua vita

Et son dolenti in questa trista corte.

Ma non dire' d'alcuna più smarrita

Retro a l'opinion che inganna e froda

L'anima che è dal vero honor partita,

Che di Nerone degno sol di broda,

E tanto infuriò de la sua stima

Credecte Augusto superar di loda.

Nel suo triompho ornato nellacima

D'olympica corona et stelle d'oro

Con quella palla in man che più sublima,

Portato ad pompa et risonante choro,

Tra sacrifici orato come idio,

Era in questa miseria con costoro.

Svetonio ed altri fanno ricordo del sepolcro di Nerone. In certe Vite degl'imperatori manoscritte, si legge "Lo corpo di Nerone fu sepelito nel sepulcro di suoy mazori Domicii el quale se vede in Campo Marzo". Per contrario in un Liber compositus fratris Johannis Russi de istoriis veteribus et modernis imperatorum et pontificum romanorum si dice: "Nero imperavit annis sedecim cuius corpus iacet propter Lateranum super arcum Basilii". Che cosa potesse essere l'arcus Basilii non immagino. Ma la tradizione più vulgata, e più conforme al vero, poneva la tomba di Nerone a ridosso del Pincio, presso Porta Flaminia, sul luogo appunto dove sorge ora la chiesa di Santa Maria del Popolo e intorno ad essa una leggenda si formava, che io riferirò con le proprie parole di un anonimo commentatore dello Speculum Regum di Gotofredo da Viterbo. "Et dum Nero Romam incendisset, populus contra eum insurrexit, et palatium suum obsidere vellet, ipse solus effugit, et dum extra Romam urbem concurrisset, in proprium gladium irruens se ipsum interfecit, non credens hominem vivere, qui esset dignus tam nobilem interficere preter se ipsum. Mortuo eo, lupi corpus eius dilaceraverunt et Rome extra portam, ubi nunc est ecclesia sancte Marie ad populum, est sepultus. Ubi demones tunc circa corpus suum tam homines quam iumenta pretereuntes iugulabant, quousque ad preces et orationes Pelagii papae beata Virgo sibi in sompnis apparuit et arborem subtus quam Nero sepultus fuit succidere iussit. Papa igitur crastino cum clero processionem illuc fecit, arborem propria manu primus cum securi secari incepit, et ecce demones ululantes fugientes locum reliquerunt, et cessavit periculum ibidem. Populus Romanus vero videns se a demone liberatum, papam rogavit ut ecclesiam ibi in honore Virginis Marie, cuius auxilio essent liberati construeret. Quod et papa fecit una cum populo, et Marie ad populum nominavit, quae antea porta Flaminea dicebatur".

Questo dei diavoli che infestano le tombe di uomini scelerati è un tema che spesso apparisce nelle leggende ascetiche. Ê noto ciò che si racconta di Pilato, che, buttato nel Tevere, richiama tanti diavoli, e suscita così orrende tempeste, che gli abitatori del paese circostante sono costretti ad estrarnelo; buttato nel Rodano, si ripete il giuoco, finchè, tolto anche di là, è precipitato in un lago tra' monti, o in un pozzo, o in un burrone, vicino a Ginevra, o a Losanna. Fra Filippo da Siena racconta negli Assempri la storia d'un mal uomo che morì disperato, el

quale essendo sepolto in chiesa venivano i diavoli e menavano grandissima tempesta. Di corpi mortiinfesti, anche senza che c'entrassero i diavoli, a intere città e borgate, si trovano nelle storie frequenti ricordi. Guglielmo Neubrigense narra d'un malvagio uomo morto impenitente, il quale, uscendo di sepoltura, mise la peste in una borgata, menando grandissima strage, finchè due giovani n'ebbero abbruciato il cadavere; Gualtiero Mapes racconta la storia di un morto che spopolò un villaggio. Finalmente è da ricordare che vicino a Porta del Popolo si mostrava una torre dove, secondo la popolare credenza, appariva l'anima di Nerone, e si chiamava la Torre di Nerone, da non confondere con l'altra Torre di Nerone, o delle Milizie, che ancora si vede accosto alla chiesa di Santa Caterina da Siena, non lunge dal Foro Trajano, e dalla quale si dice aver Nerone assistito allo spettacolo dell'incendio di Roma. In una delle tavole topografiche pubblicate dal De Rossi la figura della torre è accompagnata dalla leggenda: Torre dove stette gran tempo il spirito di Nerone.

Le uccisioni a cui la leggenda accenna si potrebbero facilmente spiegare senza miracolo ammettendo che una banda di malandrini, giovandosi dell'antica superstizione, avesse scelto a teatro delle sue gesta il luogo reso infame dalla tomba di Nerone.

Qual meraviglia, se lo scelerato che fu tanto amico del diavolo in vita, e che i diavoli si portarono via dopo morte, finisce per diventare un diavolo egli stesso nella fantasia popolare? In parecchie chansons de geste Noiron comparisce fra le altre diaboliche divinità adorate dai Saracini e dai pagani in genere, Apollo, Giove, Baratron, Tervagante. Ma la immaginazione più bizzarra a tale proposito si legge in un racconto francese in versi, senza titolo, contenuto in un manoscritto della Nazionale di Torino e pubblicato dal Comparetti. Nerone, il quale altro non è che un diavolo incarnato, edificò già, insieme con altri due demonii, la città di Babilonia, e fece costruire la Torre di Babele; poi, prevedendo la venuta di Cristo, fondò Roma e un castello, il quale rovina nell'ora che Cristo nasce. Ciò è in parte raccontato dallo stesso Nerone in una disputa che ha con Virgilio, dal quale è da ultimo decapitato e rimandato all'inferno.

È noto che per lungo tempo fu creduto dal popolo in Roma che Nerone non fosse morto, ma fosse solamente sparito, e dovesse tornare, o prima, o poi, a vendicarsi de' suoi nemici. Quest'era quel popolo, che, perduto l'uso e l'amore della libertà, e cattivato dalle largizioni e dalle

feste, era andato giulivo ed acclamante incontro al parricida il giorno in cui, dopo aver compiuto il più atroce de' misfatti, questi rientrava in Roma. Di tale credenza ebbero a giovarsi parecchi che si spacciarono per Nerone, come parecchi poi vifurono nel medio evo che si spacciarono per Federico II, anch'egli creduto non morto e prossimo a ritornare: ai tempi di Trajano essa era ancor viva, come appare da una esplicita testimonianza di Dione Crisostomo, che appunto sotto Trajano fioriva. I cristiani, che delle stragi dell'anno 64 serbarono lungo e doloroso ricordo, cominciarono a credere che Nerone, il primo persecutore della Chiesa, sarebbe anche l'ultimo, e tornerebbe prima della fine del mondo. La Bestia, τὸ θηρίον, dell'Apocalissi è certamente Nerone, e Neren è ancora il nome dell'Anticristo in Armenia. Nerone avrebbe preceduto l'Anticristo. Di questa credenza fa ricordo, nel bel mezzo del terzo secolo, Commodiano nel suo Carmen apologeticum.

La fine dei tempi sarà annunziata dalla settima persecuzione. I Goti allora conquisteranno Roma, e libereranno i cristiani dall'oppressione pagana. Ma la pace di Roma sarà di breve durata, giacchè improvvisamente riapparirà Nerone e si farà padrone di Roma, e si associerà altri due Cesari. Sorgerà allora contro di lui il vero Anticristo a capo dei Persi, dei Medi, dei Caldei e dei Babilonesi, il quale lo sconfiggerà e ucciderà insieme co' suoi compagni. Nel IV secolo Lattanzio ricorda, biasimandola e schernendola, questa opinione, e molti la ricordano dopo di lui, fra gli altri San Girolamo, Sant'Agostino, Sulpizio Severo. Essa passa nel medio evo. San Beato di Liebana, che commenta l'Apocalissi nel 786, sa che la Bestia è Nerone; a mezzo del XII secolo Ottone di Frisinga riporta ancora la strana leggenda. Così Nerone, che era stato il terrore dei tempi suoi, diventa il terrore di tutti i tempi; al nome di colui che aveva tentato di distruggere con le fiamme Roma, si lega la finale conflagrazione e la distruzione del mondo. Anche in questo caso la leggenda non era un giuoco ozioso di fantasie indisciplinate.

Quanto durasse tenace nel popolo la memoria di Nerone è dimostrato, oltrechè dalle leggende esposte, da varii nomi di luoghi e di monumenti, che a ragione o a torto si pongono in relazione con esso. I Prati di Castello, fuori di Porta Angelica a Roma, si chiamarono nel medio evo Prata Neronis, e tal nome avevano già sino dai tempi di Procopio. Nei Mirabilia si trovano ricordati l'obeliscum Neronis, l'aerarium Neronis, il secretarium Neronis, il Pons Neronis, il Terebinthum(o Tiburtinum) Neronis, il templum Neronis, il Palatium Neronis. Nel Filocopo del

Boccaccio Florio, giunto in Roma, va a smontare in certa osteria "vicino agli antichi palagi di Nerone". Ho già ricordato le due torri di Nerone. Un monumento sulla Via Cassia, quattro miglia fuori della città, il quale reca il nome di Publio Vibio Mariano, fu dal popolo attribuito a Nerone. Si ricorda anche unacisterna Neronis "in qua latuit Nero fugiens Romanos insequentes". In Germania v'era nel medio evo un Neronistein. Nomi di luoghi, come Haye-Noiron, Prés-Noiron, Mont-Noiron, si trovano abbastanza spesso nei poemi e romanzi francesi.

Abbiamo veduto l'infamia di Nerone perpetuarsi nel medio evo. Rodolfo IV, duca d'Austria, gran persecutore dei chierici, fu certamente il solo che osasse vantarsi disceso dalla stirpe di quel massimo fra i scelerati, il quale per trovare un difensore e un panegirista deve aspettare il Rinascimento.

Una oscura e compendiosa cronaca latina, così con brevità terribile parla di Nerone, tutta stringendone in poche parole la vita: "Nero successit, matrem eviscerat, sororem stuprat, Romam in .XII. partibus incendit, Senecam interfecit, ranas apud Lateranum evomuit, Symonem magum...... Petrum crucifigit, Paulum decollat, imperat annis .XIII. mensibus .VII., a lupis devoratur".

E un canto della Chiesa trionfante tonava sul nemico vinto e dannato:

Nero frendit furibundus,

Nero plangit impius,

Nero cujus aegre mundus

Ferebat imperium.

CAPITOLO XI. Tiberio, Vespasiano, Tito.

Di quante leggende sacre ebbe il medio evo la più celebre, la più diffusa è senza dubbio quella di cui mi accingo a discorrere della vendetta di Cristo e della distruzione di Gerusalemme. Essa è, in pari tempo, la più complessa ed estesa, giacchè comprende tutto un lungo ordine di fatti, e mette in iscena un grandissimo numero di personaggi, tra cui non meno di quattro imperatori romani: Tiberio, Nerone, Vespasiano, Tito; e poi, con azione varia, e in varii modi intrecciata, Pilato e gli altri giudici di Cristo, Giuseppe d'Arimatea, Nicodemo, la Veronica, testimoni della passione e accusatori dei giudici iniqui; Giuseppe Flavio, storico e guerriero, alcuna volta lo stesso Cristo e la

madre sua. L'azione epica e drammatica si svolge in Roma, stanza della nuova fede, e in Gerusalemme, stanza della fede antica. Leggenda e storia ad un tempo, processo e giudizio, dove l'impero fatto anticipatamente cristiano, da una parte, e l'impenitente popolo d'Israele dall'altra, stanno a difesa della ragione e del torto, e dove la divinità di Cristo, e il dritto della Chiesa sono per la prima volta dalle potestà della terra riconosciuti e proclamati. Antica d'origine quasi quanto il cristianesimo stesso, nata di più germi, e come scissa in principio, essa si compone, si costruisce, cresce a poco a poco, si varia, si complica traverso ai secoli, e venuta nel medio evo in piena fioritura, alligna rigogliosa e vivace fra tutti i popoli cristiani, si esprime in tutti i linguaggi, assume tutte le forme: racconto in prosa, poema, canzone sacra, mistero. Lo schema di essa, guardato nei lineamenti principali, dentro a cui poi le immaginazioni secondarie si spostano e si compongono in varii modi, è il seguente: uno, o più principi pagani, l'imperatore di Roma,o alcuno reggente in suo nome la tale o tale provincia dell'impero, sono afflitti da grave infermità della quale guariscono, o per un atto di fede in Cristo, o in virtù della santa immagine della Veronica. Guariti, giurano di vendicare la ingiusta morte del Redentore, passano con forte esercito in Palestina, investono Gerusalemme, e dopo lungo ed ostinato assedio, durante il quale giunge a tal segno la fame tra gli assediati che la madre si ciba delle carni del proprio figliuolo, la espugnano, la distruggono dalle fondamenta, e fatta dei colpevoli esemplare giustizia, tornano trionfanti alle lor sedi.

Non v'è leggenda meno arbitraria, meno fortuita di questa. Passati appena settantadue anni dalla morte di Cristo, Gerusalemme, e tutto il popolo d'Israele soggiacciono alla più spaventosa sciagura, che, non pure la storia loro, ma la storia dei popoli tutti di Europa ricordi. Comincia allora la dispersione e la dura cattività di quella razza infelice, che per secoli non avrà più patria, nè diritto, nè umana dignità, odiata, perseguitata, per poco non cancellata dal numero dei viventi. E chi sa quanto la leggenda che cresceva sull'orme degli esuli e dei proscritti, e che dava voce e figura alla esecrazione di una intera umanità di credenti, contribuì a rendere contro di essi più dispettoso l'odio e la persecuzione più cruda. Non era possibile che la coscienza cristiana non iscorgesse nella gran ruina il terribile giudizio di Dio: il sangue del Giusto ricadeva sul capo di chi l'aveva iniquamente versato, e il Tempio che aveva serrate le porte alla verità e alla salute, precipitava nella polvere per non risorger più mai. Le profezie di Geremia e di Ezechiele, che si

riferivano alla distruzione di Gerusalemme compiuta dai Babilonesi, facilmente potevano essere trasportate a quella ben più formidabile compiuta dai Romani, e questa distruzione, risalendo a una profezia di Daniele, si poteva, senza sforzo, mettere in relazione con la morte di Cristo, come fa Tertulliano.

Ho accennato alla celebrità della leggenda: prima di procedere oltre gioverà mostrarne un qualche esempio. Dante la ricorda in più luoghi:

Nel tempo che 'l buon Tito con l'ajuto

Del sommo Rege vendicò le fora

Ond'uscì il sangue per Giuda venduto.

. . . . . . . . . . Ecco

La gente che perdè Jerusalemme

Quando Maria nel figlio diè di becco.

Poscia con Tito a far vendetta corse

Della vendetta del peccato antico.

Pietro Alfonso, l'autore famoso della Disciplina clericalis, Ebreo di nascita, ma fattosi battezzare l'anno 1106, rinfaccia a' suoi antichi compagni di religione, nel Libellus contra perfidiam Judaeorum, la punizione caduta sopr'essi. Brunetto Latino ricorda come gli Ebrei furono da Tito venduti trenta a denaro, e Busone da Gubbiocome la fame spinse le madri a commettere alla sorte la vita dei proprii figliuoli, per sapere di quale si dovessero cibare. Nel secondo libro dell'Africa il Petrarca fa predire dal padre di Scipione la distruzione di Gerusalemme, e nel trattato De otio religiosorum si conforma in tutto alla popolare credenza, dicendo che Gerusalemme fu distrutta, e il suo popolo disperso, in punizione della morte di Cristo. Se egli avesse condotto sino a Tito, come si era proposto, il libro De viris illustribus, che fu poi continuato da Lombardo da Serico, non avrebbe certamente mancato di dare della leggenda più ampia notizia. Fazio degli Uberti la ricorda nel Dittamondo, quando fa dire a Roma:

Vespasian dieci anni tenne il mio,

Lo qual con Tito suo fe la vendetta

Contro i Giudei del figliuol di Dio.

Alessandro Neckam dice di Tito:

Hunc decuit mortis ultorem numinis esse,

Dum deleta fuit gens mala, digna mori.

Nelle recensioni più antiche dei Mirabilia non è fatto cenno della leggenda; ma in altre, più moderne, si dice che i corpi di Tito, di Vespasiano e di Volusiano riposano nel monastero di San Saba, lo che prova che essi erano universalmente tenuti cristiani. Giovanni Sarisberiense, parlando nel Polycraticus dell'assedio e della espugnazione di Gerusalemme, non fa parola della leggenda; ma poi, in altro luogo di quella stessa opera, ricorda come, stando alla testimonianza di alcuni scrittori, Vespasiano avrebbe operato miracoli in segno della missione a lui affidata. Sono ben pochi i cronisti che, come Ottone di Frisinga, non ne facciano menzione. Inoltrato già il secolo XV, Teodorico Engelhusio nella sua Cronaca la rammenta ancora con piena fede:

Tiberii lepram divina Veronica sanat,

Rosa nimis facies sanatur Vespasiani.

Esempio, se non unico certo assai raro, può essere citato Francesco da Buti, che commentando i versi testè riferiti del c. XXI del Purgatorio, dice senz'altro che causa della distruzione di Gerusalemme fu l'avere i Giudei, i quali presumevano dover essere signori del mondo, ucciso il governatore romano e cacciato il legato di Siria. Fra Niccolò da Poggibonsi ricorda anch'egli nel Libro d'Oltremare, che contiene la relazione di un viaggio fatto in Terra Santa nel 1345, la distruzione di Gerusalemme per opera di Vespasiano e Tito, ma non accenna in nessun modo alla tradizione. La presenza della sacra immagine in Roma, alla quale traevano numerosissimi i pellegrini, acquistava credito alla leggenda, e la leggenda era da quei pellegrini medesimi sparsa su tutta la faccia d'Europa, e ripetuta in tutte le lingue.

Ma facciamoci oramai a rintracciarne le origini e a dire delle forme in cui si raccolse da prima. Ho già detto che essa s'imponeva in certo modo naturalmente agli spiriti, e chela sua genesi era in tutto spontanea. Si può tener per sicuro che quando si sparse pel mondo romano l'annunzio della espugnazione di Gerusalemme, nelle catacombe, dov'era viva e cocente ancora la memoria della persecuzione neroniana, nelle chiese tutte d'Asia, d'Africa e d'Europa, si glorificò Dio punitore, e si celebrò il primo grande trionfo della fede. Allora Vespasiano e Tito e l'impero e le legioni romane furono certamente considerati come ciechi strumenti della giustizia divina, la quale solo si rivelava a chi era in grado d'intenderla, e pronto ad adorarla. Origene nel secondo libro del trattato

contro Celso dice che la profezia di Cristo circa la distruzione di Gerusalemme si avverò per fatto di Tito, sotto l'impero di Vespasiano. Eusebio di Cesarea, accingendosi a riferire nella Istoria ecclesiastica alcune cose narrate da Filone nella relazione che fece della sua legazione, dice rimaner per esse provato che i Giudei soggiacquero a tante calamità in punizione del misfatto commesso nella persona di Cristo, e ricorda inoltre quali castighi di Dio, la profanazione del Tempio, il tumulto che suscitò Pilato spogliando l'erario sacro, ed altre turbazioni e dissidii. Altrove ancora mostra la espugnazione di Gerusalemme essere stata una vendetta del cielo. Intanto alcuni tratti principali della leggenda nascitura cominciavano a disegnarsi. Il famoso libro di Lattanzio, De mortibus persecutorum, è tutto inspirato e governato dal pensiero che castighi terribili colpiscono o prima o poi i persecutori della Chiesa: a maggior ragione, e in forma più solenne ed esemplare, dovevano essere puniti i persecutori e gli uccisori di Cristo. La leggenda inesorabile andrà a ricercare costoro uno per uno, e li ripagherà come avran meritato, e consacrerà il nome loro all'infamia. Eusebio, narrando, con qualche errore, l'esiglio di Erode, dice, come pare, con intenzione, che questi aveva avuto parte nel supplizio di Cristo, e naturalmente suggerisce il pensiero che quella era pena di questo misfatto, sebbene in apparenza sembrasse altrimenti. La leggenda infame di Pilato, per ragioni che vedremo tra breve, si forma piuttosto tardi; ma, ad ogni modo, è costituita nel quarto secolo, e forse prima. Già Eusebio ricorda come Pilato fu mandato in esiglio e si tolse di propria mano la vita, e lo stesso narrano poi Orosio, Gregorio di Tours, Beda, altri.

Se non che questa credenza, da cui doveva nascere la leggenda, non è per anche leggenda essa stessa. Considerata nella sua forma piena e perfetta, la leggenda si mostra composta di più parti diverse, che in origine non ebbero fra di loro attinenza nè relazione, e di cui è agevole scoprire le saldature non abbastanza dissimulate. Ad ogni modo le parti principali son due: l'unache riguarda Tiberio e la sua miracolosa guarigione, l'altra che riguarda Vespasiano e Tito, e la guarigione di uno di essi, o di entrambi, e la vendetta da essi compiuta. La prima parte è, fuor d'ogni dubbio, più antica della seconda, e a questa non si congiunge, se non quando comincia a farsi sentire negli spiriti il bisogno di tramutare i distruttori di Gerusalemme d'inconsci in consci ministri della giustizia divina, senza il quale tramutamento una vera e propria leggenda della vendetta non poteva formarsi. Cominciamo a ricercare quali possano essere state le origini della prima parte, o diciamo a

dirittura, della prima leggenda.

Morto Cristo, un desiderio doveva spontaneamente nascere nell'animo de' suoi seguaci, contro de' quali stava, non pure l'opinione pubblica, ma ancora il pubblico giudizio che, nelle forme, se non nella sostanza, fu certamente legale. Alla causa dei cristiani importava moltissimo che questo giudizio si potesse dimostrare illegale ed iniquo; ma, per mostrarlo tale, bisognava trarne fuori Pilato, giacchè scagliare una accusa d'illegalità e d'iniquità contro l'uomo che governava in nome dell'imperatore non sarebbe stato nè utile, nè prudente. Anzi bisognava far vedere Pilato ammiratore ed amico di Gesù, e relatore a Cesare della vita esemplare e dei miracoli di lui; separare il più possibile, in tutta la questione, i Romani dagli Ebrei, rappresentar questi come soli interessati alla morte del Maestro, severo censore dei loro depravati costumi e delle corrotte loro dottrine, far ricadere sopra di essi tutto il peso e la odiosità della scelerata sentenza, e renderli, in certo qual modo, ribelli, oltre che a Dio, anche allo stesso Cesare. Un accorgimento sì fatto, forse più istintivo che altro, favorito dall'animosità che di giorno in giorno cresceva tra Romani ed Ebrei, era inoltre, se non promosso, almeno non impedito dagli Evangeli, dove Pilato è descritto, non già come un uomo malvagio, ma come un uomo di poco animo, che vorrebbe per parte sua salvare Cristo, di cui ha riconosciuta l'innocenza, ma non osa contrastare ai sacerdoti. Nei famosi Atti di Pilato, a cui fu solamente più tardi dato il nome di Evangelo di Nicodemo, si narra che l'uffiziale di Pilato al quale era stato commesso di tradurre Cristo davanti al tribunale del Procuratore romano, mostrò all'accusato il suo ossequio, che davanti a costui s'inchinarono sulle insegne le immagini dell'imperatore, che Procula, moglie di Pilato, ammonì il marito di non rendersi reo d'ingiusta sentenza, che Pilato rimproverò agli Ebrei la loro perfidia.

Poi si cominciò a dire che Pilato era fautore di Cristo; che anzi, già prima, aveva scritto a Tiberio(altri diranno Claudio) una epistola in cui si dava conto di Gesù, si encomiavano l'opere sue,si proponeva di tributargli divini onori; che Tiberio aveva favorevolmente accolte le proposte del suo vicario, ma che il senato le aveva respinte. Nel secondo secolo questa leggenda capitale è già formata. Tertulliano la ricorda nell'Apologeticum, composto intorno al 198, e se ne giova come di valido argomento contro i persecutori. Egli anzi afferma che Pilato era già in sua coscienza cristiano. Bisogna credere che queste tradizioni avessero allora molta autorità, e fossero note anche ai pagani, chè altrimenti un

apologeta non avrebbe dato loro tanto peso. Giustino Martire, morto nel 166, ricorda certi commentarii scritti sotto Ponzio Pilato.

Non è qui il luogo di discutere in qual tempo gli Atti di Pilato, di cui sono due recensioni greche, l'una più antica, l'altra più moderna, e una versione latina, per non parlare delle versioni in varie lingue moderne, sieno stati composti. Il Tischendorf pone la composizione loro nella prima metà del secondo secolo; ma altri li fanno di molto posteriori, e Adalberto Lipsius li giudica del mezzo circa del IV secolo, sorti in contraddizione di certi Atti pagani di Pilato, composti sotto l'imperator Massimino fra il 307 e il 313, e ricordati da Eusebio. Io non ho competenza da trarmi in mezzo a così fatta controversia; ma tuttavia parmi di poter dire che la tradizione raccolta negli Atti di Pilato, mostra d'essere più elementare, men progredita che non quella di cui fa ricordo Tertulliano. Ora, se gli Atti di Pilato dovessero essere posteriori a questo padre, non s'intenderebbe come il loro compilatore avesse potuto ignorare l'importantissima tradizione che circa i fatti di Pilato è da lui ricordata, o come, conoscendola avesse potuto trascurarla, mentre poteva riuscire di molto giovamento al suo assunto.

Ma checchessia di tale questione, ciò che nel caso presente importa di rilevare si è che, verso il mezzo del secondo secolo, erasi già formata e diffusa una tradizione, tanto vigorosa oramai da poter esser fatta valere come argomento contro ai persecutori, e secondo la quale un imperatore romano aveva giudicato Cristo degno degli onori divini. Questa tradizione ricordata, oltrechè da Tertulliano, anche da Eusebio, da San Giovanni Crisostomo, da Orosio, da altri, passa nel medio evo ed è universalmente conosciuta, tanto che non accade far qui citazioni particolari. Ma più strano deve sembrare che anche fra gli Ebrei Pilato sia stato creduto amico di Cristo. Secondo un racconto giudaico riferito nel trattato De judaicis superstitionibus, che Agobardo vescovo di Lione(779-840) compose in compagnia di due altri vescovi, il corpo di Cristo sarebbe stato sepolto presso un acquedotto e travolto da una innondazione. Pilato lo fece ricercare per lo spazio di dodici mesi, e non avendoloritrovato, proclamò Cristo risorto, e volle che gli Ebrei lo adorassero come Dio.

A poco a poco Pilato si trasforma in un santo, anzi in un martire; lo stesso Tiberio diventa cristiano. Tertulliano non osa ancora affermarlo risolutamente, ma dice già che Tiberio minacciò dell'ira sua chiunque si facesse ad accusare i cristiani. Non potendosi dissimulare le molte

sceleraggini di cui la sua vita è ripiena, si dirà ch'egli di mansueto agnello si mutò in efferatissimo lupo, appunto per quel rifiuto del senato.

L'epistola di cui fa ricordo Tertulliano non deve essere identica nè con l'αναφορὰ Πιλάτου, nè con la lettera di Pilato a Claudio, che si trova incorporata negli Atti greci di San Pietro e San Paolo, nè con l'Epistola Pilati ad Tiberium, giacchè in tutte queste scritture Pilato si mostra già quasi colpevole e timoroso dell'ira di Tiberio, il quale in una sua risposta severamente lo biasima, e lo cita davanti al suo tribunale. Quella deve avere avuto un riscontro nell'altra epistola apocrifa di Lentulo, predecessor di Pilato, epistola dove si fanno molte lodi di Cristo e si descrive minutamente la sua persona. L'epistola di Lentulo presuppone l'epistola di Pilato, giacchè essa altro certamente non è che una di quelle anticipazioni arbitrarie di cui spesso la leggenda si giova per allargare la sua presunta base storica. Ricorderò a tale proposito che si ebbe anche una supposta lettera di Erode al senato. La leggenda segue il suo razionale svolgimento. Impegnato Tiberio nella causa di Cristo, si poteva trarne fuori Pilato, e ridargli un carattere più confacente con la parte ch'egli aveva avuto negli avvenimenti. Pilato non è ancora lo scelerato che la leggenda rappresenta più tardi; ma è già un uomo debole, poco fervido difensore della verità che pur riconosce, colpevole di non aver riferito a Cesare ciò che, per ufficio, non avrebbe dovuto tacere, inteso a rovesciare tutta sugli altri la colpa di cui deve in parte egli stesso rispondere. Parmi che la leggenda abbia dovuto fare questa prima variazione passando di Giudea in Roma, giacchè è da credere che nella stessa Gerusalemme essa avesse nascimento. In Giudea importava poter mostrare dissenziente dai sacerdoti e dal popolo, e quasi cristiano, chi governava in nome di Roma; ma più importava poter mostrare cristiano in Roma, e persecutore dei nemici di Cristo, lo stesso imperatore, e massimamente poter mostrare questo imperatore farsi, per amor di Cristo, giudice inesorabile del proprio vicario. Chiunque, sia Giudeo, sia Romano, ha avuto parte nella condanna di Cristo dev'essere punito. A questo supremo interesse della coscienza cristiana, il quale riempie di sè la leggenda, si sacrifica Pilato.

Nelle epistole che vanno sotto il suo nomePilato parla dei miracoli di Cristo, dei prodigi che ne seguirono la morte, e tenta di far ricadere tutta la colpa sugli Ebrei, dalle cui menzogne dice di essere stato tratto in errore. Tiberio in una sua risposta muove a Pilato acerbi rimproveri, e minaccia la morte a lui e a tutti gli altri colpevoli. Ordina sia condotto n

Roma per essere giudicato insieme con Archelao, figlio di Erode, Filippo, Caifa ed Anna. Gli accusati giungono nell'isola di Creta; la popolazione si solleva e vuol seppellir vivo Caifa, ma la terra rifiuta di riceverlo, e i suoi punitori a stento riescono ad opprimerlo sotto una gran pietra. Gli altri proseguono il viaggio, e giungono a Roma, dove tutti, in varii modi sono messi a morte. Poi Tiberio infierisce contro tutto il popolo d'Israele, e debellatolo in guerra, lo disperde.

Così comincia a fermarsi il concetto di una vendetta, che si fa sempre più larga e più formidabile. Nella Paradosis Pilati l'imperatore fa venire Pilato a Roma per giudicarlo. Il giudizio ha luogo nel Campidoglio. Al pronunciare che l'imperatore fa il nome di Cristo i simulacri degli dei precipitano, ἅπαν το πλῆθος τῶν θεῶν συνέπεσαν, e si disfanno in polvere. Pilato cerca scusarsi facendo ricadere tutta la colpa sugli Ebrei. L'imperatore, senza che a ciò lo spinga nessuna grazia miracolosamente ottenuta, risolve di punire gli Ebrei del loro misfatto. Nella lettera che egli scrive a Liciano governatore della provincia di Oriente, τῆς ανατολικῆς χώρας, per significargli il suo volere, si nomina Cristo quale Dio, e si comanda di disperdere gli Ebrei e di ridurli in ischiavitù fra tutti i popoli. A Pilato fa troncare il capo. Nella sua risposta a Pilato, Tiberio dice d'aver saputo tutta la verità dei fatti da una donna che era andata a Roma a trovarlo, e secondo il racconto di certi cronisti bizantini, Maria Maddalena sarebbe andata a Roma per accusare i giudici di Cristo a Tiberio, il quale fece decapitare gli scribi, i sacerdoti e Pilato. Qui abbiamo già un addentellato per la leggenda della Veronica, leggenda che apparisce nella Cura sanitatis, nella Vindicta Salvatoris, e in tutte le versioni e redazioni posteriori.

Sin qui abbiamo veduto Tiberio operare disinteressatamente, per semplice amore della verità e della giustizia, e per una specie di fede inconscia; ma anche nelle ragioni del suo operare doveva avvenire una trasformazione, consentanea all'indole della leggenda, e richiesta dalla ingenua fantasia dei credenti. Importava che la fede di Tiberio fosse fondata, non sul semplice sentimento, ma su prove irrecusabili di fatto; importava di lasciar compiere in benefizio dell'imperatore un miracolo che tornasse in benefizio della causa cristiana, e che si potessecitare come luminoso esempio della misericordia divina. Se il miracolo veniva a legarsi ad una qualche reliquia insigne, non solo si rendevano più intelligibili alla comune degli uomini i fatti meravigliosi narrati nella leggenda, ma si procacciava ancora a quella reliquia una riputazione

incomparabile; e chi sa quanta parte le reliquie abbiano avuto nel culto cristiano, e come esse abbiano profondamente influito sul temperamento della coscienza religiosa, non istimerà certo di poca importanza questo nuovo motivo di variazione ed amplificazione della leggenda. Ed ecco come la favola della malattia di Tiberio e della guarigione miracolosamente ottenuta mercè la immagine della Veronica, viene nella leggenda a prender posto. Entrata che vi sia, essa fa naturalmente dimenticar le ragioni che nella tradizione più antica movevano Tiberio a far vendetta di Cristo.

La Cura sanitatis raccoglie questi incrementi e queste mutazioni della finzione. Pubblicata primamente dal Foggini di su un codice del secolo XI, il racconto in latino barbarissimo che s'intitola Cura sanitatis Tiberii, fu ristampato dal Mansi di su un codice dell'VIII. I due testi presentano qualche diversità, anche di sostanza: nel più antico la narrazione procede nel modo che segue. Tiberio, afflitto da gravissima infermità, manda Volusiano(Volusano) a Gerusalemme a cercare di Gesù, de' cui miracoli ha udito parlare. "Si deus est", dice Tiberio, "praestare potest; si autem homo est, amare nos potest, et rempublicam gubernare per eum possumus". Dopo un anno e tre mesi di navigazione Volusiano giunge a Gerusalemme. Pilato gli muove incontro, ma, saputa la ragione del suo venire, si turba. Informato della morte di Cristo, Volusiano fa venire a sè Giuseppe d'Arimatea, dal quale apprende in breve tutta la storia di quello, i miracoli, la passione, la sepoltura, la risurrezione. Credendo che Cristo risorto possa ancora trovarsi in Giudea, egli manda i suoi messi a rintracciarlo; ma confermatagli da molti testimoni l'ascensione al cielo, ordina che Pilato sia chiuso in un carcere. Interrogatorio di Pilato che cerca invano scolparsi. Un Marcio parla a Volusiano della Veronica. Costei, sanata da Cristo, fece dipingere la immagine di lui, poi si ritrasse a vivere in Tiro. Condotta al cospetto del messo imperiale, la Veronica nega da prima di possedere la preziosa immagine; ma quegli ne fa fare ricerca, e avutala l'adora; poi con Pilato e la Veronica insieme si parte, e giunge a Roma dopo soli otto mesi. Tiberio condanna Pilato alla interdizione dell'acqua e del fuoco, e lo relega in Ameria, città di Toscana. Segue la guarigione di Tiberio. Sotto il regno di Nerone suo successore i discepoli di Cristo vengono in Roma, e ci vien anche Simon Mago, che si spaccia pel Salvatore. Volendo conoscerela storia di Cristo, Nerone fa venire a sè dal suo luogo di relegazione Pilato, il quale gliela racconta, e gli presenta i due apostoli Pietro e Paolo. Nerone si fa leggere inoltre la epistola che esso Pilato scrisse a Tiberio; ma da tutto ciò non

segue poi nulla. Pilato se ne torna in Ameria a scontar la sua pena; Nerone e Simon Mago sono portati via dal diavolo.

Ecco la leggenda trasformata, arricchita, appoggiata a motivi nuovi, frequentata da nuovi personaggi. Volusiano non ha in sè nulla di storico; ma, entrato nella leggenda, non ne esce più, sebbene muti a più riprese di nome. La introduzione di Giuseppe d'Arimatea fu suggerita probabilmente dagli Atti di Pilato, dove, al c. 12, gli si pongono in bocca parole che accennano a una vendetta divina, provocata dai Giudei crocifiggendo Cristo. Nei racconti posteriori egli andrà mano mano acquistando importanza. La Veronica comparisce per la prima volta, e con parte molto cospicua, che poco potrà essere accresciuta in seguito. Noi abbiamo ora, a parlar propriamente, l'incontro e la fusione di due diverse leggende: la leggenda di Tiberio cristiano, e la leggenda della Veronica, e nel composto unico che se ne forma, quella, che è anteriore di tempo, si subordina a questa e la presuppone. Discoste nei loro principii, diverse d'intendimenti, esse, poichè si trovano l'una in presenza dell'altra, reciprocamente si attraggono e si compongono insieme. In tale composizione v'è guadagno e perdita a un tempo: la leggenda di Tiberio perde la sua bella idealità, e non riesce più, come prima, dimostrativa della virtù intima ed essenziale della verità cristiana, sentita, proclamata, vendicata da un imperatore non battezzato; ma la leggenda della Veronica, che aveva pur essa profonde radici nella coscienza religiosa, se ne avvalora, allargando la sua base storica, moltiplicando i suoi legami col mondo. Chiusa, nel primo suo nascere, entro gli angusti termini di una società di discepoli, essa diventa poi leggenda imperiale, romana, cattolica. E il tutto che di queste parti si forma ha un carattere più umano e più poetico, ed è più atto a cattivare le fantasie, e a trovare nelle letterature popolari varia e durevole rappresentazione.

Fermiamoci alquanto, prima di proceder oltre, sulla Veronica e sulla sua leggenda. Passato alcun tempo dalla morte di Cristo, doveva nascere spontaneo nei seguaci il desiderio di possedere alcuna immagine che rappresentasse ai loro occhi le fattezze del venerato maestro, di cui rimaneva negli animi incancellabile ricordanza. Sebbene la Chiesa, tutta rivolta nei primi secoli a consustanziarsi la dottrina e lo spirito del suo institutore, poco pensiero si desse delle sembianze corporee di lui, per modo che lasciava agli artefici ogni piùampia libertà di ritrarle come più loro piacesse, pure non poteva passare gran tempo

senza che si pretendesse di spacciare per autentica alcuna delle immagini che l'amorosa devozione veniva moltiplicando. Tale è la origine della famosa immagine di Edessa, del crocifisso creduto opera di Nicodemo, della immagine celeberrima della Veronica. Due statue nella città di Paneade, rappresentanti, secondo si può ragionevolmente congetturare, l'imperatore Adriano con la città inginocchiata ai piedi, furono credute immagini di Cristo e di quella emorroissa di cui parla Matteo(9, 20), e che gli Atti di Pilato(c. 7) annoverano fra i testimoni di Cristo. Qui costei comparisce col nome di Βερονίκη. Da Βερονίκη potrebbe venire Veronica; ma negli Atti non si fa cenno di una immagine di Cristo posseduta dall'emorroissa, e della Veronica non si dice ordinariamente che l'infermità di cui Cristo la guarì fosse flusso di sangue. Fra queste due donne vi è somiglianza di nome, ma non altro. Tuttavia si finisce anche per fare di esse una stessa persona. Notisi ora che Veronica è pure il nome della santa immagine, e che, secondo una ipotesi molto plausibile, quel nome potrebbe essere una storpiatura di vera icon. La leggenda si sarebbe formata a questo modo: una immagine di origine ignota si spaccia per autentico ritratto di Cristo sotto il nome di vera icon. Questo nome, non inteso, si cangia in un nome di donna, e col procedimento ordinario la finzione comincia a lavorargli dattorno. La Βερονίκη degli Atti di Pilato è lì per venire in soccorso alla fantasia, e la Veronica diventa tutt'uno con l'emorroissa.

Dire precisamente in qual tempo si cominciò a venerare in Roma la reliquia che tuttodì con gelosa cura si custodisce nella chiesa di San Pietro, non è guari possibile, e qui del resto non importa gran fatto. Sopravvenuto il fanatismo per le reliquie che contraddistingue il settimo e l'ottavo secolo, e cominciando già forse a levarsi la fama di altri Volti Santi, che con pretensioni eguali di autenticità si conservano ancora in altre città dell'Europa, si dovette sentire in Roma il bisogno di procacciare, a quello che quivi si venerava, una precedenza ed una superiorità incontestata. E certo il modo più ingegnoso e migliore di provvedere a ciò si era di legarne la leggenda con la leggenda di Tiberio cristiano e punitore dei persecutori di Cristo. Tale congiungimento era già fatto nel secolo VIII.

Ma qui ci si para dinnanzi un'altra leggenda che ha con quella di Tiberio e della Veronica la più stretta attinenza, e di cui non posso dispensarmi dal dir qualche cosa, la leggenda cioè della immagine di Edessa. Costantino Porfirogenito, che fiorì nel secolo X, lariferisce in

un'apposita narrazione. Un re di Edessa per nome Augaro(più comunemente Agbaro) è afflitto da gravissima e ributtante malattia. Un suo ministro, per nome Anania, recandosi in Egitto, passa per la Palestina, s'imbatte in Cristo ed è spettatore de' suoi miracoli. Testimone, al ritorno, di nuovi prodigi, riferisce fedelmente ogni cosa al suo signore. Questi allora scrive una lettera a Cristo, pregandolo di venirlo a visitare, e commette allo stesso Anania di recapitarla, il quale essendo pittore, deve, quando altro non possa ottenere, riportare una immagine di Gesù. Anania trova Cristo predicante fra le turbe e comincia di nascosto a ritrarlo; ma questi, che del tutto si avvede, lo fa venire a sè, e letta la lettera, scrive una risposta, in cui dice di non poter compiacere il desiderio del re, ma promette di mandargli un suo discepolo che gli recherà la salute del corpo e dell'anima. Poscia, lavatosi il volto, si rasciuga con un panno in cui rimane la sua immagine impressa, e quello porge ad Anania. Questi fa ritorno ad Edessa. Per via succede un miracolo, per cui una copia della immagine rimane impressa sopra una tegola. Anania consegna ad Augaro la immagine; ma non si dice che questa lo guarisca. Le due epistole, di Agbaro a Cristo e di Cristo ad Agbaro, vanno famose tra gli apocrifi, specie quest'ultima, che sarebbe l'unico documento scritto lasciatoci da Gesù, e si ritrovano in manoscritti innumerevoli, e in tutte le lingue. Lo stesso Costantino riferisce anche un'altra versione della leggenda, secondo la quale la immagine sarebbe stata recata a Edessa da Taddeo apostolo, e Agbaro avrebbe per essa racquistata la sanità. Agbaro avrebbe poi detto che volentieri si sarebbe fatto vendicatore della morte di Cristo, se non avesse temuto di contraddire, così facendo, alla intenzione di lui, che volonteroso sofferse la morte. Qui vi è il pensiero della vendetta, ma non la esecuzione.

Si vede quanti riscontri questa leggenda, considerata nelle due versioni riferite da Costantino, ha con la leggenda della Cura sanitatis. In ambedue è un re infermo, in ambedue una immagine miracolosa di Cristo; Anania somiglia molto a Volusiano e Taddeo tiene in qualche modo il luogo della Veronica. Tiberio punisce Pilato, ma lascia in pace gli Ebrei; Agbaro concepisce il pensiero della vendetta, ma non lo eseguisce. Se non che la leggenda di Agbaro non è nemmen essa tutta di un pezzo, ma si è venuta successivamente formando ed accrescendo. Eusebio nella Istoria ecclesiastica ha un racconto molto più semplice, dove non entra ancora nessuna immagine. Agbaro(Ἄγβαρος) scrive una lettera a Cristo, che gli risponde, promettendo di mandare un discepolo.

Dopo la morte di GesùTaddeo va in Edessa e compie molti miracoli, sì che Agbaro n'è informato, e lo fa venire a sè. Quando questi gli si presenta Agbaro crede di scorgere nel suo volto un non so che di divino e lo adora, con grande meraviglia degli astanti che nulla vedono di straordinario. Agbaro fa la sua professione di fede, e Taddeo lo guarisce con la imposizione delle mani. Eusebio si riporta a documenti siriaci che sarebbero stati conservati nei tabularii di Edessa. Le cose che narra si suppongono avvenute nell'anno 340 della cronologia edessena, quindicesimo dell'impero di Tiberio. Giovanni Damasceno della guarigione miracolosa non dice ancora nulla, e il primo che faccia menzione della immagine è Evagrio. Eusebio dice che Agbaro credette di scorgere alcun che di divino nel volto di Taddeo, Costantino Porfirogenito che Taddeo nel presentarsi al re si pose in fronte, come un segno di riconoscimento, la immagine che aveva recata con sè. Si scorge il passaggio, e si vede d'onde e come la leggenda tragga le fila del suo tessuto.

Ritorniamo per un momento ancora alla Cura sanitatis. Il testo, se pure non è sincrono col manoscritto dell'ottavo secolo che lo contiene, non può nemmeno farsi molto più antico. Quanto al luogo della sua composizione io credo si possa risolutamente dire che fu l'Italia, e più particolarmente Roma. Anzi tutto, Roma posseditrice della preziosa reliquia, era più di ogni altra città interessata alla creazione di così fatta leggenda, e poi accennano a origine italiana quella città di Toscana dove Pilato è mandato in esilio, e quella reminiscenza della interdictio aquae et ignis. Mentre il diritto romano era dimenticato in tutto il rimanente d'Europa, in Italia si continuava a studiare e a praticare, e Roma può vantarsi d'avere avuto scuole di diritto nei secoli stessi di maggior barbarie.

Che le leggende di Agbaro e della Veronica sieno riuscite così simili senza che l'una abbia influito sull'altra, mi par difficile di ammettere; e che l'influsso sia stato esercitato da quella, incontestabilmente più antica, sopra questa, mi par difficile di negare. Gioverà ricordare ad ogni modo che la immagine di Edessa fu, se s'ha a credere alla tradizione, recata ancor essa in Roma, dove si conserva nella Chiesa di San Silvestro. Checchessia da credere di quegli influssi, certo si è che la leggenda di Tiberio e della Veronica, la quale, essendo essa stessa composta di due parti distinte, può considerarsi ora come la prima parte della leggenda complessa della Vendetta di Cristo, è già formata nel

secolo VIII: dobbiamo vedere ora come essa si componga e si fonda con l'altra, dove si discorre di Vespasiano, di Tito e delladistruzione di Gerusalemme. Dal momento che ci furono due leggende sopra questo stesso tema della vendetta di Cristo, la composizione e la fusione loro diveniva inevitabile; esse s'incontrano nella Vindicta Salvatoris.

In questo racconto Tiberio, affetto dalla lebbra e da altri mali, non è più solo; Tito, regulus sub Tiberio in regione Equitaniae, in civitate Libiae quae dicitur Burdigalla, è afflitto ancor egli da gravissima infermità. Un Nathan Ebreo, che doveva recarsi a Roma, spinto dai venti nel porto di Libia, racconta a Tito i miracoli e la morte del Salvatore. Tito si duole della ingiusta morte e di non poterne fare vendetta in quell'ora medesima. Appena ha egli espresso questo suo rincrescimento che incontanente si trova guarito di una piaga cancerosa che aveva nel volto. Allora giura di porre ad effetto il suo proposito di vendetta, e da Nathan si fa dare il battesimo. Poi chiama a sè Vespasiano suo fratello, passa con un poderoso esercito in Giudea e comincia a distruggere quel regno. Il re Archelao di propria mano si uccide. Il figliuolo di lui, con altri principi soggetti, si rinchiude in Gerusalemme, e per sette anni sostiene l'assedio dei Romani. Ridotti per fame alla disperazione, dodicimila Giudei si danno la morte; gli altri si arrendono, e sono, parte uccisi, parte distribuiti come servi tra i vincitori, parte venduti a ragion di trenta a denaro. Tito e Vespasiano, occupata la città, trovano la Veronica, chiudono Pilato in un carcere, e spediscono messi a Tiberio. Da Roma viene Volusiano(Velosianus), il quale, udito ciò che di Cristo narrano Nicodemo, Giuseppe d'Arimatea, la Veronica, si fa consegnar da costei, non senza usare di qualche violenza, la sacra immagine, e questa rinchiusa e suggellata in uno scrigno prezioso, fa ritorno a Roma. La Veronica, che non vuole staccarsi dalla cara reliquia, lo segue. Giunto a Roma, Volusiano corre a trovar Tiberio, e succintamente gli narra i miracoli, la morte, la risurrezione di Cristo, e l'operato di Tito e di Vespasiano. Alla vista della immagine Tiberio è incontanente sanato di ogni sua infermità, e si fa dare il battesimo da Nathan, che ancor esso si trova in Roma. Si vede chiaramente in questo racconto come le due leggende, di Tiberio e la Veronica, e di Tito e Vespasiano, siensi intrecciate insieme. La malattia di Tito altro non è che una duplicazione poco ingegnosa di quella di Tiberio.

Il Tischendorf sostiene la Cura sanitatis essere più recente della Vindicta Salvatoris; ma non si vede su quali prove egli fondi la sua

affermazione. Dopo le cose sin qui discorse io credo di poter seguire risolutamente la contraria opinione.

Ma qui altri influssi, altrederivazioni cominciano a farcisi palesi. L'incerto autore del libro De bello judaico, che va sotto il nome di Egesippo, libro fatto interamente sulle Antichità e sulle Istorie di Giuseppe Flavio, e scritto nel quarto secolo, rappresenta la distruzione di Gerusalemme come una vendetta della morte di Cristo. Nella Vindicta Salvatoris, ove se ne tolga appunto il concetto generale di quella vendetta, del libro di Egesippo non è passato gran che. La Vindicta sorpassa assai lievemente sull'assedio e sulla espugnazione di Gerusalemme; ma nei racconti posteriori che da essa, come da fonte principale derivano, questa parte si va sempre più allargando, e alcuna volta diventa a dirittura preponderante. Ciò incontra in più particolar modo nei racconti francesi in versi, i quali, o perchè opera di quegli stessi troveri che componevano le chansons de geste, o perchè da queste medesime chansons de geste prendevano l'intonazione, mostrano un'assai spiccata tendenza a far primeggiare gli elementi epici ed eroici della leggenda. Allora comincia a manifestarsi l'influsso diretto di Giuseppe Flavio.

Giuseppe Flavio partecipò, com'è noto, alla guerra di cui narra la istoria; ma nel suo racconto non si trova nulla che possa dare immediato appiglio alla leggenda. Vespasiano va a combattere gli Ebrei ribelli perchè ordinatogli da Nerone. Sin dai tempi di San Gerolamo si credeva, sulla testimonianza di un passo famoso delle Antichità Giudaiche, il quale è fuor di ogni dubbio una interpolazione, che Giuseppe Flavio avesse riconosciuta la divinità di Cristo, mentre è noto che lo storico adulatore applicò a Vespasiano le profezie che si riferivano al Messia. Ma quella credenza serviva a porre in nuova luce i fatti narrati nella Istoria, e poteva porgere anche alcuna volta di questi fatti medesimi una interpretazione consentanea al presupposto della vendetta già altrimenti fermato.

Fatta tradurre, secondo si dice, da Tito, e ritradotta, poichè fu perduta quella prima versione, da Rufino d'Aquilea, o da chi altri si fosse, la Storia della guerra giudaica ebbe sin dal principio una grandissima celebrità, la quale andò mano mano crescendo col favore che, naturalmente, le dava la Chiesa. Di tale celebrità abbiamo parecchie testimonianze, fra l'altre una di Cassiodoro. Il libro fu tra i più noti e divulgati durante tutto il medio evo; già sino dal secolo XIV se ne faceva

una versione italiana. In uno dei parecchi poemi francesi che si hanno sulla Vendetta di Cristo, di Giuseppe si dice:

Il fu moult sages clers, ceste estoire escrite a;

e altrove:

Il ert moult sages clers, cortois et bien saçans,

Il sout moult bien parler et latin et romans;

e in fine:

Icis fist ceste estoire et le mist en memoire,

Puis fu il baptisies et fu el pretatoire,

Plussages clers ne fu ne mais que ss. Grigoires,

De chou qu'il vit as iex ne le doit nus mescroire.

Nel racconto di Giuseppe Flavio si trovano i fatti e le narrazioni che vanno poi mano mano ad impinguare la leggenda: la storia degli Ebrei che trangugiarono gioielli per trafugarli, quella della madre che si ciba delle carni del proprio figliuolo, la distruzione della città, ecc.

Nella Vindicta Salvatoris troviamo già tutti i principali personaggi della leggenda, pervenuta oramai all'ultimo grado di suo svolgimento. Tito è qui re di Burdigala; altrove re di Burdigala è Vespasiano, detto ora fratello, ora padre, ed anche alcuna volta figlio di Tito. L'infermità è di solito attribuita a Vespasiano nei racconti posteriori, ed è prodotta da certe vespe o anche da certi vermi che gli annidano nel naso. Questa inaudita infermità fu certamente suggerita dal nome del supposto infermo, ma da quella invece si fa venire il nome di questo. Nathan diventa qua e là Annatan, Adriano, Adrano, Albano. Volusiano si muta in Albano, Gajus, Gais. Giuseppe di Arimatea diventa personaggio sempre più importante nella leggenda. Alcuni fatti si alterano passando d'uno in altro racconto, e fra le molte versioni e redazioni della leggenda sono spesso discordanze notabili. L'anno della espugnazione di Gerusalemme è incertissimo anche nelle Cronache. Secondo alcuni Gerusalemme sarebbe stata espugnata il giorno di Pasqua; e dice Eusebio a tale proposito, che fu giusto giudizio del cielo compiersi la vendetta nel giorno in cui fu consumato il delitto. Il numero degli Ebrei morti di fame e di malattia, uccisi, venduti, varia moltissimo; ma è quasi costantemente e senza variazione ripetuta la notizia, che molti dei superstiti furono venduti trenta a denaro, in memoria di Cristo che fu venduto per trenta denari. Il fatto degli Ebrei che trangugiarono oro e furono sparati dai soldati romani, è anch'esso ricordato assai spesso.

Fuse insieme le due leggende, della guarigione di Tiberio e della distruzione di Gerusalemme, e avvenuta la già accennata duplicazione della malattia, quale motivo, non dirò capitale, ma iniziale della favola, la seconda leggenda, sostenuta da Vespasiano e da Tito, poteva novamente scompagnarsi dalla prima, e star da per sè. Di questa separazione sono parecchi esempii. Poteva ancora la seconda leggenda, arricchita di quel motivo tolto alla prima, mutilarsi dell'ultima parte, che riguarda la distruzione di Gerusalemme, e ridursi al miracolo della guarigione operata dalla santa immagine. Così nel poema latino De vita Pilati di Tiberio non si fa parola. Tito e Vespasiano infermi guariscono, ma non si dice nulla della distruzione di Gerusalemme.

Notisi inoltre che in alcune narrazioni la Vendetta di Cristo diventa come un episodio della storia di Pilato; cosìnel poema latino testè citato, nel racconto francese pubblicato dal Du Méril e ricordato di sopra, e nella Vita di Pilato inserita nell'Alte Passional.

Del resto la leggenda va assumendo qua e là, in questa e in quella letteratura, forme speciali, qualche volta abbastanza remote da quelle che si hanno nei racconti primitivi. Di alcune di tali forme farò cenno nella nota che segue in appendice al presente capitolo.

Prima di lasciare l'argomento gioverà ricordare che anche gli Ebrei inventarono sulla distruzione di Gerusalemme la loro leggenda, la quale, come s'intende di leggieri, è di spirito in tutto contrario alla leggenda cristiana. Io non istarò a riferire per intero questa strana immaginazione; ma ricorderò solo come si narri in essa che a Tito, appena approdato in Palestina, entrò nel naso un tafano che vi rimase poi sette anni interi. Esso era grosso quanto una rondine, anzi, secondo alcuni, quanto una colomba, ed aveva becco di rame e artigli di ferro. Ma può anche darsi che fra gli stessi Ebrei qualcuno considerasse la distruzione di Gerusalemme come una punizione della ingiusta morte di Cristo. Giuseppe Flavio racconta essersi creduto da alcuno di essi, che l'esercito di Erode fosse stato sconfitto da Areta re dell'Arabia, in punizione della morte di Giovanni Battista. Gli Ebrei fanatici in Roma evitano ancora al presente di passare sotto l'arco di Tito, che perpetua la memoria della rovina d'Israele.

Di altre finzioni aggiuntesi ai nomi di Vespasiano e di Tito v'è poco da dire. Nei Gesta Romanorum si narra che Vespasiano, non avendo prole, sposò in lontane contrade una fanciulla, la quale lo rese padre. Dopo alcun tempo egli fece pensiero di tornare a Roma, dove si richiedeva la

sua presenza, ma la donna si oppose a tale divisamento, minacciando di togliersi la vita. Allora l'imperatore provvide due anelli che avevano virtù, l'uno di far ricordare, l'altro di far dimenticare, e il primo tenne per sè, l'altro diede alla donna, dopo di che potè partire liberamente. Ma questa storia medesima si narra, invece di Mosè, da Pietro Comestore nella Historia scholastica, da Gervasio di Tilbury negli Otia imperialia, dal Berchorio nel Reductorium morale, da Giovanni Bromyard nella Summa praedicantium.

Di Tito narrano parecchi che, avendo fatto morire ingiustamente un cavaliere, si diede da sè in mano della vedova. Cedreno racconta che Tito essendo un giorno, dopo lungo cammino, caduto in deliquio, fu ucciso dal fratello Domiziano, che, fingendo di volergli recare soccorso, lo chiuse in una cassa piena di neve.