Ferdinand Gregorovius

"Passeggiate per l'Italia. Volume 1"

PREFAZIONE

Questo volume, al quale altri faranno seguito, fa parte di un'opera geniale, ma poco nota fra noi, del Gregorovius, "Wanderjahre in Italien", che nel testo tedesco comprende ben cinque volumi, editi dal Brockhaus di Lipsia. Di essa apparvero già in Italia, molto tempo addietro, frammenti, capitoli isolati, ma - non sappiamo veramente per quale motivo - mai se ne tentò l'intera traduzione.

Ingiusto essendoci sembrato l'oblio, cui si erano condannate queste bellissime pagine, abbiamo pensato di presentarle al pubblico italiano in una fedele ed integra versione.

Questo primo volume comprende le escursioni del grande storico della Roma medioevale per la terra latina, per la campagna romana, la marittima e per il Lazio fino alle sponde del Liri, escursioni fatte, per la maggior parte, fra il 1858 ed il 1860. Non sono fuggevoli impressioni alla Stendhal, non sono note modeste o superficiali da touriste e tanto meno vuote e patetiche chiacchierate: se in Gregorovius il sentimento del bello era profondo, se, dinanzi all'opera d'arte creata dall'uomo od a quella plasmata dalla natura, egli si entusiasmava e diveniva spontaneamente poeta, innanzi tutto e soprattutto, egli era uno storico ed in ogni cosa vedeva quindi e sentiva il passato. Anche in un'opera di personali impressioni non poteva perciò spogliarsi del suo abito di ricercatore e ricostruttore di epoche trascorse: e in queste pagine, infatti, è tutto il Gregorovius della "Storia del medio evo", è il Gregorovius che fruga fra le rovine e fra i vecchi manoscritti che raccoglie, riunisce, esamina e ricostruisce.

Leggendo queste pagine si sente che Gregorovius è nel suo dominio: egli conosceva infatti Roma ed i suoi dintorni, come pochi anche oggi la conoscono e l'amava con affetto sconfinato e ammirazione profonda di figlio: ne conosceva i monumenti, i ruderi, gli abitanti, le abitudini, il

linguaggio, la vita comune, la storia grande e tragica, la politica, le leggende, la fede. Le sue osservazioni, di un'esattezza severa, scrupolosa, sono quindi spontanee e pensate insieme, costanti e continue. La vita di mezzo secolo fa, sotto il dominio papale, molto diversa invero da quella di oggi, ma forse più caratteristica, rivive nelle pagine di questo bel libro e vi rivive intera, in tutta la sua bellezza, ricordando, più di quello che oggi ricordi, tutto un passato di lotte, di guerre, di gesta e di tragedie. Accanto al Lazio della metà del secolo xix si leva, in questo libro mirabile, per quanto non scevro di difetti e d'ingenuità, il Lazio del medio evo. Libro di rievocazione storica potrebbe dunque chiamarsi questo: sia che l'Autore ci presenti il pittoresco aspetto della campagna romana, le selvagge solitudini dei monti Ernici e Volsci, la poesia profonda delle rovine infiorate di Ninfa, o il pauroso squallore di Astura dinanzi al limpido Tirreno e le ville sepolte nelle paludi pontine, l'omerico Circeo, o il cupo maniero degli Orsini, il passato ritorna sempre in queste pagine e vi ritorna nella sua vera luce, maestoso, terribile, in tutto il suo profumo di cosa lontana.

Chi seguirà oggi lo storico tedesco nelle sue dotte escursioni, troverà probabilmente i dintorni di Roma molto diversi da quello che presentemente sono: Gregorovius visitò la nostra terra in un tempo che è, per gli avvenimenti accaduti, già lontano da noi, per quanto neppur mezzo secolo ce ne separi. Egli percorse questa regione in un momento di fermentazione e quando ancora tante barbarie non erano state commesse sotto il vano e pomposo pretesto di progresso, di miglioramento. Oggi molto, per opera della nuova gente e per le nuove necessità della vita, è mutato e ciò conferisce al libro un interesse ed un sapore ancora maggiore. Ciò, anzi, ci ha indotti soprattutto a tentare questa nuova e completa edizione delle "Escursioni per l'Italia" di Ferdinando Gregorovius cui non dubitiamo che il pubblico sarà per far lieta accoglienza.

Luglio 1906.

L'Editore.

LA CAMPAGNA ROMANA(1856)

La regione nota sotto il nome di Campagna romana varia di estensione a seconda del modo come ne vengono tracciati i confini. Nel senso più preciso della parola, si chiama Campagna di Roma la regione deserta e

grandiosa che si stende intorno alle mura della città de' Cesari e che è bagnata dal Tevere e dall'Aniene. Il suo perimetro si può tracciare ad un dipresso con i punti seguenti: Civitavecchia, Tolfa, Ronciglione, monte Soratte, Tivoli, Palestrina, Albano e Ostia. In senso più vasto, la campagna si stende sino al regno di Napoli, avendo per confini il Liri o Garigliano; di là da questo fiume sino al Sarno, che si getta nel mare presso Pompei, vi è l'altra campagna, la quale forma la bella provincia(Campania) che ha per capoluogo Capua.

La campagna di Roma non è dunque altro che l'antico Lazio, separato dal paese dei Tusci per mezzo del Tevere. Dopo Costantino il Grande cessò di esser chiamata Lazio ed assunse il nome di Campagna, comprendendo nel medio-evo una buona parte del così detto "Ducatus Romanus".

Sin dai tempi feudali questa regione era divisa in due parti, la Campagna propriamente detta nell'interno e la Marittima, che si spingeva lungo il mare sino a Terracina. La natura l'ha del pari distinta in due parti, in pianure e montagne. Le pianure sono tre, quella intorno alla città, solcata dall'Aniene e dal Tevere e coronata dai monti della Sabina, di Albano e di Ronciglione e bagnata dal mare; quella più vasta, circoscritta da una parte dai monti Volsci e Albani, e dall'altra dal mare, la quale comprende le paludi Pontine; ed infine quella interna, formata dalla valle del Sacco, che fiancheggiato dai monti Volsci, dagli Equi e dagli Ernici, dopo breve tragitto sbocca nel Liri, presso Isoletta, sotto Ceprano.

Di questa stupenda regione del Lazio voglio intrattenere i miei lettori, fra cui alcuno conoscerà certo e ricorderà(se per recarsi da Roma a Napoli avrà preso la strada per Frosinone e S. Germano in luogo dell'altra per Terracina) le bellezze della valle del Sacco e delle montagne che la circondano. Nella mia descrizione moverò da queste due città, da Genazzano cioè, luogo di pellegrinaggio ben noto, situato all'ingresso della valle, e da Anagni, antica residenza di più papi nel medio evo. Ho vissuto tranquillamente a Genazzano alcune settimane, e ne ho approfittato per conoscere la Campagna latina e per visitare le sue città ed i luoghi più importanti, di cui la conoscenza poteva servirmi per la mia storia di Roma nel medio evo. Mi trovavo nel campo preciso di quella storia, nel paese d'origine di quella grande famiglia Colonna, la quale di là sorse così imponente e, come già ho detto, in una delle residenze dei papi medioevali, tra i quali basterà nominare Bonifacio VIII, per eccitare

un sentimento più vivace per quella località. Non si spaventi il lettore, io non ho intenzione di opprimerlo con nomi e con eccessive ricerche, per quanto questo paese meriterebbe una nuova e più chiara descrizione di quelle del Nibby e del Gell, come la meriterebbero pure Anticoli, Alatri, Veroli, Soni ed Arpino, patria questa di Cicerone e di Mario, e tutti quei monti e quelle valli, belle e selvagge, colà situate, note sotto il nome di Ciociaria.

Si va da Roma a Genazzano per la via Labicana, uscendo da Porta Maggiore, dove in altri tempi cominciavano la via Labicana e la via Prenestina. Di queste due resta solo la prima, ampia strada che anticamente sboccava sotto Anagni nella via Latina, attraversava la valle del Sacco (Trerus) e poi il Liri presso Ceprano(l'antica Fregella). Il viaggiatore che esca oggi da Roma per questa venerabile porta, si trova dinanzi ad un nuovo spettacolo, perchè là sorge la stazione provvisoria della prima strada ferrata degli Stati della Chiesa, che porta a Napoli; la costruzione molto meschina è a ridosso dell'arco gigantesco dell'acquedotto di Claudio. Si direbbe che l'invenzione più recente della civiltà abbia timore di levarsi a fianco delle rovine colossali dell'antica Roma, sebbene il genio moderno di gran lunga sorpassi quello dell'antichità, sì che un Plinio, o un Traiano proverebbero oggi uno stupore pari a quello del pastore del Lazio che vede per la prima volta passare precipitosa e sbuffante una locomotiva. Eccettuata la più bella strada ferrata del mondo, quella che va da Napoli a Pompei, non ve n'ha altra che possa offrire un contrasto più vivo fra due epoche della umana civiltà, quanto questa che corre lungo gli archi coperti di musco dell'acqua Claudia, attraverso alla triste campagna, fra le antiche tombe e le torri solitarie dell'età di mezzo.

A tre miglia da Roma s'incontra Tor Pignatara, dove è la tomba di Elena, madre di Costantino; sei miglia più in là, un ponte sul ruscello Marrana(Aqua Crabra), quindi Torre Nuova con i suoi pini maestosi, castello di proprietà del principe Borghese, dove gli archeologi pretendono sia esistita la villa Popinia, di Attilio Regolo, cosa che noi non contrasteremo, accontentandoci di accoglierla con un sorriso. Il lago Regillo invece è veramente l'antico "Lacus Regillus" e l'ombra di Tarquinio viene a confermarcelo e a dissipare i nostri dubbi. Oggi non ha più acqua ed il cratere vulcanico è rimasto secco: è piccolissimo, tanto che viene chiamato il Laghetto. Dopo si trova la prima stazione, Osteria della Colonna, che è una taverna isolata al sedicesimo miglio, costruita

ai piedi di una collina che si stacca dai monti Albani, in cima alla quale sta il villaggio di Colonna, nel medio evo culla della famiglia di questo nome. Passata Osteria, la prima stazione che s'incontra è "ad Statuas", oggi S. Cesareo; essa pure è una trattoria, perduta in mezzo alle vigne, in un terreno accidentato, mal rinomato un tempo per le frequenti grassazioni commesse dai briganti. In questo luogo i banditi eran soliti attendere il passaggio delle diligenze, ad una curva della strada, pronti a saltar fuora, come dicevano, al momento opportuno. Da S. Cesario si scopre, fra bellissimi vigneti, il piccolo villaggio di Zagarolo, antico feudo dei Colonna, ai quali apparteneva tutto il territorio dei dintorni. Questo borgo dovrebbe essere, o almeno lo si crede, l'antico Pedum, che Orazio nomina nella sua quarta epistola, diretta all'amico Albio Tibullo:

Albi, nostrorum sermonum candide judex.



Quid nunc te dicam facere in regione Pedana?



Di qui, continuando a salire per qualche miglio, si giunge a Palestrina, località assai importante, che fu l'antica e gloriosa Preneste dei Romani, dove oggi si può riconoscere ancora per un certo tratto il selciato poligonale dell'antica strada.

Qui è bene che ci arrestiamo un poco, perchè i miei lettori non abbiano ad accusarmi di accennare soltanto al nome di una città così antica e degna di nota; tuttavia non mi tratterrò a lungo.

Preneste, che ora sotto il nome di Palestrina ci appare come un gruppo di case nere sul pendio di una collina di tufo, fu anticamente la dominatrice del Lazio, prima di Alba Longa e di Roma, come lo attestano le ciclopiche mura in doppia linea che ancora esistono e che proteggevano altra volta l'antica cittadella. Sorgeva questa sul punto più elevato del monte Prenestino, in una località per natura fortissima e quasi inespugnabile, dove nel medio evo fu costruito un castello. L'origine dell'antica città rimonta ai tempi favolosi, ai tempi di re Cecolo, che Virgilio(Eneide, VII, 678) pone alla testa di una legione, di cui facevano parte le genti dell'Anio, dell'Ernica e della "ricca" Anagni.

Preneste fu signora del Lazio sino al giorno in cui i Romani la

sottomisero. Più tardi la si trova spesso menzionata nella storia; Pirro la conquistò e vi si arrestò prima di muovere contro Roma; maggiore importanza ebbe ai tempi di Silla, quando il giovane Mario cercò di sottometterla; e allorchè Silla divenne padrone della città, dopo un lungo e faticoso assedio, vi fece trucidare tutti gli abitanti maschi, li rimpiazzò con i suoi veterani ed ingrandì talmente il tempio della Fortuna, uno dei più famosi santuari del Lazio, da comprendere quasi tutto lo spazio dell'odierna città che venne innalzata sulle fondazioni del tempio di Silla. Augusto portò nuovi coloni a Preneste, e tanto lui quanto Tiberio suo successore si recarono di frequente e volentieri a villeggiare nella villa imperiale che possedevano in quella città, dove trovavano pura e salubre l'aria. La villa Claudia fu anche nei secoli seguenti, durante l'estate, dimora prediletta degli imperatori, e la città si mantenne florida per lungo tempo ancora e non perdette il suo splendore che all'epoca delle invasioni barbariche, in cui prese il nome di Palestrina.

Secondo un atto del 970, che esiste tuttora, papa Giovanni XIII fece donazione del feudo di Palestrina alla senatoressa Stefania. La nipote di questa, Emilia(Imilia nobilissima comitissa), sposò verso il 1050 il padrone di Colonna e, a quanto pare, il loro figlio, Pietro de Colonna, inaugurò la dominazione della sua gente sulla città di Palestrina. Ciò che è incontestato si è che dal xii secolo questa famiglia cominciò a diventare potente in quel territorio e ad estendere a poco a poco il suo dominio dai monti Latini a quelli dei Volsci, degli Equi e degli Ernici. Palestrina fu tolta nel 1298 ai Colonna da Bonifacio VIII, loro acerrimo nemico, o con un assedio, o in seguito ad una capitolazione accettata dai due cardinali della famiglia, Iacopo e Pietro, e dai loro congiunti, che vi si erano rinchiusi; il papa, divenuto padrone della città, furiosamente ne fece abbattere le mura e le case, ad eccezione della cattedrale di S. Agapito, e, dopo aver sparso di sale le rovine, vi fece passare sopra l'aratro. Tuttavia Palestrina risorse, ma per essere distrutta di nuovo, nel 1436, dal patriarca Vitelleschi. Venuto questi in guerra con i Colonna, s'impadronì della sfortunata città e tutta la distrusse, non facendo eccezione neppure per la cattedrale. Due anni appresso anche il castello, che sorgeva in cima al monte, fu atterrato.

Sorvolo su i saccheggi che in seguito rovinarono di nuovo Palestrina. La città, tale e quale è oggi, non rimonta oltre il secolo xv. I Colonna continuarono a considerarla come loro principale residenza, con Paliano, ed ottennero anzi, nel 1571, da Pio V, il titolo di principi di Palestrina,

finchè, per i debiti, nel 1630 dovettero vendere la città a Carlo Barberini, fratello di Urbano VIII, per la somma di 775,000 scudi romani. L'ultimo Colonna signore di Palestrina fu Francesco, morto nel 1636.

L'attuale città si stende a forma di terrazze sul pendio del monte, ed è di aspetto cupo, eccezione fatta della lunga via principale, dove sono parecchi palazzi. Nel punto più elevato sorge il palazzo Barberini, magnifica costruzione nello stile del secolo xvii, oggi completamente abbandonata. Per la sua forma semicircolare ricorda la pianta dell'antico tempio della Fortuna di Silla, sulla cui area fu appunto costruito. Questo palazzo baronale che risale al periodo del maggior lusso della vita romana moderna, ha gran numero di sale, di camere, di logge, ma non offre nulla che meriti veramente di esser visto, eccettuato un grande mosaico, paragonabile a quello scoperto a Pompei e conosciuto sotto il nome di battaglia di Alessandro. Rappresenta scene campestri e religiose dell'Egitto, con gruppi di sacerdoti, di sacerdotesse, di sacrificatori, di guerrieri, di pescatori, di pastori e di cacciatori, con templi, case rustiche, animali, il tutto eseguito con somma maestria. Pare che non risalga ai tempi di Silla, come è stato affermato; è senza dubbio di un'epoca posteriore, forse di quella dell'imperatore Adriano. Questo capolavoro artistico fu scoperto nel 1638 fra le rovine del tempio della Fortuna, dove ornava probabilmente una nicchia. La famiglia Barberini lo aveva da prima posto nel suo palazzo a Roma, ma più tardi lo restituì a Palestrina, per aderire alle preghiere degli abitanti, i quali si dolevano che la loro città fosse stata privata della sua più bella rarità.

Ma ciò che è più pregevole nel palazzo di Palestrina, non è la sua antichità, ma la sua posizione, in cima all'altura, dove spira un'aria sempre fresca, pura e balsamica, e dalle cui finestre si gode una vista d'una grandiosità e d'una bellezza veramente uniche. L'occhio di lassù abbraccia la maggior parte del Lazio da un lato e dall'altro una parte dell'antico paese dei Tusci(Etruria), ora patrimonio di S. Pietro; la vasta pianura, di aspetto classico, è limitata dai monti Latini e Volsci, in mezzo ad essa si apre una larga strada in fondo alla quale si scorge luminoso il mare. All'orizzonte si scorgono le linee di Roma, la città eterna, nei vapori turchini, il monte Soratte isolato e solitario, e la catena degli Appennini, e più in là i monti della Sabina, ed a sinistra poi l'ampia e bella valle del Sacco, dominata dalle cime di Montefortino e di Segni; e più lontano le alture della Serra e tutte quelle vette dei monti di Anagni e di Ferentino, che si perdono nell'azzurro vivo del cielo. Se poi ci

figuriamo quelle pianure e quelle colline seminate di città, di ville e di villaggi così ricchi di ricordi storici, che richiamano alla memoria i tempi di Roma antica, dell'impero e del medio evo, se si pensa che di lassù si possono contemplare l'Umbria, la Sabina, il Lazio, il paese degli Equi e degli Ernici, l'Etruria, i monti Volsci ed Albani, ed infine il mare, tutto questo riunito in un solo e grandioso panorama, ci si potrà fare allora un'idea della grandiosità ed imponenza dello spettacolo che Palestrina offre. Quando i Colonna, nel medio evo, dalle finestre del loro palazzo o castello miravano i loro possessi, potevano orgogliosamente ben dirsi i più ricchi ed i più potenti signori del Lazio.

Dinanzi a questo quadro meraviglioso, sotto l'azzurro di quel cielo, in quell'aria sì pura, si prova quasi una voluttà nel ricordarsi che Palestrina ha dato i natali ad uno dei geni più grandi della musica sacra, che assunse ed illustrò il nome della sua città natale.

Più ampio orizzonte ancora si scorge, salendo dal palazzo all'antica rocca: questa sorge proprio sulla vetta del monte Preneste; vi si arriva faticosamente in meno di un'ora, per un ripido sentiero scavato nella pietra calcare. Era un dopo mezzogiorno di agosto, quando io mi ci recai, e sebbene il sole fosse ardentissimo, mi sentivo fresco e leggero, poichè l'aria fresca di quell'altura non lascia sentire la fatica. Su questa cima è un piccolo borgo, S. Pietro, che risale a tempi antichissimi, poichè si fa menzione di un convento o monastero in quel punto sin dal secolo vi. Vicino a quello rimangono le belle rovine del castello medioevale, dei muri quasi abbattuti, delle torri cadenti, invase dalla ginestra selvatica e quasi coperte di edera lussureggiante. Qui fu rinchiuso lo sfortunato Corradino, dopo la battaglia di Tagliacozzo, e di qui egli fu condotto al patibolo a Napoli.

Bonifacio VIII fece distruggere questo Castrum Montis Prenestini, antica rocca dei Colonna e centro della loro signoria nella Campagna. Si possono leggere anche oggi le lagnanze dei Colonna al papa, in un documento del 1304, dove è scritto: "Egli ha anche demolito la rocca dell'antico monte Prenestino, Rocca nobilissima, che comprendeva splendidi palazzi e mura antichissime costruite dai Saraceni (Saracenico opere), con grandi macigni, al pari delle mura delle città, ed inoltre l'importantissima chiesa di S. Pietro, edificata sull'area di un monastero. Egli ha atterrato tutto ciò, insieme ad altri palazzi ed alle case, in numero di circa duecento". Il celebre Stefano Colonna però fece ricostruire la città e la rocca, ed oggi ancora si può leggere sopra la porta della rocca

rovinata e sotto lo stemma dei Colonna, la seguente iscrizione:

MAGNIFICVS DNS STEFAN DE COLVMNA REDIFICAVIT



CIVITATEM PENESTRE CV MONTE ET ARCE



ANNO 1332

Preneste fu del resto uno dei paesi storici più antichi del Lazio, e pare sia stato dimora attribuita al favoloso re Cecolo, nome che sembra una trasformazione dell'antico re Cocalo di Agrigento, famoso per il mito di Dedalo. La veduta da questo punto dei monti Sabini, che si levano severi e maestosi, è grandiosa ed imponente.

Non chiederò a' miei lettori di seguirmi fra le rovine dell'antica Preneste disseminate nelle vigne, sotto l'odierna città, dove formano una specie di labirinto di volte e di stanze, e dove ancora si trovano preziosi oggetti di antichità; non chiederò questo a' miei lettori, perchè tali escursioni sono faticose ed in genere quasi inutili.

Palestrina ha due buoni storici, Cecconi e Petrini, le cui Memorie Prenestine sono molto preziose per lo studio della storia del medio evo romano e della campagna romana.

Subito sotto la città, la strada s'interna in una gola profonda, in mezzo ai monti popolati di lussureggianti castagni, dove scorre anche un torrente chiuso tra due rocce selvagge che tolgono ogni vista. Dopo tre miglia la strada si apre ad un tratto sopra un ponte grandioso e pittoresco, che varca uno degli affluenti del Sacco, e ci si trova allora dinanzi il cupo e bizzarro villaggio di Cave, costruito su una collina attorniata da vigneti e da giardini, da dove la vista può stendersi sino ai monti Volsci e per la pianura del Sacco.

Sulla piazza del mercato di Cave sorge una colonna, emblema della famiglia Colonna, antica feudataria del luogo. Nei dintorni crescono alberi di noce di straordinarie dimensioni, i cui frutti raggiungono talvolta la grossezza di un pomo e sono molto apprezzati in tutta la campagna romana.

Il popolo di Cave è di sangue caldo, pronto all'ira ed incline a

maneggiare il coltello, e parla un dialetto che si avvicina molto al linguaggio delle cronache del medio evo, al romanesco, e che ricorda anche il calabrese per la facilità nel sostituire alle vocali i dittonghi. Invece di si, per esempio, esso dice sei ed anche seine, con la cantilena abituale alla gente volgare; dice signoure per signore, muratoure per muratore, Rouma per Roma. Quei di Palestrina hanno invece conservato molte parole e desinenze latine; il buon vignaiolo Agapito, quando m'invitava ad andare nella sua vigna, mi diceva: venite in vigna mea(e non mia), locuzione questa che dai contadini di Genazzano era stimata cattiva e che a quelli di Palestrina pareva migliore.

Ci vogliono ancora tre miglia di strada per arrivare a Genazzano, sempre sullo stupendo altipiano che corre lungo il monte di Cave, con la vista continua dell'amena valle del Sacco, ed in lontananza con la vista di Paliano, altra dimora dei Colonna, con il suo castello interamente bianco: sui confini dell'orizzonte da questa strada si scorge inoltre l'antica Anagni, perduta quasi fra le nubi, sulla cima del monte.

Ad un tratto la strada discende rapidamente e ci conduce in una incantevole regione di collinette e di valli, che si seguono con pittoresca varietà; delle distese di olivi inargentati, dei folti boschi, malinconici, di castagni, dei campi di grano e di granturco, degli orti, delle viti che avvolgono i loro rami da un olmo all'altro, completano il bel quadro. Sulla collina che domina tutto questo paesaggio è situato Genazzano, paese lungo e nero come le rocce su cui è fabbricato. Le sue case sembra quasi che si arrampichino in processione sino alla chiesa di S. Maria del buon Consiglio, il santuario più famoso della campagna latina, o che si rechino, quali vassalli, verso il bel castello baronale dei Colonna, che corona la sommità del monte.

Una porta merlata dà accesso alla piccola città; appena entrati l'attenzione del visitatore è attratta da un rozzo affresco, dipinto sulla parete di una casa, che rappresenta la "Madonna del Buon Consiglio", sostenuta in aria dagli angeli e circondata da pellegrini dalle cappe adorne di conchiglie e col bastone ricurvo in mano, in atto di venerazione. Strade deserte menano alla piazza principale "piazza Imperiale" l'aspetto delle abitazioni nulla ha di seducente, se non qua e là qualche finestra gotica, che ricorda, con le sue sculture ed i suoi rabeschi, il periodo migliore del medio evo.

Quando si arriva in un paese appartato per dimorarvi qualche tempo (io ho villeggiato per tre mesi a Genazzano la prima volta, e vi sono

tornato ancora due volte nell'estate), uno dei primi pensieri, dopo aver trovato un'abitazione ed esservisi istallati, è quello di cercare le più belle passeggiate e quei luoghi dove si può gustare l'aria libera, il fresco, la tranquillità, e leggere e pensare senza venir disturbati. Mi sono accorto subito che a Genazzano potevo soddisfare i miei gusti rustici. Per il paese non si può, è vero, passeggiare a lungo, le vie essendo troppo ineguali e troppo strette; non v'è una pianta sotto l'ombra della quale sia possibile sedere; ma fuori abbondano ombrosi castagneti e ameni vigneti, ove è dato assaporare tutte le dolcezze della pace e della solitudine. V'è pure una strada piana, adattissima per passeggiarvi; per giungere a questa bisogna attraversare il palazzo Colonna e si arriva ad un ponte gittato attraverso un burrone e formato di un arco solo in pietra, non indegno degli antichi romani: vi si scorge la mano possente dei Colonna. Addossato allo stesso palazzo è un acquedotto, costruito questo pure da quell'antica famiglia, ora abbandonato, ma molto pittoresco, con i suoi archi che, in parte rovinati, sorgono negli antichi giardini, ridotti essi pure in misero stato.

Lungo l'acquedotto v'è una strada, per i soli pedoni, che conduce all'abbandonato convento di S. Pio.

Ricordo ancora con un certo piacere il giorno in cui, andando alla scoperta di un luogo per le mie future passeggiate, ho percorso per la prima volta la via che mena a S. Pio. La strada bella e buona sale fra i vigneti ed i boschi; tutto ad un tratto la vista si apre a destra, e si scorgono terreni ondulati, coperti di viti, e l'ampia e tranquilla valle del Sacco, circoscritta da catene montuose, ed un paesaggio dall'aspetto superbo. A fianco della via sorge una piccola altura detta Fagnano, sulla cui pendice trovasi un masso voluminoso, ombreggiato da annose piante di olivo; su quest'altura mi son procurato spesso il godimento di leggere la Vita nuova di Dante o la Consolazione della filosofia di Boezio, riposando poi alla fine di ogni capitolo i miei occhi nel contemplare quel quadro sublime che si spiegava dinanzi a me. Di lassù si gode tutto meravigliosamente: sul primo piano dei lussureggianti boschetti; più in là un'ampia valle coperta di una cupa foresta, illuminata da un sole ardente; a destra ed a sinistra delle splendide catene di montagne. Quella a sinistra è chiamata Serra, dominata dalla piramide gigantesca del Serrone, da cui si staccano monti di minore altezza, persi tutti in un mare di verdura, interrotto qua e là da numerosi villaggi e castelli. Dalla Serra si staccano delle ridenti e fresche colline, seminate qua e là di

fortezze feudali e di bianche borgate, brillanti sotto i raggi del sole. Sull'altro versante, altre colline formano come gli avamposti dei monti Volsci, le cui sommità seguono delle ardite curve e danno così un altro aspetto al paesaggio.

Su queste vette luminose e nelle nere valli, l'occhio distingue numerosi castelli, monasteri e villaggi che sembrano sospesi nell'aria. Da per tutto regna un silenzio solenne, imponente. I contorni delle cime sembrano scolpiti nell'azzurro del cielo. Dietro la Serra si scorge qua e là una punta nevosa, d'una dolce tinta violetta: è qualche vetta selvaggia dell'Abruzzo; più lontano ancora, in una nebbia d'argento, appaiono altre punte coperte di neve e nelle forme più svariate, alcune simili ad obelischi, altre simili a cupole: esse richiamano la fantasia verso regioni ancora ignote del paese dei Sanniti, o verso le sponde del Liri.

Chi potrebbe dipingere su una tela le bellezze di questo paesaggio, allorquando la tinta rossastra della sera viene ad avvolgere i monti con una porpora raggiante e l'ombra si stende su tutta la valle? La notte scende allora a poco a poco sulle meravigliose pendici della Serra e pare che s'impadronisca, l'un dopo l'altro, dei paesi per piombarli poi nelle tenebre più fitte. Gli ultimi raggi del sole sul tramonto fanno scintillare i vetri delle finestre di Serrone, di Roiate e di Piglio; quindi tutto diventa scuro, tutto scompare, ed anche il castello di Paliano si perde nelle tenebre. Un solo paese appare ancora di lontano, per gli ultimi raggi che vanno a morire sulle sue finestre; è posto sopra un colle e lo ricopre quasi tutto e per la sua estensione appare assai più importante di tutti quelli della campagna romana. Sin dalla prima sera l'ho riconosciuto, per la sua posizione, e non sono caduto in errore: è Anagni, la patria di Bonifacio VIII, che io ho salutato con i versi di Dante:

Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso,



E nel vicario suo Cristo esser catto.



L'impressione di un paesaggio diventa maggiore per il pensatore, allorchè vi sa ricollegare i ricordi storici e farvi rivivere qualche grande figura del passato: la valle latina che si stende ai nostri piedi è la chiave

del regno di Napoli, è la strada militare percorsa dai popoli invasori del medio evo. I Goti, i Vandali, i Franchi, i Longobardi, Belisario, gli Ottoni, gli Hohenstaufen, i Saraceni, i Francesi, gli Spagnoli, tutti hanno dissetato i loro destrieri nelle acque del Sacco, tutti hanno traversato questi campi virgiliani, per riversarsi poi di là dalla valle del Liri, in quel paradiso che ha nome reame di Napoli.

Genazzano non è una città molto antica; risale al medio evo. Solo il suo nome, forse, rimonta all'antichità, giacchè si vuol farlo derivare dalla Gens Genucia, la quale qui possedeva il fundus Genucianus. Non è che dai primi del secolo xi che si ricorda in alcuni documenti il nome del castello di Genazzano, come proprietà dei Colonna di Palestrina. Questo castello fu dimora di un ramo di detta famiglia e le diede il nome. Si vuole anzi che il solo papa di questa famiglia sia nato appunto a Genazzano: fu questi Martino V, Ottone Colonna, eletto a Costanza nel 1417, sotto il quale ebbe fine lo scisma di Avignone. E' fuori dubbio, per lo meno, che questo illustre pontefice appartenne al ramo dei Colonna di Genazzano e che amò risiedere solitario in questo dominio della sua famiglia. Amava il paese e vi fece costruire delle chiese e probabilmente ingrandì anche il palazzo che i suoi nipoti, più tardi, abbellirono. Ai Colonna spetta pure il vanto di aver fatto costruire l'acquedotto, di cui ho parlato; e le pittoresche rovine dei bagni che stanno in un avvallamento del terreno, dinanzi alle porte della città, rivelano, per la grandiosità del loro stile, che autori ne furono i potenti baroni. Il loro palazzo o castello feudale era un tempo vasto e magnifico; oggi cade in rovina al pari di quasi tutti i palazzi della campagna romana.

Il cortile, d'un gusto severo, col suo duplice colonnato elegante e leggero, ricorda quasi l'epoca del Bramante: ora, però, fra quelle colonne si vedono statue di marmo mutilate, senza testa, ma che, nello stato miserando in cui sono ridotte parlano con maggiore eloquenza all'animo del visitatore che se fossero tuttora intatte. Esse sono in perfetta armonia con quel palazzo deserto, e mi hanno fatto tornare alla mente certe descrizioni di castelli feudali in rovina, lette nei romanzi di Walter Scott. Una volta i Colonna avevano fatto dipingere sulle pareti di una loggia i panorami delle città comprese nei loro vasti dominî: ora questi affreschi sono cancellati, come scomparsi sono i titoli ed i diritti dei loro signori. Unico abitatore, che percorre quelle sale vaste e abbandonate, simile ad un mago o ad un incantatore, è un vecchio medico dalla barba bianca, che vi ha stabilito la sua dimora e solo ne anima la profonda

solitudine.

A Genazzano del resto non mi sono dato cura nè di antichità, nè di ricerche archeologiche, e mi sono invece abbandonato interamente al piacere di goder le bellezze naturali e di conversare con quella buona popolazione. Non volendo unicamente trascorrere il mio tempo ad ammirare l'azzurro del cielo od a parlare solo della storia delle famiglie, voglio ora discorrere, da campagnolo, dei vigneti ed accennare come qui si mangi e si beva. Il momento veramente non è il più adatto, poichè le viti sono ancora devastate dalla crittogama ed il granturco corre rischio di andare tutto perduto, non essendo da due mesi caduta una stilla d'acqua.

Un giorno, dopo aver percorso un sentiero selvaggio fra due siepi di rovi, sono arrivato in un vigneto, dove, in un luogo tranquillo e ombreggiato da bellissime piante di olivo, mi sono seduto e, tratto fuori un libro legato in pergamena, mi sono sprofondato nella lettura. Il cane della casa dove abitava, Moringa, mio compagno di passeggiata, fedele ed inseparabile che mi guidava sempre nei siti più belli, stava accovacciato ai miei piedi, quando ad un tratto cominciò ad abbaiare; alzai gli occhi e vidi alla distanza di cinque o sei passi una donna assai ben vestita, che mi fissava con segni di viva paura.

"Buon uomo, mi disse che fai tu costì?"(Nella campagna romana come nell'Abruzzo tutti generalmente si danno del tu).

"Perchè me lo chiedi, buona donna?".

"Perchè son certa che quello che stai facendo, è cosa cattiva, mi rispose essa alzando le spalle in segno di disprezzo; e soggiunse: ciò non sta bene". Vivamente stupito domandai alla donna per quale ragione io l'avevo tanto spaventata e se non aveva mai visto in vita sua un uomo leggere un libro. "Può darsi, mi rispose, ma ciò non sta bene, e chi sa poi quali siano le tue intenzioni..." e dette queste parole si allontanò gettando su me più volte sguardi timorosi e sospettosi.

Continuai a leggere, ma poco dopo mi alzai, riflettendo su quella bizzarra apparizione. La sera raccontai la cosa in casa. "Sapete, mi disse ridendo Annunziata, la mia albergatrice; quella donna ha creduto che voi foste un fattucchiero, un mago, e che foste occupato a lanciare col vostro libro in pergamena una maledizione sulla sua vigna". Risi di cuore per essere stato preso per un mago e per aver potuto trarre delle maledizioni contro i vigneti dalla Storia dei Papi del Platina.

Le viti si vanno a poco a poco riavendo, e siccome è il primo anno che sono colpite dalla malattia, i grappoli d'uva sono ritenuti, come dice questa buona gente, cosa santa. Durante il mio soggiorno a Genazzano furono nei dintorni uccise cinque persone solo per aver tentato rubare alcuni grappoli d'uva. A questo proposito voglio anzi narrare un fatto che dà un'idea del come qui sia amministrata la giustizia. Un ricco proprietario, cognato del priore o sindaco di Olevano, uccise un giorno sulla strada maestra un disgraziato che aveva rubato alcuni grappoli d'uva; compiuta questa bella impresa, si rifugiò in una sua vigna, contigua a quella della mia albergatrice. Alcuni suoi amici, siccome i figliuoli dell'ucciso avevano preso i fucili per vendicare il padre, si recarono armati dal proprietario per difenderlo. La giustizia intanto non si mosse e solo dopo varî giorni la vedova riuscì, per mezzo di protettori influenti, a scuotere il magistrato e ad aver la promessa che i birri di Olevano avrebbero arrestato l'uccisore: essi però anche allora non si mossero, perchè, si disse, erano stati comprati col denaro. Neppure i birri di S. Vito, nei quali la vedova riponeva maggiore speranza, fecero nulla.

Passarono due settimane. "Bella giustizia avete nei vostri paesi!" dissi una sera al farmacista di Genazzano, nella cui bottega, come in quella del suo collega, di Ermanno e Dorotea, solevansi radunare le persone più importanti del luogo. Il figlio dello speziale, padre della bella Sofia, allora mi rispose: "Ma che pensate mai, signore? Quell'uomo non fu mica ucciso, come si dice, dal cognato del priore; il nostro "dottorino" ed il chirurgo, hanno fatto l'autopsia del cadavere ed hanno trovato che l'infelice cadendo da un'altura si spezzò il fegato". "E' proprio così" soggiunse l'arciprete di Santa Maria del buon Consiglio. Io tacqui. "Non ne credete una parola, mi disse la mia albergatrice; quel disgraziato non si è affatto rotto il fegato, ma...", e col pollice e l'indice destro fece il gesto di chi fa scorrere del denaro. "Avete capito?" "Ho capito" risposi.

L'abbondanza di viti qui è straordinaria: per quanto l'occhio può spaziare, le vigne ricoprono tutte le ridenti colline della campagna. Le piante sono disposte in lunghe file, appoggiate a pali o sostenute da quelle canne resistenti che in Italia crescono nei luoghi umidi, o avviticchiate a piccoli olmi. Gli ammiratori di Virgilio sanno che fin dai tempi romani si soleva coltivare in queste terre la vite nei modi cui ho fatto cenno. Grande godimento è quello di poter leggere oggi in queste vigne le Georgiche di Virgilio, il capolavoro della poesia latina, libro stupendo non tanto per la forma della composizione, che è mediocre,

quanto per la purezza, la precisione, la grazia inimitabile dello stile. Ho letto e riletto quei canti fra i campi di Genazzano ed ho dovuto riconoscere che tutti i consigli, le regole ed i precetti del poeta sono oggi pienamente osservati, di guisa che pare quasi che egli abbia descritto i modi di coltivazione attualmente in uso nella campagna romana.

La vigna è tutto in questa regione: essa riunisce in sè le tre divinità dei campi: Bacco, Cerere e Pomona. Infatti, fra le file delle viti si semina il grano, e qua e là vi si piantano gli eleganti mandorli, la più precoce delle piante del Mezzogiorno, che fiorisce alle prime brezze primaverili: il mandorlo è stato cantato in una delle Cento novelle antiche, dove è detto essere stato piantato presso la tomba di Narciso da Amore, quale simbolo degli amanti. Fra le viti cresce anche l'olivo, dalle foglie sottili che paiono luminose nella luce cangiante, assumendo una tinta ora argentea ora bronzea: vedendolo levarsi sul grano, vien fatto di pensare al pane saporito, per il quale somministrano l'olio. Altrove sorgono anche dei peschi, dei peri, dei meli, dei purpurei melagrani, dei noci, dei castagni e dei fichi, dai frutti dolci come il miele. Tutte queste piante porgono una ricca scelta di frutta in ogni stagione, di modo che quando una ha finito di dare i suoi frutti, un'altra pianta offre i suoi, mentre una terza li matura e li prepara. Avendo trascorso un'intera estate nella campagna romana, ciascuna di quelle piante mi ha pagato il suo tributo, ad eccezione dell'olivo, che è l'ultimo a maturare.

La mia albergatrice possiede tre vigne, una presso Palestrina, le altre due nei monti selvaggi di Olevano, a tre miglia da Genazzano. Là sorge su un'altura, solitaria, una casetta di contadini, con una veranda aperta, ornata di fiori, ombreggiata da vecchi fichi e castagni: di lassù lo sguardo spazia sulla catena maestosa della Serra e sulla pianura del Sacco. Quale godimento passare le ore della giornata in quella loggia a respirare l'aria pura e profumata e ad assaporare di quegli ottimi frutti! Quali scegliere fra di essi? L'imbarazzo è grande, data la varietà dei frutti, uno più squisito dell'altro. Lo stesso devesi dire dell'uva: la malattia ha risparmiato questa vigna, rinomata per tutta la contrada; i tralci piegano sotto il peso tanto che è stato necessario puntellarli con pali e sostenerne i grappoli con fili di ferro. Non ricordo di aver mai visto dei grappoli e dei chicchi d'uva di tale grossezza e se volessi paragonarli a qualcosa, passerei certo per esagerato.

V'è il moscatello dorato, trasparente sotto i raggi del sole, v'è l'uva nera e quella biancastra, che serve a fare il così detto "buon vino" e

quella azzurra cupa, che fa il vino forte, rosso come il sangue. Mi son recato spesso a mangiarne e poi mi sedevo sotto un castagno ai piedi della collina, in mezzo ai mirti ed alle felci cantate da Virgilio, e, fra il profumo della menta e del serpillo, leggevo Orazio o qualche altro libro che avevo recato meco. La menta è propriamente una pianta caratteristica della campagna romana: tutti i campi intorno alla città eterna ne sono profumati. Quando poi mi trovo lontano di qui, in Toscana, o nell'alta Italia, e mi accade di vedere una pianticella di menta, il suo profumo mi richiama immediatamente alla memoria la campagna romana, e me la fa desiderare ardentemente.

In mezzo a tanta dovizia, chi vorrà credere che la popolazione sia poverissima? Osservando questa regione la si direbbe un vero Eldorado per i suoi abitatori; ma se vi si vive un po' a lungo si finisce per vedere che spesso in questo paradiso terrestre abita la miseria più squallida. Tutte queste frutta(si vendono qui venti fichi o venti noci, per un baiocco; e nelle buone annate un fiasco di vino per lo stesso prezzo) non bastano a nutrire il contadino; esso morrebbe di fame se non avesse la farina di granturco, che forma il suo cibo. La causa di questo doloroso stato di cose va ricercata nel regime agrario del paese. Innanzi tutto bisogna notare che ogni proprietario di terra deve pagare al principe Colonna, come tributo, la quarta parte di quello che il terreno gli rende. L'antico flagello dei latifundia è ciò che forma la miseria di questa popolazione; è vero che quasi ogni contadino possiede una piccola vigna, ma questa non è sufficente a mantenere la sua famiglia. L'usura poi non ha limiti; anche ai più poveri prende il dieci per cento. La più lieve disgrazia, una raccolta mancata, come avviene da alcuni anni in qua, basta ad indebitare il contadino trascinandolo nella miseria. Se egli riesce ad ottenere danaro e derrate a credito gl'interessi lo rovinano e l'avido usuraio attende il momento, in cui il piccolo proprietario per fame sia costretto a vendergli il suo fondo ad un prezzo irrisorio. I baroni ed i conventi si arricchiscono; i contadini sono ridotti alla sorte di loro vassalli e di loro mezzadri. Ho avuto più volte occasione di osservare fatti simili. La vendita ha generalmente luogo in questo modo: il contadino indebitato comincia col vendere la sola terra e si riserva le piante "gli alberi" sotto la quale denominazione sono comprese anche le viti, e continua a coltivarle ed a godere della metà e talvolta anche dei tre quarti del reddito. Trascorso però un anno appena il contadino si ripresenta all'acquirente offrendo di vendergli anche le piante ed allora diventa suo mezzadro, continua ad abitare il terreno con la sua famiglia,

a coltivarlo pel nuovo padrone, ricevendo in compenso una parte dei prodotti, e siccome non di rado questi non bastano al suo sostentamento, ricorre ancora a nuovi debiti.

Nella vigna della mia padrona, una veneziana da tutti stimata per la sua onestà, vive appunto in tali condizioni una famiglia di contadini composta di otto persone. Ho saputo che essa li aveva trovati e presi come mezzadri nel suo podere, poverissimi, e che aveva loro anticipato il denaro per vestirsi, comperare le masserizie e di che mangiare, ebbene, nonostante tutto ciò quei poveretti vivono in tanta miseria per l'eccessiva fatica ed il pessimo nutrimento, che sono stati colti tutti dalla febbre, ed è necessario soccorrerli ancora, perchè possano vivere. Solo dopo la vendemmia provano un po' di sollievo, sino a tanto cioè che dura il danaro ricavato dalla vendita della loro parte di vino.

Il vino eccita i nervi, ma non basta a nutrire i muscoli. Quello che beve il contadino è il vino peggiore, è un vinello; gli occorre dunque del pane, ed essendo il frumento troppo caro, coltiva piuttosto il granturco e si ciba di polenta. Come nella Lombardia e nelle Marche, la campagna del Lazio è coperta dalle belle piante di granturco; pare quasi che la natura abbia considerato le splendide pannocchie dorate come uno dei suoi doni preziosi e le abbia perciò ravvolte con nove involucri. Tutta la povera gente qui si nutre di polenta, sotto forma di pane, o sotto forma di focaccia, detta "pizza". Quando per la strada talvolta ho domandato a qualcuno: "Che cosa hai mangiato stamane?" mi son sentito rispondere: "la pizza". E se ho domandato ancora: "Cosa mangerai questa sera?" invariabilmente la risposta è stata: "la pizza". Ne ho mangiata parecchie volte io pure insieme coi contadini. E' così preparata: la farina vien ridotta a poltiglia; quindi viene stesa sopra una pietra liscia e fatta cuocere sopra carboni ardenti. Vien mangiata calda; tutta la famiglia si asside intorno al fuoco e prende parte al meschino banchetto. La sera mangiano dell'insalata di campo condita con un po' d'olio od una zuppa di cicoria, di cavoli od altri legumi cotti nell'acqua. Spesso l'olio manca, come è avvenuto quest'anno, in cui gli olivi, dopo aver dato l'anno scorso un abbondante raccolto, sono affatto spogli di frutti, ad imagine di ogni umana vicissitudine, in cui il bene si avvicenda senza tregua col male.

E' facile immaginarsi con quale ansietà questa gente segua le diverse fasi del raccolto del granturco. Verso la fine di luglio la pannocchia comincia a formarsi, ed allora ha bisogno di acqua. Quest'anno non

piove: il calore è straordinario e la popolazione ne è costernata e rivolge preghiere al cielo per aver la pioggia. Tutte le sere hanno luogo processioni, che mi rammentano solennità pagane, quelle feste "rubigales" della Roma antica, nelle quali si portava in giro per la via Appia, votisque vocabitis imbrem, la pietra della pioggia; e non ho mai potuto osservare queste processioni senza stupore. E' veramente strano di ritrovarsi ai nostri tempi in mezzo ad un popolo che conserva l'ingenua credenza di poter sopprimere, modificare o accelerare con preghiere e canti lo svolgimento delle immutabili leggi della natura. Ogni sera le donne di Genazzano percorrono le vie del paese a due a due, con un fazzoletto rosso in testa, che scende a forma di velo sulle spalle, e che portano sempre allorquando entrano in chiesa: le precede il clero con l'imagine di un santo. Cantando e mormorando preghiere, arrivano alla piazza maggiore e quivi con un fervore che confina col parossismo, gridano più volte: Grazie, grazie, Maria! E questo grido, ripetuto da centinaia di bocche, echeggia nell'aria. "Et Cererem clamore vocant in tecta"(Virgilio). Ogni sera s'implora un nuovo santo, ma tutti sono sordi alle ingenue preghiere.

La mia padrona - che era una donna abbastanza colta per la sua condizione, e non possedeva inoltre nessun campo seminato a granturco - una sera, mentre eravamo a tavola e ad un tratto echeggiarono fuori le grida di Grazie, grazie, Madonna! mi disse: "Perchè seccare in questo modo i santi del cielo? Finiranno col noiarli tanto, che diventeranno cattivi e non faranno davvero più piovere!" Questa febbrile ansietà finì per commuovere me pure e cominciai a desiderare ardentemente la pioggia. Tutti i giorni andavo a visitare i campi di granturco, che andavano di male in peggio. Alla fine fu portato in processione S. Antonio da Padova; mentre l'imagine veniva ricondotta al convento di S. Pio, un frate dell'ordine di S. Agostino predicava sulla scalinata della chiesa, alla luce delle fiaccole. La strada era gremita di popolo e gli ascoltatori si erano arrampicati financo su gli alberi; il monaco che gesticolava, l'imagine del santo, le croci nere, le bianche sottane dei chierici, gli scialli rossi delle donne, la tremula luce delle fiaccole, gli alberi scuri sotto il turchino cupo del cielo, e tutta una popolazione implorante da Dio la pioggia, formavano una delle scene più pittoresche che abbia mai visto. Finalmente il terzo giorno il cielo si coprì di nuvole, cominciò a tuonare e cadde una pioggia di una violenza veramente tropicale.

Sembra però che gli dei, o i santi che li hanno oggi rimpiazzati, non concedano favori senza pretendere vittime. E così avvenne in questo caso: la pioggia fu accompagnata da un terribile ciclone, fenomeno stupendo che ebbi modo di osservare, perchè mi trovavo fuori a cavallo: una massa nera di nubi scese dai monti Volsci, avvolse la valle e devastò con la grandine una vasta estensione di vigneti. Da allora, quasi tutti i giorni, nel pomeriggio, scoppiò sui monti un uragano, accompagnato da tuoni e da lampi: al sopraggiungere di ogni nuovo temporale le campane di tutte le chiese venivano suonate a stormo. Un giorno tutto il paese fu sossopra; la popolazione si riversò nelle vie; si diceva che un fulmine avesse ucciso quattro persone e la notizia fu confermata. I morti furono portati nella casa di un contadino, dove furono sorvegliati per ventiquattro ore dalla polizia. Il giorno dopo giunse, cavalcando un asinello, il magistrato, seguito dal dottorino, di cui ho già parlato, e dal chirurgo incaricato di fare l'autopsia. Non vi era dubbio, i morti erano stati veramente colpiti dal fulmine. Nella notte, furono posti su di un carretto, coperti con un drappo nero e trasportati in paese; il clero, che portava dei ceri, precedeva il carro, e quindi seguiva la confraternita della morte, avvolta in grandi mantelli neri e con torcie a vento in mano. La scena aveva qualcosa di sinistro. La popolazione tutta ne attendeva il passaggio alla porta del borgo. Allorquando il corteo vi arrivò cantando il miserere, tutti alzarono le mani al cielo, gettando tali grida di angoscia e di selvaggio dolore, che l'animo più indurito ne sarebbe stato commosso. Infatti le vittime del fulmine sono considerate con una specie di orrore, perchè vengono credute colpite dall'ira divina e si dubita della loro eterna salvezza. I parenti degli uccisi, delle donne e dei ragazzi, si staccarono dalla folla. Una donna fu colta da tanta disperazione, che a stento gli astanti riuscirono ad impedirle di gettarsi sui feretri. I cadaveri furono portati nella chiesa l'un dopo l'altro e deposti per la notte sull'impiantito, mentre le stesse scene e le stesse grida di prima si ripetevano. Non dimenticherò mai quel quadro straziante.

Questo popolo esprime ancora i suoi sentimenti con un'ingenuità primitiva, e si può dire che viva ancora allo stato di natura.

I rapporti fra i due sessi in questi paesi richiamano sempre alla memoria i costumi orientali. Per principio, gli uomini non devono aver relazione che con gli uomini, e le donne con le donne. Sembrerebbe ridicolo che un marito passeggiasse offrendo il braccio alla moglie; ed una fanciulla crederebbe compromettere la sua reputazione se osasse

fermarsi a parlare per strada con un giovane, e peggio ancora se si lasciasse accompagnare da lui. A gl'innamorati non è concesso che il "discorso" vale a dire un colloquio a gesti dalla finestra o sulla porta di casa, il "lenes sub noctem susurri" di Orazio. Sono in uso le serenate con accompagnamento di chitarra; spesso canti pastorali o le note dolenti della cornamusa rompono melodiosamente il silenzio della notte. Il popolo canta in modo meraviglioso dei semplici e lunghi stornelli che accarezzano dolcemente l'orecchio. E' un vero piacere udire nelle vigne le domande e le risposte di due innamorati che, senza tregua, come le cicale nell'estate, levano nell'aria un canto dialogato.

I matrimoni qui sono molto precoci: spesso un giovane di ventun anno sposa una fanciulla che ne ha quindici appena. Una lunga relazione, quello che dicono qui "fare all'amore" si ritrova più spesso nel popolo che nelle classi agiate e superiori, dove il matrimonio è ordinariamente un affare. Citerò un esempio, di cui sono stato testimonio. Un giovane abate di ventun anni, figlio di una ricca famiglia del luogo, desiderava abbandonare la carriera ecclesiastica e tornare allo stato secolare. Un bel giorno, un frate francescano di Civitella(qui i frati si cacciano in tutti gli affari delle famiglie) andò a trovare la madre del giovane abate e le disse: "Nel paese di Pisciano v'è una fanciulla di circa diciotto anni, che desidera maritarsi; ha mille scudi di dote ed appartiene ad una delle migliori famiglie della contrada. Se consentite a questo matrimonio, parlatene a vostro figlio". Il giovane abate accolse la proposta senza esitare, e, vestito del suo abito ecclesiastico, il domani montò a cavallo e andò a Pisciano per conoscere la ragazza. Si fidanzò subito con lei, e tornato a casa chiamò un sarto per farsi trasformare la sottana in un abito secolare; la sorella cucì in tutta fretta un paio di calzoni grigi per il giorno delle nozze, e siccome gli mancava una sottoveste, la madre mi fece chiedere in segreto di prestargliene una. Così vestito si presentò una seconda volta alla fidanzata nella casa di un contadino, dove il contratto di matrimonio fu subito firmato. Tre settimane dopo la sposa arrivò in una vettura, recando seco due grossi sacchetti pieni di monete, e tosto si celebrarono le nozze! Lo sposo prima della cerimonia non aveva visto che due volte, e ciascuna volta per pochissimo tempo, la compagna di tutta la sua vita. Fu preparata loro nella casa dei genitori del giovane una cameretta, o, per essere più precisi, non vi si pose che un letto colossale, e niente mutò nell'esistenza di quella gente.

A questo proposito, voglio accennare ad una strana usanza del Lazio.

Una sera udii sulla piazza un rumore curioso ed assordante, prodotto da ogni sorta di strumenti che io però non riuscivo a definire; uscii e vidi tutti i ragazzi di Genazzano riuniti innanzi ad una casa, intenti a darvi una specie di concerto. Mai, neppure nelle università tedesche, io avevo sentito un complesso di suoni così discordanti: gli uni soffiavano in conchiglie marine ricavandone orribili fischi, un altro dava di fiato in un corno di bue, certi picchiavano con falci sopra zappe e padelle, alcuni agitavano a tutta forza pezzi di ferro vecchio di ogni specie legati insieme con una corda, un altro ancora faceva ruzzolare per terra una vecchia casseruola attaccata ad una funicella. Dieci o dodici monelli scampanellavano rumorosamente con quelle campane che si appendono al collo delle vacche. "Di grazia, chiesi ad un signore che assisteva ridendo alla scena, che significa questa musica infernale?" Mi rispose che in quella casa abitava un vedovo passato a seconde nozze e gli facevano la "scampanellata". Così si chiama questa barbara usanza dalle campane che di solito portano le vacche. In tutto il Lazio ogni qualvolta un vedovo od una vedova si rimarita, per tre sere si usa far loro un simile concerto. Durante il mio soggiorno a Genazzano ne sono stato spettatore, ed ho tre volte potuto vedere una folla di ragazzi, preceduta da un monello con una zucca appesa a foggia di lanterna ad un bastone, percorrere le strade, come un esercito di diavoli che avesse di notte invaso quel pacifico villaggio.

Perchè Genazzano è veramente un luogo pacifico; i suoi abitanti sono d'indole dolce ed anche più superstiziosi dei loro vicini; questo carattere deriva dall'importanza religiosa del paese che è un luogo famoso di pellegrinaggio, avendo oggi nel Lazio la sua chiesa l'importanza che ebbero nell'antichità il tempio della Fortuna a Preneste e il santuario d'Anzio. Ho assistito alla grande festa della Madonna di Genazzano, l'8 settembre; posso dunque parlarne con cognizione di causa. Prima però voglio accennare alla leggenda della sacra imagine, che ha grande analogia con quella della Santa Casa di Loreto.

A Scutari, nell'Albania, nella stessa epoca in cui la Santa Casa di Nazareth veniva dagli angeli trasportata per l'aria a Loreto, apparve un'imagine della Madre di Dio, discesa non si sa se dal cielo o colà portata da ebrei fuggiti da luoghi remoti. Comunque fosse, fu chiamata "Madonna del Buon Officio" o del "Buon Consiglio". Ora avvenne che nel 1467 due pellegrini, che volevano fuggire dai Turchi e ritornare in Italia, si prosternarono dinanzi a quella santa imagine e le chiesero di

proteggere il loro viaggio: con loro grande stupore videro allora levarsi al posto dell'imagine una nuvoletta bianca che verso sera prese la direzione di occidente. Essi la seguirono presso la spiaggia del mare Adriatico, ed avendo la nuvoletta proseguito il suo viaggio sopra le onde, i due pellegrini traversarono dietro a quella il mare a piedi asciutti, le tennero dietro sempre, finchè nelle vicinanze di Roma, disparve ai loro occhi. Avendo però appreso che in Genazzano era apparsa un'imagine della Madonna, vi si recarono e la riconobbero per quella vista a Scutari.

Da quel tempo la Madonna di Genazzano, detta del "Buon Consiglio" cominciò a fare miracoli; le venne costrutta una chiesa e di fianco un convento, dove i frati di S. Agostino s'impadronirono di questo santo tesoro, non meno produttivo della Madonna dei frati agostiniani di Roma, giacchè questa di Genazzano gode in tutta la campagna romana una fama pari a quella degli antichi oracoli pagani. Due volte all'anno, nella primavera e nell'estate, vien celebrata la sua festa, ed allora piovono le offerte in danaro ed in oggetti preziosi e siccome anche i più poveri recano il loro obolo all'altare della Madonna, si può dire che essa prelevi sulla campagna romana un tributo maggiore di quelli dello Stato. Mi fu detto che i doni più belli siano portati al santuario dalle molte confraternite sparse per tutta la campagna; ogni fratellone sborsa cinque baiocchi al mese alla cassa comune, in modo che vi sono delle confraternite che arrivano a raccogliere sino a cento scudi. Il reddito annuo del santuario si può approssimativamente valutare a 7500 scudi.

L'imagine è posta in una chiesa ben decorata e pulita, in una cappella illuminata da varie lampade, chiusa da un cancello di ferro: il quadro è quasi sempre coperto da un velo di seta gialla. Si dice che, portata dagli angeli, anche in quella chiesa non si sia mai posata sulla pietra e che resti sospesa nello spazio, sorretta da mani invisibili. Io l'ho vista più volte scoperta, ma non ho mai potuto comprendere in qual modo sia sospesa.

I pellegrini cominciano ad arrivare la vigilia della festa, ed allora il paese e i dintorni si animano e nell'aria echeggia senza posa il canto delle litanie. Le strade sono percorse da compagnie di pellegrini, che giungono in buon ordine, vengono dall'Abruzzo, da Sora, dal Liri, e per la maggior parte dalla campagna latina. Si direbbero rinnovate le feste antiche di Giove Laziale, tanti sono i visitatori, dissimili fra loro per costume e per dialetto. Vederli discendere dalle colline, sentendoli cantare l'"Ora", gli uni per la via, gli altri lungo il fiume a traverso i

viottoli dei campi, vestiti di rosso, di verde, di turchino, tenendo in mano il lungo e ricurvo bastone del pellegrino, è in quel magnifico paesaggio uno spettacolo veramente degno dell'ammirazione dell'artista, del poeta e dello storico.

Il giorno in cui dovevano arrivare i primi pellegrinaggi sono uscito ad incontrarli a cavallo per godere completamente questa scena popolare, che aveva per me un interesse storico riportandomi al medio-evo. La comarca di Roma, a cui appartiene tuttora Genazzano, termina a due miglia dalla città, ed ha per confini un braccio del Sacco, che si traversa su di un ponte in pietra, ponte Orsino, famoso un tempo per le aggressioni dei briganti. Al di là comincia la legazione di Frosinone. In questo punto le colline scendono dolcemente verso il fiume ed agli occhi si presenta il quadro stupendo della pianura, dei monti Volsci, della Serra e delle alture di Olevano, ai cui piedi si stendono dei ricchi boschi. Il luogo era il più adatto per aspettare i pellegrini; qui entrano nel territorio del santuario, fanno breve sosta, e vi entrano ginocchioni cantando fervorosamente dei cori; poi traversano il ponte cantando e trascinandosi sulle ginocchia, in doppia fila, gli uomini da una parte e le donne dall'altra. Dirigeva i cori una vecchia, la quale alzandosi dopo aver traversato l'intero ponte in ginocchio, gridò con voce sonora un "Evviva Maria!" cui rispose unanime il coro. Quindi la processione si mise in moto di nuovo, e quantunque quel continuo canto dovesse stancare, v'era sempre un uomo od una donna che riprendeva la litania. Quel canto monotono ed uniforme, che è la più semplice espressione del sentimento religioso di questa gente e che si avvicenda come il movimento regolare delle onde, esercita una profonda suggestione su quella folla. Sembra quasi che la processione prosegua il suo cammino, cullata da quest'armonia melanconica, più leggera e più regolata e che il canto regoli i movimenti del corpo e le impressioni dell'animo, tenendo gli uni e gli altri costantemente diretti verso la meta del pellegrinaggio. Ho notato che le pause erano sempre brevissime e che allorquando negli intervalli i pellegrini cominciavano a tacere o a favellare fra loro, la conduttrice del coro riprendeva subito il canto.

Lo spettacolo di un pellegrinaggio produce sempre, anche su chi non appartiene alla religione di coloro che lo compiono, una grande impressione, soprattutto quando l'illusione non è turbata da piccoli inconvenienti inevitabili in una riunione di tanta gente. Questi inconvenienti si verificano meno nei pellegrinaggi del sud che in quelli

del nord; la serenità del cielo, la temperanza e la sobrietà delle popolazioni del mezzogiorno, valgono ad allontanare molte cause dei mali del settentrione; l'ordine stesso in cui procedono le processioni, la bella foggia di vestire delle donne, il loro bellissimo portamento e la loro grazia naturale, esercitano una benefica influenza, anche su gli animi più vili, e tengono lontana ogni volgarità; ed infine la decenza e quel sentimento innato di rispetto, che è proprio di tutto il popolo italiano, vale più di ogni altra cosa ad impedire disordini. Fra tutte quelle migliaia di uomini e di donne che sfilarono davanti a me, sia nell'andata al santuario, come nel ritorno, in tanta diversità di genti, di dialetti e di costumi, io non ho notato mai un solo atto villano o volgare.

Bisogna anche ricordarsi che questo popolo, fortemente imbevuto di sentimenti religiosi, non crede nulla più importante e più solenne di un pellegrinaggio. Quando ha faticato e sofferto per dodici lunghi mesi quando mali e colpe di ogni sorta pesano sulla coscienza, allora prende per un paio di giorni il bordone del pellegrino, scende dai suoi monti selvaggi, abbandona il suo grave lavoro, lieto di muoversi una volta almeno, di sentirsi libero in compagnia dei suoi conterranei riuniti tutti per lo stesso fine. Scendono al piano costeggiando il Sacco, come i gru, che van cantando lor lai: lo spettacolo ha veramente qualche cosa di medioevale. Pensavo a quelle schiere di pellegrini che un tempo venivano a Roma per il giubileo e ripetevo fra me e me i bei versi del sonetto della Vita nuova:

Deh! peregrini, che pensosi andate,



Forse di cosa che non v'è presente;



Venite voi di sì lontana gente,



Com'alla vista voi ne dimostrate?



Camminavano in gruppi di dieci, venti, cinquanta, cento persone. Ve n'erano di tutte l'età: vecchi che si appoggiavano sul bastone, servito loro per cinquanta volte almeno su quella stessa via che ora percorrevano forse per l'ultima volta; nonne con i loro nipotini, floride fanciulle, giovani robusti, ragazzi e perfino bambini lattanti, portati dalle madri sulla testa. In una di queste processioni vidi passare una giovane sposa che portava sulla testa un cestino, entro cui giaceva un bimbo che sorrideva graziosamente, con gli occhi spalancati, quasi si beasse dello splendore del sole. La maggior parte delle donne recava in capo un paniere con le provvigioni od un fardello di vestiti, e colla loro varietà aggiungeva nuova bellezza allo spettacolo. Chi avesse potuto leggere nell'anima di tutti quegli esseri, vi avrebbe trovato l'innocenza accanto alla colpa, il vizio accanto al pentimento, il dolore e la virtù, tutto il bene ed il male che si avvicendano nel cuore umano.

E' come una grande e bella, ma seria e solenne mascherata, che si svolge in un magnifico quadro, con un succedersi continuo di nuovi costumi, di colori, di fisonomie diverse; le compagnie dei pellegrini si succedono le une alle altre, nei costumi dei loro monti, delle loro valli. Ve ne erano di Frosinone, di Anagni, di Veroli, di Arpino, di Anticoli, di Ceprano e persino delle napoletane di Sora.

Osservate quest'ultime! Che splendide figure dall'ovale più puro, dalla pelle olivastra! Le donne hanno un aspetto strano, si direbbero arabe; attorno al collo portano delle collane di corallo o delle catene d'oro; dei pesanti orecchini adornano le orecchie delicate; un fazzolettone bianco o nero, a lunghe frangie, avvolge loro la testa e le spalle, sì che paiono madonne; una camicia bianca, pieghettata, ricopre loro il petto, stretto in un basso bustino di color rosso scarlatto. Indossano una gonnella corta, rossa o turchina, ornata di un orlo giallo. E che grandi occhi neri, dalle sopracciglia corvine ed arcuate, brillano in quei volti!

Ecco i pellegrini di Ceccano! Le donne portano un busto di color amaranto, un lungo grembiale dello stesso colore, ed in testa un fazzoletto bianco, che ricade sulle spalle. Gli uomini hanno il cappello a punta ed una giacca color amaranto, ed attorno ai fianchi una fascia multicolore.

Ecco poi quelli di Pontecorvo! Le donne sono superbe e maestose; vestono interamente di rosso e portano in testa un fazzoletto dello stesso colore. Le pellegrine di Filettino vestono con molta semplicità, coi

busti di stoffa nera: costume semplicissimo, ma grazioso e pulito.

Ecco infine i "ciociari!" Uomini e donne del paese dei sandali. Vengono probabilmente da qualche villaggio vicino a Ferentino, forse da più lontano, dalle frontiere napoletane, dalle sponde del Liri o del Melfa. E' un paese di splendidi monti dall'aspetto selvaggio, che si stendono da Ferentino in su verso le province napoletane. Il popolo là porta le "ciocie", calzatura molto semplice che dà al paese il nome di "Ciociaria." Trovai in uso questa calzatura anche prima di Anagni. Impossibile concepire una calzatura più primitiva, e si può anche dire più comoda di quella: ed io ho sinceramente invidiato ai ciociari le loro ciocie. Esse consistono in una semplice suola di cuoio di asino o di cavallo forata; si avvolgono intorno al piede e si fissano per mezzo di cordicelle passate attraverso ai buchi, in modo che il sandalo quasi lo fascia; la gamba poi è avviluppata sino al ginocchio da striscie di tela grigia. Così calzato il ciociaro si muove liberamente nei campi e sui monti, dove zappa la terra o conduce a pascolare le sue pecore e le sue capre, vestito del suo bigio mantello, o di una pelle di montone, con la piva appesa al fianco. Si vede subito che quei sandali sono classici. Diogene li avrebbe certo portati, se non fosse andato a piedi nudi, e Crisippo ed Epitetto li avrebbero potuti celebrare in un trattato sulla semplicità del saggio e sulla sua moderazione dei desideri. Quando questa calzatura è bene aggiustata e quando le striscie di tela sono ancora nuove, è bella a vedersi; ma, quando le ciocie e le striscie sono logore e vecchie, prende un aspetto povero e cencioso. E siccome in tale stato sono generalmente le ciocie di questa gente, così il popolo che le porta, appare molto miserabile ed il suo nome vien disprezzato e talvolta usato come una vera ingiuria. Un abitante di S. Vito, che mi faceva un giorno ammirare lo splendido panorama che si gode da quel paese, sorridendo con un certa aria di sprezzante superiorità mi diceva: "Guardate, signore, laggiù è la Ciociaria!"

I ciociari portano delle lunghe giacche d'un rosso acceso, e un cappello di feltro nero a punta, per lo più guarnito con una penna colorata, o con un nastro o con un fiore. Fra di essi, come del resto in tutta la campagna romana, moltissimi hanno i capelli biondi e gli occhi celesti. Portano i capelli molto corti sulla nuca, come i contadini prussiani, e ne lasciano invece cadere due lunghe ciocche sopra le tempie.

Mettiamo addosso al ciociaro un lacero mantello, o una pelle di montone bianca o nera, ed avremo completato il suo ritratto, ma per

carità non diamogli in mano un fucile, altrimenti ci assalterà al passo di Ceprano gridando "Faccia in terra!" e con sorprendente destrezza vuoterà le nostre tasche.

Le donne portano esse pure i sandali, un abito corto colorato, un grembiule quadrato di lana, uno scialle bianco o rosso in testa, ed infine il busto che completa in tutto il Lazio ogni costume femminile. E' una specie di corsetto in tela, trapunto, duro come una sella, alto e sostenuto sulle spalle da strisce, esso fascia e sorregge il seno simile ad una corazza che custodisce la virtù, come un baluardo solido, ma largo tanto da poter servire da tasca.

La vigilia della festa, le comitive dei pellegrini diventano più numerose; a poco, a poco non si ode più che il canto melanconico delle processioni che man mano arrivano in paese e che si recano per le anguste vie alla chiesa. Giunti alla loro meta tutti sembrano aver dimenticato ogni stanchezza, l'esaltazione ed il fervore religioso anima i loro volti, si prosternano davanti alla chiesa, con le mani giunte intorno al bastone e col loro fardello ancora in testa, e ad alta voce cominciano a cantare le litanie; poi si rialzano gridando a squarciagola "Grazie, Maria!" e salgono con i ginocchi la gradinata. Qua e là si vedono delle donne baciare o leccare colla lingua il cammino percorso, spettacolo abbastanza ripugnante, ed il ricordo di Carlomagno, che salì esso pure in questo modo bigotto i gradini di S. Pietro, non vale a mitigare il disgusto.

Non mancano neppure, di quando in quando, delle scene orribili; ho visto un giorno, per esempio, un infelice che si trascinava con le mani e coi piedi; fu portato in chiesa dentro una coperta, mentre urlava come un lupo. Mi dissero che egli era colpito da quella malattia che nel Lazio è chiamata del lupomanaro. Un'altra volta ho visto una donna che è rimasta a lungo dinanzi alla cappella della Madonna urlando furiosamente: mi hanno narrato che era indemoniata.

I pellegrini si trascinano senza posa sui ginocchi per la navata laterale della chiesa e passando davanti alla cancellata cantano, pregano, e gridano a squarciagola: "Grazie, Maria!" e questo grido risuonava con tale spaventosa energia che il febbrile delirante fervore, da cui era ispirato, mi fece una profonda impressione.

I ceri ardono, la notte è discesa, i pilastri della chiesa gettano grandi ombre sul pavimento, lasciando alcune figure nella completa oscurità, mentre altre restano avvolte in una magica penombra ed altre ancora sono illuminate da riflessi di luce. I pellegrini, stanchi, giacciono, in

pittoreschi gruppi, sul nudo terreno, attorno alle colonne, sui gradini degli altari davanti alla cappella; ed i vari costumi, le diverse età, l'espressione delle loro fisonomie formano un quadro vivente, che punge la curiosità ed invita alla riflessione. Intanto un frate agostiniano, seduto davanti ad un piccolo tavolo, vende indulgenze e riceve offerte per le messe, incassando con indifferenza il danaro del povero.

Davanti alla chiesa stanno altri gruppi seduti o distesi sulla nuda terra, mentre nuovi pellegrini arrivano ancora. Si succedono senza posa durante il giorno, e nella notte che precede la festa, e l'accento solenne dell'inno latino rompe il silenzio, mentre sulla piccola città sembra regnare una atmosfera di mistica e profonda melanconia. Eppure questo torrente che spinge tante migliaia di persone da lontani paesi verso la stessa meta, ha in sè qualche cosa di consolante, come qualunque manifestazione armoniosa dell'anima umana, anche nel dolore.

Le case del paese non bastano ad alloggiare tutti i pellegrini, e a tarda notte si vedono questi uomini, abituati ai disagi, distesi a gruppi sul selciato duro e disuguale. Se ne vedono nelle strade, in mezzo alle piazze, intorno alle fontane, offrendo, in proporzioni ridotte, lo spettacolo di una fermata notturna di un popolo migrante. Ma è un'antica legge celeste che piova, quando l'umanità si riunisce per solennizzare qualche festa, perchè non vi è maggior burlone del cielo, quando guarda di lassù il bizzarro agitarsi dei miseri mortali. I pellegrini si erano appena coricati alla meglio, quando cominciò a piovere. Allora avvenne una fuga generale in mezzo alla confusione ed ai lamenti, tutti in massa si precipitarono alla ricerca di un portone o di un tetto sporgente ove ripararsi. E quanti di quegli infelici, esausti dalla fatica, per miseria o per averne fatto il voto, rimasero digiuni!

La mattina dopo, la festa incomincia con la messa solenne e con una specie di vendita religiosa. All'entrata della chiesa vengono venduti gioielli d'oro, imagini sante, corone, ampolline della grossezza di un dito, contenenti olio delle lampade che ardono davanti al quadro della Madonna. La folla le acquista avidamente per un baiocco, quale rimedio infallibile contro tutte le infermità.

Nel pomeriggio, musica suonata da una banda sulla piazza, e poi l'inevitabile tombola o lotteria, ed alla sera fuochi artificiali. Quindi anche i pellegrini ballano allegramente sotto le piante del parco, ma la maggior parte preferiscono far ritorno alle lor case, appena recitate le preghiere ed offerti i loro doni. Si vedono ripartire cantando, in gruppi come

quando sono venuti, tutti infiorati da quei mazzi di rose e garofani artificiali, che si vendono in tutte le feste pubbliche del mezzogiorno. Nel ritorno, giunti al punto da dove per l'ultima volta si può vedere Genazzano, s'inginocchiano, con le mani appoggiate ai loro bastoni e dicono in silenzio la preghiera d'addio. Tale scena, all'aria aperta mi è sembrata la più bella di tutte. Mi fermai con piacere ad osservare le belle donne che s'inginocchiavano con una mossa graziosa collo sguardo rivolto verso quel santuario da cui si congedavano portando nel cuore qualche consolazione.

Lasciamo noi pure Genazzano e rechiamoci a Paliano e ad Anagni.

* * *

Paliano, città di 3700 abitanti, è situato a circa sei miglia di distanza da Genazzano, su una collina rocciosa, ombreggiata da boschi e coltivata a vigne, isolata in mezzo alla campagna. Vi si arriva per una buona strada, attraverso a campi di granturco; alla sua sinistra si leva la gran piramide del monte Serrone, che imprime a tutta la contrada un carattere di grandiosità e di maestà.

Più comodo e più bello è il sentiero, praticabile anche a cavallo, che conduce in cima alla collina rocciosa. Lassù sorge la piccola e solida fortezza bianca, che fu una posizione importante un tempo, disputata spesso nelle guerre della Campagna romana e nelle lotte che i Colonna sostennero con i Papi. Alta e scoscesa non è difficile difenderla anche contro l'artiglieria. Ora è ridotta a prigione e contiene duecento galeotti, custoditi da una compagnia di cacciatori pontifici. La città si stende sotto al castello e lo circonda. Le strade e le piazze sono strette, le case nere e di miserabile aspetto, eccettuato qualche edificio che ha pretesa di palazzo; non vi ha altro movimento che quello dei contadini che si recano ai campi e ne ritornano.

Mi occuperò ora del palazzo dei Colonna, un ramo dei quali assunse il nome di Paliano e ne diventò poi il principale. E' un bell'edificio di tufo grigio, di forma quadrangolare, formato da due soli piani, ma vastissimo e collocato all'ingresso della città, sul fianco della collina, da dove si gode una vista stupenda. Lo stile, elegante, appartiene al principio del xvii secolo, ciò che dimostra che dovette essere restaurato in quel tempo.

Quando si conosce la storia degli illustri personaggi della famiglia Colonna, e si sa l'influenza da loro esercitata sulle vicende di Roma e d'Italia, non si può fare a meno di visitare con vivo interesse Paliano.

Prima di entrarvi ricordiamo brevemente la storia dei più illustri tra i Colonna.

Non è molto che lo scrittore romano Antonio Coppi, ben noto come continuatore degli Annali del Muratori, ha pubblicate le sue Memorie Colonnesi(Roma, 1855), opera seria, piena di notizie importanti per la conoscenza della famiglia Colonna e di Roma nel medio evo. Quest'opera fornisce eccellente materiale agli studiosi, tolto dall'archivio dei Colonna. D. Vincenzo Colonna pose a disposizione del Coppi questo archivio, come già lo aveva messo a disposizione di un altro storico della sua famiglia, il conte Litta di Milano. Fra i molti archivi delle famiglie nobili, che in Italia abbondano, quello dei Colonna occupa per importanza storica uno dei primi posti. Irrequieta, bellicosa ed ambiziosa, questa famiglia, sorta sui primordi del medio evo, riassume in sè la storia di Roma e dell'agro romano. Divenuta ricca con l'ingrandimento dei suoi dominî, non potè però mai, come altre famiglie anche meno antiche, soprattutto nell'Italia settentrionale, erigere un principato indipendente, perchè i suoi possessi erano nello stato del Papa; da ciò guerre interminabili con la Santa Sede ed una tendenza a parteggiare per gl'imperatori. La casa Colonna brillò assai più in guerra che nella pace, sebbene abbia dato alla Chiesa un papa, Martino V, che pose fine allo scisma, e molti cardinali. Poco coltivò le scienze e le lettere; in queste, più dei Colonna, brillarono alcuni papi stranieri e le loro famiglie, che è inutile qui ricordare. Appena, nella loro lunga storia, si trovano alcuni nomi che si riattacchino alle scienze, alle lettere ed alle arti: ricorderemo solo i rapporti del Petrarca col vecchio Stefano Colonna e coi suoi colti e valorosi figli, ed il nome dell'illustre poetessa Vittoria Colonna, contemporanea di quelle due bellissime donne, Giulia Gonzaga e Giovanna d'Aragona, che entrarono per matrimonio nella sua famiglia.

L'origine di questa famiglia è incerta: Sembra però che essa discenda da quei conti di Tuscolo, che erano potenti in Roma nel x secolo. Secondo questa ipotesi, il capostipite dei Colonna sarebbe il margravio Alberico, marito della famosa Marozia, morto nel 924, cinque discendenti del quale, quasi l'un dopo l'altro, occuparono il seggio di S. Pietro. Tuttavia il nome dei Colonna non appare la prima volta che ai primi del secolo xii, con Pietro Colonna, di cui ho parlato. In questo primo periodo noi li vediamo nominare già come signori di Zagarolo e di Monte Porzio. Siano o no i Colonna discesi veramente dall'antica casata dei conti di Tuscolo, scomparsi quando questa città fu distrutta dai Romani(1191), quello che

è certo si è che essi vennero da quei monti e che a poco a poco estesero i loro dominî nella campagna romana, da Monte Fortino, cioè dai monti Volsci, sino ai monti Equi ed Ernici e sino alla Sabina. Palestrina fu la loro sede principale, e tutti i paesi circostanti passarono sotto la loro giurisdizione.

Nel secolo xiii cominciò la loro potenza e la loro grande influenza in Roma, dove già da molto tempo possedevano un palazzo presso la chiesa dei Santi Apostoli, nella regione di Via Lata. Cardinali di questa famiglia ebbero parti importanti in questo secolo, e la storia degli Hohenstaufen ricorda spesso i Colonna come ardenti ghibellini in Roma. Chi ignora la parte da essi avuta nella caduta di Bonifacio VIII?

Nel xiv secolo, durante l'esilio dei papi ad Avignone, lottarono senza tregua per la signoria su Roma coi potenti Orsini, che d'allora in poi, furono loro costanti nemici ed amici dei papi. Rifulse in questo periodo, quale capo della casa, il vecchio Stefano Colonna. A lui Petrarca indirizzò sonetti ed epistole.

Fu in questo secolo che si separarono i due rami di Palestrina e di Paliano.

Nel secolo xv crebbe ancora la potenza della casa, prima per i grandi favori di Ladislao re di Napoli e di Giovanna II, e poi per l'elezione a papa di Ottone Colonna, sotto il nome di Martino V. I Colonna ottennero dunque molti feudi nel reame di Napoli, principalmente il ducato dei Marsi(da cui presero il titolo di: Marsorum dux), la contea di Celano e quarantaquattro villaggi e castelli.

Ai tempi di Sisto IV vennero in guerra con la Santa Sede; Girolamo Riario, nipote del papa, assediò Paliano, ma l'assedio fu tolto in seguito alla morte improvvisa del pontefice. Del pari guerreggiarono con Alessandro VI, e durante quegli anni la campagna romana fu quasi sempre desolata dalle armi. Fu il ramo di Paliano che in questo periodo diede gli uomini più illustri della famiglia. Ricorderò solo Fabrizio, primo connestabile della casa, e i suoi due figli, Ascanio(1522-1553), marito di Giovanna d'Aragona, e Vittoria, moglie del marchese di Pescara, Ferdinando d'Avalos. Marcantonio, figlio di Ascanio, rinomato come uno dei vincitori della battaglia di Lepanto. Nessuno poi ignora quale parte ebbe prima di ciò Pompeo Colonna nelle disgrazie di Clemente VII e nel sacco di Roma.

Verso la metà del secolo xvi i Colonna furon minacciati da un grave disastro: venuti in dissidio con Paolo IV, furon da questo papa, di natura

irritabile, spodestati di tutti i loro dominî, come già lo erano stati da Bonifacio VIII. Il pontefice eresse Paliano in ducato e lo donò a suo nipote Giovanni Caraffa. Marcantonio, capo della casa Colonna, si difese e, con l'aiuto del duca d'Alba, percorse la campagna romana per riconquistare i suoi possessi: da ciò ebbe origine la famosa guerra fra Paolo IV ed il re di Spagna, conosciuta sotto il nome di "Guerra della Campagna". Essa terminò nel 1557 con la pace di Cave(presso Genazzano), negoziata fra il duca d'Alba e il cardinale Carlo Caraffa. Solo dopo la morte di Paolo IV però, Marcantonio potè rientrare nel possesso de' suoi beni; tutti coloro che se ne erano impossessati fecero un'orribile fine. Giovanni, duca di Paliano, fu decapitato a Roma nella Torre di Nona, e il cardinale Caraffa fu strangolato in Castel Sant'Angelo.

Marcantonio può ritenersi come l'ultimo dei Colonna potenti: egli morì a Paliano nel 1584. Dopo di lui le cose cambiarono; i baroni cessarono di guerreggiare col papato ed i loro beni cominciarono ad assottigliarsi a poco a poco, per le vendite a cui furono costretti dai debiti. La gloria di Lepanto era costata loro ben cara; mi diceva Don Vincenzo Colonna, che Marcantonio contribuì a questa guerra con un milione, e che d'allora in poi la famiglia non si era mai più rialzata. Fin dal 1622 vendettero gli antichi possedimenti di Colonna e di Zagarolo, e nel 1630 dovettero vendere Palestrina, ora in possesso dei Barberini. La famiglia venne man mano declinando e per sempre: il ramo di Paliano esiste ancora; il suo capo attualmente è Giovanni Andrea, marito d'Isabella Alvarez di Toledo, ma si è trasferito da Roma a Napoli, residenza abituale dei Colonna. La maggior parte dei loro feudi è pure nel regno di Napoli, avendo Filippo III Colonna(morto nel 1818) posseduto colà sessantadue feudi, ventisette negli Stati della Chiesa ed otto in Sicilia, con 149,403 vassalli. I feudi nello Stato pontificio erano: Anticoli, Arnara, Castro, Cave, Ceccano, Collepardo, Falvaterra, Genazzano, Giuliano, Marino, Morolo, Paliano, Patrica, Piglio, Pofi, Ripi, Rocca di Papa, San Lorenzo, Santo Stefano, Sgurgola, Serrone, Sonnino, Supino, Trivigliano, Vallecorsa e Vico.

I feudi erano maggioraschi e per la maggior parte vincolati a fidecommesso, secondo le leggi locali. Ma la rivoluzione francese venne a mutare i sistemi: nel reame di Napoli la legislazione feudale fu abolita nel 1806, in Sicilia nel 1812, e negli Stati della Chiesa la maggior parte dei baroni vi rinunziò nel 1816, seguendo l'esempio del principe Colonna. A Napoli i fidecommessi vennero aboliti in parte nel 1807 e totalmente nel 1809; in Sicilia invece erano ancora in vigore alla morte di Filippo

III(ma disparvero qualche settimana più tardi, il 2 agosto 1818); nello Stato Pontificio sono tuttora in vigore. La successione di Filippo fu perciò regolata da leggi diverse e l'asse ereditario è stato diviso in più parti.

Filippo, discendente diretto di Marcantonio, lasciò solo tre figlie: Maria(maritata a Giulio Lante della Rovere), Margherita(maritata a Giulio Cesare Rospigliosi) e Vittoria(maritata a Francesco Barberini); la nobile stirpe fu continuata da suo fratello Fabrizio.

Queste sono le notizie che ho creduto utile dare al lettore, prima d'introdurlo nel castello di Paliano. Ma questo castello, che brillava una volta per il suo lusso e la sua magnificenza, non è più oggi, come tanti e tanti altri palazzi baronali italiani, che un luogo deserto e silenzioso, dove un custode brontolone vi fa da guida, additando le nude pareti e lamentandosi che siano scomparse le belle collezioni d'armi della famiglia, trofei di tante battaglie, e che i quadri preziosi siano stati venduti o portati altrove.

Però mi piace visitare questi antichi castelli nobiliari, in cui gli alberi genealogici, anneriti dalla polvere e dal fumo, pendono ancora dalle pareti, quasi piante disseccate, ed in cui le tappezzerie ciondolano dai muri non meno lacere dei diplomi feudali, che il vassallo ha finalmente fatto a pezzi. Quasi spettri, vi si vedono i ritratti di una lunga serie di antenati, anneriti dal tempo nelle loro massicce cornici dorate: essi evocano il ricordo di tutto un lontano passato scomparso. Vi sono ritratti di guerrieri, di cardinali, di belle gentildonne, di cui i colli alla Maria Stuarda ci fanno conoscere il secolo in cui vissero. Veramente ne trovai pochi a Paliano, appena una trentina di ritratti, intorno ai quali il guardiano non seppe darmi alcuna informazione. La sua testa era ancora più vuota, più disordinata del palazzo dei suoi padroni, e tutti i ricordi del passato erano completamente sfumati nella coscienza di questo essere moderno. Quanto avrei dato per sapere il nome di quella bella donna pallida, dagli occhi nerissimi, vestita di un abito di velluto rosso! Eppure non domandavo che un nome! Era forse Felice Orsini, o Lucrezia Tomacelli, o Diana Paleotti? Oppure era quella stessa infelice duchessa di Paliano, di cui la tragica fine fu uno dei più strani romanzi del suo tempo? Essa però non fu uccisa in questo palazzo, ma in un altro castello di suo marito.

Nella piccola galleria non manca neppure il ritratto di un astrologo, che ci siamo abituati a considerare quale spiritus familiaris di ogni nobile castello antico; un vecchio dalla barba lunga e bianca, con un'ampia

veste di velluto. Il suo abbigliamento è in armonia con i mobili massicci e severi di quei palazzi medioevali, dove i nostri abiti alla francese ed i nostri candidi guanti sembrano eccessivamente ridicoli. L'astrologo di Paliano era, secondo l'iscrizione, Nicolaus Colinus de Paliano, astrologus insignis.

Nelle altre sale, alle pareti sono appesi panorami e piante di molte città, quali Madrid, Parigi, Venezia, Firenze e Genova.

Le sale sono di mezzana ampiezza e sembrano stanze di una casa di campagna, se si paragonano alla principesca sala di ricevimento che si ammira nel palazzo Colonna a Roma.

Presso il castello sorge la chiesa di S. Andrea, cappella gentilizia e tomba dei Colonna del ramo di Paliano, un elegante edificio di modeste proporzioni. Filippo I(1578-1639) vi raccolse le ceneri de' suoi antenati, sparse in luoghi diversi, e vi fece costruire per sè e la sua famiglia la cripta sotterranea. Scesi a visitarla e rimasi stupito di trovarla priva di ogni ornamento; le pareti della sala, di forma circolare, abbastanza ampia, sono intonacate di bianco e perfettamente nude; non v'è nè un sarcofago, nè un monumento in marmo, e non vi si vedono intorno che delle iscrizioni, i cui caratteri uniformi appartengono al secolo xvii. Vi si leggono gli epitaffi di Marcantonio e della moglie Felice Orsini, di Ascanio e di Giovanna d'Aragona, suoi genitori; di Fabrizio e di Agnese di Montefeltro, suoi avi. Non so se la più bella donna d'Italia, Giulia Gonzaga, moglie di Vespasiano Colonna, si trovi sepolta a Paliano, nè sono riuscito a sapere se vi sia la tomba della famosa Vittoria. Nel suo testamento ordinò di esser tumulata nel monastero dove sarebbe venuta a morire; ella fece anche un legato per le monache di S. Anna dei Falegnami, che l'avevano assistita durante la sua ultima malattia, e lo stesso testamento fu dettato al letto della morente il 15 febbraio 1547, nell'antico palazzo de' Cesarini, presso l'Argentina. E' quindi molto probabile che ella sia stata sepolta nel vicino monastero di S. Anna.

Da Paliano non v'è strada carrozzabile che porti ad Anagni, distante sei miglia, giacchè infatti questo paese non ha che una sola porta, che si apre davanti a Genazzano, e chi arriva dal lato opposto, è costretto a fare il giro delle antiche mura. Un sentiero tortuoso, praticabile a cavallo, ma spesso ripido e scosceso per essere scavato nella roccia calcare, che lo rende molto sdrucciolevole, conduce ad Anagni attraverso la campagna deserta.

Ho fatto questa strada a cavallo, insieme con un contadino della

campagna romana, che avevo preso per guida, in una splendida giornata di settembre, che rimarrà sempre fra le più belle delle peregrinazioni da me fatte per la Saturnia tellus, tanto la vista di quelle contrade selvagge e di quei monti maestosi era superba. La collina di Paliano scende dolcemente verso il fiume, mentre dalle altre parti cade a picco; essa è interamente coltivata a viti; sulla cresta, che noi seguivamo, crescono folti cespugli di lentisco, fragole e mirto, ciò che mi ha sorpreso, perchè il mirto preferisce di solito le coste e l'aria marina. Sulla collina miseri coloni abitano in capanne di paglia a forma di cono, come se ne vedono per tutta la campagna romana.

Passando per questa rustica colonia la strada giunge ad un monastero, che sorge solitario fra verdi boschi di elci, castagni ed olmi: si chiama S. Maria di Paliano. Quindi bisogna attraversare per l'unico ed angusto sentiero la foresta che circonda tutta la collina. La discesa è così ripida, che difficilmente si riesce a farla a cavallo. Giunti in fondo, si trova una pittoresca e selvaggia pianura, che si stende fra la collina di Paliano e quella di Anagni. Qua e là si vedono disperse delle solitarie fattorie di pietra scura o qualche mulino presso un torrente che taglia il sentiero. Il paesaggio è animato da mandre di vacche e di pecore, ed il pifferaro che scende a Roma nella notte di Natale, appare qui nel suo stato naturale, e si odono gli strani accenti della cornamusa che il pastore suona, seguendo passo, passo il suo gregge, che si muove qua e là in cerca di erba, che la terra fertile abbondantemente gli offre.

Verso la fine di settembre i greggi di pecore discendono dai monti circostanti e si spandono, per passarvi l'inverno, nella pianura, arrivando fin presso le mura di Roma. Nel mio ritorno ne ho incontrato appunto uno che si dirigeva verso Roma: era così numeroso che ingombrava alla lettera tutta la strada, ed era diretto e sorvegliato da grossi cani dal pelo lungo, e da pastori a piedi ed a cavallo. Calcolai che fossero circa 3000 pecore, ma un pastore mi disse che erano quasi 5000 capi di bestiame che venivano dalla Serra e si recavano a Roma. I belati delle pecore e degli agnelli empivano l'aria dei mansueti lamenti che risuonano nella campagna di Roma in ottobre ed in novembre, sì che par di vivere in mezzo ad un grandioso idillio classico.

Intanto ci avviciniamo ad Anagni e ci troviamo ai piedi della collina, su cui sorge superba l'antichissima metropoli degli Ernici. Dinanzi a noi si apre una porta alta e maestosa, che reca in cima lo stemma della città: un leone sul cui dorso un'aquila affonda gli artigli.

Anagni mi ha sorpreso: abituato alle strade strette dei villaggi della campagna romana, ed alle loro case meschine, ho trovato qui delle lunghe file di fabbricati di bell'aspetto e dei palazzi che fanno pompa dello stile sfarzoso del xvii secolo e che danno al paese l'impronta di una certa agiatezza. Questo aspetto moderno mi sorprese ed io non riuscii a spiegarmelo che dopo aver studiato la storia della città.

Sono arrivato sulla piazza di Anagni, che ha la forma di un piccolo rettangolo, di cui i due lati più corti son formati da palazzi; delle case di semplice aspetto chiudono il terzo lato, un parapetto di pietre cinge il quarto che sorge sulla cresta della collina, di là si scorge la pianura del Sacco, attraverso la quale si svolge tortuosamente la via Latina che parte da Valmontone. Essa non tocca Anagni, ma gira intorno alla sua collina e passando per Ferentino e Frosinone, giunge alle sponde del Liri, di là da Ceprano. Il panorama che da questa piazza si gode, è così stupendo che impressiona anche chi abbia visitato minutamente tutta l'Italia, dalle Alpi sino al mare Jonio e al mare Africano. Si scorge la catena dei monti Volsci, i cui pendii illuminati dal sole si vedono così distintamente da poter contare le finestre dei villaggi che vi sono sparsi; ovunque si scorgono le città dei Volsci, che sono schierate lungo i monti: Montefortino, la gloriosa Segni, Gavignano, Rocca Gorga, Sgurgola; più in là, Morolo, Supino, Patrica, dietro la quale a forma di piramide si leva azzurro e maestoso il monte Cacume; e più lontano ancora le cime seguono le cime, poi altri paesi: qua Ferentino, dietro ad una collina Frosinone di cui si vede anche il castello, Arnara, Pofi, Ceccano, e qualche altro ancora che l'occhio abbraccia in un solo sguardo. Verso Roma si stende l'ampia pianura, coronata dai monti di Palestrina, visibile anch'essa a questa distanza. Si vedono anche i monti Laziali, di modo che da questo punto senza sforzo alcuno l'occhio abbraccia la maggior parte del Lazio.

Ben diverso invece è il paesaggio, se si guarda dal lato opposto della piazza, e soltanto allora si comprende la posizione di Anagni. La collina, sul margine estremo della quale è costruita la città, appare unita alla Serra, e si stacca da questa con una curva a forma di falce. La roccia è scura, ripida e brulla, e dal paese si sale in una regione selvaggia, dove è il villaggio di Monte Acuto, un erto e nero castello, che prende nome dalla vicina altura.

Nell'osservare questa posizione non ci si stupisce più che Anagni sia stata nel medio evo preferita da tanti papi come luogo di rifugio e di

villeggiatura, essendo una cittadina nell'aperta campagna, posta su di un'altura che ne rende l'aria salubre, mentre le sue rocce e le alte mura la fanno un forte baluardo.

Del resto la città deve la sua importanza storica soltanto al medio evo. Sebbene sia stata capoluogo degli Ernici, forte tribù del Lazio, essa non ha avuto alcuna importanza al tempo dei Romani, e, dopo essere stata da questi soggiogata, rimase sempre una piccola città sottomessa. Anche oggi qualche rovina ci ricorda il dominio romano; qua e là si vedono avanzi di mura ed a nord della città una fila di archi giganteschi che si appoggiano sull'erta scoscesa della collina. Questo caratteristico monumento dei tempi romani offre una vista imponente. Non esistono più tracce dell'antica rocca, la quale molto probabilmente occupava il punto dove oggi sorge il duomo. Neppure esistono in Anagni mura ciclopiche, come se ne vedono a Ferentino ed a Segni.

Solo verso la fine del xiii secolo Anagni acquistò importanza, avendo avuto la rara fortuna di vedere in un secolo quattro de' suoi cittadini ascendere al seggio pontificio. Il primo fu Innocenzo III, Conti(1198-1216), il secondo Gregorio IX, Conti (1227-1241), poi Alessandro IV, Conti(1259-1261), ed infine Bonifacio VIII, Gaetani(1294-1303).

Anche prima però la città era preferita da papi; sin da quando Roma si era ordinata a governo repubblicano, parecchi pontefici si rifugiarono dentro le mura di Anagni. Quivi morì nel 1159 Adriano IV, Breakspeare, l'unico inglese che abbia portato la tiara, sottraendosi alle pressioni del senato romano per il ristabilimento della repubblica: ivi pure si rifugiarono l'illustre suo successore Alessandro III ed il successore di questi, non meno famoso, Lucio III.

La città ritrasse molto vantaggio dall'aver dato, in sì breve intervallo, quattro papi alla Chiesa; si arricchì, così, di monumenti e di palazzi in stile gotico-romano, stile che prevalse fino al xv secolo in molte parti d'Italia. Anche a Genazzano abbiamo trovato siffatte costruzioni gotiche; poche ne rimangono in Anagni, se si eccettua la cattedrale, lo stupendo palazzo municipale e la casa Gigli.

Il palazzo municipale ha un imponente porticato, che sorregge un solo piano. La strada passa sotto a quei portici come attraverso ad una porta. Sulla facciata si vedono, scolpiti nella pietra, stemmi del medio evo; in mezzo ad essi vi è il busto di un capitano della città, della casa della Rovere, appartenente al xv secolo. Nella facciata posteriore del palazzo sono notevoli gli ornati architettonici del cornicione e le sue finestre,

adorne di colonnette di stile moresco, simili a quelle che si vedono a Rovello, sopra Amalfi.

Il palazzo municipale si è salvato dalla rovina medioevale, ed è qui, con la casa Gigli, il principale monumento del passato. La casa Gigli, un piccolo fabbricato che appartiene certamente al secolo xiv, mi ha ricordato le case di Palermo: essa è quadrata, con un tetto piatto ed un portico. Questo consiste in due arcate rotonde sostenute, al punto in cui si riuniscono, da una sola colonna; sotto di esso si trova una scala esterna di pietra, che porta nell'interno; questa architettura è ripetuta nell'unica finestra, del pari ad arco tondo, con una colonnetta nel mezzo. Sugli archi corre una piccola cornice ondulata, semplice ed armoniosa; sopra il tetto sono vasi di fiori che danno all'edificio un carattere grazioso e tutto meridionale.

Dopo aver visitato questa casa, mi son seduto sopra un banco di pietra che stava lì di fronte e mi sono accinto a farne uno schizzo nel mio album: sono stato subito circondato da molti cittadini, e nel vederli soddisfatti di ciò che stavo facendo, ho compreso che quel monumento del passato ispirava loro un sentimento di orgoglio patriottico. Si son lagnati però meco amaramente di quei quattro papi, loro compatriotti, che sì poco avevano fatto per la loro città natale, non provvedendola neppure di un acquedotto. E' questo veramente per gli abitanti di Anagni un grave danno: essi non hanno altr'acqua da bere che quella delle cisterne, che mi è parsa molto cattiva; e d'altra parte non sarebbe possibile costruire un acquedotto senza enormi spese, perchè bisognerebbe portarvi l'acqua da monte Acuto, facendole attraversare una larga valle. "E' vero, dicevano quelli, sarebbe occorsa una grave spesa; ma pensate che sono stati quattro i papi, e se avessero dato qualche cosa per uomo l'opera sarebbe stata compiuta".

Il duomo di Anagni è costruito sul punto più alto della collina, presso la porta di Ferentino, in mezzo a molti altri edifici, in modo che la sua facciata ed il suo campanile isolato non producono quasi nessun effetto. Questa chiesa è una delle più antiche del Lazio, più antica anche della maggior parte delle cattedrali degli Stati della Chiesa, rimontando ai tempi della prima crociata. La fece edificare nel 1074 Pietro, vescovo della città, della stirpe dei principi longobardi di Salerno, il quale prese parte alla prima crociata come compagno d'armi di Boemondo, principe di Taranto. Sulla porta principale del duomo si legge, scolpita nella pietra, la seguente iscrizione:

QUISQUIS AD HOC TEMPLUM TENDIS VENERABILE GRESSUM



MOX CONDITOREM CUNCTORUM NOSCE BONORUM



CONDIDIT HOC PETRUS MAGNO CONAMINE PRAESUL



QUEM GENUIT TELLUS NOBIS DEDIT ALTA SALERNUS



SIC MISERERE SIBI SUPERI PATRIS UNICE FILI.

La forma dei caratteri di questa iscrizione appare moderna: è forse del secolo xvi, ma lo spirito e l'espressione appartengono certo al tempo in cui la cattedrale fu innalzata.

Quantunque più volte restaurata dai vescovi della città, la cattedrale ha conservato il suo carattere primitivo, gotico-romano. La facciata è di architettura rozza: termina con un frontone pesante, a forma di triangolo, di cui l'angolo superiore è ottuso e la base è formata da una semplice cornice. Nel centro si apre una finestra circolare, senza ornamenti, ed al disotto di questa un'altra finestra grande e quadrata, aperta molto probabilmente in un'epoca posteriore. La porta, ve n'è una sola, ha una cornice d'un gusto mediocre, formata di strisce di pietra ornate di teste di leoni e di tori, rozzo lavoro del medio evo.

Da un sol lato della porta, senza simmetria e senza ragione alcuna di essere, sorgono due pilastri con capitelli, incastrati nel muro. Ai disopra v'è un arco di pietra adorno di semplici arabeschi.

Tutto l'edificio è costruito col tufo calcareo bruno, fornito dalle montagne vicine. Si vede facilmente che la facciata ha conservato nelle linee generali la sua forma primitiva, ma che è stata in seguito restaurata alla men peggio, per necessità.

All'interno il duomo è vasto e bello, non a forma di basilica, bensì costruito in quello stile semigotico, di cui in Roma porge esempio la

chiesa di S. Maria sopra Minerva. Ha tre grandi navate ed un coro a volta alto, in forma di croce; il pavimento, in mosaico, fu eseguito nel 1226, dal celebre Cosma, romano, a spese del vescovo Alberto e del canonico Rinaldo Conti, che salì più tardi sul seggio papale col nome di Alessandro IV.

Dal coro si discende nella cripta sotterranea, veramente bella e degna di una descrizione minuta. Consiste in una volta non molto alta, sorretta da colonne; tanto la volta che il pavimento sono decorati di mosaici colorati, mentre le pareti sono interamente ricoperte di antichi affreschi, disgraziatamente molto sciupati ed in certi punti addirittura irriconoscibili. Si nota subito che essi appartengono ad epoche diverse, perchè, mentre alcuni dei soggetti biblici che vi sono rappresentati sono di un rozzo stile bizantino, altri presentano i caratteri di un'arte più avanzata, e vi sono pure alcune belle e graziose figure, particolarmente quelle dell'adorazione della Croce, che sembrano dell'epoca di Cimabue.

In questa cripta è la tomba di S. Magno, patrono della cattedrale, ed un'antica iscrizione ci fa sapere che nel 1231 lo stesso maestro Cosma fu incaricato di rinnovare la tomba del martire. Così questa famiglia di artisti, che ha arricchito Roma di tante opere preziose, recava pure il suo artistico tributo nei paesi della campagna romana.

Anche nella cappella del coro, nella navata posteriore, esiste un monumento eseguito dai Cosmati, un antico tabernacolo gotico, poggiato sopra un sarcofago di marmo, la cui forma ricorda a prima vista la tomba del vescovo Consalvo, eretta nel 1298 da Giovanni, figlio di Cosma, in S. Maria Maggiore di Roma. Non v'è dubbio che anche questo tabernacolo sia opera sua, ed anteriore solo di quattro anni, perchè l'iscrizione dice:

IN ISTO TUMULO REQUIESCUNT OSSA D. PETRI EPISCOPI



QUI NUTRIVIT D. BONIFACIUM PAP. VIII. ITEM SUBTUS



OSSA D. GOFFREDI CAJETANI COMITIS CASERTANI.



ITEM OSSA D. JACOBI CAJETANI HIC RECONDITA KAL. AUGUSTI



ANNO D. MCCXCIIII.

Sul sarcofago semplicissimo, che racchiude le ossa di questi membri della famiglia Gaetani, si scorgono le loro armi, ma senza l'aquila, componendosi lo stemma dei Gaetani ordinariamente di uno scudo diviso in due campi, in uno dei quali sono due strisce serpeggianti, nell'altro un'aquila.

Nella stessa cappella del coro v'è anche un'altra antichità degna di nota, cioè una antica e bella imagine della Madonna, sotto la quale sta la seguente iscrizione:

HOC OPUS FIERI FECIT DON RAYNALD. PRESBYTER



ET CLERICUS ISTIUS ECCLESIAE.



ANNO DNI M.CCCXXII. MENSE MADII

Fu dunque un dono fatto dal Conti, quegli che poi fu Alessandro IV.

Pochi altri ricordi di quei papi di Anagni rimangono in questa cattedrale. Primi fra questi gli abiti pontificali d'Innocenzo III e di Bonifacio VIII, conservati in un armadio della sagrestia. La pianeta d'Innocenzo è d'una stoffa turchina, con ricchi e pesanti ricami d'oro, e vi sono tessute figure che rappresentano soggetti del Nuovo Testamento, eseguite con una tale perfezione che si direbbero copie di quadri di Giotto o di frate Angelico da Fiesole, anzichè ad un'epoca anteriore. Assai più rozzo come lavoro è il pesante piviale di Bonifacio, ricamato ad aquile e leoni.

Oltre a questi tesori, il sagrestano mi ha fatto vedere delle antiche mitre vescovili e dei bastoni pastorali che per le loro bizzarre ed insolite forme meritano l'attenzione degli antiquari.

Invano ho cercato busti o ritratti di quei papi: non ve ne sono. Soltanto

nel muro esterno della chiesa, in una nicchia o tabernacolo, posta sotto il cornicione, è seduta sul trono la marmorea figura di un papa. Mi fu detto che quell'informe statua, che pare un idolo, rappresenta Bonifacio VIII.

In tempi posteriori furon collocati nel coro del duomo i busti dei quattro papi, dipinti su tela a forma di grandi medaglioni, che ora si trovano appesi, ondeggianti all'aria, nelle due gallerie del coro stesso; è questa un'idea bizzarra che deve risalire al secolo xvii, e forse anche al xviii.

Prima di lasciare la cattedrale per recarci al palazzo di Bonifacio VIII, voglio ricordare alcune scene di cui essa fu teatro, scene molto interessanti per noi tedeschi, poichè esse si collegano alla storia della Germania, giacchè il duomo di Anagni ha avuto grandi rapporti con la casa degli Hohenstaufen. Fu davanti al suo altare che Alessandro III, nel giovedì santo del 1160, maledì il grande imperatore Barbarossa; fu lì che Innocenzo III lesse la bolla che scomunicava Federigo II; e fu lì finalmente che Alessandro IV lanciò l'anatema contro il giovane eroe Manfredi. Scene barbare e selvagge del medio evo, scomparse da gran tempo, al pari dello splendore del nostro grande impero e del prestigio del papato stesso.

L'ultimo papa di Anagni fu Bonifacio VIII, della famiglia Gaetani. Chi ignora la sua prigionia nello stesso suo palazzo, e la tragica fine che seguì immediatamente la sua liberazione?

Nel 1294 la sorte aveva strappato l'eremita Pietro da Morone dalla sua profonda solitudine del monte Majella, per innalzarlo al seggio papale. L'eremita, debole ed inetto, aveva preso dimora a Napoli, divenendo lo strumento cieco di re Carlo. Intanto l'ambizioso e risoluto cardinale Benedetto Gaetani di Anagni, aspirava alla tiara pontificia. Pietro, o meglio Celestino V, decise di abdicare, e così fece, cinque mesi appena dopo la sua elezione, fuggendo quindi subito nella sua solitudine. Ma non appena il Gaetani fu eletto papa col nome di Bonifacio VIII, fece arrestare il fuggiasco, lo portò nel suo palazzo di Anagni e da questo poi lo relegò nel vicino castello di Fumone, dove l'infelice eremita finì i suoi giorni.

Bonifacio non aveva dimenticato che i due cardinali della casa Colonna, Jacopo e Pietro, avevano osteggiato la sua elezione, e giurò di umiliare questa potente famiglia. Nel 1297 la ruppe con essa per motivi o pretesti che non importa qui riferire. Ne seguì una crociata del papa contro i Colonna; essi fuggirono dinanzi al suo sdegno; i due cardinali, privati della porpora, si ritirarono a Rieti e Sciarra Colonna, allora capo

della famiglia, si recò in Francia, dove Filippo il Bello lo accolse con piacere, poichè egli era in guerra con Bonifacio VIII, che lo aveva scomunicato e dichiarato decaduto dal trono. Egli decise con Sciarra di sorprendere Bonifacio in Anagni, dove si trovava nell'estate del 1303, e di farlo prigioniero; a questo scopo Sciarra si unì a Guglielmo di Nogaret, che godeva la fiducia del sovrano. Furono radunati segretamente trecento cavalieri e maggior numero di fanti, e dopo che Nogaret si fu accampato a Ferentino, con alcune truppe pronte ad ogni evento, Sciarra, nella notte del 7 settembre, uscì dal vicino borgo di Sgurgola. I ghibellini di Anagni, che erano del complotto, gli aprirono le porte; egli assalì il palazzo Gaetani e penetrò nelle stanze del papa. Bonifacio oppose alle violenze sofferte un'eroica dignità. Rimase per tre giorni prigioniero di Sciarra e di Nogaret che lo minacciarono di morte, intimandogli di scendere dal trono papale come egli aveva costretto a scenderne l'infelice Celestino. Intanto il cardinale Luca Fiesco incitava gli abitanti di Anagni a liberare il papa, loro concittadino, dalle mani di quella turba furibonda. Il popolo diè di piglio alle armi e cacciò gl'invasori dal palazzo. Poi ricondusse a Roma il papa liberato, che vi morì l'11 ottobre per l'ingiuria patita e per la rabbia.

I cardinali suoi concittadini, membri della Curia, avevano tradito Bonifacio. Quando poi fu eletto a suo successore Benedetto XI, questi lanciò una bolla contro coloro che avevano perseguitato Bonifacio, ed ebbe ad esclamare: "La stessa sua patria non lo protesse; il suo palazzo non gli servì di asilo; la più alta dignità della Chiesa è stata insultata; la Chiesa ed il suo Sposo sono stati avvinti dalle catene. Quale luogo potrà d'ora innanzi offrire sicurezza? Quale asilo resta ancora inviolabile, se lo stesso papa di Roma è stato offeso nel suo? Delitto abbominevole, sacrilegio inaudito! Guai a te, Anagni, che hai lasciato compiere un tale misfatto fra le tue mura! Non cada più sopra te nè rugiada, nè pioggia, cada invece sugli altri monti, e l'una e l'altra sfugga te che hai assistito alla caduta dell'eroe senza impedirla, ed hai tollerato gli fosse fatta violenza!".

La maledizione di Benedetto XI non pesa più oggi sopra la città di Anagni; ma nell'anno 1616 gli abitanti superstiziosi si credevano ancora sotto l'influsso di quelle terribili parole. Allorchè in quel tempo il famoso viaggiatore Leandro di Bologna visitò la città, la trovò un mucchio di macerie e lo stesso palazzo dei Gaetani in rovina; la tremenda guerra della campagna romana, condotta dal duca d'Alba, aveva devastato

tutta la contrada, e gli abitanti di Anagni, ridotti alla miseria, narrarono al bolognese, piangendo, che dal giorno in cui Bonifacio era stato tradito fra le loro mura, erano stati oggetto di continue calamità.

Ho cercato in Anagni il luogo dove si svolse questo dramma, che pose fine, con Bonifacio VIII, alla potenza universale del papato, fondata da Gregorio VII: ma il palazzo Gaetani è stato distrutto da molto tempo, e quello a cui ora gli abitanti di Anagni danno tal nome, è un edificio moderno del marchese Traetti, che sorge sulle fondamenta di quello stesso palazzo, sul margine della collina, non lontano dal duomo, col quale mi fu detto che l'antico palazzo avesse comunicazione. Nel cortile esistono ancora antiche mura della residenza di Bonifacio VIII, e dietro l'attuale edifizio sono le rovine grandiose di un'antica loggia, di cui rimangono ancora tre grandi archi, appoggiati alla collina. Ai piedi di questa sorge una grande muraglia di antica costruzione, che mi si è detto essere un avanzo delle stalle di Bonifacio VIII.

Trovai anche qui, come altrove, che il presente ha maggior diritto alla nostra attenzione che non il passato, perchè alla vista dello stupendo paesaggio che si stendeva dinanzi ai miei occhi dimenticai subito la storia di Bonifacio. Di lassù si scorge una selvaggia regione sassosa, di aspetto severo, sulla quale sorge solitario un tempio dorico, di costruzione moderna, che è il camposanto di Anagni. Più in là si leva maestoso il bruno monte Acuto. Salendo per pochi passi la collina si scorge alla distanza di sei miglia al più una rupe grigiastra e selvaggia, sulla quale, in triste abbandono, sorge un cupo villaggio. "È Fumone!" mi disse una donna che passava; e soggiunse con disprezzo: "Quando Fumone fuma la campagna trema". Non avendo compreso questo proverbio, gliene chiesi il senso, ma la donna non mi seppe rispondere che questo: "Guardate, guardate come è misero! Là vi si muore sempre di fame!". Quello era dunque Fumone, dove fu rinchiuso Celestino V, l'unico Papa che abbia abdicato, di cui tutta la storia è un romanzo, quanto tutto il medio evo.

Qui debbo ricordare un curioso incidente. Avevo tratto di tasca, per osservare Fumone, un cannocchiale guarnito in metallo lucido, quando per caso lo rivolsi su un giovanetto che stava sulla strada, a poca distanza da me. Il ragazzo gettò un grido e fuggì in preda allo spavento. Al suo grido accorsero uomini, donne e fanciulli, domandando cosa fosse accaduto: questa scena mi ha ricordato quell'altra ridicola di Genazzano, dove con un semplice libro sparsi il terrore come mago.

Abbiamo ormai visto e parlato di tutto ciò che v'è di notevole in Anagni, e possiamo lasciare questa città. Ogni interesse per essa cessa con Bonifacio, se non termina con lui anche la sua storia, poichè dopo di allora, due sole volte Anagni è ricordata, e cioè nel 1378, allorquando, dopo l'elezione di Urbano VI, i cardinali francesi avversari del partito romano, vi si rifugiarono per eleggervi un antipapa dando origine al grande scisma, e nel 1556, allorquando i soldati del duca d'Alba la distrussero durante la guerra della campagna.

Questa rovina spiega il suo aspetto moderno. Ora è una città morta di 6000 abitanti, fieri ancora delle loro memorie, dei loro Papi e delle loro famiglie patrizie. Fra queste se ne contano ancora dodici, le cosiddette dodici stelle di Anagni, ed ancora esistono quelle dei Gaetani e dei Conti, i più antichi di stirpe. Nuove famiglie si sono aggiunte a queste, fra le quali mi è grato ricordare la gentil famiglia degli Ambrogi.

I MONTI ERNICI(1858)

Vi sono nella campagna romana alcuni luoghi speciali che per la loro antichità, o per la bellezza dei dintorni, o per le qualità caratteristiche delle popolazioni, o per i monumenti, invitano il forestiero a visitarli. La regione di cui mi accingo a parlare è appunto uno di questi luoghi, e appartiene alla Legazione di Frosinone, stendendosi sopra il fiume Sacco, sulle pendici dell'Appennino. Le principali città di questa regione, degli antichi Ernici, sono Anagni, Ferentino, Alatri, Veroli e Frosinone, paesi tutti più antichi di Roma, le cui origini risalgono ai tempi favolosi di Saturno ed a quelli dei Ciclopi.

Era mio proposito visitare non solo le città, ma arrampicarmi anche su per i monti, per vedere la bella e famosa Certosa di Trisulti, e nelle sue vicinanze la rinomata grotta di Collepardo, nonchè lo strano pozzo nelle rocce di Santulla, a forma d'imbuto, detto "Fonte d'Italia", del quale molti parlano ma pochi si recano a visitare.

A cavallo, in compagnia di un bravo campagnolo, certo Francesco Romano, che avevo preso meco come guida e come servo, lasciai Anagni prendendo un'amenissima via.

Scendendo la collina su cui sorge Anagni, ad una distanza di circa otto miglia, si scorge Ferentino, che si presenta come un paese di una certa importanza, collocato in cima all'ampia ed estesa vetta, di un colle le cui

pendici sono verdeggianti di vigneti e di giardini, mentre sulla cima sorgono pittorescamente nere torri medioevali, chiese e conventi. La via Latina sarebbe molto monotona sino a Ferentino se non fosse animata dal continuo passaggio dei Ciociari, e qui se ne incontrano molti, perchè la via Latina serve pel trasporto a Roma non solo dei prodotti di queste contrade, ma anche di quelle dei confini napoletani, e gli Arpinati, compatrioti di Cicerone e di Mario, son soliti portare il loro bestiame al mercato della città eterna.

Incontrai molte comitive di gente di quei paesi e file di carri pesanti e grossolani, con due enormi ruote, detti barocci, tirati da buoi bianchi, dalle corna lunghissime. Alcuni di questi barocci erano carichi di sacchi di grano, altri di lana, la maggior parte però portavano ceste di polli. I campagnoli che li conducevano facevano veramente una splendida figura coi loro cappelli a punta, le lunghe giubbe rosse ed i sandali di rozzo cuoio.

Quando giunsi a Ferentino speravo nella gentilezza di una famiglia del paese per la quale mi avevano dato una commissione. Un giovane di mia conoscenza, impiegato nel tribunale di un paese della Sabina, dove mi ero trattenuto a lungo, aveva la sua fidanzata a Ferentino, e siccome questa tenera relazione si era da qualche tempo raffreddata, egli desiderava riannodarla e non avendo potuto accompagnarmi nella mia gita, come sarebbe stato suo desiderio, mi aveva pregato di far la parte di Galeotto, o meglio di messaggero d'amore, cosa a cui mi ero volontieri prestato. Mi aveva dunque consegnato una epistola elegantemente scritta per la sua bella, raccomandandomi di non consegnarla all'amica in presenza di suo fratello prete, ma con ogni segretezza. Appena sceso all'albergo, mi recai alla casa indicatami: la bella e graziosa fanciulla stava appunto alla finestra. Salii le scale e trovandomi solo con lei nella prima stanza, senza scorgere l'ombra di un prete, le feci prima di tutto i saluti dell'amico nella miglior forma possibile, poi tirai fuori la lettera e gliela consegnai. La poveretta era visibilmente imbarazzata: prese la lettera, e divenuta pallida, poi rossa, senza dire una parola, entrò nella stanza vicina e di lì a poco riapparve pregandomi di entrare. Appena entrato mi trovai di fronte al prete, che stava coricato in un letto tutt'altro che pulito: egli aveva in mano la lettera d'amore, che stava leggendo attentamente.

Capii subito che la povera ragazza stava sotto la dispotica influenza del fratello; che brutte scene dovevano esser accadute in quella casa e

che la giovinetta non aveva la forza morale di sottrarsi alla dura tirannia del reverendo. Questi, che avrebbe potuto essermi molto utile per darmi informazioni sulla storia e sulle cose più notevoli della città, mi accolse con molta freddezza e con una certa inquietudine, ed io lasciai poco dopo la casa, dolente di avere con la mia intromissione confuso maggiormente le fila di quell'innocente intrigo amoroso. Per fortuna trovai altre persone che si offrirono di servirmi di guida in Ferentino, e così potei visitare in lungo ed in largo quest'antichissima città del Lazio.

Ferentino, anche oggi importante sede vescovile, si compone di un laberinto intricato di strade, per la maggior parte strette, interrotte qua e là da qualche piazza. La tranquillità tutta campestre, la mancanza completa di movimento commerciale, la solitudine che regna su quasi tutte le case, danno al paese un'impronta tutta medioevale, mentre qua e là tronchi di colonne, avanzi di sepolcri, frammenti marmorei, coperti d'iscrizioni romane, ricordano l'antichità classica.

Mi posi a sedere in una piccola piazza quadrata, che dà sulla campagna da dove si gode lo splendido panorama del paese dei Volsci, e non tardai a provare un senso di profondo benessere. Guardavo le donne che si affollavano intorno ad un'antica cisterna medioevale, calando giù, l'una dopo l'altra, il loro secchio di latta legato ad una corda; lavoro assai noioso e faticoso, ma inevitabile, perchè a Ferentino, come in quasi tutte le città del Lazio, mancano fontane. Spesso in queste regioni il viaggiatore dura fatica a scuotersi da quel torpore, da quella pigra contemplazione a cui lo invitano il caldo estivo e l'alta quiete che lo circonda. In quella strana e pur familiare solitudine si ridestano sensazioni già altra volta provate, e ciò che giace in un lontano passato ritorna con dolcezza alla mente come avvolto nell'ombra.

Uno sguardo ad una iscrizione romana vicino a me bastò a richiamarmi alla realtà ricordandomi l'intenzione che avevo di visitare le antiche mura di Ferentino. Come molte città del Lazio essa era in origine circondata da mura ciclopiche e sul punto più alto della collina sorgeva la rocca ugualmente fortificata. Non fa meraviglia che sussistano ancora notevoli avanzi di quelle opere gigantesche, frutto di una civiltà, della quale non si hanno altri ricordi, ma che dovette essere straordinariamente avanzata; reca piuttosto stupore che costruzioni di tal fatta abbiano potuto essere in parte rovinate. In molti punti quegli enormi massi sono spostati, in altri furono sostituiti con muri romani, ed in altri infine si riconoscono costruzioni del medio evo, nel così detto stile

"saracinesco", in modo che con un solo sguardo si vedono riuniti su di un piccolo tratto di muro i caratteri di tre diversi periodi di civiltà, gli uni dagli altri tanto diversi. Meglio che in qualunque altro luogo si può fare questa osservazione presso la porta di Frosinone e presso la meravigliosa porta Sanguinaria, di struttura ciclopica, che fu da prima ridotta ad arco dai Romani, quindi deturpata da misere costruzioni medioevali. Le fondamenta però, sino ad una certa altezza, sono costituite tuttora da massi ciclopici voluminosi, irregolari, meravigliosamente congiunti fra loro.

L'antica rocca di Ferentino merita di essere visitata; essa pure è circondata di mura come la città, e sorge in cima ad una collina rocciosa e in origine era interamente cinta da mura ciclopiche. All'epoca romana vi era una fortezza turrita, le cui fondamenta costruite con grosse pietre quadrate esistono ancora. Questa rocca dovette essere inespugnabile, ed anche oggi si potrebbe con poca fatica render tale questa forte posizione. Durante l'impero romano vi dimorava il prefetto di città e nel medio evo sostenne più assedi. Si scorgono tuttora all'estremità del piano, in cima alla collina, gli avanzi del castello superiore e specialmente due torri mozze, che certo sorgevano ai due fianchi di una fortezza quadrata: esse sono di un effetto straordinariamente pittoresco.

In quasi tutte le città del Lazio si osserva che le cattedrali furono costruite là dove prima sorgevano gli antichi castelli, e non si potè trovare per esse luogo più adatto. I vescovi fabbricarono anche generalmente a fianco delle cattedrali i loro palazzi, trovandosi così situati in modo da dominare la città. Il vescovato di Ferentino è uno fra i più antichi dei dintorni, e quelli che lo fondarono, furono ben consigliati a scegliere la rocca, riducendo così ad uso di abitazione del vescovo l'antico palazzo del prefetto, mentre il duomo venne costruito con i materiali degli antichi monumenti.

Appena entrati in città da porta Romana, lavoro di meravigliosa solidità di costruzione, ci si trova vicinissimi al duomo ed al palazzo vescovile che gli sorge a lato. Siamo in pieno medio evo. La chiesa è piccola, ma ben proporzionata, ricca di iscrizioni e di frammenti di meravigliose sculture, alcune delle quali si fanno risalire al x secolo; queste sculture sono incastrate parte nel muro, parte nel pavimento. Il palazzo vescovile è un miscuglio di vari stili architettonici, e pare un piccolo castello deserto.

A Ferentino vi sono alcuni monumenti medioevali specialmente degni

d'attenzione, fra gli altri ricorderò almeno la graziosa chiesa di S. Maria Maggiore. Essa si trova in fondo alla città su di una piccola piazza, ed è una delle opere più perfette nello stile gotico-romano del secolo xiv o xv che esistano nel Lazio. Le chiese di Fossanova e di Casamari, che non ho ancora visitate, devono essere simili a questa nello stile. Sebbene mi occupi particolarmente dei monumenti del medio evo, e la mia attenzione sia specialmente rivolta alle iscrizioni che appartengono a quell'epoca, non trascurai però di farmi condurre a visitare le antichità romane, sparse qua e là per il paese. Però esse non sono molto importanti. Sotto questo riguardo l'orgoglio di Ferentino è il così detto "Testamento", ed io dovetti arrampicarmi faticosamente sulle rupi, tra le siepi spinose di una vigna, per arrivare a questa meraviglia, e vidi finalmente dinanzi a me una grande lapide scolpita nella pietra viva. Una lunga iscrizione in caratteri elegantissimi informa che Aulo Quintilio, quatorviro ed edile, era stato benefattore della sua patria, avendo a questa lasciato per testamento tutto il patrimonio, e che la città riconoscente gli aveva decretata l'erezione di una statua da collocarsi nel foro.

Quando, stanco di questa gita, feci ritorno alla mia locanda, presso la porta di Frosinone trovai una grande confusione. Erano proprio in quel giorno terminati gli esami nel ginnasio e parecchie agiate famiglie delle città dei dintorni erano venute a ritirare i loro figli, per condurli a passare a casa loro le vacanze autunnali. Padri, madri, ragazzi, avevano invasa tutta la locanda, e l'impetuosa gioia dei vecchi e dei giovani era senza limiti: gli uni partivano, gli altri pranzavano, altri ancora si preparavano a passarvi la notte, di modo che con grande fatica riuscii a conservarmi la camera che avevo già fissato. Riposare fu impossibile, perchè tutta la notte le donne, i ragazzi, i servi stettero in continuo movimento. Quando poi nel cuor della notte questo chiasso infernale si fu acquietato, cominciarono nella via canti festosi e straordinariamente sonori.

Erano gruppi di pellegrini che, approfittando del fresco notturno, s'incamminavano verso non so qual santuario. Le loro litanie, echeggiando nella quiete della notte, producevano un'impressione profonda. L'udire quei canti nel silenzio solenne della notte invita a pensare, poichè la fantasia segue i passanti che non vediamo e di cui non sappiamo nemmeno donde vengano e dove siano diretti. Era appena passata una compagnia, che in lontananza si udivano gli Ora pro nobis di un'altra, che passando davanti alla casa si allontanava per esser

seguita ancora da un'altra, e così trascorse tutta la notte.

Finalmente fui felice di veder spuntare il giorno, ed il sole era ancora nascosto dietro ai monti che attraversavo a cavallo la città per recarmi ad Alatri. La strada era magnifica: prima passava in mezzo a vigneti, poi si faceva più aspra e selvatica traversando una regione montuosa, ombreggiata da annosi castagni e rallegrata da parecchi ruscelli. Ma avanzando, la strada si faceva più cattiva ed il paesaggio più deserto, finchè arrivai ai piedi di una collina a forma di cono, in cima alla quale in un luogo cupo e malinconico sorgevano alcune torri sgretolate e mura cadenti. La vista inaspettata di questo castello mi sorprese piacevolmente; l'avevo già contemplato con desiderio ad Anagni e non sapevo che andando ad Alatri vi sarei passato così vicino. E' l'antico Fumone, il carcere di Celestino V. Qui egli morì il 19 maggio 1296, dopo una penosa prigionia di dieci mesi, nella tarda età di 81 anno.

Nel contemplare Fumone pensai che non sarebbe stato facile davvero trovare un luogo di esiglio più triste di questo. Non fu certo però la solitudine che maggiormente addolorò quel prigioniero, che aveva passato la sua vita fra le spelonche in luoghi selvaggi.

Dovetti contentarmi di guardare questo castello sospeso sulla mia via, simile ad un nido di briganti. Proseguii la strada ai lati della quale si ergevano due alti monti ed una terza altura chiudeva l'orizzonte. Giunto in cima a questa mi si presentò dinanzi un panorama sublime. Di lassù si scorgeva il più splendido paesaggio degli Appennini; colline e pianure si alternavano e dietro si stendevano catene di alti monti su cui, in lontananza, si scorgevano borghi e città, fra le quali Vico e Guarcino.

La strada scendeva quindi dolcemente nella fertile campagna di Alatri, e finalmente dopo aver girato una collinetta vidi dinanzi a me questa interessante città. Cavalcando attraverso mura annerite dal tempo, in un meraviglioso mattino d'estate, fui rallegrato dall'aspetto vivace della città, ricca di splendidi palazzi che dimostrano una fiorente vita cittadina nel passato. Non avevo ancor visto una città di così bell'aspetto nei monti del Lazio e non ve n'è altra che abbia un'architettura di stile così spiccatamente gotico-romano.

Alatri è il centro principale d'industria e di commercio dei monti Ciociari, vi si fabbricano stoffe, tappeti, coperte di lana, e quelle giubbe e quei cappelli a punta che sono tanto in uso in tutto il Lazio. Il giorno in cui vi arrivai, c'era mercato. Le strade e le piazze, ingombre delle frutta d'agosto, fichi, pesche, albicocche e grosse pere, offrivano un lieto

spettacolo, ed erano gremite di gente. I montanari, alti, nerboruti, con le loro giubbe scarlatte, coi sandali e i cappelli di feltro a punta ornati di fiori, mi ricordarono che mi trovavo nel Latium ferox di Virgilio, i cui abitanti robusti ed energici hanno conservato durante tutto il medio evo il loro carattere.

Le strade sono quasi tutte strette, oscure e cupe, tutte le case essendo costruite in tufo scuro, di rado imbiancate con la calce. Rimasi stupito di trovarne buon numero che avevano l'aspetto di palazzi, nome che vien dato nelle città romane ad ogni casa, che abbia un portone, tanto più se appartiene ad antica famiglia patrizia. In Alatri dovettero essere dunque moltissime le famiglie nobili che fiorirono durante i secoli XV e XVI, giacchè la maggior parte dei palazzi della città appartiene a quell'epoca. Hanno generalmente il tetto piatto, molto sporgente, e la facciata in massi quadrati tagliati molto regolarmente in pietra calcarea, il cui colore scuro produce un bellissimo effetto. Le porte sono di architettura gotica, ad archi snelli; ne osservai sei in un bel palazzo; su di esse posava un cornicione di squisito disegno e sopra questo erano sei finestre di splendide proporzioni. Tutte le finestre in Alatri sono di stile gotico-romano, molto simili a quelle degli antichi campanili di Roma, e sono formate da due archi divisi nel mezzo da una colonnetta.

Questo stile architettonico dà un carattere imponente alla città. Alcuni edifici mi richiamarono alla memoria quelli del periodo delle repubbliche toscane, quella di Siena specialmente. Il palazzo Jacovazzi si distingue dagli altri per la sua altezza e per la severità della facciata in stile semigotico: è ora proprietà e sede del Municipio.

Da Roma ero stato raccomandato ad una delle famiglie più distinte di Alatri che per ricchezza e per influenza aveva avuto una parte importante nella storia della città.

Appena arrivato cercai subito il palazzo Grappelli, e trovatolo, mi accorsi che meritava veramente la denominazione di palazzo. Un'ampia corte interna, belle scale in pietra, un salone magnifico, dove era stato eretto un teatrino, molte stanze con soffitti dipinti e pareti adorne di affreschi, ed infine in mezzo ad alcune costruzioni laterali in pessimo stato, una torre in rovina rivelava che un tempo vi era una fortezza e che quel palazzo era stato la residenza di ricchi signori. Ora però tutto era in stato di completo abbandono e le stanze poveramente mobiliate e con reliquie di tempi migliori. Mi si assicurò che questa famiglia, al pari di molte altre della città, era caduta in gran miseria. Ma la gioventù che

vidi in questa casa era tutta fiorente di vita e di salute, ed ammirai con piacere le vivaci fanciulle cresciute magnificamente in quella fresca aria montanina. Esse facevano a meno volentieri dei noiosi divertimenti di Roma e, sempre in moto, animavano colla loro allegria le piccole riunioni cittadine ed alla sera si divertivano giocando e ballando.

Quando chiesi quali fossero le cose più notevoli di Alatri, mi raccomandarono in modo particolare la chiesa di Santa Maria Maggiore e le mure ciclopiche, che in fondo erano state lo scopo della mia gita. La chiesa, situata in una piazza circondata interamente da costruzioni medioevali, è piccola e in stile gotico-romano. Aveva in origine due campanili, ma ora ne rimane in piedi uno solo che forse non fu mai finito ed è mezzo rovinato. Le finestre sono ad archi romani. Una facciata assai irregolare, con tre porte di architettura gotica, produce una strana impressione, perchè nella porta di mezzo si apre una finestra circolare che non va affatto d'accordo col resto dell'edificio. Il rosone di questa finestra è guarnito di vetri dipinti.

La cornice della porta ha un ornato di foglie di acanto, ed il suo arco riposa sopra un gruppo di colonne. Entrando in chiesa rimasi deluso perchè, sebbene le tre navate composte di quattro grandi archi siano di stile semigotico, tutto l'interno appare guastato da un cattivo gusto moderno, coperto di falsi marmi e dipinto fin sulla volta a croce con variati colori com'è di moda ora a Roma. La navata di mezzo è ora rischiarata a ciascun lato da una finestra a rosone, ed anche la tribuna riceve la luce da un'altra finestra simile. Invano cercai antiche sculture: l'unica che meriti qualche attenzione è il battistero, una vaschetta sostenuta da tre cariatidi, lavoro assai grossolano del medio evo.

Mi recai subito alle mura ciclopiche. Al pari di Ferentino, Alatri era in origine circondata da queste mura, ma quelle intorno alla città sono quasi completamente rovinate; solo le mura della così detta rocca, si sono conservate meraviglioso monumento di quell'epoca, di cui non trovasi l'eguale in tutto il Lazio. La sola vista di queste mura, che possono sostenere il paragone con le più gigantesche dell'Egitto, basta a compensare ampiamente della fatica del viaggio.

L'antica rocca di Alatri(chiamata ora "Civita" quasi città per sè stessa) è sulla collina più elevata, attualmente vicino al duomo, giacchè, come a Ferentino, la cattedrale e il vescovato si appoggiano alla vetusta fortezza. Questa collina, sulla cui cima spianata si erge il duomo, è intieramente circondata, sostenuta e quasi rivestita di mura ciclopiche,

alte da 80 a 100 piedi. Allorquando mi trovai dinanzi a quella nera costruzione titanica, conservata in ottimo stato, quasi non contasse secoli e secoli, ma soltanto anni, provai una ammirazione per la forza umana, assai maggiore di quella che mi aveva ispirata la vista del Colosseo. Perchè in un periodo di maggiore cultura, con mezzi meccanici ben superiori, si capisce come si siano potuti edificare il Colosseo, le Terme di Caracalla e di Costantino; senza chiedere troppo alla forza degli uomini, perfino le mura di Dionigi a Siracusa, e perfino le opere più grandi che in questo genere io abbia mai veduto fin qui non destano tanta meraviglia.

Qui vediamo dinanzi a noi mura colossali di cui ogni pietra non è un grosso pezzo quadrato, ma un vero macigno di forma irregolare, e se ci domandiamo meravigliati con quali mezzi si siano potuti collocare tali massi gli uni sugli altri, si arriva ancor meno a comprendere come sia stato possibile incastrarli gli uni negli altri, in modo da non lasciare il minimo interstizio, producendo l'effetto di un gigantesco mosaico lavorato con la massima precisione.

La tradizione attribuisce questo genere di costruzione degli antichissimi tempi latini, ai tempi di Saturno, e li sbalza addirittura fuori del periodo della civiltà storica. Però la scienza, che in Italia si occupa tanto di ricerche intorno agli Indo-Germanici e ai Pelasgi, è costretta a confessare di non saper nulla intorno a quei popoli che hanno costruito quelle opere colossali. La loro vista sola basta a convincerci che una razza che potè costruire tali mura, doveva già possedere un'importante cultura e leggi ordinate.

La vicinanza tra di loro di queste città ciclopiche sparse per tutto il Lazio dimostra che in tempi antichissimi esistette in questa regione un gran numero di repubbliche o comuni autonomi di cui ignoriamo le scambievoli relazioni, ma dalla costruzione di tali immense fortificazioni possiamo dedurre come esse fossero continuamente in guerra fra loro, ed esposte soprattutto alle invasioni dei malviventi per le loro posizioni isolate e malsicure. Se si volesse stabilire una proporzione esatta fra la forza degli uomini e le dimensioni delle loro opere, si dovrebbe supporre essere stati giganti coloro che costruirono quelle mura, o che le assaltavano con nemico furore, ma queste costruzioni appartengono al periodo delle opere colossali, con le quali s'iniziò la civiltà umana presso tutti i popoli ed in tutte le parti del mondo, finchè poi dalla grandezza materiale salì a quella che con mezzi perfezionati produce opere belle ed

artistiche. Non si dovrebbero far risalire queste opere ciclopiche a tempi remotissimi; forse furono costruite nel Lazio dopo la fondazione di Roma. Non è molto grande il passo che separa queste costruzioni di massi irregolari da quelle più regolari degli Etruschi e dei Romani.

Si usciva dalle mura di questo Campidoglio dell'antica Alatri per una porta principale tuttora esistente: un'immensa costruzione in pietre disposte orizzontalmente; oltre a questa vi è un'uscita secondaria e, nel muro esposto a mezzogiorno, vi sono tre nicchie quadrate che fanno supporre vi fossero collocate le statue degli Dei, mentre si può ragionevolmente ritenere che un ciclopico avanzo nel centro del castello fosse l'altare su cui erano offerti i sacrifizi solenni.

Fino al 1843 queste mura erano mezzo sepolte fra le macerie e le piante rampicanti e non vi era una strada che permettesse di farne il giro. Una visita di Gregorio XVI fece nascere negli Alatrini la felice idea di liberare da quegli ingombri quell'impareggiabile monumento della più remota antichità. Duemila uomini lavorarono dieci giorni per sgombrare i rottami, e così l'Acropoli fu non soltanto liberata dalle macerie che la deturpavano, ma provvista di una strada che ne fa il giro e si chiama via Gregoriana. In quel tempo furono pure riaperte la porta principale e la salita che conduce alla piazza del castello, che è larga e bene spianata ed ora è cinta da un parapetto di pietra, che s'innalza sopra le mura ciclopiche, e, siccome non vi è altra costruzione che il duomo, vi si gode liberamente un'ampia vista del paesaggio montuoso. Il colpo d'occhio è splendido ed affascinante per la sua estensione e bellezza, ed io non tenterò nemmeno descriverlo od anche soltanto accennare alla linea dei monti che, nel luminoso cielo turchino, si stendono sopra l'amena campagna. In tale quiete perfetta, anzi in quella completa solitudine, in quei luoghi misteriosi, testimoni di un'antichissima civiltà, si prova vivamente l'impressione del sublime. Non parlerò nemmeno del piccolo duomo che sorge solitario da un lato della piazza con un bizzarro campanile ed una facciata che appartiene al secolo xviii. Una larga gradinata di pietra conduce alla porta della chiesa. Purtroppo nell'interno tutto è rimodernato, e con dispiacere dovetti riconoscere che, anche nei luoghi più remoti del Lazio, la falsa ambizione dei preti e dei comuni ha guastato, restaurandole, le venerate reliquie dell'antichità. La mania di seguire la moda che distrugge a poco a poco i costumi nazionali, si attacca dovunque, anche ai fabbricati, che rimoderna con facciate senza stile, e ne guasta l'interno con puerili pitture dai colori stridenti come

nella Roma moderna, dove per mancanza di gusto si gareggia coi Siciliani.

Girai per le strade di Alatri e la città mi piacque sempre più. Essa è circondata da giardini abbastanza ben coltivati, e nell'interno una vita vivace ed operosa rivela un'agiata condizione economica e, siccome in tutti questi luoghi dalla qualità del pane e del vino, come alimenti principali, si può con ragione dedurre quali siano le condizioni economiche del paese, mi persuasi che gli Alatrini non soffrono miseria. Non mi ricordo di essere stato importunato ad Alatri da nessun mendicante, come succede nella Sabina e nei monti Albani, dove essi vi seguono a frotte. Però i prigionieri domandano l'elemosina dalle finestre del loro carcere, spettacolo che, del resto, si può avere in quasi tutti i dintorni di Roma. Mentre il nostro rigoroso sistema di prigionia usa d'isolare più che sia possibile i carcerati dal resto del mondo, murandoli anzi nelle loro celle, come se fossero appestati, qui la tolleranza meridionale concede loro molta libertà.

Nelle città del Lazio udivo spesso i prigionieri cantare le più allegre canzoni dietro le loro inferriate, o rispondere ai ritornelli cantati nella strada o li vedevo raccontare a gesti storie che un forestiere non poteva certamente capire. Ora persino la questua è loro permessa in carcere. Questi delinquenti, spesso condannati all'ozio per lievi mancanze, sporgono fuori dell'inferriata una lunga canna cui, per mezzo di un filo, è assicurata una borsetta. Si vedono sempre due, tre, quattro di queste borse in movimento, ed i prigionieri sembrano dei pescatori i quali colla più grande tranquillità d'animo tengono la loro canna in mano per tirarla su quando il pesce ha abboccato all'amo. Così le borsette vuote dondolano nell'aria e, se qualcuno passa davanti alle prigioni, canna e borsetta gli calano immediatamente davanti al naso ed il carcerato chiede vi si metta una moneta per amore della Madonna. Gradisce anche un sigaro, che fumerà con piacere dietro le sbarre di ferro, ma se gli riesce di carpire due baiocchi manderà subito a comperare del vino o ciò che desidera. Non potevo trattenermi dal ridere osservando questa classica arte di mendicare e ripensavo sempre alla leggenda che racconta come Belisario domandasse l'elemosina ai passanti dalla finestra della sua prigione. Questa favola dimostra, se non altro, quanto sia antica questa tolleranza, e forse anche negli antichi tempi romani i prigionieri sporgevano dalle finestre del loro carcere canne simili a queste.

Partii da Alatri per recarmi a visitare la famosa grotta di Collepardo, di cui avevo sentito tanto decantare le bellezze. Un vero sentiero di montagna conduce lassù, perchè alla distanza di poche miglia dalla città la natura del terreno cambia assolutamente carattere, ogni coltura scompare e si giunge alla montagna attraversando la selvaggia solitudine d'ignude rocce calcaree di color rosso.

Un carbonaio del piccolo villaggio alpestre di Collepardo, che aveva deposto il suo carico ad Alatri, e che avevo incontrato per caso, fu il mio compagno e la mia guida attraverso quei monti e, quantunque il suo rozzo dialetto fosse un po' difficile per me, ascoltavo volentieri i suoi racconti sulla vita povera ma contenta che conduceva nel suo paesello.

Le rupi erano sempre più erte e scoscese, la valle si andava facendo più romantica e selvaggia, eravamo giunti al torrente Cosa, che scorre impetuosamente attraverso quei monti. Le sue acque di una tinta verdognola come quelle dell'Inn nell'Engadina, abbondano di trote.

Questo torrente si può chiamare l'unica vena di vita della montagna, perchè la sola angusta striscia di coltura in quel deserto di rupi si trova sulle sue sponde. Dopo un rapido corso si getta nel Sacco e con esso finisce nel Liri.

Risalendo il Cosa, al punto in cui esso si apre con violenza la via per una stretta gola ai piedi di un'erta massa di rupi, giace Collepardo. Non si può immaginare nulla di più malinconico. Un gruppo di misere casupole di calcare, disposte in fila, interrotte solo da una bizzarra chiesa: un muro nero e sgretolato le circonda, nuova prova che anche questo miserabile paesello non era al sicuro dalle rapine del nemico.

Pochi giardini, con scarsi alberi d'ulivo e vigneti danno un'idea dell'estrema povertà del luogo, perchè meno il piccolo piano su cui è posto Collepardo, tutt'intorno non si vedono che rupi.

Il buon carbonaio m'invitò a salire in casa sua, cosa che feci ben volentieri perchè, altrimenti sarei stato imbarazzato a trovare alloggio: mi accomodai alla meglio in quella misera stanza per passarvi le ore più calde della giornata. Nel frattempo giunsero alcuni signori di Velletri a cavallo per vedere anch'essi la grotta, così mi accadde ciò che avevo desiderato molto, perchè essendo in compagnia mi sarebbe stato possibile osservare quella meraviglia alla luce delle torce.

La grotta è posta molto al disotto di Collepardo; vi si scende per un ripido sentiero; laggiù il torrente Cosa rumoreggia in una stretta gola e,

per un poco, la strada segue le sue sponde ombreggiate da piante di castagno e d'ambo i lati sorgono imponenti pareti di roccia. A sinistra s'innalza il monte Marginato che stende nell'aria la sua imponente massa, gettando un'ombra cupa e profonda sulle acque che gorgogliano con forza tra le pietre. A destra sorge un'altra rupe non meno scoscesa, ricca di vegetazione, nella quale appunto è scavata la grotta. Anche l'entrata promette qualche cosa di straordinario. Una nera gola si apre fra scure masse di pietra, ed una corrente d'aria gelata pare scaturisca dalla più grande profondità.

Ci coprimmo bene prima di entrare. Le guide ci avevano preceduto colle torce accese, e le leggiere nuvole di fumo che salivano su dalle fessure della parete esterna ci avvertirono che esse erano già dentro la grotta. Ho visto molte caverne nei monti e, in generale, non sono molto propenso ad ammirare questi scherzi della natura; perciò entrando nella grotta di Collepardo non mi ripromettevo nulla di straordinario. Ma nonostante le mie prevenzioni, confesso che mi fece molta impressione specialmente per la sua grande ampiezza. Si compone di due parti principali, come due immense sale che, in mezzo, sono separate da una parete mezzo rovinata. Le pareti sono nere o giallo-scure come il pavimento, sparso di grosse rocce sulle quali ogni tanto bisogna arrampicarsi, e dalla volta irregolare del soffitto pendono stalattiti delle più svariate forme, mentre altre bizzarre figure isolate o in gruppi pare che sorgano dal suolo stesso incontro a voi. Le figure più strane si sono formate nella parte posteriore della grotta e per farcele vedere meglio, le guide ci fecero aspettare un poco per illuminarla bene prima che vi entrassimo. Molti uomini e ragazzi si erano messi in piedi qua e là colle loro torcie, e per di più avevano acceso in diversi punti grossi mucchi di stoppa. Quando gettai lo sguardo nella sala così illuminata essa offriva certamente uno strano spettacolo. Ora pareva di entrare in un tempio egiziano sostenuto da nere colonne tra le quali fossero sfingi ed idoli scolpiti. Ora invece sembrava di girare in un bosco di palme o di altre fantastiche piante di pietra. Dalle pareti pareva pendessero lancie, sciabole e rigide armature di nani e giganti. Tutto ciò si animava alla luce delle fiaccole che facevano risaltare alcuni gruppi, gettando un'ombra profonda sugli altri. A volte le nuvolette di fumo, errando qua e là formavano come un velo; i gufi ed i pipistrelli, disturbati nella loro quiete, svolazzavano nell'aria umida gettando grida selvagge. Queste grotte non si possono descrivere, perchè ognuno le vede in modo speciale e le popola di fantasmi diversi, secondo l'immaginazione

individuale. Naturalmente le più notevoli di queste stalattiti hanno un nome ma mi è rimasto impresso soltanto quello dei così detti "Trofei dei Romani". Senza dubbio la grotta di Collepardo contiene un seguito di sale simili a queste e si estende profondamente nella montagna, ma ancora non vi è modo d'inoltrarvisi.

In questa regione vi sono molte grotte scavate nella pietra calcare, che un tempo saranno forse servite di rifugio a qualche eremita. Anche nell'anno 1838, presso Collepardo, in una grotta del vicino monte Avicenna, abitava un eremita.

Nel settembre di quell'anno si presentò là un giovane francese, a nome Stefano Gautier, e disse di aver seguito un'ispirazione celeste che lo aveva chiamato in quella solitudine per condurvi una vita da anacoreta. Lo straniero si stabilì in quella grotta, dove gli portavano da mangiare e da bere. Pregava e portava cilizi; lo si vedeva spesso a Collepardo, a Veroli e nella Certosa di Trisulti, dove visitava le chiese e discorreva coi frati. La sua condotta era irreprensibile, anzi passava per santo, quantunque fosse ancora molto giovane. Gautier aveva già trascorso due anni in quel l'eremitaggio, quando un giorno gli sbirri circondarono il suo rifugio, e lo arrestarono, conducendolo con loro. Nessuno conobbe la causa di questo arresto e non si potè sapere nulla di preciso del suo destino; si seppe solamente che il santo era stato consegnato nelle mani della giustizia francese e corse voce che egli avesse preso parte ad uno degli attentati contro la vita di Luigi Filippo.

La natura ha riunito molte cose notevoli intorno a Collepardo, perchè solo a poca distanza dalla grotta delle stalattiti, vi sono le famose sorgenti d'Italia, il pozzo di Santulla, proprio sulla via che conduce alla Certosa. Volevo giungere a questa Certosa prima di sera per chiedere ospitalità ai frati. Dopo una cavalcata di mezz'ora in mezzo agli orti e su di un sassoso altipiano, mi trovai ad un tratto sull'orlo di una cavità circolare che mi rammentò vivamente le grandi latomie di Siracusa. Questa misteriosa fonte ha una circonferenza di 1500 passi, discende ad una profondità di 150 piedi circa e nel fondo lascia vedere una foresta di un verde cupo di arbusti e piante rampicanti che al più leggero soffio della brezza si agitano mollemente come le onde di un lago.

Il sole dall'alto del limpido cielo lasciava cadere delle striscie di luce in quella profondità e vedevo delle bianche farfallette svolazzare allegramente qua e là fra le piante di quello strano bosco sprofondato laggiù. Tralci fioriti coprivano i rami di questi alberi che, a quanto si

assicura, sono alti fino trenta piedi, e pure visti dall'alto sembrano piccoli arboscelli. Quella splendida fioritura cresciuta a quella profondità, i selvaggi sentieri che si confondevano come un laberinto nell'oscura boscaglia, lo svolazzare delle farfalle nate laggiù, seducevano la fantasia che si figurava in quel magico boschetto sotterraneo un paradiso di fate ed un giardino di delizie per Oberon e Titania.

Laggiù scaturiscono abbondanti sorgenti dal corso misterioso che mantengono il verde dell'erba, mentre questa vasta conca tira a sè la rugiada notturna.

Discendendo collo sguardo lungo le pareti giù nel profondo si osserva una meravigliosa vegetazione: in forme bizzarre e fantastiche, simili alle stalattiti, crescono dappertutto cespugli di lentischi e ginestre selvatiche dai fiori dorati. Le pareti presentano tutti i variati colori dell'iride perchè ora la roccia si tinge di un delicato grigio argenteo, ora invece è di un bel rosso acceso, giallo o turchino scuro, oppure nero addirittura. Il paesaggio alpestre che circonda questa fonte offre uno spettacolo di straordinaria bellezza. Qui, dietro gli alberi verdeggianti, sorge melanconicamente l'oscuro villaggio di Collepardo, laggiù una lunga distesa di valli rocciose discende a perdita d'occhio, più in là si elevano monti giganteschi dalle forme maestose sulle cui cime ancor vergini si librano solitarie aquile reali e le nubi dalle forme fantastiche stendono il loro bianco velo.

Sull'orlo dell'abisso erano sdraiati, insieme con le loro capre, pastori dall'aspetto quasi selvaggio, ciociari della montagna coi lunghi bastoni a foggia di lancia, ed animavano colla loro presenza la scena grandiosa, mentre alcuni robusti ragazzi si divertivano a gettare dei sassi che cadevano in quella profondità con un sordo rumore, facendo uscire dai loro nidi i colombi selvatici che svolazzano qua e là sopra le piante. Quantunque questi pastori mi volessero dare ad intendere che in fondo a quel misterioso abisso vivesse una tigre, pure ammettevano che di quando in quando vi facevano scendere le capre legate ad una corda. Queste bestie trovavano laggiù acque ed erba in abbondanza e vi rimanevano dei mesi finchè non le andavano a riprendere riportandole su ingrassate ed in ottimo stato.

Se il pozzo fosse in Germania od in Scozia la fantasia popolare lo avrebbe certamente popolato di esseri favolosi, ma gl'italiani in genere non hanno nessuna tendenza per le favole. L'aria è troppo limpida e serena in Italia perchè i racconti del soprannaturale possano essere

gustati. Trovai il racconto dell'origine di questa fonte, narratomi da quei pastori, molto caratteristico perchè è una leggenda. Il pozzo, mi dissero, era una volta una grande aia circolare; i contadini un giorno osarono battervi il grano benchè si solennizzasse l'Assunzione della Beata Vergine. La Madonna adirata di quel sacrilegio fece sprofondare ad un tratto l'aia con tuttociò che vi si trovava sopra e così si formò il pozzo circolare. Del resto, non essendovi nei dintorni alcuna traccia di vulcani, potrebbe essere giusta l'opinione di alcuni che suppongono che il pozzo fosse una caverna di cui sia sprofondata la volta.

Mi staccai con dispiacere da questo meraviglioso fenomeno immaginando con desiderio il meraviglioso spettacolo che esso deve offrire di notte, quando la luna è sospesa su quelle montagne deserte ed i suoi pallidi raggi illuminano le pareti della fonte penetrando tra le piante del magico bosco.

I pastori guidarono me ed il mio compagno per sentieri sassosi, finchè giungemmo alla strada mulattiera che conduce alla Certosa di Trisulti. Quest'abbazia tanto famosa doveva essere distante circa un miglio tedesco e non si vedeva ancora ma ci additarono lassù, in cima alla montagna che avevamo dinanzi, la scura linea di un bosco di quercie, dietro al quale si trovava un podere, vero modello di coltura alpestre. Ricordo pochi paesaggi montuosi più belli e d'aspetto più selvaggio di quello che traversavamo allora. Ora lo sguardo si sprofondava giù in un vertiginoso abisso in fondo al quale rumoreggiava il Cosa, ora si elevava alla splendida catena di monti, fra i quali spiccava gigantesca la piramide del Monna spingendo la sua cima verso il cielo.

Seguitammo a scendere e dopo una mezz'ora di cammino, reso molto malagevole per dover girare le grigie roccie, che poste sulla strada come sentinelle sbarravano il passo, giungemmo al torrente che si è aperto la via tra due montagne e tuonando precipita le sue acque spumeggianti attraverso le nere gole.

Il sole era già calato dietro i monti e i suoi ultimi raggi infuocati indoravano ancora le vette circostanti. Cominciammo a salire e nel voltarmi indietro vidi a poca distanza da me otto o dieci soldati che si avanzavano a rapidi passi sul sentiero dietro di noi. Dubitai che dessero la caccia ai briganti, ma non era probabile, perchè la famigerata banda di Gasperone non abitava più quelle montagne, dove ancora in molti luoghi si possono leggere nomi di briganti famosi da loro stessi scolpiti sulle roccie coi loro pugnali.

Quei soldati, come mi disse il mio compagno che si mostrava bene informato, venivano da Alatri per visitare la Certosa, godendo dell'ospitalità dei frati, perchè dovete sapere che le ricche tonache bianche sono obbligate dalla loro regola ad ospitare gratuitamente per tre giorni ogni viandante, e se anche un intero esercito volesse entrare nella Certosa, non potrebbero chiudergli in faccia la porta del convento. Siccome sapevo che la brigata insieme alla quale avevo visitato la grotta di Collepardo aveva passato la notte precedente alla Certosa, mangiando alle spalle di quei monaci, quando vidi dietro di me quei soldati mezzo affamati, che già pregustavano col pensiero il buon pranzo del convento, fui preso da una certa inquietudine, cominciando anch'io a sentire gli stimoli della fame: "Vieni, Francesco, dissi, affrettiamo il passo, perchè quei soldati non arrivino prima di noi alla Certosa, se no correremo il rischio di trovare i frati di cattivo umore quando busseremo alla loro porta per chiedere vitto ed alloggio". Francesco sorrise e proseguimmo la nostra via con maggiore alacrità.

Ero giunto all'altura su cui sorge la Certosa di Trisulti: essa si trova sul largo altipiano delle magnifiche montagne che le si aggruppano intorno. Uno splendido bosco di quercie mi toglieva ancora la vista del convento. Andando avanti vidi da lontano due frati vestiti di bianco che passeggiavano su e giù nella fresca ombra di quegli alberi maestosi, ed invidiai la quiete filosofica che sembravano godere. Se vi è un luogo in cui lo spirito umano possa raccogliersi nella più seria ed elevata meditazione, dev'essere qui in una delle più sublimi solitudini che io abbia mai visto.

Una leggera brezza vespertina soffiava, agitando le vette di quelle ombrose piante secolari, ed intorno sorgevano solenni e maestose le montagne. Ad un tratto la campana del convento echeggiò nel bosco e sentii in me l'influenza potente dello spirito medioevale.

Mi avvicinai ad un frate presentandomi come viaggiatore e gli chiesi ospitalità per una notte. Il frate ben pasciuto, dall'aspetto imponente, m'indicò il convento e mi disse che dovevo presentarmi al guardiano. Dopo un breve tratto di strada attraverso al bosco la Certosa si presentò al mio sguardo.

Giunto ad una tale altezza su di una montagna quasi impraticabile, dopo essersi dovuto arrampicare faticosamente per pendii diruti e rocciosi, il viandante prova una deliziosa ed ineffabile impressione, trovandosi ad un tratto dinanzi ad una fiorente oasi di coltura. Quel

piccolo paradiso, l'Eden di quei monaci, spiccava sul fondo delle foglie verdi, solitario, fantastico, meraviglioso. La Certosa non si compone di un unico fabbricato, ma di un gruppo di cappelle, di chiese, di cortili cintati, di costruzioni di ogni genere, la cui comoda disposizione denota ricchezza e tranquilla felicità. Le fanno corona folte piante annose isolate od in gruppi. Nei recinti chiusi vacche, pecore e capre pascolavano mentre i frati camminavano su e giù sorvegliando i servi che lavoravano; vi era un animato movimento di ogni genere di persone, tutte mantenute dal convento.

Il guardiano, uomo alto e serio con una lunga barba ondeggiante, mi accolse cortesemente alla porta del vestibolo e mi disse di presentarmi al superiore che avrebbe poi dato l'ordine che fossi ricevuto.

Indi venni condotto nel vasto cortile interno di forma quadrata, circondato dai diversi fabbricati del convento e dalla facciata della chiesa.

Tutto è mantenuto colla più scrupolosa cura e nettezza, ma le costruzioni non hanno nulla di antico anzi portano l'impronta, dello stile sfarzoso del secolo xviii. Nell'interno vi sono dei corridoi lunghi ed ariosi sui quali si aprono d'ambo i lati le celle dei monaci. Trovai il superiore seduto dietro ad uno scrittoio in una stanza spaziosa, occupato ad ascoltare alcuni domestici che pareva gli esponessero qualche richiesta. Egli accettò volentieri la mia preghiera di essere ricevuto nel convento senza farmi alcuna domanda sulla mia patria o sulla mia religione. Certamente a quei frati bastano un rapido sguardo alla fisonomia del forestiere e le poche parole scambiate con lui per riconoscere subito il cattolico od il protestante.

Salutai il superiore dopo che mi ebbe consegnato ad un laico incaricato di condurmi alla foresteria. Si dà questo nome alle camere appartate che in questi conventi sono destinate ai forestieri: ve ne sono di prima o seconda classe secondo la condizione dell'ospite. Chi è giudicato più distinto ha una camera nella foresteria nobile o dei signori, gli altri si contentano di un modesto alloggio, e quelli d'infima condizione sono condotti nelle camere dei servi o nelle stalle dove i poveri viandanti si devono sdraiare sulla paglia. Mi fu assegnata una buona camera vicino al refettorio. Un letto pulito, cambiato di fresco prometteva un buon riposo ed il cameriere, un giovane svelto, che era stato garzone d'albergo in diverse città, ed ora era addetto alla foresteria, mi dette la consolante notizia che all'ora prescritta dalla regola sarebbe stata

servita la cena nella sala attigua. Nel frattempo, mi disse che ero libero di visitare il monastero come più mi piaceva.

Un frate laico mi accompagnò in giro facendomi da cicerone. Vi sono però poche cose notevoli nella Certosa, poichè purtroppo tutto ciò che vi era di antico è sciupato o scomparso, così non trovai nulla d'interessante per i miei studî. Però la posizione stessa del monastero su quegli alti monti, la vita di quei monaci nella loro solitaria repubblica, la loro influenza pratica sulla società, la storia di questi ordini singolari offrono ampia materia di osservazione. Brunone, uno di quei santi leali dell'epoca delle crociate, fondò la regola dei Certosini alla fine dell'xi secolo. Questo ordine che riuniva in sè la vita sociale dei monasteri e quella degli anacoreti, condannato alla più rigida rinunzia di ogni cosa terrena, prese il nome dal luogo detto la Certosa vicino a Grenoble dove venne fondato. I suoi statuti(consuetudines Cartusianae) risalgono all'anno 1134 ed ottennero l'approvazione del Papa nell'anno 1170. L'ordine si estese presto in molti paesi. Fino dall'anno 1208 questi padri si stabilirono a Trisulti, di cui Innocenzo III fece loro donazione. Essi trovarono qui un monastero in rovina che era appartenuto un tempo ai Benedettini, e nell'anno 1211 eressero su quelle rovine la nuova Certosa. Si dice che un Castello Trisalto abbia dato il nome a quel luogo comunemente designato a tribus saltibus da tre alture boscose.

Quantunque il voto di povertà sia imposto ai monaci dalla regola, esso non esclude la ricchezza del convento e Trisulti acquistò col tempo vaste tenute, che possiede ancora, nella provincia di Frosinone. Questa Certosa non si distingue certamente, come quella di Pavia, per la bellezza dell'edificio e per le opere d'arte, anzi ha un carattere assolutamente rurale. Non vi si trovano nemmeno gli splendidi locali che vanta la Certosa di Roma nelle Terme di Diocleziano, questa del resto è una fondazione più recente, del secolo xvi, e riconosce come madre la veneranda Certosa di Trisulti. La piccola chiesa del convento costrutta da Innocenzo III nell'anno 1211 e restaurata nell'anno 1768 è adorna di svariati marmi e di molte pitture. Sulla porta d'ingresso vi è una pittura che ricorda la fondazione della Certosa e vi è rappresentato Innocenzo III che ne mette in possesso i certosini. Ai due lati della chiesa è dipinto il martirio dei Maccabei a cui fa riscontro la persecuzione che i Certosini ebbero a soffrire in Inghilterra sotto Enrico VIII. Nel coro, meravigliosamente adorno, si vede Mosè che fa scaturire una sorgente dalle rupi e, di fronte, Brunone che ripete lo stesso refrigerante miracolo.

Il refettorio, in cui si vede una pittura adattata al luogo, rappresentante il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, è una sala molto spaziosa. Qui i fratelli nei giorni di festa si riuniscono ad una mensa comune, perchè negli altri giorni la regola prescrive ad ognuno il pasto solitario nella cella. Mi fecero vedere anche la cucina brillante di pulizia ed il forno dove si prepara in grande abbondanza un pane gustoso di due qualità una fina e l'altra più ordinaria. Un bacino d'acqua da cui sbocca un canale, mette in moto il mulino posto in un cortile. La cosa più degna di nota però, quella che mi fu mostrata col più giusto orgoglio, è la farmacia e vi entrai con maggior devozione di quella che mi avrebbe ispirato una chiesa. L'associare le cure del corpo a quelle dell'anima è un'antichissima missione di questi ordini religiosi posti in contrade isolate. I frati che si dedicano alla medicina vi spiegano un'attività largamente efficace e veramente degna di lode. La natura dei monti li invita ad un continuo studio delle erbe medicinali, che vi crescono in abbondanza, e infatti, quale più gradita occupazione vi può essere che l'erborizzare in quelle montagne, fra quelle roccie e quei ruscelli, raccogliendo piante balsamiche di miracolosa efficacia e prepararne poi delle medicine?

Un bel frate con una lunga barba rossiccia che gli dava proprio l'aria di un mago del medio-evo, mi ricevette nel più lindo tempio di Esculapio che si possa immaginare. Il fabbricato dov'è posta la farmacia non è lontano dall'ingresso del convento, nell'interno del muro di cinta. Davanti alla sua loggia aperta, un giardino molto ben tenuto rallegra l'occhio e l'animo, offrendo la vista di una quantità di piante fresche e profumate delle più svariate specie, fra le quali non mancano neppure molti fiori ornamentali. La terrazza era adorna di arbusti fioriti dentro grossi vasi. Entrando da una porta a vetri ci si trova in una ricca farmacia. L'erudito monaco mi fece molto gentilmente ammirare i suoi tesori racchiusi in vasi ed in ampolle, e rimpiansi vivamente di non saperne abbastanza di medicina, per poter comprendere e gustare la sua conversazione. Nel frattempo comparvero molti contadini a chiedere delle medicine che sono date gratuitamente. La farmacia di Trisulti è conosciuta e venerata ovunque come la casa della salute ed i suoi benefizi sono risentiti fin giù nella campagna del Lazio travagliata dalla febbre.

Se nei dintorni si fa molto uso dei medicinali di questa farmacia, i frati stessi vi devono ricorrere raramente. Non mi ricordo di aver trovato facilmente dei frati di aspetto più robusto. La tranquillità d'animo, una

dieta sempre ugualmente severa e soprattutto l'aria eccellente di quei monti li conservano in salute; i loro giorni e le loro notti scorrono interrotti od occupati continuamente dallo sforzo mentale delle ripetute preghiere e dalle funzioni di Chiesa, ma esente da patemi d'animo.

Il convento possiede una piccola biblioteca e vi sono dei frati che si dedicano a studi severi, ma in generale lo studio non è troppo coltivato in quel deserto. Me ne persuasi conversando col bibliotecario mentre passeggiavamo insieme nel grande cortile, e vedendo che le mie domande ponevano nell'imbarazzo quel bravo uomo stimai conveniente di non seguitare quel discorso. Mi congedai da lui e mi sedetti in uno dei cortili osservando le figure dei monaci che passeggiavano. Essi apparivano veramente maestosi nelle loro tonache bianche come la neve. Mi sorprese il vedere che non portavano nè barba, nè capelli poichè ogni mese si fanno radere due volte anche la testa lasciando solo una corona di capelli. Soltanto i laici portano una lunga barba come i frati cappuccini. Vi sono molti gradi fra i monaci, simili a quelli dei mistici seguaci di Pitagora. Non vidi i frati più elevati in grado perchè erano nelle loro celle. Il silenzio nel quale si racchiudono, può esser considerato come il sacrifizio supremo a cui possa giungere il fanatismo umano spinto dalla religione. Rinunciando alla parola, la chiave della vita e delle cose, essi confinano l'anima in una quiete quasi spaventosa che equivale ad una completa cecità morale: Memento mori è il raccapricciante saluto col quale essi interrompono il silenzio incontrandosi.

Pare che a questi morti che camminano, a questi spettri viventi, sia concesso di abbellire le proprie celle procurandosi qualche distrazione. Chi coltiva entro cocci dei fiori coi quali tacitamente conversa; altri si bea la vista con l'effigie di un santo, o custodisce un uccello in gabbia dilettandosi al suo canto, dato però che un uccello possa cantare in quelle celle di spettri. Talvolta la natura ribelle infrange con violenza la regola, che gli preclude la rivelazione divina della vita, ed il muto volontario comincia a parlare, ed è punito subito colla flagellazione. Può darsi che fra questi monti sereni e muti, il tormento del silenzio sia più sopportabile che altrove, perchè qui pare che la voce d'Iddio parli sola nello stormire del vento, fra le foglie del bosco, nello scrosciare impetuoso del Cosa selvaggio, nella bufera che imperversa fra lampi e tuoni, su quelle alte cime. Che spiriti tetri e melanconici devono giungere a plasmare la natura, le celle e la regola del convento! Se lo sguardo avesse la potenza di penetrare in queste anime chiuse certamente

vedrebbe le cose più straordinarie.

Da queste riflessioni mi liberò felicemente la cena, e quando il servitore mi annunciò che essa era pronta, l'appetito e la curiosità erano ugualmente grandi. Nel convento non si mangia carne ed anche l'ospite deve sottomettersi alla regola, invece si può avere olio ed aceto a piacere. La mia cena era così composta: Maccaroni all'olio, senza formaggio, cucinati alla perfezione insieme con erbe squisite cresciute in quei monti, fagioli verdi, freddi, conditi con olio e aceto, un fiasco di vino, più che mediocre con una punta di aceto, e per finire un pezzo di torta cotta coll'olio. Quantunque cercassi di fare onore ai miei ospiti potei mangiare ben poca di questa roba e mi contentai dei maccheroni e del pane eccellente. Appena mangiato uscii per vedere come fosse stata trattata la mia guida, e mi disse che gli avevano dato del pesce freddo ed una pagnotta di pane.

Intanto era calata la notte profonda, la luna piena splendeva sul più limpido cielo illuminando lo splendido anfiteatro dei monti. Gli alberi inondati di luce, le nere ombre delle rupi, i vapori luminosi che salivano dalle vallate, il terribile silenzio interrotto dal malinconico grido dell'upupa, il grosso gufo della montagna e il sordo mormorio del Cosa, tuttociò pareva circondare il monastero di un influsso magico. A mezzanotte mi destò il suono della campana - suonavano il matutino - sapevo che a quel suono un frate, l'excitator, andava di cella in cella a destare i monaci. Essi recitano i primi quattro salmi penitenziali, poi vanno in chiesa dove rimangono tre ore a cantar matutino. Tornati nelle loro celle seguitano ancora la preghiera, indi è loro concesso un breve sonno per riposarsi: e così avanti una notte dopo l'altra. Ascoltai i rintocchi della campana, che parevano risuonare strani e fantastici nell'aria, e sarei sceso volentieri in chiesa se non avessi temuto di turbare le preghiere di quei santi uomini. Mi addormentai al suono dei loro canti e appena spuntò il giorno la mia guida venne a bussare alla porta della mia cella, per avvertirmi che era l'ora di partire per Veroli.

Lasciai il convento senza poter ringraziare il superiore, perchè non vidi anima viva, all'infuori del portinaio e del servitore della foresteria che si scusò di non potermi portare il caffè, che mi aveva promesso la sera prima, perchè la regola prescrive un'ora fissa anche per la colazione. Questa notizia mi fece molto dispiacere, perchè la strada attraverso ai monti fino a Veroli è lunga e noi uomini civilizzati ci sentiamo raramente disposti ad un assoluto digiuno alla mattina. Francesco mi consolò con

un pezzo di pane, che aveva portato con sè, e le più saporite more mi furono offerte, con ospitale gentilezza, da un cespuglio nelle vicinanze del monastero.

In quella natura alpestre la mattinata era di una bellezza meravigliosa, il panorama cambiava continuamente d'aspetto fra quelle montagne variate. Per un'ora costeggiammo abissi scavati dal Cosa, poi il sentiero scende giù nelle vaste ed amene praterie alpestri. Tutto questo è proprietà dei Certosini. I cavalli del convento pascolavano a frotte in quei prati e di tempo in tempo si vedevano mandre intere di capre; i pastori erano attorno al fuoco, occupati a convertire in formaggio il latte inacidito. Piccole masserie, di cui molte appartengono al convento, rompono di quando in quando la solitudine; ne trovai alcune in posizioni così deliziose, nelle verdi vallate vicino a fresche sorgenti alpestri, che stimai felici le creature che vi trascorrono i loro giorni nella pace. Parevano tutti ben nutriti e nessuno domandò l'elemosina al passante.

Dopo parecchie ore di strada, lasciando dietro di me le montagne, giunsi alla fertile campagna di Veroli e questo grosso paese, collocato su di un'altura elevata si presentò pittorescamente al mio sguardo. Esso domina un sublime panorama e di là la vista, abbracciando tutto il Lazio, si spinge fino al regno di Napoli, e dovunque sulle pendici azzurrine dei monti vicini e lontani, spiccano le città e le bianche castella.

Veroli è città vescovile e non manca di una certa industria poichè provvede i dintorni di tappeti di qualità inferiore ma molto richiesta, essi sono tessuti a righe di svariati colori, merce strettamente nazionale ad uso dei ciociari.

Le strade sono strette e spesso tortuose e molti quartieri sembrano addirittura labirinti, pieni di casette strane, che, in generale, hanno una loggia aperta. Trovai la piazza interamente coperta di frutta estive, vendute ad un prezzo irrisorio, che in questi luoghi non reca meraviglia. In questa stagione il mercato rigurgita di cocomeri, che trovai squisiti. Un soldato congedato, veterano ancora dei tempi napoleonici, sentì per caso nel caffè dove mi ero seduto, che venivo dalla Certosa e mettendomisi vicino fece un'entusiastica pittura della vita di paradiso che si conduce nella solitudine di quel monastero, e disse che l'ultimo desiderio della sua vecchiaia era quello di essere accettato come frate laico nella Certosa. Disse che si sarebbe messo anche subito in pensione nel convento, se avesse posseduto la lieve somma che bisogna versare nella cassa dei frati. Poi il discorso prese la solita piega ed egli coprì il

governo pontificio di tutte le invettive che si odono giornalmente da tutte le bocche. Il bravo veterano mi fece nascere la curiosità di vedere la grande tenuta dei Certosini situata sotto Veroli. Il tempo stringeva, perciò decisi di rinunciare a Frosinone, che pure era così vicina, e di passare da quella tenuta per recarmi a Ferentino.

Lasciai Veroli durante un magnifico temporale. I monti dei Volsci e degli Appennini erano avvolti in una tinta azzurro-cupa, e le fuggevoli striscie di sole, facendo spiccare in un cupo riflesso ora questo ora quel monte, illuminando ora un castello ora un convento, producevano su quel fondo oscuro un incantevole effetto. Raggiunto dalla pioggia affrettai il passo attraverso ad una lussureggiante pianura ricca di frutteti e vigneti e mi trovai davanti alla fattoria della Certosa. Essa farebbe davvero onore ad un principe romano. I fabbricati della fattoria sono di aspetto grandioso e, tenuti con somma cura, uniscono in sè i caratteri del convento e del castello.

Anche qui la regola dei Certosini prescrive che sia dato cibo e bevanda al viandante che lo richiede, ed in caso di bisogno essi devono dare anche alloggio per la notte. Non chiesi nè una cosa, nè l'altra, ma domandai il permesso di visitare la fattoria. L'ispettore, un robusto frate laico, in tonaca bianca, con una lunga barba, non solo mi dette il desiderato permesso, ma mi accompagnò egli stesso in giro. Essendo abituato nel mio paese a figurarmi un fattore come un uomo di maniere piuttosto rozze e dure con alti stivali e speroni, col frustino in mano e la bestemmia sul labbro; un economo in tonaca da frate, colle maniere di un santo, mi sembrò qualcosa di straordinariamente originale. Con una simile guida i nostri primi passi furono naturalmente diretti alla chiesa che è costruita a fianco della fattoria. Entrando nella cappella la mia guida capì, anche troppo presto, di avere con sè un eretico, e il santo economo si gettò in ginocchio con un profondo sospiro, nel quale credetti distinguere il timore per il mio destino dopo morte e la sua bene intenzionata preghiera per la salvezza della povera anima mia.

La tenuta dei Certosini chiamata Ticchiena è uno dei più ricchi possedimenti della campagna. Mille coloni la coltivano, agricoltori che pagano l'affitto dei campi in natura o col proprio lavoro. Sei frati laici amministrano la tenuta e di quando in quando abitano la fattoria. Grano, olio, vino e frutta vi si raccolgono in quantità. La rendita è impiegata ai diversi scopi del monastero, fra i quali primeggia la beneficenza. Il nome della Certosa di Trisulti è benedetto e lodato in tutta la contrada, e mi fu

detto che molti anni prima in una tremenda carestia che desolò la Campagna, per molto tempo il convento provvide i viveri. "I Certosini hanno governato la campagna per moltissimo tempo"; ecco la lode che sentii ripetere più volte ed in molti luoghi. E con questa, voglio chiudere queste pagine come si conviene ad ospite riconoscente.

I MONTI VOLSCI(1860)

La grande catena dei Volsci ha principio nel territorio romano presso Velletri che giace sulle loro pendici, e si stende, in una linea di belle alture in parte coperte da boschi, fino oltre il confine napoletano, venendo a declinare verso Capua. Correndo parallela all'Appennino divide geograficamente il Lazio nelle due regioni Campagna e Marittima che formano le due provincie di Frosinone e di Velletri.

Lasciando Genazzano, dove mi ero recato a passare un'altra estate nel silenzio della campagna, ho voluto visitare i monti Volsci, che stavano sempre dinanzi a' miei occhi, quasi per invitarmi a valicarli per discendere nella pianura marittima. Una mattina sono dunque montato a cavallo e vi ho passato alcune giornate deliziose.

Da Genazzano ai piedi della catena vi sono appena tre ore di strada, attraverso ad una pianura solcata dal Sacco ed interrotta qua e là da collinette e da verdi praterie: questa pianura presenta gli stessi caratteri della campagna intorno a Roma. Non mancano le torri nere, cadenti in rovina, che si levano ad una data distanza l'una dall'altra, vestigia solitarie e melanconiche dei tempi feudali. Esse danno al paesaggio un aspetto suggestivo e ricordano l'epoca di barbarie quando i baroni medioevali dominavano il Lazio. Le famiglie dei Colonna e dei Conti eran proprietarie di gran parte della regione intorno ai monti Volsci. I Conti si suddividevano in più rami, quelli di Segni, di Valmontone e di Anagni; di preferenza però assunsero il titolo di Conti della Campagna, portando nel loro stemma l'imagine dell'aquila della campagna romana. Questa casa, illustre per avere avuto più papi, è estinta ormai da più di trecento anni; i Colonna invece esistono ancora e sono tuttora proprietari di una parte notevole del Lazio.

Più tardi altre famiglie, nipoti di papi, come i Borghese, i Doria, i Barberini, presero piede in questa regione e tolsero ai Colonna la parte migliore dei loro beni. Oggi, se si percorrono queste campagne latine e si domanda ad un pastore, ad un contadino, o agli abitanti delle nere

castella, a chi appartenga il territorio, i nomi più spesso ripetuti sono Colonna e Borghese, e quest'ultimo ancor più del primo. Quando poi dai monti Volsci si scende nella pianura marittima, è il nome e la signoria di un'altra famiglia baronale di Roma, quella dei Gaetani, duchi di Sermoneta, che più spesso risuona al nostro orecchio.

Attraversai il Sacco presso la Mola de' Piscari, molino veramente pittoresco, che sorge fra le rovine di un antico castello dei Colonna, del quale rimangono ancora notevoli avanzi. Ne ho trovata menzione in alcuni documenti medioevali sotto il nome di Turris de Piscoli.

Il Sacco scorre qui aprendosi rumorosamente la strada fra le rocce calcaree su cui sorgono le rovine del castello interamente coperte di piante selvatiche. Esso dominava un tempo l'ampia via Latina che parte da Valmontone che si trova a non più di una mezz'ora di strada.

Cavalcavo attraverso i campi deserti, dove non s'incontra che qualche pastore con la sua mandra di pecore. I pastori di questa regione portano le gambe avvolte in una pelle di capra, ancora pelosa, ciò che dà loro un vago aspetto di satiri. Si comprende facilmente che da questo modo di vestire abbia avuto origine il mito appunto dei satiri e del dio Pane, poichè così molto probabilmente vestivano i pastori nei tempi favolosi.

Giunti sulla via Latina, appare a poca distanza Valmontone, che invita a visitarlo. In cima ad una bassa collina, ma tagliata a picco e nera, sorgono il castello Barberini, e la chiesa, importanti edifici in stile barocco del xvii secolo. Attorno a questi stanno raggruppate le case del paese, contornate da giardini, frutteti e vigne. I topografi moderni sostengono che Valmontone occupi oggi l'area dell'antica Tolerium. Il nome attuale, appare per la prima volta in documenti del secolo xii, e designa un borgo di proprietà del Capitolo della basilica lateranense. Questa chiesa, un tempo ricchissima, vendette il borgo nel 1208 ad Innocenzo III, della casa Conti, ed al fratello di lui, Riccardo, conte di Sora, il quale ne divenne feudatario e fu il capostipite del ramo di Valmontone e di Segni.

I Conti rimasero signori di questo luogo sino al 1575, nel quale anno si estinsero. Giovanni Battista, l'ultimo capo della casa, non lasciò che una figlia, Fulvia, che portò in dote tutti i beni di famiglia agli Sforza. Gli Sforza vendettero Valmontone nel 1634 ai Barberini, e Camillo Pamphili, nipote d'Innocenzo X, lo comperò dal cardinale Francesco Barberini nel 1651. Da allora è rimasto proprietà della casa Doria-Pamphili.

Camillo, uno dei principi più ricchi del secolo xvii, in grazia

specialmente della rapacità della madre Olimpia Maidalchini, una vera arpia, fece edificare il palazzo e la chiesa di Valmontone. Anche se non si sapesse in quale tempo furono costruiti questi due edifici, basterebbe un'occhiata per apprenderlo, essendo entrambi in stile del Bernini, e riportando il visitatore verso l'architettura romana del xvii secolo. Contemplando gli edifici, non si direbbe di trovarsi davanti ad un castello della campagna romana, ma piuttosto dinanzi al palazzo Pamphili ed alla chiesa di S. Agnese, in piazza Navona. I Pamphili impiegarono le loro ricchezze nell'innalzare principeschi e maestosi edifici; il nipote d'Innocenzo X costruì presso la porta di S. Pancrazio la villa più bella e più grandiosa di Roma; fabbricò sul Corso il magnifico palazzo che porta anche oggi il nome della famiglia Doria e vi pose la famosa galleria di quadri, che è una delle più ricche di Roma. Innocenzo stesso edificò il palazzo Pamphili presso la chiesa di S. Agnese, questa pure da lui fatta ricostruire, e fece innalzare su disegno del Bernini, la bella fontana in piazza Navona, che può essere annoverata fra i monumenti migliori della Roma moderna.

Questa famiglia ha dunque aggiunto alla fisonomia della Roma pontificia dei nuovi tratti, proseguendo così l'opera iniziata prima con tanto splendore e tanta attività dai Borghese e dai Barberini. In qualunque modo si voglia giudicare lo stile di quel secolo, non si può fare a meno di riconoscergli, nonostante le sue stranezze e le sue esagerazioni nei particolari, una certa grandezza: esso caratterizza nettamente tutta un'epoca, quella del lusso baronale, del fiorire di una splendida e ricca aristocrazia; l'epoca in cui i baroni oziosi, dissoluti, vestiti di raso e di trine, sfoggiavano le loro ricchezze, la loro eleganza in quelle ampie sale, facendo mostra di quell'opulenza che il sudore dei poveri contadini procurava loro. La rivoluzione francese ha posto fine col ferro e col fuoco a questo periodo di dissipazione e di prodigalità. In questo secolo i papi non hanno più edificato. Dopo Pio VI, non vi è stato più nepotismo ed il magnifico palazzo di suo nipote Braschi che sorge, non lontano da quello Pamphili, in piazza Navona, può dirsi l'ultimo innalzato a spese del popolo angariato ed oppresso. Ora che il nepotismo più non esiste, non vedremo dunque più costruire dei palazzi Barberini, Borghese, Doria, Albani, Odescalchi, Rospigliosi e Corsini; Roma prenderà un altro carattere, ed invece di sontuosi edifici, di ville eleganti come quelle costruite dalle famiglie dei papi, vedremo teatri, stazioni, alberghi, villini, ed altre costruzioni simili a caserme.

Nulla Valmontone ha di notevole. Nessun monumento del medio-evo è sopravvissuto alla distruzione compiuta nel 1527 dalle soldatesche di Carlo V, reduci dall'aver saccheggiato Roma. Appena riedificato, fu di nuovo demolito dalle truppe del duca d'Alba e di Marco Antonio Colonna. Solo dalla piazza baronale del castello l'occhio può godere una veduta incantevole, quella dei monti Volsci, sulle cui sommità si scorgono le case di Montefortino, con il grande e cupo castello dei Borghese che le domina.

Per quanto piccolo ed isolato, Valmontone non è però privo di vita e di movimento, essendo luogo di passaggio fra Roma e la frontiera napoletana. Vi si vedono passare senza tregua file di carri, tirati da bianchi buoi, che portano alla città dei Cesari grano, lana, vino, pollame ed altre merci. Anche la posta vi passa tre volte alla settimana, ma non va oltre Frosinone, capoluogo della delegazione, di guisa che per andare a Ceprano o più in là nel regno di Napoli, è necessario prendere una carrozza a nolo.

Da Valmontone la via Latina prosegue per una valle ombreggiata da alberi, e poi attraversa una pianura silenziosa, fra vecchie torri, sino ai piedi dei monti Volsci. Ivi dalla strada maestra se ne stacca un'altra che dopo aver passato il Sacco prosegue per Segni. Da principio si cammina lungo le prime colline dei Volsci; alla destra sorge Monte Fortino, cupo ed oscuro, a sinistra, sopra una ridente collina, Gavignano. La via è monotona, ma più si sale e più stupenda appare la vista della classica pianura del Lazio, severa e bella, disseminata di colline e di castelli e limitata all'orizzonte dalle azzurre vette dell'Appennino, e più in là, verso il Napoletano, da altre montagne, dalle bianche cime.

Ho percorso tutte le più belle regioni d'Italia, ho vagato per le famose pianure di Agrigento e di Siracusa, ma nonostante lo scintillio di colori di queste regioni meridionali, confesso di non aver mai provato un'impressione tanto profonda come la campagna romana ed il Lazio hanno saputo suscitare in me. Queste contrade mi son divenute così familiari quanto quelle della mia patria, avendole dovute studiare profondamente per la mia storia di Roma nel medio-evo, e visitandole mi sono apparse sempre nuove e piene di grandezza. Quando poi me ne allontano, provo ardente il desiderio di rivederle. Non ho mai potuto contemplare da Monte Mario la valle che si apre fra Palestrina e Colonna verso la campagna latina, senza sentirmici attratto come da un'imperiosa seduzione. E' possibile che questo paesaggio debba ai

ricordi storici gran parte del fascino irresistibile che esercita sul visitatore, ma anche senza di quelli son persuaso che sedurrebbe per il carattere nobile e grandioso che la natura gli ha impresso. Alcuni luoghi hanno un aspetto del tutto mitologico, come, per esempio, la pineta di Castel Fusano, presso Ostia, con i suoi alberi giganteschi che si stendono sino al mare, e la larga foce del Tevere, che la fantasia si sente portata a popolare di figure leggendarie e favolose. Altre regioni invece hanno un carattere del tutto lirico, altre ancora epico, omerico, come Astura e il capo Circeo. Nessuna regione però ha un carattere storico, solennemente tragico, al pari della campagna di Roma. Essa appare come il teatro più grande della storia, come la scena dell'universo. Nessuna descrizione poetica, nessun pennello di genio, per quanto molti artisti di valore vi si siano provati, saprebbe dare un'idea della bellezza grandiosa e superba della campagna del Lazio a chi non l'abbia veduta e sentita. Là nulla v'è di romantico, nulla di fantastico; tutto è silenzioso, grandioso, di una bellezza imponente e severa; dinanzi a quello spettacolo della natura lo spettatore intelligente si sente penetrato dall'impressione profonda e grave che proverebbe davanti alla statua di Giunone di Policlete.

Più si sale per i monti Volsci, e più, nel contemplare sotto di sè la stupenda regione, si prova invidia, per quelle aquile, che sono i veri conti della campagna e vi spaziano a loro piacimento, da padrone. Ora immobili sulle rocce, con aspetto imponente, ora sospese nell'aria, esse hanno la nobiltà di questa natura che dominano; il loro volo silenzioso e solenne è in piena armonia col paesaggio.

Non si scorge Segni se non allorquando vi si è quasi giunti, perchè la strada corre sempre tortuosa entro una gola di rocce calcaree, di colore rossastro. I fianchi del monte sono frastagliati, coperti di massi, che si accavallano gli uni sopra gli altri, così da sembrare una grande muraglia edificata da giganti. Esaminando quella formazione geologica, che più o meno si ritrova in tutti i monti del Lazio, mi è sembrato evidente che debba essere stato questo fenomeno naturale che ha dato all'uomo l'idea delle costruzioni ciclopiche; quelle formazioni geologiche essendo vere e proprie mura ciclopiche, di mole ancora più imponente. Gli uomini non hanno avuto che da imitare l'opera prodotta dalle rivoluzioni terrestri.

Era mezzogiorno ed il sole splendeva in tutto il suo ardore, allorchè giunsi innanzi a Segni. Questa antichissima città sorge su di un altipiano

di rocce ed è tuttora circondata per buona parte da ciclopiche mura. A prima vista le sue case nere, che si inseguono a scaglioni, interrotte qua e là da alcune torri insignificanti, fanno un'impressione più singolare che piacevole. Non v'è una cattedrale, non un antico castello che richiami l'attenzione; non si scorgono che case noiosamente uniformi, senza alcun carattere architettonico; ed io, che avevo sperato trovare una città antica, ricca di monumenti, rimasi pienamente deluso. Tutti i paesi del Lazio propriamente detto, come Anagni, Ferentino, Alatri, Veroli, recano, più o meno, l'impronta del medio-evo; quest'antica città di Signia non è invece che un luogo deserto, malinconico e senza il menomo interesse storico; è insomma una noiosa città. L'unico ricordo piacevole che di essa mi sia rimasto, è quello degli alberi stupendi che la circondano da un lato, e la vista dei rigogliosi boschi che ricoprono i monti vicini.

Mi sono convinto che i paesi Volsci, per quanti ne ho veduti, hanno un carattere affatto diverso da quelli latini; e ciò principalmente perchè sono paesi di montagna, solitari, appartati dal mondo, senza commercio nè industria; taluni scarseggiano perfino di terreni coltivabili, non hanno che olivi, viti e altri alberi fruttiferi. Vi si raccolgono abbondantemente le ciliegie, le pesche, le castagne e soprattutto le ghiande, che servono ad ingrassare i maiali. Questi animali, tutti di razza nera, vengono allevati in grande quantità sui monti Volsci; i prosciutti di queste contrade sono infatti rinomatissimi. Tutti i paesi di questa regione, eccezion fatta delle città, come Cori, che sono più vicine a Roma e non si trovano proprio sui monti, hanno l'aspetto dello squallore e della miseria.

Le case di Segni son costruite di pietra bianca calcarea, alternata con blocchi di tufo nerastro e con mattoni. Questa disposizione dà loro un aspetto bizzarro; essa denota un primo passo, ancora timido ed incerto, nella via dell'architettura pisana, che, come è noto, fa alternare strisce bianche a quelle nere ne' suoi edifici. Ho spesso trovato in vecchi documenti l'espressione "Signino opere" applicata alle case, ed a Segni ho appreso cosa significasse: essa serviva ad indicare il modo di costruzione usata in questo paese. Qui però non mi ha fatto una grande nè buona impressione, avendo trovato nella città di Segni un carattere monotono e grigio, tanto più triste in quanto che non un giardino, non un albero viene a rompere l'eterna uniformità di quelle case di pietra calcarea.

Sono entrato per la Porta Maggiore, per cercare una locanda, e mi sono subito accorto con stupore che questa porta, addossata alle mura

ciclopiche, è l'unico ingresso della città che, costruita su una ripida collina, rimane da tre lati inaccessibile. Presso questa porta sorge il castello o palazzo dei Conti, altra volta signori di Segni, grande edificio, "signino opere", che in complesso ha piuttosto l'aspetto di un convento che di un'abitazione signorile. Niente gli dà l'idea di un castello, mancando perfino una torre. Senza dubbio la rocca dei signori di Segni aveva un altro aspetto prima della distruzione della città, compiuta dalle soldatesche di Marcantonio Colonna.

Parlando di Valmontone ho già osservato che Segni fu posseduta dalla famiglia d'Innocenzo III, che fu anche quella di Gregorio IX e di Alessandro IV. Dopo il ristabilimento del libero governo municipale, ossia del Senato, in Roma, nel 1143, i papi si sono spesso trovati costretti a rifugiarsi nei luoghi fortificati della campagna, per sottrarsi al furore dei romani, e i luoghi prescelti furono Palestrina, Tuscolo, Anagni o Segni. Eugenio III, cacciato dalla città dal Senato romano, da principio si rifugiò a Segni, e vi edificò, nel 1145, una residenza papale, il famoso Alessandro III, Lucio III e Innocenzo III vissero pure qualche tempo a Segni. Quest'ultimo deve anzi esservi nato, nel palazzo della sua famiglia.

Anche in seguito la casa Conti rimase per lungo tempo signora di Segni, dove anzi, dopo il 1353, i suoi membri occuparono la carica di podestà da prima e poi di vicario, a nome del papa. Allorchè la famiglia Conti si spense e l'eredità passò a Mario Sforza, Sisto V eresse la contea di Segni a ducato. Le truppe del duca d'Alba, nonostante la sua formidabile posizione strategica, s'impadronirono di Segni e la distrussero il 13 agosto 1557: ciò spiega perchè in Segni non rimanga traccia di antichi edifici gotici. La città venne riedificata, ma la casa Sforza, piena di debiti, non potè mantenersi padrona del ducato, ed allora ne venne investito da Urbano Vili suo nipote, il cardinale Antonio Barberini. Non meno di mezzo secolo durò la lite fra i Barberini e gli Sforza, finchè questi, verso la fine del 1700 la vinsero. Oggi ancora gli Sforza-Cesarini sono baroni, anzi duchi di Segni.

Tali sono, in brevi parole, le vicende di questa città nel medio evo; se se ne volessero rintracciare le sue prime origini, sarebbe necessario risalire nientemeno che ai tempi favolosi di Giano e di Saturno.

All'arrivo in un nuovo paese, la prima cosa che mi reco a visitare è la cattedrale, perchè generalmente la maggior parte delle chiese sono veri musei della storia locale, ed è raro che indipendentemente dalle

antichità architettoniche non si trovi pure qualche altro ricordo del medio evo. Sono per lo più iscrizioni, che accennano ai principali avvenimenti del paese, o monumenti sepolcrali che, con le loro scolture ed i loro caratteri latini, presentano una grande attrattiva, ed hanno un grande valore per coloro che si occupano o si dilettano di studi storici. Disgraziatamente però il tempo rovina ogni cosa, deturpa lo stile primitivo degli edifici, che a poco a poco vanno assumendo un aspetto moderno di cattivo gusto, e va facendo scomparire dalle antiche tombe delle chiese le preziose iscrizioni. Quante non ne sono state tolte dalle basiliche di Roma! Le chiese di Roma erano un tempo piene di tombe del medio-evo; tutte le grandi famiglie vi possedevano cappelle gentilizie o cripte mortuarie. Ma dopo che Giulio II osò togliere dallo stesso S. Pietro le tombe dei papi, e rovinarle, distruggerle, il cattivo esempio è stato seguito ovunque, ogni qualvolta si è trattato di fare nelle chiese una qualche riparazione, un restauro qualsiasi. Sono poche ormai in Roma quelle in cui lo storico possa trovare ancora nelle tombe e nelle iscrizioni, notizie del passato: ne rimangono alcune in S. Pietro, in S. Giovanni Laterano, nella Minerva, in S. Maria in Aracoeli, la famosa chiesa del Senato romano durante il medio-evo, ed in altre poche, nelle quali l'antico pavimento non è stato completamento disfatto. Solo ora che è troppo tardi, si comincia a tenere in gran pregio ciò che è stato distrutto; si deve al De Rossi, l'illustratore infaticabile delle catacombe, se in Roma sono state salvate dalla completa rovina gran numero d'iscrizioni medioevali, collocandole nel museo Lateranense.

Mi ero rallegrato pensando che Segni, città vescovile sin dal 499, avrebbe avuto un'antica e bella cattedrale, ma invece ho trovato una costruzione moderna, grossolana, decorata nell'interno con un pessimo gusto romano, con una cupola dipinta, lusso questo veramente superfluo e senza ragione di essere in una chiesa dove a nessuno vien fatto di torcere il collo per contemplare le pitture di una cupola. La chiesa contiene due statue moderne, consacrate a due uomini illustri, a cui Segni si vanta di aver dato i natali, il papa Vitaliano ed il vescovo Brunone. Vitaliano da Segni fu papa dal 657 al 672, nel periodo cioè più obbrobrioso di Roma quando la città era soggetta ai bizantini. Fu lui che ospitò l'imperatore Costanzo II, allorquando nel 663 venne a Roma a toglierle tutte le opere d'arte, sfuggite alla rapacità dei Vandali. Costanzo strappò perfino alla cupola del Pantheon le lastre di bronzo dorato che la ricoprivano, per portarle a Bisanzio.

L'altra statua, mediocre essa pure come opera d'arte, sorge di fronte a quella di Vitaliano. Brunone nacque ad Asti nel Piemonte, fu raccomandato a Gregorio VII e più tardi da Urbano II fatto vescovo di Segni. Contrariamente alle prescrizioni canoniche, abbandonò la sede vescovile e si ritirò a Montecassino, dove l'abate Oderisio l'accolse fra i seguaci di S. Benedetto. Sebbene il papa Pasquale II gli avesse intimato di restituirsi alla sua sede episcopale, egli rimase a Montecassino, di cui divenne poi abate, e dettò ivi, nella tranquillità del chiostro, le sue opere di esegesi.

In seguito alla lotta d'investitura, questo stesso papa Pasquale fu fatto prigioniero da Arrigo V e, cedendo alla forza, promulgò un editto con cui veniva riconosciuto all'imperatore il diritto d'investitura. Ma non appena Arrigo fu tornato in Germania, i cardinali ed i vescovi spinsero Pasquale a revocare il decreto ed a rompere il suo giuramento; e fra i più zelanti ad indurlo a far questo fu Brunone, che abbandonò Montecassino e fece ritorno nella sua diocesi, dove morì nel 1123. La Chiesa lo santificò nel 1183.

Fu un inglese, certo Ellis, abate di Montecassino e vescovo di Segni, che innalzò questo monumento al suo predecessore. La chiesa di Segni ha inoltre un altro legame con la lontana Inghilterra: fu in uno dei sinodi tenuti in questo sacro luogo che nel 1173 Tommaso di Canterbury fu da Alessandro III beatificato, pochi anni dopo la sua tragica fine. Un'iscrizione del duomo ricorda questo fatto.

Lord Ellis divenne vescovo di Segni nel 1708. Restaurò la cattedrale e fondò il seminario. In questo collegio vengono allievi da tutte le parti del Lazio, per farvi gli studi di umanità, di guisa che può essere considerato come un ginnasio. Gli allievi indossano l'abito ecclesiastico, anche se non intendono dedicarsi alla carriera sacerdotale. Il seminario sorge presso la chiesa di S. Pietro, nel punto più alto e più bello della città, dove in tempi remoti si elevava l'acropoli volsca, o rocca ciclopica.

Lassù, sopra un'altura, da dove si domina tutto il Lazio, si levano la rocca ed il tempio dell'antica Segni, di cui rimangono pochi avanzi, fra i quali notevole è una piccola cisterna circolare, situata presso il seminario. Gli abitanti della città hanno fatto di questo luogo la loro passeggiata favorita; essi vanno a spasso lungo le ciclopiche mura, sul punto più alto della montagna, fra quei blocchi di pietra, coperti di musco e di fiori selvatici. E' difficile trovare una passeggiata più originale di questa, a tanta altezza. La montagna scende a picco e di domenica vi

ho trovato delle signore, elegantemente vestite in abito di seta e col ventaglio che sembravano voler signoreggiare su tutto il Lazio; poichè di lassù lo sguardo abbraccia un vasto panorama di pianure e di monti popolato da innumerevoli città, ricche tutte di memorie storiche o leggendarie. Il panorama si stende da Roma, che si scorge confusa fra le nebbie nella pianura, fino ad Arpino, patria di Cicerone, che biancheggia sui monti azzurri del regno di Napoli.

L'aria v'è fina, quasi cruda. Essa agita di continuo le rose selvatiche e le piante di ginestra, che crescono fra le rocce. Tutto ricorda tempi antichissimi, primitivi di fiera e selvaggia natura, e l'animo ne rimane profondamente turbato.

Sono salito più in alto, per arrivare alle famose mura ciclopiche che, come in tutte le città del Lazio, circondavano qui la rocca, cadendo a picco sul pendio del monte. I loro massi stanno tuttora connessi gli uni agli altri, come se l'opera fosse stata compiuta ieri soltanto: qua e là si aprono piccole porte di stile etrusco. In fondo ad un lungo muro esiste ancora la famosa, pittoresca porta ciclopica, ad arco ottuso, formata da enormi massi quadrangolari. L'aspetto gigantesco di queste mura, la tinta cupa che il tempo le ha dato, le piante selvatiche che le ricoprono, la grandiosità del monte a cui si appoggiano, producono un'impressione che la parola non sa descrivere.

Oltrepassata questa porta, mi sono trovato sul versante opposto del monte, dove sparisce la vista del Lazio. Esiste colà pure una grandiosa cisterna circolare, scavata nella pietra, che ha 30 piedi almeno di diametro. Vi ho trovato delle donne intente a lavare i loro panni. Mi è capitato più volte di vedere nelle città volsce siffatte grandi ed antiche cisterne, che sono veramente una loro caratteristica.

Gli abitanti di Segni hanno anche un altro luogo di passeggiata, nella valle, di fronte alla porta della città: essa conduce prima ad un convento, nascosto fra le piante, e poi sale per le montagne. Vi abbondano castagni giganteschi, quercie ed olmi; qui vi è solitudine e incantesimo romantico, quanto ne desidera il cuore.

Era venuta la sera e gli abitanti di Segni erano accorsi colà in gran numero. Qui le classi superiori si vestono già secondo la moda francese, ma il popolo è rimasto fedele al suo costume montanino. Nel basso Lazio le donne portano dei fazzolettoni rossi; nella pianura i colori sono più vivaci e più vivaci sembrano essere gli spiriti, perchè la vita v'è più facile che sui monti severi e selvaggi, avvolti nelle nubi. Qui le donne portano

degli scialli di lana di color turchino cupo, e la tinta di questi scialli, o mantiglie, come si chiamano in Sicilia, m'è sembrata armonizzare con tutto il paesaggio di Segni. Il turchino ed il nero sono i soli colori che ho visto indosso a quella gente.

Per quanto sia grandiosa e bella la posizione di Segni, non sarei capace di passarvi un'estate. Quelle nere pietre, quella natura melanconica e demoniaca avrebbero ben presto reso silenziose le Muse. Inoltre vi soffia quasi sempre un vento terribile; in estate tutti i giorni sulle montagne vicine si accumulano delle nubi che si rovesciano poi ad un tratto su Segni.

Del resto sono riuscito a trovare un buon alloggio in questo luogo; l'unico albergo della città è pulito ed i prezzi vi sono moderati, come lo sono generalmente sempre nei paesi di montagna. Vi ho mangiato delle pesche squisite di un colore giallo bianchiccio pallido, e bevuto del vino eccellente, sebbene un po' aspro. Di questo vino fa menzione anche Marziale in questi versi:

"Potabis liquidum Signina morantia ventrem:



Ne nimium sistant, sit tibi parca sitis,



Quos Cora, quos spumans inimico Signia musto".



Era mia intenzione trovarmi a cavallo il domani, al levar del sole, col mio compagno, il celebre acquerellista Müller, per salire sulla cresta dei monti, traversare l'antica foresta dei Volsci ed arrivare al vetusto paese di Norba; ma il cielo cominciò a coprirsi di nubi, e poi il tuono rimbombò sui monti e l'acqua infine scese a dirotto. Disperavamo già di poter fare la nostra gita, quando ad un tratto Giove Pluvio si mise a sorridere. Subito saltammo a cavallo e, preceduti dalla nostra guida, ci ponemmo in marcia. Il vento faceva turbinare le nubi bianche, spazzandole dal cielo, come barchette a vela: era uno spettacolo incantevole e grandioso.

Subito dopo Segni principia una verde e folta foresta. Noi vi cavalcammo allegramente, perchè le foreste in Italia sono abbastanza rare: non c'è bisogno di dire quanto a me, cittadino tedesco, sia apparsa gradita, ricordandomi la patria lontana. Non ho ritrovato qui però gli abeti neri del Natale a me familiari, ma invece stupendi olmi, quercie ed alcuni pini. Il pino risuona come un arpa allorchè il vento scherza con le sue fronde; il suo suono ha qualche cosa di delizioso, come un canto di spiriti.

La strada era ancora fangosa, ma essendo a cavallo abbiamo fatto a meno di guazzarvi dentro come quelle povere fanciulle e quei ragazzi che abbiamo visto trascinarsi a piedi scalzi pel bosco in cerca di funghi, fatti spuntare nella notte dalla pioggia. Un silenzio profondo regnava in quella solitudine, interrotto solo qua e là dai colpi di qualche spaccalegna. Non abbiamo incontrato che un merciaio, il quale, a fianco del suo muletto carico di mercanzia, si recava a Cori. Il merciaio ambulante doveva traversare faticosamente la cima di quei ripidi monti, per giungere alla città. Il commercio tra Segni e Cori non dev'esser dunque molto attivo.

Dopo un paio d'ore di cammino, prima attraverso i boschi, poi, a misura che si saliva più in alto, sopra le nude rocce, arrivammo al punto culminante della nostra via e, dato ancora uno sguardo al Lazio che si stendeva sotto i nostri piedi, cominciammo lentamente a discendere il versante opposto, senza riuscire ancora a vedere nè il mare, nè la Marittima, sorgendoci sempre davanti un'altura, intorno a cui bisognava girare. Fra questa e i monti di Segni si stende un'ampia e bella distesa di praterie, solcata da torrenti, detta Colle Mezzo. E' stato un vero godimento camminare, ora a cavallo, ora a piedi, per distrarci, su quel molle e verde tappeto.

Tornammo poscia a salire, attraverso una bella e fitta foresta, nella quale cavalcammo per più di due ore. Questo succedersi di montagne e di valli, queste gole profonde e cupe, cosparse di tronchi abbattuti coperti di muschio, simili ad eroi vinti, quelle praterie color verde carico, dove pascolavano delle mandre, quegli arbusti in fiore, quei sentieri incassati, entro i quali i raggi del sole scherzavano, tutto ciò ci ricordava ad ogni passo le montagne del nostro paese. Prima di aver visitato il mezzogiorno, mi ero sempre immaginato che solo in Germania e nel Nord in genere si trovassero vere foreste; quando però sono più tardi tornato in patria, ho perduto presto questa superba illusione. Ciò che

manca alle nostre foreste settentrionali sono i cespugli, le piante rampicanti e la lussureggiante flora del mezzogiorno.

Come è splendida questa foresta dei Volsci! Non avevo mai visto prima d'allora una solitudine più poetica! Sembra veramente la dimora delle silfidi e degli elfi, e si direbbe che il vecchio Saturno, con la sua bianca barba, vi si debba trovare nascosto in fondo a qualche tenebrosa caverna. Vi ho ammirato dei meravigliosi fenomeni di vegetazione, dei faggi le cui cime si perdevano nell'azzurro del cielo: essi avevano esattamente la tinta delle rocce coperte di musco, in mezzo alle quali si levavano. Si sarebbe detto che ne fossero una continuazione organica.

Siamo scesi da cavallo in un luogo veramente delizioso e ci siamo distesi sull'erba. La nostra colazione è stata frugale; dei cespugli di spine, coperte di nere more, ci han fornito il dessert. A poca distanza da noi era uno stagno d'acqua verdastra, circondato da erbe e da giunchi che pareva immerso nei sogni. Una passeggiata serale, quando i raggi della luna vengono ad inargentare la cima degli alberi e gli elfi cominciano a danzare in circolo sull'erba fiorita, deve essere una cosa deliziosa.

Finalmente giungemmo al termine della foresta, sul versante sud-ovest del monte, ed io provai l'impressione di un uomo condotto con gli occhi bendati dinanzi ad uno spettacolo meraviglioso, cui sia stata d'un tratto tolta la benda. Dinanzi a me apparve luminosa ai nostri piedi la pianura marittima, le paludi pontine, pervase di varie e strane tinte, più lontano il mare, dorato dal sole, le isole di Ponza, perdute in mezzo alle onde brillanti; il capo Circeo, la torre solitaria d'Astura, la Linea Pia e il castello di Sermoneta. Uscendo dalle ombre della foresta, l'aspetto di questo panorama è uno dei più belli che l'Italia presenti. Su di me ha prodotto un'impressione così forte che non ho trovato sul momento, e neppure ora so trovare, parole atte ad esprimerla. Mi si era vantata assai a Roma la bellezza di questo colpo d'occhio e mi si era detto che non avrei potuto trovare nulla di più bello della traversata dei monti Volsci e della vista di lassù delle paludi pontine e del mare; nulla di più vero. Io consiglio vivamente a tutti quelli che visitano i paesi romani, questa magnifica escursione.

Dopo sei ore di cammino, giungemmo al piccolo villaggio di Norma. Esso sorge sopra un altipiano, a fianco di una scoscesa montagna, presso i ruderi ciclopici dell'antica Norba. Norma, Norba, Ninfa sono qui come degli esseri favolosi. I loro nomi risuonano da ogni lato ad ogni

istante e svegliano nella mente un mondo fantastico di miti e leggende. Norma, Norba, Ninfa, Cori, Sermoneta, come questi nomi melodiosi parlano alla fantasia!

Allorchè entrammo nell'albergo di Norma e l'albergatore ci condusse nella nostra stanza, mi affacciai alla finestra e tutta la superba bellezza della pianura marittima si offerse a' miei occhi. Subito sotto di me, ai piedi del monte, scorsi una cerchia di mura coperte di ellera in mezzo alle quali si levavano delle curiose collinette, che sembravano fatte di fiori. Qua e là sorgevano pure antiche torri rovinate, rivestite tutte di musco, ed in mezzo a questa bizzarra cerchia di mura sbucava fuori un argenteo ruscello che attraversava poi le paludi pontine e, quasi striscia di luce, si perdeva in un lago presso il mare. Attonito domandai all'albergatore che cosa fossero quella strana cerchia e quelle collinette in fiore. "Ninfa, Ninfa", mi rispose.

Ninfa! Era, dunque, la Pompei del medio-evo, la città dei sogni, immersa nelle paludi pontine!

Decidemmo di andarvi la sera, allorchè la dolce Selene sarebbe sorta dietro i ruderi ciclopici dell'antica Norba.

All'albergo facemmo un buon pranzo e dopo un breve riposo, traversammo il paese. Norba è il nome volsco primitivo di questo villaggio, trasformatosi poi, non so quando, in Norma. Ho trovato adoperato quest'ultimo per la prima volta nelle cronache del secolo viii, all'epoca cioè della donazione dei due possessi, appartenenti allo Stato, di Nymphas et Normias, donazione fatta dall'imperatore greco Costantino V al papa Zaccaria. E' dunque molto probabile che da quest'epoca l'antico paese volsco di Norba sia stato abbandonato e nella sua vicinanza sia sorta l'attuale Normia o Norma.

Le rovine dell'antica Norba sono a poca distanza da Norma e consistono in ruderi, tuttora notevoli, della rocca e delle mura, ciclopiche che la circondavano. Anche qui la rocca sorgeva sopra una rupe isolata, forte per natura, che scendeva a picco dalla parte delle paludi pontine. Era di forma quadrata, e la circondava una doppia fila di mura. Vi si può ancora entrare per una antica porta, di forma rotonda, simile ad una torre od al pilastro di un ponte, alta circa 36 piedi. Le mura misurano dai 40 ai 50 piedi di altezza ed offrono un insieme più imponente di quelle di Segni. Esse circondano l'altura calcarea che è stata spianata sulla cima; vi si scorgono tuttora fondamenta di costruzioni ciclopiche, appartenenti forse una volta ad un tempio od a qualche altro monumento pubblico.

Se si cerca rappresentarsi ciò che poteva essere una costruzione di questo genere, se un tempio cioè, od un'abitazione, in proporzione con le ciclopiche mura, bisogna concludere che doveva essere, in ogni modo, una cosa grandiosa, ma severa e cupa. Come architettura doveva avvicinarsi al Tabularium di Roma che appartiene ad un dipresso al periodo dell'architettura volsca ed etrusca. Sarebbe, infatti, errore credere che le così dette costruzioni ciclopiche rimontino ai tempi leggendarî. Come ho già notato ad Alatri, non è necessario far qui che un passo per ricollegarle a quell'epoca della storia romana che porta il nome di Servio Tullio.

Una piccola cisterna antica ed alcune stanze e grotte sotterranee: ecco quanto rimane dell'antica Norba, oltre agli avanzi dell'acropoli e delle mura, di cui ho parlato. Sono rimasto sorpreso di non trovarvi dei sepolcri o dei loculi scavati nella roccia, come se ne vedono da per tutto nelle città etrusche e siciliane; in Sicilia, soprattutto a Siracusa, a Leonzio, ad Agrigento e ad Enna, ve ne sono innumerevoli.

La popolazione di Norma dà all'antica città il nome di Civita la Penna; io però non sono riuscito a spiegarmi donde questo nome abbia avuto origine. La denominazione sembra spagnola, perchè Pegna o Peña in spagnolo significa appunto rupe. Questo nome, del resto, si conviene benissimo a Norba, che, secondo la leggenda, sarebbe stata costruita da Ercole.

In tempi posteriori la città parteggiò per Mario e fu quindi stretta d'assedio da Emilio Lepido, seguace di Silla. Emilio Lepido con un tradimento riuscì a penetrare nella ciclopica rocca, ma gli abitanti, esasperati, rifiutarono di arrendersi e preferirono, come quei di Numanzia, trovare la morte tra le fiamme delle loro case. Da allora in poi, a quanto sembra, la città è rimasta un cumulo di rovine; per lo meno Plinio la trovò tale.

Dall'alto delle rovine della cittadella il panorama della marittima è stupendo. Si distingue nettamente la spiaggia del mare, da Porto d'Anzio sino al capo Circeo ed a Terracina, e più lontano ancora si scorgono Ostia, Pratica ed Ardea ed un'infinità di torri che solitarie si ergono lungo la riva come tanti obelischi. Queste torri sono state costruite a partire dal ix secolo, quando cioè, i Saraceni cominciarono ad apparire sulle coste italiche. Ancora oggi tutta l'Italia e le sue isole sono circondate, come da una cintura, da queste torri pittoresche: ciascuna è custodita da alcuni artiglieri, che sorvegliano dei vecchi e curiosi cannoni, postivi già da

qualche secolo. Lamoricière, il nuovo generalissimo del Papa, ne ha ora ritirati gli artiglieri e li ha chiamati a Roma, ed ha anche fatto togliere da quelle piattaforme le vecchie colubrine che da centinaia d'anni tenevano aperte le loro bocche sul mare. Ora, invece dei Saraceni, sono i seguaci di Garibaldi che tentano sbarcare su queste spiagge.

Ho visto una di queste torri brillare a qualche distanza sul mare: era il celebre castello d'Astura. Più in là, ad un miglio distante da questa, ho scorto un'altra torre, Foceverde, così chiamata da un torrente che, uscendo dal bosco selvaggio e paludoso, si versa nel mare. Una terza torre sorge più lontano, presso un lago, circondato da folte piante, le cui acque, illuminate dai raggi del sole, splendono come oro liquido. Una grande, profonda pace regna sul lago insieme con un silenzio di morte. Non vi sono che uccelli marini che svolazzano senza posa, qualche pescatore, pallido per la febbre, intento a ritirare nella sua barchetta le reti, e qualche povero diavolo che, mezzo nudo, va pescando le sanguisughe. È questa la torre ed il lago di Fogliano, un tempo chiamato Clostra Romana. Lucullo vi possedeva una villa e vi allevava le murene. Il Ninfeo, il torrente, che abbiamo visto correre attraverso alle rovina di Ninfa, va a gettarsi appunto nel lago di Fogliano, ed io potei seguirne tutto il corso, attraverso le paludi pontine.

Più lontano ancora si scopre il lago dei Monaci, poi quello di Crapolace, infine il gran lago di Paola con la sua torre, e non lontano da questo il capo Circeo, che il mare sembra circondare da ogni lato.

Chi non ha mai attraversato le paludi Pontine per recarsi per la via Appia a Terracina e crede che siano delle putride e nauseabonde maremme, s'inganna. Vi sono, è vero, terreni paludosi e stagni in quantità, ma nascosti da boschi, nei quali errano cinghiali, istrici, cervi, bufali e buoi quasi selvaggi. Nei mesi di maggio e di giugno la regione pare quasi un mare di fiori. Nell'estate, invece, sembra il Tartaro; la pallida febbre vi regna sovrana, facendo strage dei poveri pastori e degli operai che vi guadagnano miseramente il pane.

Più ci si appressa al mare e più i boschi si allargano, e da Norba si vedono distintamente sino al capo Circeo. Si seguono dalla foce del Tevere, da Ostia, da Ardea, da Nettuno sino a Cisterna e Terracina. In mezzo a quei boschi vi sono dei tratti liberi, dove vengono raccolti gli armenti e dove abitano i coltivatori, come, per esempio, Conca, Campo Morto, Campo Leone, Tor del Felce ed altre località. Là, nell'interno, dove i boschi cessano, esistono delle vaste praterie, e più in là dei campi

coltivati, e quindi la via Appia, restaurata da Pio VI. Lungo il suo percorso attraverso la pianura marittima abbiamo scorto Cisterna, il villaggio più importante della regione paludosa, anticamente chiamato Tres Tabernae, e For'Appio, anticamente Forum Appium.

In nessun secolo si è riusciti a prosciugare le paludi pontine. Giulio Cesare ne concepì l'idea, ma morì prima di aver cominciato i lavori. Gli imperatori romani, prodighi nelle costruzioni di qualunque genere, non se ne curarono mai; ed è curioso notare che fu un re barbaro, erede e conquistatore di Roma, Teodorico il Grande, che fece ristabilire la via Appia e prosciugare una parte delle paludi pontine presso Terracina. Esistono tuttora in questa città due iscrizioni, ove è ricordata l'opera memoranda del re goto. Fra i papi, fu Sisto V, questo romano pratico e di carattere energico, che per primo riprese i lavori e due secoli dopo Pio VI continuò l'opera sua facendo ricostruire la via Appia, scavare a fianco di questa un grande canale, ed altri secondari, trasformando inoltre una parte delle paludi in terreni coltivabili: egli fu veramente un benefattore per una parte della regione marittima.

Dalle rovine ciclopiche di Norba discendemmo a Ninfa, che è a' suoi piedi, proprio dove cominciano le paludi; vi si arriva per una comoda ma tortuosa discesa, oppure attraverso il ripido pendìo del monte. Noi preferimmo quest'ultima via, e dovemmo saltare di roccia in roccia facendo rotolare i ciottoli in basso.

Così giungemmo a Ninfa, la leggendaria città rovinata, mezzo sepolta nella palude, con le sue mura, le sue torri, le sue chiese, i suoi chiostri e le sue case coperte di edera. Il suo aspetto è più incantevole di quello di Pompei, le cui case sembrano spettri o mummie sventrate, faticosamente strappate alla lava vulcanica. Sopra Ninfa invece si muove, al soffio del vento, un mare di fiori; ogni muro, ogni chiesa, ogni casa è rivestita d'edera, e su tutte quelle rovine oscillano i purpurei stendardi del dio trionfante della primavera.

Si prova un'inesprimibile emozione nel penetrare in questa città d'edera, nel percorrere le sue vie deserte, nascoste quasi sotto l'erba e i fiori e nell'errare fra quelle mura dove il vento scherza fra le foglie. Non un rumore turba l'alta sua pace, all'infuori del grido del corvo che ha posto dimora sulla torre del castello, del mormorio delle limpide acque del Ninfeo, del sussurro dei giunchi in riva allo stagno e del canto melodioso e dolce delle erbe, agitate dalla brezza.

I fiori coprono le vie e vanno, come in processione, salgono sulle

chiese in rovina, si arrampicano ridendo sulle finestre cadenti, barricano tutte le porte, invadono le case, dentro le quali dimorano gli Elfi, le Fate, le Naiadi, le Ninfe e tutto il mondo incantato della favola. Le gialle camomille, le malve, i narcisi odorosi, i cardi dalla barba grigia, che debbono esser qui vissuti un tempo come monaci, i candidi gigli, personificazione delle pie monacelle che vissero un giorno tra queste mura; le rose selvagge, l'alloro, il lentischio, le alte felci, le rampicanti clematiti, i rovi, il caprifoglio, i garofani rossi che sembrano Saraceni incantati, i fantastici capperi che spuntano dalle fessure dei muri, le fucsie, il mirto, la menta aromatica, le ginestre dorate, ed infine l'edera oscura che ha tutto invaso e che ricopre le rovine in verdi cascate; tutto questo mare di fiori e di profumi rapisce i sensi, conquide l'anima e fa deliziosamente sognare.

Le mura della città sono ancora in piedi; esse circondano Ninfa con una larga cintura e son rivestite completamente d'edera; solo qua e là sbuca fuori dal verde qualche merlo corroso o qualche torre a metà diroccata. Le porte sono esse pure invase da piante selvatiche, da rovi e da edera; sembra quasi che i fiori di Ninfa abbiano voluto barricarle contro l'invasione d'un nemico esterno, come un tempo lo furono contro i Saraceni o i mercenari di Federigo Barbarossa e poi contro quelli del duca di Alba e dei Colonna. Ora la distrutta città ed i suoi fiori non sono minacciati più che dal fulmine e dalle bufere, che si scatenano dalle paludi pontine.

Esistono ancora tutte le piazze, tutte le strade fiancheggiate dalle case cadenti ed invase dall'edera; talune, che conservano l'aspetto di palazzi di architettura semigotica, appartennero certo alle famiglie più ricche e più illustri del luogo. Le più curiose a vedersi però sono le chiese; sono ancora in piedi i ruderi di quattro o cinque di esse. Non ho mai veduto rovine più poetiche, e difficile sarebbe voler descrivere quei campanili in parte rovinati, con le loro finestre ad arco oppure tonde, o divise in mezzo da una colonnina, con le loro cornici medioevali ad ornato, tutti guarniti di edera e coperti di fiori variopinti; tutti quegli avanzi di vôlte, di navate, sepolti in un mare di lussureggiante vegetazione. Tutte quelle chiese sono antiche ed appartengono ai secoli xi e xii, se pure non sono di costruzione anteriore perchè il loro stile è quello della semplice forma di basilica. Nelle loro deserte navate ora pregano i fiori ed invece del profumo dell'incenso l'atmosfera è impregnata dall'olezzo delle rose. Sulle pareti, nelle tribune rovinate, qua e là si scorgono ancora, fra

l'edera, alcuni avanzi di affreschi: vi sono martiri con la palma in mano e con gli strumenti del martirio a lato. Le loro pallide figure, circondate da svanite aureole d'oro, coperte dalla dalmatica e con la ricca stola, fra il verde ed i fiori dalle mille tinte, sembrano irritate nel vedere i figli di Flora, la dea pagana, celebrare un culto sacrilego nelle chiese abbandonate. Non risuonano più quelle vôlte delle litanie monacali; più non vi s'ode che l'estivo ronzio degli scarabei, e le anacreontiche canzoni amorose del grillo. Gli scarabei ed i fiori sono i soli signori di quei templi e più non li abbandonano.

Nel Mezzodì della Francia fu sporta un giorno lagnanza a S. Bernardo che una chiesa costrutta di recente ed appena consacrata, fosse stata invasa dalle mosche. S. Bernardo esclamò: "Io le scomunico", e quando i messaggeri tornarono nella chiesa trovarono tutte le mosche morte. Sarebbe però ben difficile ad un santo liberare le chiese di Ninfa dai fiori, e per quanto quei poveri martiri si mostrino imbronciati, tra non molto l'edera li seppellirà interamente. Di molti di essi non si scorge più che un lembo di veste, sul quale sta scritto in caratteri latini il nome del santo: fra gli arbusti si possono ancora leggere i nomi di S. Sisto, di S. Cesareo o S. Lorenzo. Quando entrai nell'ultima chiesa, rimasi estatico. Invece dell'antico pavimento in mosaico bizantino, trovai un tappeto di fiori e di erba, e sull'altare, dove un tempo stavano le reliquie dei santi, vidi una rigogliosa vite dell'India, co' suoi grappoli rossi ed azzurri. Gli altari di Cristo non potrebbero essere meglio infiorati!

Non manca dunque nulla a Ninfa per essere il pendant di Pompei. Laggiù, ai piedi del Vesuvio, la classica antichità parla nelle immagini ridenti della città morta: qui è l'epoca cristiana che ha lasciato un po' della sua anima sopra i muri rovinati e coperti d'edera. A Pompei tutto spira amore e vita; vi si vedono amorini che pescano in uno stagno, satiri che danzano, grilli che tirano un carrettino, baccanti, avvolte nel loro bianco velo, che suonano il tamburello, o recano nelle loro mani misteriose cassette, o sollevano coppe cariche di succosi fichi; qui invece, nella Pompei del medio evo, l'occhio non vede che rappresentazioni di morte e di dolore. In luogo delle stupende imagini antiche qui si contemplano le melanconiche imagini delle catacombe, santi condotti al martirio, fiamme, croci, esseri inginocchiati, con le mani giunte, dinanzi al carnefice che tiene già la spada levata.

Sarebbe ormai tempo di seppellire nei fiori tutti quei martiri, tutti quei santi, tutti quei crocifissi corrosi dal tempo. Qui la natura ne ha sparsi a

larghe mani sulle tombe di quei poveri peccatori e di quei poveri monaci che si tormentavano, si martoriavano nei tempi della più cupa superstizione. Non è forse tempo che pure il cattolicismo circondi di fiori le tombe de' suoi morti?

All'ingresso della città sorge ancora il castello, altra volta residenza dei baroni, nelle cui prigioni languirono le vittime del feudalismo. L'alta torre quadrata, di mattoni, è simile alla torre delle Milizie a Roma, e probabilmente della stessa epoca. Essa sorge in prossimità di uno stagno che, come lo Stige, sta vicino alla città dei morti ed è circondato da una cintura di canne. Il luogo suscita ricordi mitologici: lo si direbbe il soggiorno delle ombre, visitato da Enea o da Ulisse. La cupa torre ed altre rovine gettano la loro ombra tremante sulle acque silenziose dello stagno e il giunco vi sussurra malinconicamente agitato dal vento. Talvolta si leva un grido d'anitra selvatica: sembra quasi il gemito di un'anima che soffra nelle profondità della terra ed aspiri tornare alla luce.

Seduto in mezzo alle rovine, girai lo sguardo su quel verde reame di ombre, poi levai gli occhi verso la linea azzurra, tracciata nel cielo dalle montagne, su cui si distaccano gli scogli ciclopici di Norba ed il suo castello, e infine li abbassai di nuovo sulle paludi pontine e sul capo Circeo che superbo emergeva dal mare illuminato dal sole cadente.

Che Circe la maga abbia abbandonato la sua dimora, fabbricata laggiù sul promontorio? Abiterebbe forse ella ora a Ninfa? E' forse divenuta la regina dell'edera! Nel vedere il verde che mi circondava per un momento ho creduto che Ninfa fosse il magazzino d'edera dell'Italia e che ivi venissero le anime dei grandi ad inghirlandare tutte le rovine gloriosamente. Bisogna sedersi su quei muri, allorchè la sera ravvolge, nella porpora da prima, poi nell'oro, tutte quelle mura, tutte quelle rovine tappezzate di foglie, ed allorchè la montagna, il mare, il capo Circeo si tingono con sfumature indicibili.

E che dire poi di questo paese di fate quando si leva la luna e l'illumina con i suoi bianchi raggi? Il ruscello Ninfeo che esce dallo stagno, sembra abbia ivi origine e porti in quel mondo di tombe lo spettacolo della giovinezza e della vita: lo si direbbe un essere umano che abbia paura del funebre luogo e fugga precipitoso e spumeggiante verso il mare, attraverso le paludi pontine. Esso dà moto ad un molino stabilito in un edificio mediovale, in stile gotico-romano, con finestre a colonnine. Un'iscrizione sulla porta indica che il molino e la strada furono opera di

Francesco Gaetani, duca di Sermoneta e signore di Ninfa, nel 1765.

In antico un tempio delle Ninfe era costruito, a quanto si dice, presso il lago e da quello il paese avrebbe preso il nome. Si racconta che sulle fondamenta di questo tempio fu poi innalzata la chiesa di S. Michele. Nel 1216 Ugolino Conti edificò nello stesso sito la chiesa di S. Maria del Mirteto.

La storia di Ninfa è peraltro abbastanza oscura. Nel sec. xii apparteneva ai Frangipani. Il famoso Alessandro III vi fu consacrato papa il 20 Settembre 1159. La famiglia Gaetani ne divenne in seguito signora alla fine del sec. xiii ed i discendenti di questa illustre casa ne sono rimasti padroni fino ad oggi. L'archivio di famiglia a Roma conserva numerosi documenti che attestano che Pietro Gaetani, nipote di Bonifacio VIII, conte palatino lateranense e conte di Caserta, comprò a poco a poco le case e le terre di Ninfa dai loro proprietari.

Io non ho rinvenuto alcun documento del xv secolo in questo archivio; ma ho trovato invece un atto stipulato il 22 febbraio 1349 nel castello che oggi giace rovinato. L'atto porta queste parole: "Actum Nimphe in scalis palatii Rocce Nimphe presente Nicolao Cillone Vicario Sculcule...".

* * *

L'indomani mattina noleggiammo a Norma dei muletti per recarci al celebre villaggio di Cori o Cora, distante tre buone ore. Vi si arriva per una via carrozzabile che rasenta Ninfa, ma noi preferimmo prendere una scorciatoia montuosa che serpeggia lungo la catena dei Volsci. La vista che vi si gode è meravigliosa ed ampia, stendendosi per la pianura dalle pontine e dal mare fino a Roma.

Il fresco del mattino ed il cielo purissimo, come lo è quasi sempre in settembre, resero deliziosa la nostra gita, sebbene i monti che salivamo fossero monotoni e deserti. Solo qua e là ci imbattemmo in alcuni pastori, intenti a mungere le loro pecore od a preparare innanzi al fuoco il loro formaggio fresco, od anche a costruire le loro capanne coniche da nomadi, con rami di ginestra.

Nel contemplare dall'alto la vasta regione delle paludi pontine e soprattutto la spiaggia latina, là dove sorge l'antica Ardea ed i paesi dei Rutuli, ritornano naturalmente alla memoria le figure di Virgilio. Ivi sorse la Troia romana, ivi fu il campo delle epiche lotte dell'Eneide: ricordandolo, sembra quasi di veder rapidamente passare sulle praterie od attraverso le foreste l'eroina dei Volsci, la bella amazzone Camilla:

"Hos super advenit Volsca de gente Camilla,



Agmen agens equitum, et florentes aere catervas,



Bellatrix..."



La descrizione della morte di Camilla e la tragica fine di Evandro, figlio di Pallade, sono ciò che di più bello Virgilio abbia scritto. E' qui che bisogna leggere: i melodiosi versi dell'Eneide sulla campagna romana, per gustarne completamente la magica bellezza. La poesia di Virgilio è improntata di quella stessa pura e maestosa beltà che caratterizza la campagna romana. L'immortale poema è quello che più e meglio riproduce a noi il carattere di Roma antica e fin che durerà il mondo varrà a circondare d'una aureola di poetica ispirazione questi monti, questi boschi e questi campi. Qui vivono Turno, Lavinia, Ascanio ed il fido Acate... e in quale quadro! Esso non ne ha uno eguale, uno così epico, se non sulle rive dello Scamandro, se forse non è ancora più sublime. Cosa v'è di più grandioso della campagna intorno a Roma e del mare che ne lambisce le rive?

Nel percorrere i luoghi che furon la prima culla della grandezza romana, si richiamano alla memoria i versi virgiliani su Troia e sull'Ellade. Si vive quasi in un'atmosfera ellenica, e ciò tanto più quanto più ci si avvicina a Cori.

Questa città è antichissima, risalendo ai tempi mitologici, ai tempi pelasgici. Roma è detta la città eterna, ma non per la sua antichità, perchè molte città della campagna romana sono di gran lunga più antiche, soprattutto Cori che, secondo i calcoli di tutti i topografi antichi e moderni è una delle città più antiche del mondo, essendo stata fondata 1470 anni avanti Cristo, 700 anni cioè prima della fondazione di Roma.

Secondo la leggenda, Cori fu edificata dal troiano Dardano, figlio di Corito, re d'Italia e d'Elettra, figlia di Atlante, il quale poi fuggì, fratricida, per paura di Siculo e di suo padre, nell'Asia, dove fondò Dardania che

solo dal suo nipote Tros fu chiamata Troia. Nel VII libro dell'Eneide [verso 670 e seguenti], è nominata Cora:

"Tum gemini fratres Tiburtia moenia linquunt,



Fratris Tiburti dictam cognomine gentem,



Catillusque acerque Coras, Argiva juventus".



I tre fratelli Catillo, Cora e Tibur o Tiburto erano figli di Anfirao di Argo; venuti dalla Grecia in Italia, costruirono Tiburi o Tivoli. Cora fu anche, a quanto si dice, il fondatore di Cori: questa è la seconda leggenda sull'origine della città.

Siamo ora dinanzi alla città, le sue case sono disposte a piramide sulla montagna; sulla cima appaiono i bei resti del tempio d'Ercole e, ai piedi, stanno dei giardini pieni di frutta e di olivi. Cori conta circa 5000 anime. Fin dal medio evo è stata feudo "del Senato e del popolo romano" ed è uno dei più bei possessi della città di Roma.

Non stancherò il lettore con la descrizione delle rovine di Cori, avendogliene già descritte abbastanza. Meritano però uno sguardo le mura ciclopiche o pelasgiche. Esse sono visibili in molti punti della città; si possono paragonare con le mura dell'antica Micene o Tirinto. Sostengono l'Acropoli sulla sommità del paese. Quando uno si è arrampicato sin lassù, rimane grandemente sorpreso di trovarsi dinanzi alle rovine del peristilio di un tempio di puro stile greco. E' un piccolo edificio dorico grazioso, benissimo conservato. Il travertino delle colonne ha preso un colore turchino grigiastro che gli dà un aspetto assai antico. Si chiama tempio d'Ercole, ma questo nome probabilmente non è giustificato.

Castore, Polluce, la Fortuna e Diana, la dea delle campagne pontine, il Sole, Giano, Eolo, Apollo, Esculapio, avevano i loro tempî a Cori. Si mostrano ancora, sotto l'Acropoli, quattro belle colonne corinzie, murate in una casa, che si pretende siano appartenute al tempio dei Dioscuri.

Sussistono tuttora alcuni avanzi di antichi bagni, di cisterne, ed un ponte gigantesco, di costruzione romana, sopra un rapido ruscello che corre presso la città. Altre antichità sparse possono inoltre interessare qui il visitatore.

Poche sono invece le memorie del medio evo. Il tempio di S. Pietro, eretto sopra le rovine di quello d'Ercole, non offre nulla di pregevole: è invece degna di attenzione per la sua architettura la chiesa di S. Oliva. Ma chi può pensare alle antichità dinanzi allo spettacolo della lontana pianura marittima che si gode da per tutto in Cori?

Passare un'estate a Cori sarebbe delizioso, perchè l'aria v'è fresca e balsamica, buono il vino e le frutta così abbondanti che per un baiocco si possono avere ventisei ottimi fichi. Cori però non è affatto visitata dai romani, che preferiscono Frascati ed Albano: pochissimi sono quelli che conoscono le bellezze della loro regione. Eppure dove sognare una vita più attraente di quella che si trascorre percorrendo le montagne della Sabina, i monti Ernici e Volsci? Dove è dato ritemprare il proprio spirito come in seno a questa sana e primitiva natura?

Lasciai Cori per recarmi a cavallo a Velletri e, come feci a Ninfa, mi promisi di tornarvi per vivere qualche tempo in mezzo a questa classica pace.

IDILLI DELLE SPIAGGE ROMANE(1854)

Le spiagge del mare latino sono distanti da Roma solo cinque ore di strada; tre volte alla settimana una diligenza vi porta chi voglia passare alcuni giorni a Porto d'Anzio o a Nettuno, o vi si reca per fare la stagione dei bagni, o per imbarcarsi per Napoli. Come un tempo, queste spiagge sono ancora luogo di ritrovo e di svago per i cittadini dell'Urbe, giacchè è fra le abitudini della vita romana, recarsi almeno una volta all'anno a Porto d'Anzio, come pure a Frascati, a Tivoli, ad Albano, per dimenticarvi la noia della città. Un lungo soggiorno, anche nel luogo più bello, finisce con lo stancare.

Ho provato questa sensazione io pure, sulla fine della primavera del 1854, quando lo scirocco, flagello di Roma, soffiava da più di otto settimane sulla città. Allorchè il 24 giugno, di buon mattino, verso le cinque, sono partito, mi è sembrato di respirare più liberamente. Splendeva un sole stupendo; la strada era già affollata di persone che,

con fiori in mano, si dirigeva verso la basilica laterana, la cui piazza, ricorrendo la festa di S. Giovanni, una delle più solenni di Roma, sembrava un mercato di fiori.

Dalla campagna spirava un vento dolcissimo; i prati scintillavano ancora della rugiada notturna ed i campi eran ricoperti di grano da poco falciato.

La strada rasenta i monti Albani. A Fontana di Papa, dove è un'osteria solitaria in mezzo alle vigne, che prende il nome da una fonte fatta costruire in quel luogo da Innocenzo XII, ci siamo fermati. Qui è solito fermarsi anche il papa, quando nel maggio si reca alla sua villa di Porto d'Anzio per godervi la frescura marina.

Regna ivi una grande animazione: tutti si siedono a tavola e mangiano maccheroni ed ottime frittate; vi si beve però del pessimo vino. Ad ogni momento sopraggiunge una carrozza od una persona a cavallo od una squadra di sbirri che tornano da perlustrare la vicina foresta, ho sentito uno di questi vantarsi di aver freddato il giorno innanzi con una schioppettata un brigante. Abbiamo visto anche arrivare da Porto d'Anzio un convoglio di galeotti, seduti sopra un carro, incatenati a due a due; fra di essi vi erano dei bei giovani, vestiti pulitamente, con cappelli di paglia, camice linde, cravatta di seta svolazzante; giunti a Roma, questi dovevano essere lasciati in libertà. Si porta loro del vino, dei sigari, ed i birri, stando vicino, col fucile in ispalla, accettano essi pure quanto viene loro offerto. Tali sono le scene che si possono godere a Fontana di Papa.

Poi la strada corre per due ore entro le macchie che costeggiano le paludi pontine sino a Terracina, coprendo la spiaggia del mare, e che sono abitate da cignali, da porcospini, da bufali, da tori, dalla febbre e dai briganti, che sbucan fuori di là per svaligiare sulla via Appia, o presso Cisterna, o presso For'appio, o sotto le rocche di Terracina, i viaggiatori.

Finalmente ci è apparso il mare, raggiante di luce, turchino, tranquillo, ed abbiamo salutato le onde azzurre di Anzio, l'antica città dei Volsci, dove Coriolano trovò la morte, e dove è stato ritrovato il capolavoro dell'antica scultura, l'Apollo del Belvedere, che ornava il suo tempio.

Sono ormai nove anni che ogni estate mi delizio del mare. Ivi ho trascorso le mie ore migliori ed ho fatto le mie più belle escursioni. Mille imagini e mille ricordi sono sorti in me nello scorgere questo mare latino. Ma mentre riapparivano chiare e limpide nella mia mente le coste elisie della Corsica e della Campania, i golfi superbi di Palermo, di Cefalù, di Siracusa e dell'Etna, la spiaggia latina non ha punto corrisposto alla mia

aspettazione. In tutti gli altri mari si vedono magnifici scogli, capi, promontori, castelli e città torreggianti qua e là sulle rive, ricchi oliveti scendenti sino al mare, aranceti fioriti e odorosi, melagrani con i loro frutti infuocati. Chi può dimenticare, alla vista del mare, il magico lido di Sorrento, i giardini di Palermo, i vigneti che si stendono lungo la spiaggia stupenda di Acireale, sul mar Jonio? Ritornando col pensiero a tutte queste bellezze, la spiaggia del mare latino e la piccola città di Anzio mi hanno prodotto una penosa impressione. Per quanto abbia spinto l'occhio dalla parte di Ostia, non mi è riuscito vedere che macchie deserte, una spiaggia depressa di argilla e di sabbia, alcuni spazi chiusi da palizzate, dove pascolavano alcune mandre. La città è un complesso di ville in stile romano, di casupole in pietra, di capanne ricoperte di paglia, che si stendono tutte intorno al piccolo golfo, sulla cui spiaggia sono alcune barche tirate a secco e nel porto poche paranze.

Alla locanda, seduto dinanzi al cavalletto, ho trovato un compatriota tedesco, distinto paesista; pitture di marine, da poco terminate stavano sulle pareti e provavano che l'autore non aveva perduto il suo tempo. Non gli ho celato la mia delusione, ma egli mi ha portato alla finestra e mi ha fatto osservare il mare che scintillava di luce e all'orizzonte i monti che si profilavano in una tinta azzurrina. Non era trascorsa una giornata che io non pensava più a tutte le amene riviere che conoscevo ed ero completamente conquistato dal nuovo fascino di questa solitaria spiaggia di Anzio. Essa mi ha ricordato quelle del mio mar Baltico, meno belle e pittoresche e più d'una volta alla vista di queste gialle coste senza rocce, ho esclamato: Ma questo è proprio Neukuhren, Wangen, Sassau! La spiaggia del mar Baltico e quella del mare latino si somigliano fra loro, come un'ingenua canzone popolare ricorda i classici idilli di Teocrito.

Nè Poussin, nè Claudio, nè Salvator Rosa sarebbero certo qui venuti a trarre per le loro marine l'ispirazione. Nulla vi ha qui di epico, di eroico, di grandioso, di ardito, di bizzarro, di fantastico. Tutto v'è ampio, largo, indeciso, ma tranquillo, pieno di dolcezza, idillico insomma. Quest'ampia, lunga spiaggia ha un significato veramente lirico, ed ora mi so spiegare l'attrattiva che essa aveva su i Romani, preoccupati sempre delle sorti del mondo intero. I contemporanei di Augusto, di Caligola, di Nerone(questi era appunto di Anzio) amavano sottrarsi a tutte le preoccupazioni della capitale e godere, per un mese, nell'estate, in Anzio, il dolce far niente, come anche oggi è solito fare il papa.

Quale pace scende negli animi nella solitudine di questo mare! Quella linea fine e dolcissima della spiaggia che si prolunga per miglia e miglia e si perde poi nei vapori, quella sabbia morbida e scintillante, quelle onde che si frangono di continuo in quel mare che muta ad ogni istante aspetto e tinta, quel superbo capo di Circe, che emerge nel mare come un'isola e splende come un magico e grandioso zaffiro, quella lontana e piccola isola di Ponza, di cui le vette sorgono dalle onde quasi corolle di fiori, quelle cento piccole vele che vanno, vengono, compaiono, spariscono; quel canto melanconico dei pescatori, quel suono di flauti e di arpe, tutto ciò fa sì che se al di fuori rintronasse il mondo intero del rombo del cannone, dello scoppio delle granate, qui non giungerebbe l'eco più lieve.

Pochi giorni prima a Roma non vedevo l'ora in cui giungessero al caffè i giornali, e mi precipitavo quasi sul Monitore di Toscana, sulla Gazzetta di Genova, sulla Gazzetta universale di Augsburg, appena arrivavano; qui, invece, non si ha nessun giornale, neppure il Giornale di Roma, periodico più innocente ancora di un'egloga di Virgilio, e se si chiede a qualcuno: "Che cosa fa Omer Pascià?... Dove si trova l'ammiraglio Napier?... Continua Silistria a resistere?...", si ha una scrollata di spalle e nulla più.

Quando mi affaccio alla finestra della mia stanza, sotto la quale i pescatori napoletani, seduti sulla sabbia, racconciano le loro reti, scorgo tutto il magnifico golfo, ed il mio occhio può seguire tutta la spiaggia sino al capo Circeo: su questa spiaggia, presso Anzio, sorge la bella villa del principe Borghese, in un parco assai trascurato, ma ricco di elci e di olivi, e più in là il castello e la città di Nettuno, bruna e pittoresca, costruita sul mare e famosa in tutto il mondo per la bellezza delle donne e per la loro stupenda foggia di vestire. La linea della spiaggia continua poi, sempre fina e dolcissima, ed in lontananza, in fondo, appare confusamente un bianco castello. Questo castello stende sulla spiaggia e sul mare quasi un velo di tristezza, e così, come il capo Circeo, desta un sentimento di omerica poesia. Ogni tedesco è portato a contemplarlo mestamente e l'animo suo non può che riempirsi di malinconia e di tristezza, giacchè quel castello segna un periodo grande e doloroso nella storia della nostra patria: esso è la rocca di Astura, dove, dopo la sconfitta di Tagliacozzo, cercò rifugio l'ultimo degli Hohenstaufen, Corradino, e dove il traditore Frangipane lo tenne prigione e lo consegnò poi a Carlo d'Angiò, avido di sangue. Da quella rocca precipitò in mare il sole degli Hohenstaufen.

Questo castello, dalla mia finestra, mi è sempre davanti agli occhi e mi richiama al desiderio della patria lontana ed aumenta quella mestizia che è propria di tutta questa spiaggia. Non ho potuto aver pace sino a che non mi ci sono recato e non ho visitato le sue antiche mura; ora posso di nuovo guardarlo tranquillamente. Anche là vogliamo andare, perchè da per tutto giriamo, avendoci gli dèi concesso queste ore libere.

Quando i signori romani si recavano a villeggiare ad Anzio, la città era vasta ed il porto in fiore. Nerone lo aveva costruito splendidamente, ed anche oggi si scorgono in fondo al mare i resti di un molo grandioso, visibili quasi quanto quelli del ponte di Caligola, nella baia di Pozzuoli. Se non che sin dal medio evo il porto cominciò ad andare in rovina ed a riempirsi di sabbia, e la città, saccheggiata prima dai Saraceni e poi distrutta da un terremoto, oggi non è più che un villaggio. Nel 1700 Innocenzo XII restaurò il porto, riparò la strada, costruì alcune case ed una fontana. Dopo di allora i papi vi si recarono di tanto in tanto, prima che dalle paludi pontine sorgessero i miasmi che dànno la febbre, per godervi un po' di tranquillità e di riposo. Pio IX fece acquisto recentemente della splendida villa edificata nel 1710 dal famoso cardinale Alessandro Albani, dove dimorò per qualche tempo Winckelmann, insieme col cardinale e con la principessa Albani. Con gli scavi fatti qui eseguire, il cardinale non solo fece un affare eccellente, ma riuscì anche ad ornare la sua villa in Roma di molte e belle statue.

La villa in Anzio è un palazzo signorile nel gusto dell'epoca; sorge in mezzo ad un vasto giardino, ora mal tenuto, povero di fiori e di piante, ma ricco di aranci. Qui il papa può condurre una vita più solitaria e più libera che a Castel Gandolfo; deve però adattarsi alla vista delle miserabili casupole di paglia abitate da famiglie di pescatori, e ad una vista anche peggiore, quella del bagno penale che sorge presso il molo ed è un ampio casamento chiuso fra il castello e la chiesa. I galeotti lavorano tutto il giorno a cavare il fango dal porto; hanno la catena nascosta sotto gli abiti e per lo più non presentano alcun segno speciale che li faccia riconoscere; fra di essi vi sono molti giovani briganti. Questi galeotti rendono impossibile lo sviluppo di qualunque industria nel porto d'Anzio, perchè, esercitando essi tutti i mestieri, tolgono ogni lavoro agli operai liberi. Risparmiando denaro, essi possono vivere bene, e corrompendo i loro guardiani riescono a godere molte agevolezze. Quando ottengono la loro libertà, si stabiliscono generalmente nel luogo e sposano la loro innamorata.

Un bagno penale ed una villeggiatura estiva del Santo Padre non sembrano cose fatte per andare insieme, ma ciò è prettamente romano, perchè una qualche contraddizione e stonatura devono manifestarsi nella vita romana, in questa paradisiaca natura. Il Papa, però, vuol riedificare Anzio; ha ordinata la costruzione di molte case e ha detto che non vuole più oltre tollerare la brutta vista di quelle capanne di paglia. Il porto va ogni anno sempre più prendendo incremento, soprattutto perchè si trova più vicino a Napoli che Ostia e Civitavecchia. Una società romana ha fatto acquisto di un piroscafo che parte da qui due volte la settimana per Napoli, dove porta i viaggiatori giunti da Roma con la posta. In tredici ore e con la tenue spesa di cinque scudi si va a Napoli. Questo piccolo commercio ha richiamato un po' di vita ed un po' d'industria ad Anzio e son queste le sole fonti di guadagno e le sole occupazioni de' suoi abitanti, le campagne essendo quasi incolte. Non vi sono qui nè vigne, nè oliveti; solo vi si allevano delle mandre, che pascolano liberamente sulla riviera; tutti gli oggetti di consumazione vengono dagli altri paesi: Nettuno fornisce il vino ed anche ogni giorno il pane fresco; Genzano l'olio e le frutta e Cori, nei monti Volsci, le ciliegie ed i fichi.

Gli alberghi sono piccoli e meschini: una camera vi si paga venticinque baiocchi al giorno, e vi si pranza, come a Roma, alla carta; con sette paoli al giorno, corrispondenti ad un tallero prussiano, si ha pensione intera, con quattro piatti a pranzo e tre a cena. I pensionanti sono per lo più pittori tedeschi, che vanno promovendo il progresso nelle piccole locande dei villaggi della costa e dei monti, e che possono quindi esser considerati come tanti missionari della civiltà nella campagna romana.

Vi è però qui in Anzio una cosa eccellente: il pesce. Il golfo fornisce ogni giorno ogni sorta di pesci, e financo delle splendide aragoste. Non sono però mai gli abitanti del luogo che li pescano, perchè essi non hanno tanto danaro per comprarsi una barca; sono invece pescatori napoletani che vengono, sulle loro vaghe imbarcazioni, da Pozzuoli, da Baia, da Portici, da Torre del Greco, da tutta la costa del loro incantevole golfo, e passano qui varî mesi dell'anno a pescare, dormendo nelle stesse loro barche. Altri napoletani abitano nelle capanne e sono generalmente quelli che, per sfuggire alla leva militare, hanno emigrato dalla loro patria. Per tutto il Mediterraneo, del resto, si trovano questi marinai napoletani, che sono i primi pescatori del mondo, e se ne incontrano anche nelle isole spagnole e sulle coste d'Africa, dove

pescano il corallo: e così le loro graziose barche variopinte solcano in ogni direzione questo mare.

Ho dunque ritrovato qui, e con piacere, delle vecchie conoscenze. La vivacità del loro gestire, la loro mimica, il loro dialetto, il loro costume mi hanno fatto ricordare quelle scene pescherecce di cui sono stato tante volte spettatore sulle spiagge napoletane. Sono scene descritte e dipinte sino alla sazietà, ma che, sulla riva del mare, appaiono sempre più belle.

Le loro barche, venti all'incirca, ciascuna delle quali porta almeno cinque uomini ed è governata dal padrone, stanno a tre passi dalla mia finestra.

I pescatori generalmente lasciano la spiaggia la sera verso l'Ave Maria e rimangono in mare tutta la notte; al mattino il pesce viene posto in recipienti coperti di paglia, ed alla sera è imballato per esser spedito nella notte con i carri a Roma. La sera si può godere una scena animatissima. Gli scrivani, seduti ad un tavolo, al lume di una lanterna, registrano la merce; i pescatori stanno all'intorno, occupati gli uni a trarre fuori dalle ceste il pesce, altri a spezzare il ghiaccio ed alcuni infine ad accomodarlo. Le varietà e le forme di questo pesce di mare sono veramente sorprendenti: si vedono dei bellissimi rombi, dei grossi palombi, delle variopinte murene, delle sogliole dalle pinne pungenti, delle triglie luccicanti, delle sardine, dei merluzzi in gran quantità. Di quando in quando vengono pescati anche dei delfini ed una sera sulla piazza ho visto persino due pesci-cani, presi la notte precedente. Saranno stati lunghi dagli otto ai dieci piedi, e la loro tinta turchino-nerastra aveva un non so che di ributtante. Il mezzo per pescarli è l'amo: quando si sente che lo hanno addentato, si issano a bordo e si uccidono a colpi di mazza. La loro carne, bianca come quella dello storione, è mangiabile, ma piuttosto dura.

Questi poveri pescatori conducono dunque una vita faticosa, alla giornata, che può apparire poetica a chi sta contemplando, seduto tranquillamente sulla spiaggia, le loro barche illuminate, che ora si vedono, ora scompaiono sulle onde del mare. Un eguale spettacolo si può ammirare sul mar Baltico, ma fra questo e quello si nota la stessa differenza che passa fra il Nord nebbioso ed il Sud irradiato dal sole. Il pescatore napoletano, povero qual'è, mezzo nudo, con i calzoni corti di tela, in maniche di camicia, col suo berretto rosso in testa, è snello, vivace, ciarliero, pronto sempre allo scherzo, al motto, al canto, al ballo; accanto al pescatore taciturno e tranquillo del Baltico, sembra quasi una

figura da teatro, sino ad un certo punto ideale. Credo che se si mettessero in una stessa barca un pescatore napoletano ed un pescatore del Baltico, con l'obbligo di passarvi una intera giornata, uno dei due finirebbe per gettarsi in mare. Sarebbe certo impossibile ad un pescatore del Baltico di avere una parte storica come l'ha avuta il pescatore partenopeo, che può vantare il nome di Masaniello.

Masaniello non è già stato un grande uomo, ma certo un uomo strano, anima di pescatore avvezza alle tempeste, ardito, temerario, ambizioso; è stato un uomo del momento, come momentanea fu la sua grandezza; spensierato, folle, senza uno scopo prefisso, simile alle onde sempre agitate del mare, che si accavallano le une sulle altre. Tra le figure storiche non saprei paragonarlo, per origine, condizione e per ombra di passeggera grandezza, che a Giovanni di Leida, il momentaneo re di Münster. Questi era sarto, e in Germania quella dei sarti è la classe più irrequieta; veri napoletani, pulcinella, avventurieri nati, Giovanni di Leida però è stato più grande di Masaniello, perchè in certo modo vagheggiò un'idea, cosa possibile questa soltanto a sarti, non a pescatori. L'uno e l'altro furon figure bizzarre, fatte apposta per il teatro lirico. Ma era ben naturale che sul suolo napoletano l'antica stirpe dei pescatori che vi è più rappresentata che altrove, avesse una volta anche un re.

Ho visto a Napoli, nella pinacoteca un ritratto di Masaniello, opera dello Spadaro, suo contemporaneo: è rappresentato nel costume dei lazzaroni, cioè scamiciato, col petto scoperto, abbronzato dal sole, e con la pipa di gesso in bocca, e appunto così stanno seduti dinanzi a noi sulla spiaggia i pescatori napoletani. Se non che il pittore gli ha posto in testa un berretto alla spagnuola, ornato di penne, rappresentando così in modo felice la singolare contraddizione della sorte di quest'uomo. La sua fisonomia non ha nè nobiltà, nè espressione; la sua faccia è larga, grassa, di una mollezza quasi femminile; il suo sguardo ha qualcosa di astuto, di equivoco. Questo ritratto è prezioso perchè è fedele e contemporaneo: in esso si riconoscono le caratteristiche del pescatore napoletano, e Masaniello infatti non fu nè un mezzo eroe, nè un mezzo re Lear, quale il melodramma l'ha voluto rappresentare. Esistono altre pitture dello Spadaro, che rappresentano scene storiche dell'epoca di Masaniello, fra le quali la rivolta del mercato, dove il re pescatore arringa, vestito da lazzarone, il popolo; sul davanti lo si vede vestito alla spagnola, a cavallo, sulla piazza, dove molti nobili sono impiccati o stesi a terra dalle archibugiate. Alfredo di Reumont ha descritto

recentemente, con vivaci colori, nella sua opera I Caraffa di Maddaloni, la vita di Masaniello.

Questi ricordi ci hanno intanto allontanato dai pescatori della spiaggia d'Anzio. Le loro barche meritano però ancora uno sguardo: sono veramente pittoresche, dipinte come sono a graziosi rabeschi sul fondo bianco; vi si scorgono delfini, sirene, stelle ed in mezzo a questi segni profani o mitologici, la Madonna, o S. Antonio, protettore dei pescatori. Per ripararsi da gli ardori del sole sopra la barca è stesa una tenda di tela; l'armonia di tutti quei colori, neri, bruni e bianchi, il timone ed i remi, le vele spiegate, le reti ammucchiate producono un effetto veramente pittoresco.

Il porto d'Anzio formicola al presente di queste barchette; presso al molo vi sono altri legni napoletani e tartane, venute a caricare legna e carbone, giacchè da questa riviera ricca di boschi vengono portati ogni anno a Napoli combustibile e legname da costruzione per un milione di scudi. Si vedono infatti qua e là sulla spiaggia d'Anzio e di Nettuno grossi mucchi di carbone, cotto nei boschi, dai quali neri bufali traggono pure sulla riva gigantesche quercie. Vengono talvolta attaccati ad un carro fino a sedici bufali, punzecchiati, perchè camminino, con una specie di lancia. Il regno di Napoli possiede vaste foreste in Calabria, ma preferisce prendere il legname dalle paludi pontine, perchè scendendo i boschi sino al mare ed essendo la spiaggia piana e facile, le spese di trasporto sono di gran lunga minori.

In questo ambiente vario, semplice e primitivo, fra questi pescatori e marinai, le figure della città non attirano quasi nessuna attenzione. Qua e là un pittore, seduto e riparato da un ampio ombrello bianco, sta facendo uno schizzo della spiaggia o dei pescatori. Tali apparizioni sono diventate ormai caratteristiche e proprie di ogni bel sito d'Italia; in qualunque bella giornata di estate o di primavera si può esser certi di vedere sorgere, in un posto od in un altro, ovunque è un bel paesaggio, come un fungo, l'ombrello bianco di un pittore. Ne ho incontrati perfino nelle regioni più remote della Sicilia, e ricordo anzi che, arrampicatomi un giorno, nelle ore più solitarie, sulle rocce di Taormina, non potei trattenermi dal ridere, vedendo giù da lontano l'ombrellone: v'era sotto un paesista di Weimar. Raramente invece ho visto dei pittori intenti a disegnare le spiagge del Sunland, che pur sono così belle e superano anzi, come quelle bizzarre di Gross e di Kleinkuhren, per grandiosità, le spiaggie latine; la ragione è che manca loro la magia delle tinte. Nel nord

la tinta del mare è o troppo splendente, o dura, o confusa; essa non ha questa fine nebbia d'aria e di luce, nè il magico riflesso, nè il confondersi insieme di dolci luci scintillanti, questa chiarezza eterea di smeraldo. Ma che cosa non può dipingere il pittore? Ciò che ad un profano pare senza significato è colto dall'ingegno creatore, che ne fa un'immagine espressiva. Altrettanto avviene nella poesia lirica. I pensieri, le ispirazioni sono inesauribili. La natura non ha che da essere bene osservata e sentita; essa cela forme e pensieri infiniti, che un uomo privo di fantasia neppure può sospettare. Ed anche su questa costa tranquilla vi sono originali apparizioni; solo è difficile esprimerle, rappresentarle, perchè delicatissime, finissime, non riproducibili con tratti grossolani.

Ma lasciamo da parte l'album degli schizzi e lanciamoci in mare! L'aria marina, narcotica, molto più grave di quella del Nord, invita qui veramente a cercare sollievo in seno alle onde. La sabbia in fondo al mare è bianca come la neve, soffice quanto il velluto e si stende sino al largo. Si vedono per ogni dove persone che si bagnano; qua e là sulla spiaggia sorgono capanne, formate e coperte da rami d'albero. Tutti questi bagnanti vengono da Roma, da Velletri, dai monti, ma non mai prima del luglio, perchè gl'italiani in giugno trovano l'acqua ancora troppo fredda per prendere il bagno. Si ritiene inoltre che non sia igienico oltrepassare i venti bagni e ciò, almeno sembra, per le condizioni speciali del clima; io stesso del resto ne ho fatta l'esperienza nell'isola di Capri. L'acqua pare sia qui più eccitante che nel Nord e quindi prendendone un numero un po' forte, ne risentono il sonno e l'appetito.

Su questa spiaggia non v'è ombra di vita balneare, non vi sono quelle facili relazioni di società, quasi familiari, che fanno sulle spiagge dei nostri mari una festa dei mesi d'estate; qui ogni famiglia, ogni persona vive a sè; il forestiero non ha altro luogo di ritrovo che l'unico caffè del porto, dove, sotto una tenda, allo stesso tavolino, democraticamente e con quella bella confusione di classi tutta speciale all'Italia, seggono il bagnante ed il pescatore mezzo ignudo, che approfitta tranquillamente dell'ombra della tenda per fumare la sua pipa di gesso, senza prendere nè caffè, nè altro.

Alcuni ufficiali del genio ed un capitano pontificio, che mi diverte col suo grazioso dialetto veneziano, sono le persone con le quali generalmente mi trattengo a chiacchierare.

Passato il luglio, la maggior parte dei bagnanti lascia Anzio, incominciando il pericolo delle febbri. Anche ora, in cui il calore è spesso

insopportabile e si fa sentire fin dalle sette del mattino, dopo calato il sole l'aria diventa umida ed il venticello tepido e molle che spira dal mare è veramente caratteristico: non è prudente allora rimaner fuori di casa. Il bel chiarore della luna sulle foreste, sulla spiaggia e sul mare, che rende nel mar Baltico così piacevole a quell'ora la vita all'aria aperta, non può qui esser goduto che dalla finestra; imperocchè una sola di queste notti passate all'aperto basterebbe a procurar le febbri e forse anche, dopo alcuni giorni, la morte. E' pericoloso su questo mare lasciarsi adescare dalle sirene: bisogna dunque adattarsi a passeggiare lungo la riva prima del tramonto, facendovi ricerca di conchiglie e di piccoli gamberi marini. Sono questi animalucci grandi al più come un quarto della mano ed hanno quasi la forma del ragno; corrono con una velocità straordinaria ed allorquando si fa per afferrarli, il più delle volte spariscono sotto la sabbia, come spettri nel teatro. Qui dove tutto si mangia, perfino le rane, i porci spini, gli usignoli, questi gamberetti vengono mangiati vivi, dopo essere stati spogliati delle loro squamme.

Su questo lido più volte mi è accaduto di pensare alla brillante ambra gialla che si raccoglie sulle nostre spiagge e che qui il mare non produce: qui esso somministra invece tutte le specie più preziose del marmo. Se ne potrebbero raccogliere a carri e dei più rari, che le onde gettano sulla riva. Vi si vede il verde e il giallo antico, il preziosissimo alabastro orientale, il porfido, il pavonazzetto, il serpentino azzurro. Per comprendere donde vengano tutti questi marmi preziosi, basta dare dalla spiaggia uno sguardo in fondo al mare: sorgono ivi ancora le fondamenta di quei palazzi marmorei romani che si specchiano nell'acqua, e per la distanza di un chilometro da terra, la spiaggia d'Anzio non è che un seguito di mura: e non solo si possono anche oggi vedere massi grossissimi, resti di costruzioni, ma distinguere pure che sono opere romane in peperino, collegate con la pozzolana, indistruttibili, lavorate egregiamente a forma di reticolato. Tutta questa spiaggia non era che un seguito di grotte, di bagni, di templi, di palazzi, di cui le fondamenta in gran parte sussistono in fondo al mare o sotterrate nelle sabbie della spiaggia. Su questa sorgevano le stupende ville marmoree degli imperatori. Qui si sprofondava nella dissolutezza Caligola; egli aveva una speciale predilezione per Anzio ed aveva anzi formato il disegno di venire a stabilircisi: qui festeggiò le sue nozze con la bella Lollia Paolina. Qui faceva le sue orgie Nerone, che era nato ad Anzio e vi aveva impiantato una colonia; qui fece il suo trionfale ingresso, tirato da bianchi destrieri, di ritorno dalle sue rappresentazioni

teatrali in Grecia.

Anche prima, Anzio era stata dimora preferita dei Romani: Attico, Lucullo, Cicerone, Mecenate, Augusto vi ebbero le loro ville. Ed in quali fresche montagne o belle spiagge d'Italia questi favoriti della fortuna non ebbero le loro ville! Di quali monumenti deve avere allora brillato questa spiaggia, a giudicare dai frammenti, che, quasi testimoni storici, sono da secoli e secoli gettati sulla spiaggia! Queste rovine spargono nell'idillio di Anzio una nota melanconica, ed i pensieri, i ricordi che esse destano, valgono ad accrescere fortemente l'incanto di questo soggiorno. La mancanza assoluta di storia, la separazione completa dal mondo e dalle sue vicende, sono quelle che danno uno speciale carattere alle nostre spiagge del Nord; qui in Italia, invece, non si rinviene un solo angolo di terra, per quanto solitario e remoto, dove le memorie severe e classiche del passato non sorgano, dove non invitino a riflettere sul continuo avvicendarsi delle sorti del genere umano. Sedendo qui sulle rovine di un palazzo romano, al rumore delle onde che si frangono contro di esse, tornano inconsciamente alla memoria i versi di Orazio:

"O diva gratum quae regis Antium,



Praesens vel imo tollere de gradu



Mortale corpus, vel superbos



Vertere funeribus triumphos!"



E la vista del capo Circeo ci richiama alla poesia omerica, e quella della lontana Astura ci trasporta in altre storie, in altra poesia, sì che ci circondano tre periodi dell'umana civiltà, tre diversi generi di poesia: Omero, Orazio ed il poeta degli Hohenstaufen, Wolfram di Eschenbach.

La Dea Fortuna aveva in Anzio un tempio famoso, ed avevano quivi i loro templi anche Apollo, Venere Afrodisiaca, Esculapio e Nettuno. L'idea che su questa spiaggia deserta, circondata di prati, brillò in tutta la sua divina bellezza, attorniato da altre stupende creazioni artistiche, l'Apollo del Belvedere, aumenta il pregio di questo luogo, già di per sè amenissimo. La statua meravigliosa fu qui scoperta ai tempi di Giulio II, ed anche quelle che sono nelle gallerie del Vaticano, del Campidoglio e del palazzo Albani, furono in seguito per la maggior parte qui rinvenute, come del resto anche il famoso gladiatore morente, parecchie statue di imperatori, i busti di Adriano, di Settimio Severo, di Faustina, i satiri, gli atleti, le statue di Giove e di Esculapio, i tripodi stupendi e i meravigliosi altari del Campidoglio, dedicati ai venti. Sopra un'altura della spiaggia, dove ora sorge, sulle fondamenta di un tempio antico, un piccolo forte, dal quale, appoggiato ad una vecchia e gigantesca spingarda del medio evo, tutta arrugginita, un soldato contempla il mare, sono tuttora in piedi le basi di antiche colonne e vicino queste, ventidue splendidi capitelli corinzi di cipollino. Le loro volute ed i loro ornamenti sotto l'abaco, sono particolarmente geniali ed io non ricordo di averne mai visto di simili; rappresentano conchiglie, delfini, gamberi di mare. L'architetto conformò gli ornamenti al luogo, e molto probabilmente questo tempio era dedicato a Nettuno.

Ad Anzio ho trovato una persona che si diletta di antichità; in Italia non v'è paese di qualche importanza che non abbia il suo storiografo locale od il suo archeologo. Ad Anzio è il canonico Lombardi, presidente dell'amministrazione del porto, il quale abita all'ultimo piano del casamento che comprende il bagno penale. Ho trovato questo degnissimo uomo, intento a decifrare un'antica iscrizione, disotterrata dai galeotti. Il Lombardi ha già scritto un libro su Anzio, ed attende ora ad un'opera più vasta sulla storia e sulle rovine della sua città. Ho letto con piacere e con gratitudine il suo pregevole lavoro.

Oramai ho percorso tutta questa spiaggia sino ad Astura e da per tutto ho trovato avanzi di ville, di bagni, frammenti di marmi, di mosaici, fra i quali ricorderò il pavimento in mosaico, abbastanza ben conservato, che è di fronte alla torre solitaria di Astura, sulla spiaggia, presso il ponte. È impossibile figurarsi quanti e quali stupendi edifici abbiano i romani innalzato lungo questo mare. Tutta la spiaggia dalla Toscana sino a Terracina, da Terracina a Napoli, attorno al golfo, fino a Salerno, non dovè essere che un seguito di palazzi marmorei, di templi, di bagni, di

palestre, una manifestazione continua della magnificenza romana; e quale fosse lo splendore di tutte queste costruzioni si può anche oggi giudicare dalle rovine che giacciono in fondo al mare. Chi avesse percorsa allora questa lunga riviera e veduti tutti questi edifici destinati al piacere, al diletto, gareggianti per importanza con le città, avrebbe certamente potuto ammirare una grande manifestazione della civiltà. Ora invece queste amenissime spiagge sono nude e deserte, non offrono altro allo sguardo se non le torri cadenti, innalzate nel medio evo contro le invasioni dei Saraceni, torri che possiamo vedere sparse lungo tutte le coste d'Italia e delle isole del Mediterraneo, e che dànno loro un aspetto magico, quasi direi cavalleresco.

Qui non mancano però neppure monumenti moderni, che ricordino altri siti, altre regioni. La bella villa Mencacci, che sorge in una fresca valletta, vicino alla spiaggia, fu, per esempio, non è molto, abitata per varî anni da un re in esilio che aveva vissuto in America e guerreggiato per un trono sulle belle sponde del Tago. Intendo parlare di Don Miguel, principe esecrato dal Portogallo, che venne qui fuggiasco, senza corona e visse a lungo in questa solitudine, vicino ai galeotti, in un esilio che fu certo senza conforti, perchè se a noi, che nulla abbiamo da espiare, questa spiaggia solitaria, ai contini delle paludi pontine, può apparire poetica, ad un re spodestato dovette riuscire insopportabile e con un carattere quasi vendicativo. Don Miguel ammazzava qui il suo tempo cacciando continuamente nei boschi sopra Astura. Un giorno scomparve. Mi hanno narrato in Anzio che soleva trattenersi volontieri con i pescatori e che non si vergognava punto di parlare della sua disgraziata lotta per la corona del Portogallo.

Contemplando la villa Mencacci, la fantasia vola lontano, al Brasile ed al Portogallo, alle burrascose vicende della loro storia.

Un altro avvenimento moderno ricorda questa spiaggia: lo sbarco, cioè, nel 1848, degli spagnoli, chiamati da Pio IX fuggiasco, per salvare gli Stati della Chiesa. Trovavasi allora il Papa in esilio nella rocca di Gaeta, la Coblenza dell'emigrazione italiana nel 1848 e nel 1849: mentre i francesi marciavano su Roma, gli austriaci occupavano Bologna ed i napoletani si avanzavano verso Terracina. Gli spagnoli, che da molto tempo non erano più apparsi in Italia, sbarcarono a Porto d'Anzio ed occuparono tutto il paese, fino ai monti di Albano e della Sabina. Erano, a quanto mi si è detto, della bella ed allegra gioventù, ma mal vestita e peggio armata. I francesi non tardarono a surrogarli, ed i giovani ufficiali

di Valenza e di Barcellona abbandonarono a malincuore i monti di Albano, dove erano stati rapiti dalla bellezza delle donne, alcune delle quali ancora ricordano con un sospiro i poveri cavalieri di Spagna.

Porto d'Anzio non vanta donne belle, nè bei costumi, essendo la popolazione composta di elementi diversi. Si distingue, al contrario, sia per bellezza femminile, sia per originalità di costume, la piccola città di Nettuno, che sorge pittorescamente sulla spiaggia e di cui le nere mura si specchiano nel mare. Vi si arriva da Porto d'Anzio in tre quarti d'ora, facendo una bellissima passeggiata. A metà strada, in mezzo ad un bosco, sorge la splendida villa del principe Borghese, signore di tutto il circondario. All'orizzonte si scorgono i monti Volsci ed il capo Circeo, immerso in una luce superba, che ricorda, con la sua forma imponente e caratteristica, i promontorî più belli d'Europa, quali quelli dell'isola di Capri ed il monte Pellegrino di Palermo.

Per giungere a Nettuno v'è un'ottima strada, che passa davanti alla villa ed attraversa un bosco di sugheri e di elci, dove sono parecchi ruderi romani. Scavando sotto la strada è facile scoprire dei pavimenti in mosaico. Sulla spiaggia la strada è ancora più bella: la sabbia è ora gialla, ora scura, ora di un bel rosso acceso, ora di tufo vulcanico. I cardi turchini della costa del mar Baltico vi crescono abbondantemente, come pure la scabbiosa e la camomilla; invece però dei salici, degli ontani, delle foreste di abeti, sono qui le piante dei paesi meridionali e i mirti dai fiori bianchi, il mastice e le fragole e il ginestro dai fiori color oro che abbonda su tutte le coste del Mediterraneo e l'olivo selvatico. Splendono qui pittorescamente le malve arboree, con i loro candidi calici, e i rovi con i loro variopinti fiori e grandioso s'innalza fra le piante minori il classico acanto, con le sue belle foglie corinzie ed i fiori rosa o bianchi. Qua e là si vedono anche dei cactus e l'aloe, quasi piante esotiche. L'usignolo allieta con la sua presenza ancora questa spiaggia, nonostante sia passato il giorno di S. Giovanni, epoca in cui gli uccelli cessano qui di cantare e cedono il posto al grillo anacreontico: l'usignolo non può staccarsi da questo verde, da questo fresco mare, e fino ad Astura le paludi pontine continuano a risuonare dei suoi armoniosi gorgheggi.

Una quiete profonda regna nell'antico paese di Nettuno e ne' suoi dintorni. Nettuno attualmente è circondato da antiche torri e da scure mura merlate, che hanno più di una volta resistito agli assalti dei Saraceni. Nessun pescatore o marinaio avviva lo specchio dell'acqua,

poichè non vi è porto, e la popolazione è dedita alla pastorizia.

Sulla piazza di Nettuno sorge un'antica colonna solitaria, emblema dei Colonna, antichi feudatari del paese. Le strade sono profumate dai garofani che ornano quasi tutte le finestre e che, agitati dal vento, ondeggiano i loro fiori color rosso ardente. Fiori così belli annunciano donne più belle ancora; infatti nei garofani che rallegrano le finestre, si può quasi vedere la bandiera nazionale delle donne di Nettuno: il loro costume non è di aspetto men gaio, meno vivace di quello dei purpurei fiori.

E' cosa degna di nota che in Italia anche i più piccoli paesi sembrano quasi altrettante repubbliche, diverse per usanze, per tipo, per foggia di vestire. Si potrebbe dire che ogni castello, ogni villaggio forma una popolazione a sè. Bisogna vedere le donne di Nettuno in un giorno di festa per potersi fare un'idea precisa della bellezza e dell'eleganza del loro costume nazionale. Nei giorni di lavoro non sono che i minimi particolari quelli che indicano la moda del paese, come, ad esempio, la foggia di portare i capelli, divisi in mezzo al capo e lisci, senza trecce nella parte posteriore, rattenuti da un nastro verde per le ragazze, rosso per le donne maritate e nero per le vedove; basta dunque vedere una donna per saper subito se sia nubile, maritata o vedova.

Ho assistito qui a due feste, a quella di S. Giovanni ed a quella di S. Luigi. Nella prima ho visto una processione con musica, per le vie; la croce era completamente coperta di garofani e tutti portavano fiori. Vi prendevano parte donne e fanciulle, ed era veramente uno spettacolo stupendo vedere per quelle cupe strade tante belle figure e così splendidi abiti. Ecco in che consiste il costume delle donne di Nettuno: in capo portano una specie di fazzoletto a striscie d'oro e d'argento che sporge sulla fronte; una gonnella di seta o di velluto color rosso scuro, ricamata sul fondo in oro o in argento, scende loro dai fianchi, e sopra questa portano un corsetto di broccato, ugualmente ricamato sul petto e sulle maniche. Anelli, orecchini, braccialetti di oro e coralli dànno ancora maggior risalto alla bellezza della persona ed all'originalità del loro costume. Il colore dei vestiti è a volte verderame o violaceo, o anche nero o azzurro scuro. Pare anzi che l'eleganza e la bellezza di questo costume nobiliti il portamento delle donne; io le ho viste infatti passeggiare per le piazze del loro paese in rovina con l'incendere maestoso delle romane e di quelle certo non meno belle: parecchie con un profilo greco nobilissimo, tutte con capelli corvini ed occhi scintillanti,

atti a soggiogare il cuore più duro. Allorchè i mortaretti, che formavano quasi una ghirlanda su un antico muro, sono scoppiati, i cannoni hanno sparato, ed ho visto tutte quelle donne con i loro abiti rossi ed oro, avvolte nei vortici di fumo di quell'artiglieria popolare, mi è sembrato di trovarmi dinanzi ad un Olimpo, popolato da divinità ideali.

Però, anche senza il loro costume festivo, son belle del pari le donne di Nettuno. Si vedono ogni giorno, in gruppi numerosi, lavare patriarcalmente i loro panni alla fontana pubblica; non attaccano mai discorso con gli stranieri, sono timide come gazzelle, e rispondono appena, solo con gli occhi bassi, al saluto.

La festa di S. Luigi ha un altro carattere; è una festa popolare, e mi ha ricordato il mio paese natio. Sulla piazza del mercato era stato innalzato qualcosa di simile ad una forca ornata di fronde; dalla trave superiore pendeva, legata ad una fune, una pentola oscillante; dei giovani a cavallo agli asini dovevano, correndo, cercare di far destramente con un bastone un foro nelle pareti della pentola; ma la colpissero o no, questa si rivoltava e bagnava il cavaliere, fra le risate generali degli spettatori. Colui che riusciva a colpire la pentola riceveva in premio due paoli da un prete che esercitava le funzioni di giudice del campo. Quando la pentola fu rotta ed il giuoco terminato, ebbe luogo la tradizionale tombola. Il premio consisteva in una pezza di stoffa in cotone, che pendeva da una finestra. Un ragazzo estraeva i numeri, che venivano spesso annunciati coi nomi proverbiali che loro si sogliono dare, ed eran motivo di nuove risa. Sempre però si rideva con quella naturalezza e quella convenienza che sono doti caratteristiche e preziose del popolo italiano, di natura civile ed educato.

Così vivono e si divertono i cinquecento abitanti di Nettuno, in certo modo separati dal resto del mondo, fra il mare, le paludi pontine e le strade poco frequentate che portano da una parte ad Anzio e dall'altra a Velletri. Nettuno però possiede campi e giardini, somministra il vino che si beve ad Anzio, ed ogni giorno invia a questo porto un carro di pane bianco, perchè là si fa solo del pane grossolano. Ho bevuto a Nettuno del vino squisito, cosa non facile in questi anni in cui il dio Bacco è travagliato da fatale malattia. Un cittadino del luogo ci volle un giorno condurre nel suo tinello, come qui chiamano la cantina; è sceso segretamente in un nascondiglio sotto il suolo e ne ha tratto fuori uno stupendo vino rosso, quale non ne avevo più bevuto da Siracusa in poi.

Sulla spiaggia di Nettuno ogni coltivazione cessa oltrepassata appena

la città, cominciando quasi subito, in tutto il loro squallore, le paludi pontine che si estendono fin verso Terracina. Non più abitati sulla riva, solo sorgono qua e là, solitarie, alla distanza di circa due miglia l'una dall'altra, le antiche torri medioevali. L'aspetto di questa solitudine, di questo deserto, di questa mancanza di coltivazione è grandemente imponente. Pare quasi di non trovarsi più sulle classiche coste d'Italia, ma nei deserti dell'India o dell'America. Il frangersi continuo delle onde, lo scintillare del sole estivo sulla bianca, piana, monotona spiaggia, il cupo bosco infinito che accompagna per qualche centinaio di passi il mare, lo stridore dell'avvoltoio e del falco, il volo dell'aquila, che altissima si libra sulle ali in larghe spire, il calpestio ed il muggito dei tori selvaggi, l'aria, le tinte, l'aspetto delle cose e degli elementi dànno veramente qui l'impressione di un mondo deserto e selvaggio.

Il 28 giugno, il pittore ed io partimmo lungo questa spiaggia per recarci ad Astura, distante circa tre ore di cammino. Il mattino era di una limpidezza straordinaria, il mare tranquillissimo ed il capo Circeo, avvolto in una tinta rosea, davano al quadro un aspetto del tutto omerico. A Nettuno comprammo vino e pane e quindi proseguimmo la nostra strada. Ci fermammo a far colazione su di un vecchio tronco d'albero, presso una carboniera e provammo un piacere simile a quello di Ulisse, quando si assise al banchetto apprestatogli da Circe nel suo palazzo. Era veramente delizioso gustare un buon sorso di vino in quella profonda pace, su quell'omerica spiaggia, dinanzi all'azzurro di quel mare, tinto in rosa all'orizzonte.

Fino a questo punto tutto era andato benissimo, ma giunti là dove il bosco scende fino al mare, cominciammo ad avere dei timori. Non erano già i banditi che ci davano pensiero, ma le mandre di tori e di bufali che vagano colà completamente liberi, non sorvegliati da pastori. Tutta quanta la spiaggia fino a Terracina è coperta di numerose mandre di tori, di buoi, di vacche, dalle corna lunghissime, di quella forma tutta classica della campagna romana e che si vedono scolpite nel Partenone, attorno all'ara del sacrificio. Le loro corna sono lunghe quasi tre piedi, molto divergenti, arditamente contorte, grosse, chiare, di bel colore.

Quasi in tutte le case del Mezzogiorno si vedono queste corna, tenute come amuleti contro il "malocchio" e piccoli cornetti vengono portati dai principi alla catena dell'orologio e pendono dal collo dei ragazzi dei pescatori.

I buoi sono selvaggi e grandemente pericolosi; il solo pastore li può

governare, stando a cavallo, con la sua lancia; più pericolosi ancora sono i bufali. Questi vivono a branchi e vagano solitari e liberi come i cinghiali; frequentano volentieri gli stagni e le paludi e nuotano con grande agilità. Quando si attraversano le paludi pontine o il bassopiano di Pesto, si vedono molti di questi mostri neri e selvaggi immersi negli stagni, dai quali stendono fuori talvolta, sbuffando, solo le tozze teste. Il bufalo cammina sempre col capo chino a terra e guarda sospettoso dal basso in alto. Non si serve delle sue corna, che sono come quelle del montone rivolte indietro, ma rovescia a terra con la sua fronte di bronzo l'uomo che insegue, quando l'abbia raggiunto; quindi gli pone il ginocchio sul petto e lo calpesta fino ad ucciderlo. I pastori domano questi pericolosi animali con la lancia; passano loro attraverso il naso un anello ed allora li attaccano al carro e se ne servono per trasportare grandi pesi, voluminosi blocchi di pietra, o tronchi d'albero giganteschi. Col latte della bufala vien fatta la provatura, che è una specie di cacio molto difficile a digerirsi. La carne del bufalo è poco stimata, perchè dura; la comprano gli ebrei poveri del ghetto che non ne mangiano generalmente altra. I bufali abbondano nelle paludi pontine, nella squallida riviera di Cisterna, di Conca e di Campomorto, covo della febbre, dove perfino l'assassino non viene ripreso, quando vi si sia rifugiato. Gli uomini che custodiscono queste bestie menano una vita misera, sono febbricitanti e di poco inferiori agli indiani della Prateria.

Il possibile incontro di questi animali ci dava assai pensiero; appena giunti nei boschi, li vedemmo numerosi sulla spiaggia. Lasciati liberi, percorrono sempre la stessa strada e sempre nelle stesse ore; al mattino escono dalla foresta e vengono al mare, per bevervi l'acqua salata, quindi o si sdraiano sulla sabbia o pascolano lungo la costa; vi passano tutte le ore calde e quando sulla sera comincia la temperatura a rinfrescarsi, si muovono e pascolando lentamente sulla riva s'inoltrano nei cespugli sino a che non arrivano nel fitto dei boschi, dove trascorrono la notte, per scendere il mattino appresso nuovamente al mare.

Alla vista di tutti quegli animali, rimanemmo alquanto perplessi. Era impossibile passare di là, perchè avrebbero potuto tagliarci la via, molti essendo proprio in riva al mare; proseguire lungo la spiaggia era pericoloso, perchè sarebbe stato necessario passare in mezzo ad essi e qualche animale furioso avrebbe potuto inseguirci nella direzione del capo Circeo: pensammo se non fosse stato più prudente tenerci vicino alla macchia e questo partito ci sembrò il migliore.

Scendevano intanto sempre nuovi branchi, la qual cosa ci fece argomentare che ve ne dovevano essere ancora nei boschi, e se ne scorgevano infatti fra i cespugli di mirto. Ad un tratto scorgemmo due magnifici tori, dalla fronte splendente, arrestarsi e fissarci: allora prudentemente, pian, piano, ci avviammo verso il bosco ed in poco tempo ci trovammo nel fitto degli alberi. E' impossibile figurarsi dei boschi più adatti per i briganti che questi di Astura: non sono già formati da alte quercie, ma da fitte macchie di sugheri, di olivi selvatici, di lentischi, di rovi neri, di mirti, coperte di piante rampicanti, di edera bellissima, che forma delle volte, quasi moschea boschereccia, impenetrabili ai raggi del sole ed alla pioggia. Vi erano dei cespugli di mirto di un'altezza straordinaria e tutt'intorno un odore di selvatico, che penetrava i sensi.

Il terreno non è piano, ma accidentato, percorso da piccoli ruscelli, in molti punti paludoso; vi abbondano gl'istrici, le tartarughe e le serpi; noi vi trovammo spesso delle penne di galli selvatici, avanzi del pasto di qualche aquila: ciò dava ancora maggior risalto alla cupa poesia di questa riviera.

Ci riuscì alla fine di scansare i branchi dei bufali e dei tori e quando ne incontravamo qualcuno in ritardo ci arrestavamo e restavamo silenziosi e tranquilli finchè non fosse passato e dopo aver superato rivi, fossi e siepi, sboccammo finalmente di nuovo sulla spiaggia e ci fermammo per riposarci piacevolmente all'ombra di un muro, cui era addossato uno steccato destinato a racchiudere una mandra. Anche questo muro era certo, come lo dicevano chiaramente alcune vestigia di mosaico, un resto di qualche villa romana.

Rimaneva un'ora sola di strada per giungere ad Astura, e nel camminare lungo questa triste spiaggia, mi colse quella profonda malinconia che nasce nel vedere cosa che rammenta una grandezza scomparsa. Non è solo il ricordo della tragica fine del giovane Corradino e della stirpe degli Hohenstaufen, che può qui rattristare l'animo, specialmente di un tedesco; v'influisce anche e per molta parte l'aspetto della contrada stessa. Vorrei poterla descrivere con le parole, come il mio compagno di passeggiata l'ha saputa riprodurre nelle sue tele che spero saranno presto note a tutti. Sarebbe bene che un qualche istituto artistico della Germania pubblicasse un album degli Hohenstaufen.

Il luogo dove ci eravamo fermati era circoscritto dalla parte di terra dalle paludi pontine, su cui imponenti si ergono i monti Volsci che

scendono al mare; e dalla parte del mare dal capo Circeo che, simile ad un'isola, si perde nell'azzurro del cielo. Sulla spiaggia sorge, ad un dato punto, una piccola cappella abbandonata e deserta e pochi passi più in là emerge dalle acque il castello di Astura, un piccolo quadrato di mura merlate, con in mezzo una torre. La cappelletta e il castello sono gli unici edifici che sia dato vedere in questa vasta solitudine. Per quanto si volgesse da ogni parte lo sguardo, non si scoprivano che due ombre nere sui merli del castello e due vecchi pescatori seduti contro il muro, taciturni e quasi annientati dal calore del sole fulgente che stavano intrecciando una rete di giunchi per i pesci, mentre la loro barca si dondolava sulle onde.

Correvano gli ultimi giorni del 1268 quando, perduta la battaglia di Tagliacozzo, giungevano su questo lido, fuggiaschi e pieni di terrore, il giovane Corradino, il principe Federigo d'Austria, il conte Galvano Lancia con i suoi figli, insieme coi due conti della Gherardesca, parenti dell'infelice Ugolino che i versi di Dante hanno immortalato. Venivano da Roma dove, come narra il cronista Saba Malaspina, avevan cercato rifugio dopo la sconfitta, e dove era rimasto Guido da Montefeltro, quale vicario del senatore Arrigo di Castiglia. Corradino era giunto colà "senza pompa alcuna, non come capo di un esercito, ma come uno che abbia tutto perduto e che non cerchi che di salvarsi di nascosto, e quasi fuori dei sensi"(latenter ingreditur mente captus). Ma in Roma erano giunti dal campo di battaglia anche i suoi nemici, Giovanni e Pandolfo Savelli, Bertoldo e molti guelfi con l'intenzione di sollevare la città, cosicchè gli amici avevano consigliato al giovanetto di non indugiare a cercare scampo nella fuga. Si diresse con i suoi compagni verso il mare, con l'idea di recarsi a Pisa ed ivi imbarcarsi per la Sicilia; cercò una barca e la ottenne dagli abitanti del villaggio di Astura, dove s'imbarcò e salpò. Ma avutane notizia Giovanni Frangipani signore di Astura e riconosciuto dai gioielli che Corradino aveva regalati, essere i fuggitivi personaggi ragguardevoli, salì su di un'altra barca, li raggiunse a forza di remi e li ricondusse nel castello. Invano Corradino supplicò che lo lasciasse fuggire coi suoi, che non lo volesse consegnare nelle mani di Carlo, avido di sangue; invano gli ricordò la gratitudine che doveva alla casa di Svevia, avendo i Frangipani ottenuto grandi feudi dall'imperatore Federigo ed essendo stato da questi lo stesso Giovanni creato cavaliere; invano Corradino promise ampia ricompensa e si dichiarò pronto anche a sposare la figliuola di Frangipani. Il signore di Astura era titubante e commosso forse dalla gioventù, dalla grazia, dalla sventura di Corradino,

incerto, come dicono i cronisti, da qual parte avrebbe potuto trarre maggior guadagno, se da Corradino o da Carlo d'Angiò; quando dinanzi al castello arrivò Roberto di Lavena, capitano delle galere angioine che ingiunse al Frangipani di consegnargli i prigionieri. Narra Saba Malaspina che il Frangipani fece condurre i poveri fuggiaschi in un altro castello vicino, per non essere costretto a consegnarli a Roberto contro sua volontà e prima che questi avesse soddisfatto al pagamento della pattuita ricompensa; ma quest'altro castello non è nominato.

Intanto arrivava dalla parte di terra, con fanti e cavalli, il cardinale Giordano di Terracina, governatore per la Santa Sede della contea della Campagna; egli pure richiese la consegna dei fuggiaschi.

Il vile traditore, intascato il denaro di Giuda, consegnò gl'infelici che aveva ospitato, nelle mani dei loro acerrimi nemici. Furon condotti a Napoli, prima attraverso i boschi e i monti di Palestrina, poi traverso le meravigliose campagne poco tempo innanzi percorse vittoriosamente. Il 29 ottobre la mannaia troncava la testa di Corradino per la prima, poi quelle di Federigo, dei valorosi conti della Gherardesca, del generoso Galvano Lancia, fratello di quella bella Bianca che aveva partorito Manfredi a Federigo il Grande e per ultimo quelle de' suoi giovani figli, Galeotto e Gherardo che erano stati poco prima strangolati nelle braccia del padre.

Presso la torre di Astura, in quella solitaria spiaggia, mi tornarono alla memoria tutti gli altri luoghi famosi nella storia degli Hohenstaufen che io ho visitato nelle mie peregrinazioni per l'Italia. Mi è apparsa la bella figura di Manfredi, biondo, ricciuto, sui campi di Benevento, quale Dante lo vide, con una doppia ferita alla fronte ed al petto, mormorante mestamente: "I' son Manfredi, Nipote di Costanza imperatrice". Lasciai errare lo sguardo sul mare ricco di memorie e lo rivolsi laggiù dove giace la bella Sicilia, dove sorge, in mezzo a giardini sempre in fiore, sulla spiaggia più amena del mondo, quel castello di Palermo nel quale visse Federigo e da dove era partito per la Germania; pensai al duomo di quella stessa Palermo, a quell'oscura cappella, dove riposano, dentro ai loro sarcofaghi di porfido rosso, Enrico VI, Federigo e le due Costanze, rappresentati con la corona in testa e con la dalmatica di seta, il cui orlo è ornato da iscrizioni saracene.

Entrammo quindi nel castello. Un ponte in muratura lo unisce alla spiaggia ed un ponte levatoio dà accesso all'interno. Nella piccola corte sorge la torre ottagonale che termina con una specie di terrazza, dove

rimane un unico e arrugginito cannone. La guarnigione, composta di otto uomini, quando entrammo stava facendo gli esercizi nella piccola corte e don Pasquale, luogotenente di Astura, la stava guardando dal terrazzo con l'aria di chi avrebbe voluto essere ovunque, fuori che lì. Ci condusse nel suo piccolo e meschino alloggio e ci fece vedere degli arabeschi pompeiani assai ben fatti: dipingendo egli trascorre le sue giornate in quella solitudine. Il luogotenente ci disse che ciascuna di queste torri della costa è attualmente custodita da otto uomini, comandati da un maresciallo o da un ufficiale e che le prescrizioni di vigilanza sono severissime, temendosi da parte dei mazziniani un colpo di mano.

Visitammo tutto il castello composto di piccole e melanconiche stanze, dove il ragno tesse le sue tele e lo scorpione trova un ricovero nelle infinite screpolature dei muri; la vista però, tanto sulla pianura verdeggiante, quanto sul limpido mare, dove ora si vedono, ora spariscono le vele delle barche pescherecce, è bella e affascinante. La torre sembra fatta apposta per un bardo, che vi suoni l'arpa e vi muoia col canto del cigno, nell'ora in cui il sole scende in mare e tinge di color porpora il capo Circeo. In quell'ora regna sul mare una tale tranquillità, tale uno spirito di quiete che non si può descrivere; si direbbe che il sonno e la morte si librino sul mare e che quella barca che gira, come un'ombra, il capo Circeo, porta forse il dio del sonno spargente calma e riposo sulle onde.

Tutto qui allora spira dolcezza. Mentre il capo Circeo riporta alle avventure omeriche, alle imagini dell'Odissea, la solitaria torre di Astura parla delle grandi e non meno poetiche memorie dell'epoca degli Hohenstaufen. Quanti ricordi non risvegliano questi nomi degli Hohenstaufen e del provenzale Carlo d'Angiò! Ritornano alla memoria i personaggi del "Parsifal" di Wolfram di Eschenbach e Corradino diventa Parsifal che cavalca per il mondo, per trovare la sacra coppa di sangue del Graal, Elisabetta di Baviera diventa Erzeleide, sua madre, che non lo vuole lasciar partire, e così si presentano Goffredo d'Angiò, il cavalier Gavino e Feirefiz, Arturo e Titurello e il castello di Graal, nella foresta selvaggia, i saraceni, i trovatori, i pellegrini, i penitenti e i saggi dell'Oriente.

Astura è la torre del romanticismo, è la sede della poesia tedesca in Italia. Essa appartiene ai romantici, come la grotta azzurra di Capri. Io, in nome di questi, ne ho preso silenziosamente possesso, dichiarando

proprietà nazionale della Germania questo leggendario castello.

La sola torre risale ai Frangipani; tutto il resto è di epoca posteriore, giacchè nel 1286 i siciliani, che nei vespri avevano preso una splendida vendetta del sanguinario re Carlo, guidati dal loro ammiraglio Bernardo da Sarriano, lo distrussero tutto, ad eccezione della torre, ed uccisero anche il figlio di Frangipani. Anche ora sulle mura esterne del castello si vedono le armi dei Colonna, che ne furono in seguito proprietari. Dopo i Frangipani, divenne feudo dei Gaetani; quindi passò in possesso dei Malabranca, degli Orsini e dei Colonna, i quali lo vendettero nel 1594 a Clemente VIII. Presentemente Astura è feudo dei Borghese.

Altri ricordi storici si ricollegano ancora a questo castello. Innanzi al ponte, che serve di accesso, notai degli avanzi di un pavimento in mosaico, quasi ricoperti dalla sabbia, e mi accorsi subito che il castello, sul mare, sorgeva sopra le fondamenta di una villa romana assai vasta, le cui rovine erano visibilissime sul fondo del mare, ed anzi in alcuni punti ne emergevano ancora. Sorgeva l'antica villa sopra un banco di sabbia e molto probabilmente, appunto per questo Plinio dà il nome d'isola ad Astura, colonia d'Anzio: la località in antico è possibile che si trovasse per un piccolo tratto d'acqua staccata dal continente. Strabone infatti dà a quel braccio di mare il nome di Storace(Στόρας ποταμός), Plutarco lo chiama Astura(τὰ Ἄστυρα) e ne parla quando descrive la tragica fuga, qui avvenuta, di Cicerone. A dire il vero, deve recar non poco stupore ai miei lettori che questo luogo solitario, appartato, possegga altre tristi memorie, e che molto tempo prima di Corradino sia stato un punto di sventura, dedicato forse alle Eumenidi.

Cicerone vi possedeva una villa. Egli ne fa menzione spesso nelle sue epistole, in una delle quali, scritta ad Attico appunto da Astura, è detto: "Est hic locus amoenus et in mari ipso, qui et Antio et Circaeis aspici possit". Abitava volentieri questa villa che più delle altre gli offriva quiete e riposo. Poco prima della sua morte venne qui ed Astura gli fu fatale. Vi si era rifugiato in primavera, non appena aveva saputo che sarebbe stato compreso nelle liste di proscrizione; Plutarco narra che si era qui imbarcato per fuggire in Macedonia, presso Bruto, ma che aveva poi cambiato idea ed era tornato a terra. Con l'intenzione di recarsi a Roma per cercare di commuovere Ottaviano, partì da Astura e prese la via della città ma, fatte appena dodici miglia, fu colto da paura e tornò indietro rapidamente. Salito su di una lettiga, si avviò verso Gaeta, ma raggiunto per via dai cavalieri che lo inseguivano, in un punto che viene

anche oggi additato, fu da quelli ucciso.

Strana coincidenza! Lo stesso Ottaviano fu preso nella medesima Astura, a quanto narra Svetonio, dal male che pose fine a' suoi giorni. Venne qui poco prima della sua morte, nell'ultimo suo viaggio per la Campania. "Al principio del suo viaggio venne ad Astura, ed essendosi trattenuto, contro la sua abitudine, all'aria libera, di notte, per godervi il fresco, fu colto da dissenteria e ciò fu l'inizio della sua malattia". Dopo una breve dimora a Capri, morì a Nola.

Nè qui finisce l'influenza fatale di Astura: anche il successore di Augusto, Tiberio, si ammalò in questo luogo poco prima della sua morte. Ecco ciò che narra Svetonio: "Ritornò in tutta fretta in Campania e, giunto ad Astura, vi cadde ammalato. Riavutosi un poco, s'imbarcò per il capo Circeo". Essendosi quivi il male aggravato, colto da paura, egli s'imbarcò di nuovo, e prima di poter arrivare a Capri, fu costretto a scendere a terra, al capo Miseno, dove spirò.

Che aggiungere, quando avremo detto che anche su Caligola, successore di Tiberio, Astura esercitò la sua malefica influenza? Quivi Caligola sbarcò prima di morire. "Si trovò - dice Plinio - un piccolo pesce, chiamato remora, appeso all'albero maestro della galera che portava Caligola da Astura ad Anzio e ciò venne considerato come presagio della sua prossima fine".

Astura mala terra, maladetta! Noi pure, innocenti viaggiatori, doveva costringere a precipitosa fuga, a noi pure doveva far provare ambasce di morte.

Lasciando Astura, decidemmo di prendere, invece della strada lungo il mare, quella attraverso la foresta, di cui avevamo sentito vivamente lodare la selvaggia bellezza. Non conoscendola, prendemmo con noi un soldato del piccolo distaccamento, un bel giovane robusto e forte che doveva servirci per alcune miglia di guida e prestarci nello stesso tempo aiuto, non già contro i briganti, ma contro i tori ed i bufali. Per un certo tratto camminammo lungo la spiaggia, dove potemmo vedere dei tori neri tanto maestosi che Giove non avrebbe potuto averne dei migliori, allorquando trasse in mare la bella Europa. Poco dopo ci trovammo in mezzo alla foresta. Camminavamo per ampi sentieri, fra odorosi cespugli di mirto, sotto la volta di gigantesche quercie, rallegrati da mille effetti della luce del sole che volgeva al tramonto. Il bosco presso Astura è molto bello. Pensavo alle mie spiaggie natie, alle loro alte quercie diritte, fra i tronchi delle quali si può scorgere l'azzurro del mare; tutti i miei

pensieri erano rivolti al passato. È bello aggirarsi là per quei boschi, spiando la comparsa dei cervi e dei caprioli, quando sbucano dai cespugli e vi contemplano con curiosità, alzando il loro capo coronato dalle lunghe corna. Qui invece balza talvolta fuori da un cespuglio la nera testa di un bufalo o di un toro e talora attraversa il sentiero un lungo serpente variopinto. La vegetazione è di una bellezza e rigogliosità tropicale; l'edera raggiunge qui le proporzioni di un albero e si abbarbica alle quercie le circonda le avvinghia, come i serpenti Laocoonte e pare quasi voglia soffocarle in un vigoroso amplesso e strapparle al suolo; sale su tutti i rami e giunge sino alla cima, lassù dove hanno ricetto gli uccelli selvatici della foresta.

Camminammo in tal guisa per alcune miglia, assorti sempre nella contemplazione di quello stupendo spettacolo. La nostra guida di Astura, là dove il bosco cominciava a farsi men fitto, ci lasciò, dopo averci indicato il sentiero della macchia, al di là della quale dovevamo trovare il mare. Lieti e felici continuammo a camminare fra i mirti e gli olivi selvatici, quando tutto ad un tratto ci trovammo di fronte ad un centinaio di tori. Ci fermammo subito: uno dei tori a sua volta si arrestò stupito; alzò la testa, ci contemplò con gravità maestosa, poi si staccò dal branco e ci venne incontro. In quell'istante il mio compagno chiuse il suo maledetto ombrellone bianco da pittore e subito il toro furiosamente spiccò un salto e tutta la mandra lo seguì. Una nube di polvere si levò tosto nel bosco e noi ci demmo a precipitosa fuga, guardandoci ogni tanto indietro. Era un orribile e bello spettacolo il vedere quegli stupendi animali correre avvolti in una nube di polvere!

Riuscimmo ad arrivare nel fitto della macchia e, con le mani insanguinate pelle spine, ci cacciammo nei cespugli, da dove potemmo vedere, fra la polvere, il luccichio delle corna dei tori, mentre si udiva sotto i loro piedi lo strepito dei rami infranti.

Non vidi mai il terrore meglio scolpito sopra un volto umano come allora su quello del mio compagno e il mio spavento non era punto minore. Finalmente tutto tornò silenzio intorno a noi: la mandra furiosa aveva proseguito la sua corsa verso il mare. Riprendemmo la nostra strada per la foresta e, spiando continuamente se i tori riapparivano, uscimmo alla fine dal bosco e sbucammo sulla libera spiaggia. Credo di non aver sentito mai un'eguale soddisfazione nel rivedere il mare e mi toccava proprio provare ad Astura, sulle tracce di Corradino, quali siano le ambasce di una fuga precipitosa, col pericolo della morte alla gola. Si

sarebbe detto che uno spirito maligno, il demone di quel luogo maledetto, avesse destato in me tante dolorose memorie e avesse voluto darmi un'idea precisa di quanto ivi soffrì il povero Corradino. Gli animali selvaggi furono però più compassionevoli verso di noi che non gli uomini per Corradino.

Proseguimmo la nostra strada e ci fermammo di nuovo per riposarci sulle rovine del palazzo romano, dalle quali il melanconico castello appariva ancora più bello e più espressivo nell'incerta luce del tramonto. La vista di numerose mandre che coprivano la spiaggia sin quasi a Nettuno, c'impensierì di nuovo: ve n'erano alcune sdraiate in riva al mare, altre salivano per ritornare, come è loro abitudine, al bosco, perchè cominciava la frescura della sera. Passammo innanzi a cento e cento corna gigantesche, ma gli stupendi animali non ci fecero alcun male perchè noi ci tenevamo rasente al mare, al disotto di essi; apparvero infine due bei butteri, i primi che avessimo incontrato, a cavallo, che galoppavano, con la lancia in pugno, lungo la riva, e la loro vista ci rinfrancò.

Felicemente raggiungemmo Nettuno e di qui, con un senso di compiacenza, contemplammo la strada percorsa ed il castello di Astura che a quella distanza, a quella dubbia luce emergeva come un cigno sulle onde del mare.

IL CIRCEO(1873)

Da Terracina, dove avevo passato la Pasqua, volli scendere al capo Circeo, fosse pure per una breve visita. Capo Circeo giace a tre ore da questa città, benchè sembri, per la trasparenza dell'aria, molto più vicino. Il grandioso promontorio si innalza sulla lunga duna e lascia da per tutto un orlo di spiaggia, su cui si cammina come su di un tappeto di velluto.

Mi allettava assai l'idea di andare a piedi fino al capo, ma i pescatori di Terracina me ne dissuasero ed io non vi andai perchè non ero sicuro che la strada fosse libera da mandre di bufali. Questi pescatori erano stati rallegrati prima della mia partenza da una pesca eccezionale: essi stavano con altra gente sulla riva, quando i loro sguardi furono attirati da un oggetto che si alzava di tanto in tanto sulla superficie delle acque e che pareva attaccato ad una corda, fissa a sua volta ad un piuolo. Era una grossa testuggine marina che si era impigliata nelle reti: la povera

bestia era rimasta gravemente ferita da un raffio, ed i pescatori l'avevano legata, come un cavallo, per una zampa, ed assicurata ad un palo. Essa faceva grandi sforzi per liberarsi e di tanto in tanto sollevava la testa, il collo e una parte del suo guscio rosso scuro, per respirare. Fu lasciata tutta la notte al suo martirio e la mattina seguente, quando partii per il capo, vidi dalla mia barca che era ancora nello stesso posto.

Avevo con me quattro barcaioli e un servo dell'albergo che aveva passato qualche tempo a S. Felice, sul promontorio e che doveva farmi da guida. In tutto, eravamo sei persone. Partimmo alle quattro del mattino: la luna chiara che discendeva verso occidente, spandeva nell'ultima lotta col giorno, un bagliore largo e dorato sul mare lievemente mosso. Fitte nebbie apparivano ad oriente, verso la palude di Fondi, e nascondevano le rocce di Sperlonga ed i promontori di Gaeta e di Mondragone. Anche il capo Circeo era cinto di un velo, squarciato solo sulla vetta.

Soltanto chi ha viaggiato per mare fra il tramontar della luna e il nascer del sole può aver sentito la gioia divina dell'imminente nuovo giorno. Il respiro continuo del mare che sale dall'irrequieto e vivo elemento, ha in sè il fremito primordiale della creazione. Perchè mai il mare sveglia in noi, anche visto in lontananza, o sentito nel ritmico palpito delle sue onde dalla riva, un desiderio così profondo, ansioso ed ignoto, come nemmeno le cime delle Alpi sanno svegliare? Forse perchè questo nostro piccolo io colle sue piccole necessità e la coscienza della natura, destata per un attimo, si trovano in immediato contatto coll'Infinito e l'Eterno, con ciò che non ha storia, nè tempo, nè limiti, nè forma.

Avanzavamo rapidamente nell'aria fresca e serena, condotti dolcemente dal vento e dal marinaro e sempre più si andava svolgendo dalle brume il capo oscuro, col suo bianco paesello sulla punta e una torre grigia ai piedi, sul mare. Ma prima di approdare a questa, voglio dire due parole sulla storia del Mons Circeus o Monte Circello.

Da lungo tempo il paese delle favole di Circe fu fissato su questo promontorio che invero, con la sua forma nettamente insulare, i suoi folti boschi, i suoi odorosi declivii, le sue grotte di stalattiti sul mare, costituiva un ambiente, per lo meno non disadatto, a far sorgere una favola magica di antichi navigatori. Il monte Circeo era nei tempi preistorici veramente un'isola, come oggi le isole di Ponza e come un tempo il Soratte. A poco, a poco e certamente molto prima dei tempi

dell'Odissea, questa isola si riunì alla terra e divenne un capo. Gli antichi geografi riferiscono che su di esso giacque una città col tempio di Circe e con un altare a Minerva, dove era conservata la coppa di Circe in cui Ulisse aveva bevuto. Anche la tomba di Elpenore vi si mostrava, con i mirti che vi erano germogliati sopra.

La città di Circei, o Circeo, era volsca, come Anxur, oggi Terracina. I Romani la conquistarono e vi stabilirono una colonia che non fu certo mai grande e potente, ma per la sua posizione fu una delle più belle piazze forti ed inoltre un gradito soggiorno. Lucullo vi pose i suoi vivai e v'edificò una villa e Lepido, quando dovè ritrarsi dal consolato, venne qui a dimorare.

L'antica città scomparve in un'epoca incerta; forse fu distrutta dai Goti. Sulle sue rovine sorge l'attuale San Felice, costruita probabilmente intorno all'antica fortezza dalle mura ciclopiche. Questa Arx Circaea o Rocca Circeji, si trova spesso menzionata nei documenti e nelle storie medioevali; solo molto più tardi compare il nome di San Felice. In questo luogo nel secolo viii era anche un vescovato. La fortezza di Circeo era considerata come la più importante fra quelle della spiaggia pontina. Si sforzarono di acquistarne il possesso la città di Terracina, i conti di Gaeta e quelli di Fondi; ma essa riconobbe la sovranità del Pontefice.

Al principio del secolo xii, quando i duchi normanni avevano in loro potere l'Italia meridionale, essi s'impadronirono anche di questa fortezza, ma solo per poco, perchè i papi salvaguardarono bene i loro diritti sulla terra di confine, su Terracina e sul promontorio che ne dipendeva. Sul finire del secolo, divennero padroni della rocca di Circeo i Frangipani di Roma che possedevano Astura e molti altri territorii sul Tirreno ed essi seppero sottrarla alla giurisdizione di Terracina, dopo un lungo assedio. Essi possedettero la Rocca Circeji per lungo tempo; Ottone e Roberto Frangipani la diedero poi a Rolando Guidonis de Leculo, ma a questi Innocenzo III la ritolse per restituirla alla Chiesa.

Alla metà del secolo xiii i Templari divennero proprietari del promontorio, dove ancora durava la leggenda di Circe, figlia del Sole e dove si era mostrata la coppa di Ulisse, il Graal di questo antico monte incantato. Un documento del 3 maggio 1259 dice che Pietro Fernandi, maestro dell'Ordine dei Templari in Italia, per autorizzazione del maestro generale Tommaso Berardi, assegnava al vice cancelliere Giordano in cambio del casale Piliocta(oggi Cecchignola, sulla via Ardeatina), il villaggio Sancti Felicis sul monte Circego, appartenente per diritto

all'Ordine, ottenuta la approvazione della casa romana dei Templari sull'Aventino(oggi priorato di Malta). Era questi il medesimo cardinale Giordano che come governatore della Campagna romana e della Marittima, nove anni più tardi, compariva colle sue truppe dinanzi ad Astura per chiedere, in nome della Chiesa, ai Frangipani la consegna di Corradino, cosa che non potè ottenere, come è noto, disgraziatamente per l'ultimo degli Hohenstaufen.

Giordano era un nobile di Terracina, della potente casa dei Peronti. Egli riunì a Terracina la rocca Circea che rimase alla sua famiglia fino a tutto il secolo xiii, nel qual tempo passò agli Anibaldi di Roma, dai quali nel 1301 la ebbero i Gaetani.

La potenza di questa famiglia derivava allora tutta da Bonifacio VIII; suo nipote Pietro possedeva già le città volsce di Sermoneta e di Norma e una gran parte del territorio pontino, ricco di bestiame, da Ninfa al mare. Pietro Gaetani diede principio a questo ricco possesso - che i suoi discendenti godono ancora - coll'acquisto del capo Circeo. Lo acquistò con tutte le terre dipendenti e ancora i Gaetani portano il nome di San Felice, e insieme acquistò per 2000 fiorini d'oro il lago di Paola, da Riccardo Anibaldi, signore della torre delle Milizie in Roma. Da quel tempo i Gaetani possedettero la rocca Circea per 400 anni. In questo lungo periodo di tempo essa fu tolta loro una volta, ma per soli due anni, quando Alessandro VI li privò di tutti i feudi negli Stati della Chiesa per donarli al figlio di Lucrezia, al piccolo Rodrigo di Biseglia. Allora egli eresse Sermoneta in ducato, ma subito dopo la sua morte i Gaetani rientrarono nei loro possessi, e siccome erano anche conti di Fondi, il castello Circeo costituì la pietra di confine della loro signoria sul mar Tirreno. Dalla cima del loro palazzo a San Felice essi spaziavano con lo sguardo, entro il cerchio armonioso del panorama, sul loro feudo da Fondi fino ad Astura e dalle mura ciclopiche di Norba fino alla spiaggia pontina.

Nell'anno 1713 i Gaetani alienarono il capo Circeo, e il duca Michelangiolo lo vendette ai Ruspoli di Roma, insieme col palazzo Gaetani sul Corso che si chiamò d'allora in poi palazzo Ruspoli.

Nel 1718 il capo passò agli Orsini come dote di Donna Giacinta Ruspoli; ma siccome la Santa Sede si era riservato il diritto di riacquistare il feudo, gli Orsini dovettero venderlo nel 1720 alla Camera Apostolica per 100,000 scudi. Nel 1808, dopo 88 anni, fu venduto nuovamente, al principe Stanislao Poniatowski, e così un magnate

polacco, ultimo della sua casa, divenne signore dello storico capo e lo tenne per 14 anni. La Camera Apostolica lo riscattò nel 1822 e con la caduta degli Stati della Chiesa passò alfine in proprietà dello Stato italiano.

Questa è la breve storia del capo Circeo: intanto il sole si è alzato fra i monti di Gaeta e la luna è scomparsa nella luce. Il capo è apparso tutto scoperto dinanzi a noi, illuminato dal sole matutino con una luce tranquilla e tutto l'incanto è finito.

Poche cose nel mondo tollerano una troppo grande vicinanza, o piuttosto il rapporto della nostra immaginazione con esse non le sopporta. I monti, come gli uomini e le loro imprese, i grandi e la loro fama, hanno bisogno di un velo di luce e d'aria che li renda misteriosi alla nostra immaginazione e tenga lontana l'indagine critica; quanto più piccoli sembrerebbero essi se le loro leggende fossero d'un tratto demolite dalla vicinanza del tempo e cadesse l'illusione che li avvolge! Profondo è il simbolo dell'Iside velata!

Come appare magico e misterioso il promontorio Circeo guardato dalla lontana Astura, dai monti Volsci o da quelli Laziali, ed anche da Terracina, quando cade la sera! Ora invece mi appariva grigio e verde, simile a molti altri monti; spariva quella forma insulare che aveva assunto nella lontananza e lo vedevo scendere verso la pianura pontina con una larga striscia di terra. Le belle forme sparivano e profonde selve coprivano i suoi fianchi fino alla sommità, mentre questa da lontano sembrava rocciosa e nuda, scintillante di riflessi solari!

Prendemmo terra a Torre Vittoria, dove il piede del promontorio si perde sul lembo della spiaggia, senza però avere un luogo di approdo in forma di porto. Non vi erano pescatori, nè barche. La torre è un edificio quadrato, dicesi costruita dai Gaetani. La sua guarnigione è stata soppressa, come quella di tutte le torri marittime, alla caduta del governo pontificio. Serve ora di caserma ai doganieri ed anzi uno di questi appena ci scorse, scese le scale e venne a salutare i pescatori che ben conosceva, ed a verificare il loro passaporto. Lasciai i marinari sulla spiaggia e con la mia guida mi avviai verso San Felice. La posizione del villaggio e la piccola via che vi conduce mi hanno ricordato Capri. Ma il capo Circeo non ha null'altro, o ben poco, che lo faccia rassomigliare a quest'isola. Dopo un quarto d'ora di non faticosa salita sul declivio coperto di siepi e cespugli di mirto, mi è apparso il villaggio in una posizione veramente incantevole.

San Felice sta su una piattaforma naturale, abbastanza larga, al di sopra si levano pareti boscose, dinanzi si apre l'immensa distesa e sotto, nella profondità, il mare turchino. Il paesetto ha poche strade rettilinee ma strette, sormontate dal castello baronale ed una decorosa chiesetta. Di fronte al castello si apre la piazza o strada principale. Le case sono, per solito, di un piano e prive di qualunque pretesa artistica. Fui non poco sorpreso dal fatto che un villaggio così antico e separato dal resto del mondo potesse avere il carattere di un borgo aperto. Che San Felice occupi il luogo dell'antica Circea, non può essere posto in dubbio, perchè non c'è in tutto il promontorio un'altra superficie libera e piana su cui potesse essere edificata una città.

Qualunque traccia di antica storia è scomparsa. E' vero che il palazzo dei Gaetani occupa evidentemente il terreno già occupato da una rocca medioevale che prima del dominio di quei duchi dovette appartenere ad uno dei loro predecessori, ma questo castello baronale non era l'antica Arx Circeji che doveva stare invece su una rupe enorme dominante la città, al disopra della quale ancora si vedono resti di mura ciclopiche larghe cinque piedi, e molti blocchi di pietra. Mi recai a visitare questo luogo, persuaso che il palazzo Gaetani fosse stato costruito sulle rovine dell'antica Arx.

Questo castello ha la forma di un grosso dado, con un cortile spazioso che fu quello della fortezza. Nel centro di esso cresce un boschetto ameno di oleandri e di mirti. Contro una muraglia sono appoggiate le basi marmoree di sei colonne, unica antichità che abbia trovato a S. Felice. Invano ho cercato stemmi e inscrizioni medioevali sulle porte; di queste una sola aveva forma gotica. Dell'antica fortezza resta una torre quadrata, alla quale si appoggia l'edificio centrale, ma anch'essa è restaurata. Le parti adiacenti del castello baronale sono di costruzione posteriore all'epoca dei Gaetani che nel secolo xvii aggiunsero ad esso comodità e nuove bellezze per potervi passare qualche settimana. Il cambiamento radicale avvenne certo sotto Poniatowski.

Questi edificò nuovamente l'interno, stanze e saloni, e l'adornò di pitture. L'attuale deserta abitazione dovette essere allora un luogo delizioso, tale che il nipote del re di Polonia non avrebbe potuto trovarne uno più bello. Egli vi si recava spesso, quando lasciava Roma, dove possedeva la villa di fronte alla porta del Popolo; è stato davvero un benefattore di questo villaggio; lo ha migliorato, vi ha costruito una fontana ed una strada che va al mare, ed ha ricompensato sempre

generosamente i servigi resigli.

Presso S. Felice il principe si fece edificare anche un casino, ora in completo sfacelo, come il giardino annesso. Questo casino sta sull'orlo estremo della piattaforma, sul mare, e costituisce il più seducente belvedere che abbia mai visto.

Come ho detto, Poniatowski vendette il capo Circeo nel 1822; vendette anche subito dopo la villa in Roma e la collezione di antichità, e si ridusse a Firenze, dove nel 1831 morì.

San Felice conta 1200 anime. L'agricoltura è la sua ricchezza, soprattutto le viti che coprono gli ultimi declivi del capo.

Furono sue industrie un tempo i vasi d'argilla e d'alabastro. Queste fonti di guadagno sono scomparse, pure la popolazione non mi è sembrato soffra grande miseria. Si trova nel paese un albergo, molto primitivo ed anche un caffè; avrei dovuto pernottarvi, se avessi voluto poi salire sulla vetta del promontorio, ciò che era mio desiderio, non tanto per visitare le antiche mura che si additano come resti del tempio di Circe, quanto per godere l'incantevole panorama. Dicono che di lassù, a 1900 piedi, quando l'aria è limpida e chiara, si vede il convento di Camaldoli che domina Napoli, e la cupola di S. Pietro di Roma.

Da San Felice si può comodamente salire sulla vetta del monte per sentieri rocciosi, fra folti cespugli: ci vogliono però alcune ore. Mi ero proposto di fare il giro intorno a tutto il capo, ma dovetti abbandonarne l'idea, perchè dalla parte del mare le rocce cadono a picco, non lasciando sentiero possibile sulla spiaggia. La distanza da San Felice fino al punto in cui la parte interna del capo trova di nuovo il mare, presso il canale di Paola, è di tre miglia ed eguale lunghezza ha il capo: la sua larghezza non è certo invece più di un miglio.

Lasciando San Felice presi dapprima un breve sentiero, assai comodo e agevole, poi scesi per il declivio della roccia giù al piano boscoso e giunto ai piedi del capo, potei ammirarlo in tutta la sua forma. E' una grandiosa piramide, la cui vetta, nella sua estremità, si ripiega in alto, dal lato occidentale. Fin verso la cima è coperto di quercie e di cespugli, fra i quali qua e là spiccano masse rossastre di acute roccie. Le pareti s'innalzano spesso perpendicolari e sembrano sorreggere un tetto. Tutto il capo sembra un tetto spiovente; ma vi si distinguono dieci monti che portano nomi speciali. Nelle spaccature delle rocce crescono i palmizi nani. Molte palme che adornano il Pincio sono appunto cresciute sul capo Circeo.

Nella mia passeggiata ho attraversato un boschetto di mirti, lentischi ed eriche, che crescono qui arborescenti, ed ho visto alte quercie da sughero, sempre verdi e quercie tedesche. La quercia nordica, che da noi comincia assai tardi a inverdire, in questo clima è uno degli alberi più precoci. Le trovai, già perfettamente coperte di fronde, lungo il canale della Linea Pia, mentre l'olmo ne era quasi spoglio. Il bel bosco sul capo porta il nome di Selva Piana: numerosi greggi di pecore e armenti di giovenchi vi pascolano e danno al placido paesaggio un carattere solennemente idilliaco.

Per voler trovare ora su questo capo un luogo dove immaginare la valle e il palazzo della melodiosa dea Circe, è necessario pensare alla piattaforma stessa di San Felice o a questo gradevole e ameno declivio.

Qui troviamo, se non vere e proprie valli, almeno dei larghi fianchi montuosi dove è possibile collocare idealmente il castello incantato di Omero, colla sua ombrosa solitudine e insieme il suo aperto orizzonte. Qui cresce un'inesauribile flora. Vi crescerà forse anche la salutare erba Moly che Mercurio somministrò al paziente Ulisse:

bruna



N'è la radice: il fior bianco di latte.



Ma siccome anche l'eroe dice essere difficile che creature mortali possano coglierla, così i botanici dovranno rinunziare a scoprirla senza l'aiuto di un Dio.

La fantasia popolare non ha del resto stabilito alcun luogo come dimora di Circe, e la leggenda è rimasta qui più per il nome della maga Circe che per la favola stessa: essa non è che artistica ed archeologica. Qui si son fatti il concetto di una maga Circe come di una Loreley che attirasse e facesse arenare le navi. Mi hanno raccontato che essa era stata alfine sfidata da una nave straniera tutta di cristallo, sulla quale la maga non aveva potuto esercitare potere alcuno e che anzi era stata presa, rinchiusa nella nave e portata via. Da allora se ne erano perdute le tracce e credo che la potenza immaginativa di questo buon popolo lavoratore non sia andata oltre nella bella leggenda di Circe. La mia

guida mi narrava con soddisfazione un fatto accaduto durante il suo soggiorno in San Felice ad una sentinella di guardia alla torre del Fico; a questa sentinella, di notte, era apparso un cane dagli occhi di fuoco ed aveva tracciato intorno a lei circoli magici.

Nell'uscire dallo splendido bosco, avevo alla mia destra il lago di Paola, a sinistra la spiaggia del mare e sopra, all'estremità del capo, una graziosa torre, la torre di Paola. Il lago appariva come un grigio e melanconico specchio d'acqua fra rive piane, un vero lago di maremma che s'internava per parecchie miglia dentro terra. Stavano sulle sue rive due chiesette chiamate San Paolo e Santa Maria della Surresca. In tempi remoti, il lago era unito al mare e formava una baia: ora la comunicazione è ristabilita per mezzo di un canale. Lucullo vi aveva una villa e famosi vivai. Anche nel medio evo fu luogo di pesca e di caccia all'anitra(l'anitra selvatica si chiama qui folaga) e solo per opera del tempo l'antico canale è andato in rovina. Innocenzo XIII fece costruire il casino e la chiesa che stanno ancora sul canale, sebbene abbandonati e quasi rovinati ed altre case anche fece costruire sulla sponda del lago, per i pescatori e ispettori e per magazzini. Oggi uno speculatore di Sperlonga ha preso in affitto la pesca del lago per la modesta somma di lire 7500 annue. L'ardente sole del mezzodì fiammeggiava sul lago plumbeo nella profonda e selvaggia solitudine delle paludi e dei boschi: appena gli alti giunchi e i tamarischi della riva si movevano; non una barca appariva sulla superficie tranquilla; questa quiete fosca e solenne aveva qualche cosa di favoloso.

Camminavamo lungo le case della riva, lungo il muro di un grande giardino che fu di Poniatowski, ora completamente abbandonato e selvaggio. Sulla porta di una casa sedeva la moglie di un pescatore con i suoi figlioletti che non apparivano punto pallidi di febbre, ma freschi e rosei, fra reti distese, stanghe e altri attrezzi pescherecci. Uscirono poi anche alcuni uomini e con loro il fortunato affittuario del lago, lo speculatore di Sperlonga; questi ordinò ad un ragazzo di farmi vedere i vivai. Salimmo allora su un sandalo, una specie di barca assai antica, di cui ho trovato menzione in vecchi documenti riguardanti le paludi pontine. Nel 1223 fu concesso il diritto all'abbazia di Grottaferrata di tenere duos sandalos ad piscandum in Lacu Folianensi. Il sandalo è il battello della palude, quadrato e piatto; le dimensioni variano secondo il bisogno. E' barca di carico e di tragitto insieme. Il suo nome ed il suo uso si son mantenuti dai tempi più antichi, e son dovuti certamente alla sua

forma. In sandalo andavano i viaggiatori romani quando dal Forum Appii solevano fare una gita sul canale Decemnovius. I vivai si trovano in vicinanza delle sponde e formano una serie di camere circondate da un reticolato.

Speravo di vedere il più raro acquario, ma fui deluso, nè in questi vivai, nè nell'antico bacino murato che ancora si usa, mi fu possibile vedere un sol pesce.

Dal lago andai verso il mare, lungo il canale di costruzione romana che è largo circa 30 piedi, ed ha argini in mattoni. Innocenzo XIII lo restaurò nel 1721. Cateratte massicce lo proteggono contro le onde del mare. Si aprono queste per lasciar passare i pesci e lì ne vidi alcuni. Una delle cateratte serve anche da ponte. Su questa trovai in muratura lo stemma dei Conti(aquila della Campagna e dadi sulla scacchiera) con sotto la seguente iscrizione, memoria di quel Papa della casa Conti:

"Quod Inter Mare Tyrrhenum Lacumque Circejum Pristino Aquarum Restituto Commercio Carolo Collicola Aerario Ac Rei Marittimae Praefecto Piscatorio Urbis Foro Fisci Rationibus ac Publicae Utilitati Providerit Anno Pont. Primo".

In mezzo alla solitudine selvaggia del capo Circeo, sul lembo estremo dell'antico dominio papale, questa iscrizione sul pallido marmo mi affascinò con tale forza storica, come se fosse di un passato molto più remoto e come se appartenesse alla stessa epoca della lapide che, nel palazzo municipale di Terracina, eterna la memoria del prosciugamento delle paludi pontine eseguito dal gran re dei Goti, Teodorico.

Lo spazio di dodici secoli che corre fra queste due iscrizioni, comprende quasi tutto lo sviluppo dell'Occidente dalla caduta dell'impero romano; è per questo che sembra così lungo... Ma che sono dodici secoli nella vita del mondo? Il tempo che corre fra ieri ed oggi. In altri luoghi si ha profonda coscienza del lavoro incipiente dello spirito umano; qui, nelle paludi pontine, il tempo invece appare piuttosto come una superficie eguale e senza interruzione che si estenda indefinitamente monotona.

Non ho mai sentito così bene quanto presto le cose umane divengono leggendarie, come dinanzi a questa iscrizione. Il dominio temporale dei papi che soltanto tre anni fa cadde per sempre, mi si presentava già come un mito sulla cui storicità si dovesse riflettere come su quella del dominio dei Goti. I papi hanno lasciato molte indelebili tracce nella terra che fu loro, dall'Etruria al capo Circeo. Quando la figura storica del

cristianesimo sarà passata, quando i dogmi e il culto della Chiesa per le generazioni future avranno soltanto un interesse storico, come oggi per noi il culto di Ptah e di Osiride, allora si ricercheranno gli stemmi pontifici, le iscrizioni e i monumenti dei più potenti dei re-sacerdoti, che si chiamavano papi, e si farà ciò col maggiore interesse e col più vivo desiderio, molto più di quello che si faccia oggi per le iscrizioni dell'antichità; le rovine di San Pietro e del Laterano saranno allora per l'osservatore e per l'archeologo oggetto di maggior considerazione che non le masse gigantesche del Colosseo e le rovine dei templi e delle terme di Roma.

I papi sono riusciti a dare alle loro opere un vero sentimento di romanità: anche queste paludi lo provano. Dopo Teodorico, re dei Goti, furono Sisto V e Pio VI che ristabilirono la via Appia ed i canali pontini. Il Governo italiano, nella successione, si è assunto il compito di continuare i lavori e di fare anche di più; e per ora è passato così poco tempo dalla caduta del dominio temporale, che non è lecito movergli rimprovero se ancora non ha pensato alla sistemazione del porto di Terracina. Più urgente, invero, sarebbe la costruzione di quello di Brindisi, che aprirebbe all'Italia meridionale una nuova vita e la via del commercio con l'Oriente.

Basta dare uno sguardo alla baia di Paola che, protetta dal promontorio, si offre all'ancoraggio, per comprendere quale avvenire essa potrebbe avere. E' l'unico luogo, nel promontorio, dove sia possibile l'approdo. Qui sbarcò Ulisse:

Taciti a terra ci accostammo, entrammo,



Non senza un Dio che ci guidasse, il cavo



Porto e sul lido uscimmo...



Qui approdò Tiberio, venendo da Astura; qui approdarono i Saraceni che molte volte saccheggiarono la località. Si vede ancora la torre

quadrata dei Gaetani, la torre di Paola, l'eroica torre che sostenne lotte accanite coi pirati del mare.

Essa si erge su una sporgenza della rupe, immediatamente sopra il capo. Il mare e il canale sono distanti solo pochi passi. Questo punto, presso la torre, era la mèta più ambita delle mie peregrinazioni. E' una solitaria marina, celebrata dalla leggenda d'Omero. La saracinesca è caduta; porte e finestre sono chiuse ed invano tentai penetrarvi. La pallida erba balsamica cresce sulle mura grigiee e gli steli del grano selvatico, inariditi dal salso vento marino, oscillano intorno, mentre le rupi luccicano, al di sopra, di muschi purpurei. Tutto è qui come immerso nel sonno. L'onda marina si frange rumorosa sulla riva silente in ritmi uniformi che tutto il presente seppelliscono nel silenzio e risvegliano nell'anima lontane imagini e lontani ricordi. Ogni tanto un falco si leva da un cespuglio di mirti e si libra sulla costa, emettendo un acuto strido, poi allarga lentamente i suoi cerchi sulla palude e sul mare.

Le dune bianche, abbaglianti racchiudono per parecchie miglia il limpido mare in una linea dolcemente arcuata, finchè si perdono nei vapori, verso Astura. Dietro si stendono paludi e boschi nereggianti, che nascondono altri laghi: il lago di Crapolace, quello dei Monaci e l'altro di Fogliano, simili al lago di Paola, ma senza porto.

Per quanto il mio occhio poteva spaziare lontano, la bella spiaggia mi appariva completamente deserta; nessuna traccia di greggi; sul mare nessuna barca; solo tre o quattro vele, lontane, verso Astura. In distanza appariva sotto il sole una torre: la torre di Fogliano o il castello di Astura. Si può andare fin là a piedi, o a cavallo, seguendo la spiaggia. Anticamente v'era la via Severiana che conduceva fino al capo, lo girava e giungeva a Terracina. Su questa si trovavano: Ad Turres, Circejos, Turres Albas, Clostra Romana, Astura e Antium.

Dall'alto della torre di Paola si ammira la grande distesa del mare e le isole di Ischia e di Ponza che nettamente vi si delineano, sotto gli scoscendimenti delle rupi ed i massi grigio-rossastri che ricordano il Monte Solaro di Capri. Ridiscesi poi al lago e tornai per la medesima via a San Felice.

Dopo un digiuno di dieci ore, dopo la gita in mare e la passeggiata sotto il sole che già scottava, calmammo la nostra sete, la mia guida ed io, con gli squisiti aranci di questa regione.

La sala del caffè era gremita di abitanti del capo, parte dei quali alti e begli uomini, non vestiti però con costumi speciali. Me ne furono indicati

alcuni che avevano servito sotto il papa, il che sembrava in certo modo essere considerato come cosa speciale e onorevole. Mi dissero anche che, prima dell'ultimo rivolgimento, le guarnigioni di tutte le torri del litorale, da Terracina a Porto d'Anzio, erano composte di sanfelicesi.

Un pescatore era intanto venuto ad aspettare o ad affrettare il mio ritorno; perchè, come avevo osservato dalla torre di Paola, il vento si era nel frattempo fatto più forte e il mare si era coperto di schiuma. Una gita di parecchie ore in mare, con quel tempo, non si presentava certo come una bella prospettiva!

Scendemmo per un sentiero fino alla spiaggia, dove apparivano alcuni ruderi antichi. Sarebbe stato veramente bello aver potuto passare in quel luogo alcuni giorni, arrampicarsi sulle rocce, visitare le belle grotte, vedere le torri del Fico, Cervia e Moresca che stanno sulle sporgenze estreme del capo. Camminando lungo la spiaggia riuscimmo di nuovo presso torre Vittoria e salimmo sulla barca:

E quei si rimbarcavano; e sui banchi



Sedean l'un dopo l'altro, e percotendo



Gían co' remi concordi il bianco mare.



Ci arrestammo un istante ad un miglio dalla spiaggia. La barca sembrava davvero un guscio di noce sul flutto irrequieto, ora avendo come sfondo l'orizzonte da un lato ed i monti dall'altro, ora sprofondandosi nelle liquide valli. Questa gita mi fece molto piacere, perchè non temo il mare agitato e non soffro punto il mal di mare. I rematori vogavano faticosamente, ma con arte consumata sapevano ora evitare, ora utilizzare abilmente le onde più grosse e più alte. Allora capii veramente che cosa fosse una barca equilibrata e la nostra poggiava fissa e sicura sui suoi quattro remi, che insieme sembravano servirgli come braccia e come ancora. Era assai difficile avanzare e dopo più di due ore di lotta ci trovammo di nuovo di fronte a torre Badino.

Questa torre ed un casino lì presso indicano il luogo dove il Portatore, un braccio del canale pontino, si versa nel mare. Vi sono stati costruiti dei moli. I pescatori risolsero di mettersi sotto vento ed invece di continuare il faticoso viaggio, arrivare così a Terracina per il canale.

Alla foce del Portatore l'agitazione delle onde alte e grigie era assai forte: la nostra barca ne risentì la violenza con un forte beccheggio, ma presto, oltrepassato un ponte levatoio, ci trovammo in uno specchio d'acqua più che tranquillo, morto, nero, stagnante. Da quello entrammo nella Linea Pia che conduce direttamente a Terracina.

La Linea Pia è fiancheggiata da alti olmi, e sulle sue rive cresce la più ricca flora di gigli acquatici che abbia mai visto. In alcuni punti il canale era impaludato, o era completamente coperto di piante. A causa di questo tre marinai dovettero scendere dalla barca e tirarla dalla riva con una fune, a forza di braccia.

Per quanto ad ogni stagione la Linea Pia venga sottoposta ad un ripulimento, essa è invasa di nuovo prestissimo dalla flora palustre. Il metodo per pulirla è semplicissimo: si caccia qua e là per il canale una frotta di bufali e si fa loro calpestare l'erba. Queste bestie si sforzano naturalmente di liberarsi e di guadagnare la terra ferma, non perchè temano l'acqua, essendo al contrario animali di palude, ma perchè la fatica necessaria per strappare e pestare le piante così intrecciate, stanca anche la loro possente muscolatura. Ma i butteri che li accompagnano, li respingono nel pantano colle loro lunghe lancie, ed altri tormentatori stanno dietro sui sandali e fanno lo stesso con delle aste puntute. Il giorno dipoi vidi, sulla via Appia, presso la stazione di Mesa, questa selvaggia scena palustre: è impossibile immaginare qualcosa di più singolare di quei mostri neri ammassati nel canale che, simili a un branco di cavalli del Nilo, agitano le loro teste possenti con le corna piegate all'indietro, sbuffano fuor dell'acqua, mentre faticosamente avanzano nuotando e calpestando.

Quanto più ci avvicinavamo a Terracina, tanto più il canale diveniva animato. Molti sandali tornavano carichi dalla città e su molti di essi sedevano uomini civilmente vestiti che sembravano passeggeri ed erano forse proprietarii di terre vicine.

Scendemmo dal battello al ponte, presso il grande ospedale militare ed io mi recai subito alla riva accanto all'albergo, per sapere qual fine avesse fatta la gigantesca tartaruga. Essa stava distesa su un carro a due ruote, legata con funi e accuratamente avvolta in scorze d'albero,

quasi si fosse voluto preservarla da un raffreddore. Molta gente stava ad osservarla attentamente. Il guscio robusto era di un bellissimo color bruno con macchie nere; la testa pareva quella di un'aquila e perfino la bocca aveva la forma di un becco. Viveva ancora e guardava gli astanti con occhi spalancati pieni di stoica indifferenza; sembrava quasi volesse dire: "Tu sei una creatura più abominevole di me, o uomo, e cento volte più crudele e vorace del pescecane, tu che strappi alle profondità dei mari i suoi abitanti per seppellirli nel tuo stomaco, nella grande voragine e abisso del mondo vivente!" Nella notte la tartaruga doveva essere spedita al suo destino, cioè a Piperno, fra i monti Volsci, dove sarebbe stata poi venduta come cibo di magro.

LE SPONDE DEL LIRI(1859)

Invito il lettore ad un'escursione attraverso il paese latino, da Veroli a Casamari, da Isola a Sora e ad Arpino, da Arce ad Aquino, da San Germano a Montecassino, proprio mentre l'Italia centrale pullula di armati, mentre le Romagne hanno scosso il giogo pontificio, mentre gli animi tutti sono preoccupati dalla questione romana.

Questa regione è la continuazione del Lazio; il Liri divide con confini naturali la Campania in due parti: quella romana è solcata dal Sacco che si getta appunto nel Liri sotto Ceprano ed è propriamente la campagna romana; l'altra metà, magnifica pianura fra l'Appennino ed i Volsci, è la Campania napoletana, dove scorre il Liri. Essa si estende veramente fino a Capua, ma i monti la circondano di fronte a San Germano e la separano così dalla Campania felice. A Montecassino mi fecero osservare un giorno di lassù il castello di S. Pietro in Fine, e mi spiegarono questo nome con: in fine Latii; se non che l'erudito don Sebastiano Calefati mi fece riflettere che in fine poteva anche significare: al confine della giurisdizione della diocesi di Montecassino. Non intendo però entrare in una disquisizione geografica; scendiamo piuttosto tranquillamente da Veroli, per arrivare sulle rive del Liri in una bella giornata di ottobre, mentre un sole tepido splende sui campi tingendo i monti de' più bei colori dell'autunno, mentre dinanzi ai nostri occhi si stende la classica campagna attraversata dal fiume, il cui bel nome risveglia i pensieri più gentili, più soavi e diffonde un alito poetico per queste contrade.

Uscendo dalla porta dell'alto paese di Veroli e camminando lungo le sue mura mezzo rovinate, prima di scendere nella pianura, per la prima

volta mi si spiegò dinanzi la regione che volevo percorrere. Alla mia destra erano i campi di Ceprano, il ponte ove Manfredi fu tradito e più in là la catena azzurra dei Monti Volsci; alla mia sinistra i monti maestosi di Sora, volti verso gli Abruzzi e pieganti verso il Liri. Ma ciò che sopra ogni cosa attrasse la mia attenzione fu la vetta di un monte, o per dir meglio la linea bianca che lo coronava. Era Arpino, la patria di Cicerone e di Mario. Produce profonda impressione il vedere per la prima volta, e per di più in modo confuso e ad una certa distanza, un luogo che segna due grandi epoche e di cui ci è noto il nome sin dall'infanzia. Mi ritornarono così alla memoria infiniti particolari dell'età giovanile: il mio pensiero si riportò ai banchi della scuola dove ci veniva spiegato Cicerone, si riportò allo stesso volume stracciato e stampato su cartaccia grigia delle sue orazioni ed al tuonante ed indimenticabile Quousque tandem Catilina? Ed ora mi trovavo proprio dinanzi alla patria di Cicerone, dinanzi a quell'Arpino che non avrei sperato o sognato di veder mai.

Non essendovi altra strada carrozzabile all'infuori di quella sotto Casamari, e tutta questa regione latina non avendo altro mezzo di comunicazione con i paesi finitimi se non la Via Latina che porta a Capua, dovetti scendere di cavallo per percorrere lo scosceso sentiero che va fino a Veroli.

Tutti i borghi all'intorno, per la massima parte più antichi di Roma, appartenendo all'epoca di Saturno sorgono su colline rocciose, neri e cupi d'aspetto, rimasti da secoli e secoli quali erano un tempo. I conti e i feudatarii del medio evo vi avevano fabbricato in ognuno il loro castello che sorge tuttora, abbandonato e deserto, dimora dei soli gufi. Il colono vi coltiva anche oggi, soggetto ad un principe romano o ad un convento, la vite, l'olivo, il granturco e la sua condizione, per quanto non sia più servo della gleba, non è in fondo affatto mutata. Per il Lazio, regione saluberrima, non vale la ragione dello spopolamento dei dintorni di Roma, l'influenza cioè della malaria. Fa impressione percorrere una contrada che da lungi appare come un paradiso e poi non è che un deserto pittoresco, coltivato solo qua e là a granturco, un deserto di aridi campi, popolati unicamente di ginestre e di asfodeli, su cui i falchi svolazzano con ampi cerchi. Si rimane stupiti di non trovare una popolazione florida e ricca, città fiorenti ed al vedere solo qua e là gruppi di meschini abituri sulle alture. Gli abitanti del Lazio, bella, buona e forte razza di uomini, sono rimasti in uno stato assolutamente primitivo; il loro modo di vivere, i loro costumi, i loro bisogni non subirono mai la

menoma variazione e se uno de' loro antenati tornasse oggi al mondo, non troverebbe forse al suo paese altro di nuovo all'infuori dell'uso, del tabacco, dei fiammiferi e della polvere da sparo. Tutti quei castelli conservano sempre i loro nomi: Veroli, Pofi, Arnara, Bauco(Babucum), Ripi, risalgono alla più remota antichità. Li troviamo menzionati nei documenti del ix e x secolo coi loro nomi attuali, con le stesse chiese, con i loro conti e giudici, per lo più di stirpe longobarda; non saprei citare un sol luogo di fondazione posteriore.

Il sole del pomeriggio splendeva ancora ardente su quegli aridi campi, quando entrai in un'orribile strada, in un sentiero, a malapena praticabile per i muli che conduceva al monastero di Casamari. Passai dinanzi ad un casolare solitario dove si era fermata una comitiva di gente venuta da Veroli, fra cui alcune ragazze, vestite per bene che stavano danzando e scherzando: tutto ciò produceva in quella solitudine una gradevole sensazione; si sarebbero potute paragonare ad uno stormo di garruli uccelletti in una cupa foresta. Proseguii quindi per una buona strada fiancheggiata da olivi e da vigneti ben coltivati, il che rivelava un possesso tenuto con un sistema di coltura molto diverso da quello dei dintorni. Presto ne scoprii la ragione; incontrai una compagnia di pellegrini che tornavano dal celebre convento di Casamari, gli uomini col bordone in mano, le donne portando sulla testa panieri di provvigioni, vestiti tutti nella pittoresca foggia dei monti latini.

Più volte avevo udito parlare di questo convento e mi era anzi stato vantato con quello di Fossanova, come il più bello di tutto il Lazio; soprattutto come una vera meraviglia di architettura gotica; ora finalmente me lo trovavo di fronte, mole grandiosa di severi edifici, dalla tinta grigia, sorgenti solitari sul sottostante altipiano, tra i quali emerge il vertice della chiesa del monastero. Tutto questo è circondato da un cortile con una porta maestosa di stile romano che dà accesso ad un porticato, che ricorda assai l'arcus deambulatorii dei ricchi monaci medioevali; accanto scorre un ruscello, l'Amaseno, ombreggiato da melanconici pioppi: tutto ha l'aspetto di un deserto silenzioso e arso dal sole.

In genere i monasteri al dì d'oggi hanno un non so che di desolato, di morto, come di cosa che non risponde più all'indole dei tempi. Qui invece nulla è mutato; l'atmosfera morale di vari secoli addietro, sopravvive; i monaci continuano a salmodiare, a pregare, a tacere, a lavorare come in passato, rivestiti degli stessi abiti, negli stessi locali,

con la stessa monotona uniformità. Tutto è andato mutando nella storia del mondo, ma fra i monaci di Casamari nulla è cambiato; ad essi basta che durino la chiesa, i vescovi e il papa in Roma. Nulla nei dintorni ha un aspetto diverso dall'ieri: Veroli, Pofi e San Giovanni sussistono tuttora come una volta, con le loro chiese e i loro santi e i pellegrini continuano come prima a battere alla porta del monastero. Essi non hanno più da temere i Saraceni, nè i baroni rapaci, nè i condottieri; vivono però in continua angustia per la rivoluzione, che finirà col tornar loro più fatale dei Saraceni e dei masnadieri medioevali, poichè da quelli non avevano da temere che l'incendio o il saccheggio, mentre da questa dipenderà la loro esistenza. Inoltre i beni dei monasteri sono diminuiti e con ciò resta inceppata l'azione esteriore alla Chiesa. In realtà un tal convento è come una cronaca in pergamena dove le vecchie miniature rivivono come fantasmagorie.

Il nome di Casamari è stato erroneamente spiegato in casa amara e così erroneamente lo spiega pure il Westphal, nella sua opera sulla Campagna romana, alludendo alla regola severa dei fratelli della Trappa, cioè dell'assoluto silenzio prescritto ai monaci che vi abitano.

Sembra invece più giusto farlo derivare da Casae Marii, case di Mario, perchè la badia fu eretta in un fundus Marii, ossia in un antico possedimento del famoso eroe di Arpino.

Così vuole la tradizione e così pure afferma il Rondinini, che scrisse: "Monasterii S. Mariae et Sanctorum Joannis et Pauli de Casaemarii brevis historia, Romae, 1707".

Il monastero venne fondato da alcuni abitanti di Veroli nel 1036. Primi ad occuparlo furono i benedettini. Ma nel 1152 Eugenio III v'installò i cistercensi che posseggono anche il bello e vicino convento di Trisulti; Federico II con un atto del 1221, datato da Veroli e che tuttora esiste, confermò i monaci di Casamari nel possesso de' loro beni; ma i suoi soldati distrussero il monastero allorchè l'imperatore la ruppe con Roma.

La storia di Casamari non offre nessuna particolarità: non fu che il solito continuo succedersi di guerre, di distruzioni, di ricostruzioni, alle quali andarono più o meno soggetti del pari tutti i monasteri. Nessun personaggio illustre uscì dalle sue mura. Casamari non ha avuto una storia propria come la vicina Fossanova, di cui il Muratori pubblicò una cronaca. Non ha avuto neppure le ricchezze di Trisulti, sebbene possegga ancora vari beni nella Campagna romana. Il suo maggior vanto consiste nella sua meravigliosa chiesa, di cui fu iniziata la costruzione nel 1203,

proprio quando l'architettura gotica cominciava a venire introdotta in Italia.

Entrando nel cortile che precede la chiesa provai un disinganno: la facciata cui si accede per un ampia gradinata, il vestibolo a foggia di porticato, promettevano assai poco. Trovai in questo vestibolo una statua di Pio VI e una lapide in onore di Pio IX, per aver questi ristabilito il patrimonio del monastero. Ma appena entrato nella chiesa provai una grata sorpresa trovandomi in un tempio a tre navate, vasto, di proporzioni armoniche, bello, chiaro, ad archi a sesto acuto, con il coro separato solo da una cancellata, il tutto di una semplicità elegantissima.

L'armonia dell'architettura, la semplicità dell'edificio, la tinta tranquilla del travertino, lo stile gotico del mio paese, non potevano produrre in me impressione migliore; il mio occhio, abituato da vari anni alle basiliche di Roma col loro soffitto piatto ed alle chiese a cupola sovraccariche di ornamenti di tempi posteriori, non poteva a meno di trovare nel gotico uno stile architettonico nuovo, svelto, imponente per la fusione della ricchezza con la semplicità, dell'arditezza con la grazia, della forza con la sveltezza, per l'armonia di tutte quelle parti che concorrono a costituire un complesso bello, raro e sorprendente. Abituato a vedere chiese piene di sculture, di ornati barocchi e pesanti, di pitture, d'iscrizioni, di tombe, di altari, questo tempio, dove nulla era di tutto ciò, mi parve bello, semplice, veramente fatto per l'esercizio del culto di una religione pura ed immateriale.

Nessun'imagine, nessuna nicchia, nessuna cappella, un unico altare sotto un tabernacolo a cupola, il tutto come nelle antiche chiese cattoliche tedesche trasformate in templi protestanti. Casamari pareva appunto una di quelle. Non ricordo di aver visto mai in Italia altro edificio di stile gotico di così bella semplicità. La navata centrale ha sette archi a sesto acuto, sostenuti da fasci di colonne; al quinto arco trovasi la cancellata che separa il grazioso coro; al di là non v'è nessun ornamento bizzarro, nessuna statua; soltanto dietro il cancello, a fianco dell'altare, due grandi vasi, con piante di amaranto in piena fioritura che fanno un bell'effetto in quel luogo semplice e imponente.

Solo la chiesa è di stile gotico; le altre parti del monastero sono invece di vero stile romano. Il cortile è un ampio quadrato, con archi semigotici, interrotti a metà da due colonne: in complesso è tutt'altro che bello. La sala del capitolo è abbastanza strana: il suo gotico pare volgere allo stile moresco, la volta è sostenuta da quattro fasci di otto colonne sulla cui

estremità ottangolare poggiano gli archi a sesto acuto, partendo dal mezzo della parete ove terminano con un fantastico capitello. L'alternarsi poi di pietre bianche e nere accresce l'originalità del colpo d'occhio.

Vidi solo pochi monaci che passeggiavano silenziosi su e giù e non mi volsero mai la parola. Un frate laico mi recò una brocca d'acqua e sentendo che venivo da Roma mi chiese che cosa vi fosse colà di nuovo e dove si trovasse in quel momento Garibaldi. Il nome longobardo di questo prode capitano del popolo risuonava sopra ogni bocca al confine del regno di Napoli, come tanti secoli prima vi risuonarono quelli, parimenti longobardi, dei duchi Garibaldo, Grimoaldo, Romualdo e Gisulfo di Benevento. La figura di lui, popolare anche colà dove provocava timori anzichè speranze, pareva avere un'influenza veramente magica e non dovevo tardare ad averne la conferma nel napoletano.

Nel medio evo correvano per la Campagna i nomi di Nicolò Piccinino, di Fortebraccio da Montone, di Sforza d'Attendolo e di altri capitani di ventura, divenuti famosi per cento scorrerie, battaglie e conquiste di città. In realtà però non erano che audaci briganti e le loro gesta guerresche furono per l'Italia peste obbrobriosa: l'eroe popolare di oggi, Garibaldi, ha invece consacrato la spada e la vita al riscatto della patria sua.

Montai nuovamente a cavallo, per continuare il mio cammino, quando il sole al tramonto tingeva con le sue più belle tinte i monti di Arpino. Dal monastero al confine napoletano non v'è più di un'ora di strada. Fa sempre un particolare piacere trovarsi in un paese di confine. Là dove i popoli, gli stati confinano, si trova un carattere intermedio, una certa vivacità di spiriti: gli abitanti dei confini generalmente stanno in guardia, gli uni contro gli altri, mentre gli uomini che vivono nel centro degli stati diventano facilmente indolenti, ai confini sono sempre irrequieti, mobili, avidi di novità, furbi e infidi, perchè sempre in contatto coi forestieri. Un nuovo orizzonte si apre davanti ai loro occhi, li spinge ad investigare, a paragonare, li rende proclivi al biasimo, alla critica. Il passaggio da uno stato ad un altro produce sempre una singolare incertezza; per questo la dea Fama abita più volentieri al confine, come nella vita sospetto e invidia sono per lo più demoni bastardi di un confine morale.

Non tardai ad arrivare alla dogana romana, solitario casolare lungo la strada, dove le guardie di finanza ammazzavano il tempo fumando il loro

sigaro. Di là, dopo aver percorso una strada attraverso ad un terreno coltivato a vigneti, giungemmo al vero confine, segnato da una semplice pietra. Il dio Termine congiunge qui pacificamente il territorio di Roma e quello di Napoli, non divisi neppure da un fosso.

A breve distanza dal confine sorge il primo villaggio del napoletano, Castelluccio e poco al disotto di questo, quello amenissimo d'Isola, che giace in una vaga isola del Liri. Folti gruppi di alberi in una valle ombrosa annunciano la vicinanza del fiume; graziose ville, opifici industriali, sorgono in mezzo al verde e la campagna, mirabilmente coltivata, mostra la fertilità e la ricchezza che hanno sede generalmente dove sono grandi corsi d'acqua. E sopra questi ricchi campi, in una regione ondulata, s'elevano belli e maestosi, a poca distanza, i monti di Sora. Questo tratto di paese, illuminato dal sole cadente, mi ricordò la Conca d'oro di Palermo; ha comune con essa la seria maestosità delle montagne e la fertilità delle pianure; se non che, invece del mare, si vede in questi campi il Liri o Garigliano che scende rumoroso dall'Abruzzo, come il giovane Apollo e disseta romani e napoletani, per aprirsi poi il cammino tra i monti Volsci e scender placidamente alla riva del mare.

Quando si varcano i confini della sacra repubblica di S. Pietro per entrare nel Regno non bisogna aspettarsi piacevoli impressioni, poichè bisogna confessarlo, gli abitanti dello stato pontificio conservano anche oggi tracce dell'antica grandezza romana, hanno un non so che di grave, di riflessivo, di misurato, una disinvoltura ed una franchezza di contegno, una facilità di parola, una certa generosità di tratto, ereditate dai tempi antichi. La costituzione stessa dello stato della Chiesa, dove il potere assolutamente monarchico, poco traspare, la mancanza di un governo civile accentrato e quella, non abbastanza apprezzata dai romani, di un esercito permanente, le franchigie municipali garantite per anni ed anni, da trattati e da statuti locali(annullati la prima volta dalla repubblica francese e più tardi, sotto la restaurazione, dal cardinale Consalvi), finalmente la mancanza di una dinastia ereditaria; tutte queste cose contribuirono a mantenere, fino ad un certo punto, negli stati della Chiesa sentimenti repubblicani. Entrati nel territorio napoletano invece tutto muta aspetto ed il cambiamento non torna certo a vantaggio di quest'ultimo! La natura grave dei romani scompare ad un tratto; il dialetto diventa barbaro e incomprensibile; gli uomini appaiono meno forti, meno generosi ed invece più importuni, ma al tempo stesso

paurosi. Vi abbondano soldati, poliziotti, spie e doganieri di un governo sospettoso, malsicuro, illiberale; nessuno qui può parlare come la pensa, cosa poco piacevole per un napoletano.

Ad Isola v'è una bella cascata d'acqua, una splendida vegetazione, praterie freschissime; ma trovai anche la dogana. Dovetti farvi una lunga fermata e perdervi del tempo per colpa di sei poveri volumi. Eccettuato un Orazio, tutti gli altri erano libri di storia medioevale, libri innocentissimi, come ognun vede: ma gl'impiegati di dogana non ne comprendevano il titolo. Lamentarono, a dire il vero, con me la morte di Humboldt, quasi fosse riuscita dannosa alla cultura intellettuale di Napoli; lodarono l'istruzione della Prussia, dove le opere filosofiche sono familiari a tutti; ma conclusero che i miei sei volumi erano merce di contrabbando, che dovevano spedirli al capoluogo, all'ufficio superiore, dove mi sarebbero stati certo restituiti dopo un paio di giorni. Non potei fare a meno di far loro notare che altrimenti si faceva nella mia Germania, dove si cerca di agevolare agli studiosi il modo di viaggiare e non si creano loro imbarazzi e aggiunsi che trovavo addirittura barbare le loro leggi di dogana. Mi rallegrai meco intanto di aver avuto la precauzione di non recare a Montecassino i miei manoscritti, perchè altrimenti avrei corso il rischio di perdere il frutto del lavoro di qualche anno. Tale è la sorte che in questo beato regno può toccare ad uno straniero che viaggi occupandosi tranquillamente di gravi studî sul medio evo. Quale proibizione più assurda, più barbara di questa dell'introduzione dei libri? Finalmente mi fu possibile persuadere l'impiegato, in fondo persona gentilissima, a lasciar passare i miei poveri volumi senza mancare affatto al suo dovere. Per giustizia accennerò ora quanto più liberale sia il governo pontificio: allorquando feci ritorno da Montecassino con gli stessi libri, con altri che mi aveva donato don Luigi Tosti e coi materiali raccolti e con questa merce di contrabbando mi presentai al ponte di Ceprano, l'impiegato della dogana pontificia non fece che gettarvi sopra un rapido sguardo e con gentilezza somma, mi disse: "Passate pure, signore".

Avendo così perduto un tempo prezioso, non potei quasi vedere Isola al tramonto del sole, perchè già la notte scendeva. Questo paesetto giace in una bella isola del Liri, ombreggiata da molte piante. All'estremità dell'isola le acque del fiume, dal colore dello smeraldo, si precipitano impetuose come da una cascata. Sopra all'isola sorge una rupe, alta circa 80 piedi, sulla cui cima torreggiano le rovine di un antico

castello. Si ode da lungi il rumore delle acque e avvicinandosi, la vista è rallegrata e dal fiume stesso e dai molteplici canali che vi si versano, dopo aver irrigato giardini, popolati da stupendi platani e pini e ricchi della meravigliosa vegetazione dei paesi meridionali quando sono bagnati dalle acque.

Qui il fiume è già ingrossato, perchè poco sopra riceve il tributo del Fibreno; nè serve solo a rendere fertili i campi, poichè dà moto anche a parecchie fabbriche di panni e di carta che danno lavoro a varie migliaia di operai e diffondono così il benessere e l'agiatezza nella regione.

Così Isola come Sora sono paesi industriali e la buona strada che li congiunge è fiancheggiata da opificî, da villini e da giardini. E' un'oasi di meravigliosa coltivazione sorta dal principio di questo secolo; e rallegra il trovare finalmente in queste regioni, tanto belle e tanto trascurate, lo spettacolo dell'attività umana.

Mi recai, al chiarore della luna piena, a Sora che dista appena un'ora di strada, su di uno char-à-banc, come si chiamano qui i curricoli napoletani, con parola francese, poichè l'uso di questi carretti a un cavallo comincia già qui e come a Napoli il povero ronzino vien spinto al galoppo a furia di frustate. La luce della luna rendeva ancor più bella quella strada, di per sè già così suggestiva e tutte quelle costruzioni moderne, poichè la prosperità di Sora e d'Isola non risale che al principio di questo secolo; essa produce oggi una profonda impressione in chi viene dalle provincie romane, dove tutto è antico, dove tutto appartiene al papato, alla storia, dove le cupe ed oscure città sorgenti sui monti risalgono ai tempi di Giano e di Evandro.

Le fabbriche attuali, per lo più di carta, costruite grandiosamente e secondo i migliori sistemi moderni, debbono la loro origine ai francesi del tempo di Murat e principalmente a un certo Le Febvre che, venuto qui povero, trovò sulle sponde del Liri un vero Eldorado, riuscendo a trarre l'oro puro dalla forza delle sue acque. Lasciò a suo figlio queste fabbriche ed alcuni milioni. Il re di Napoli, credo Ferdinando II, accordò a questa famiglia il titolo di conti, titolo che essa invero aveva ben meritato; poichè una contrada poco coltivata deve al talento inventivo di quello straniero la sua ricca vita che non scomparirà più, anzi probabilmente aumenterà.

La vista di quanto possa l'umana attività riesce sempre di grande soddisfazione, anche dove frequenti ne sono gli esempi, come in Inghilterra, in Germania, in Francia; ognuno immaginerà quindi

l'impressione che suscita in chi visita il regno di Napoli, dove, purtroppo, una tale attività è rara.

La cartiera Le Febvre del Liri e l'altra del Fibreno, sono due grandi edifici. E' un piacere vedere quella folla di operai intenta a fabbricare, direi quasi a fondere la carta; giacchè tutta quella pasta liquida scorre quasi fosse un denso fiume di latte e passando su cilindri riscaldati, si svolge in una bianca striscia senza fine, pronta ad accogliere il pensiero dello scrittore. Iddio ha certo creato il mondo ad un dipresso come il signor Le Febvre crea la carta, abbandonandolo alle dispute degli uomini. E' impossibile vedere scorrere quel candido fiume senza pensare a tutti i molteplici usi ai quali serve questa maravigliosa materia che domina la vita e che si chiama carta. Quella striscia bianca che si svolge dinanzi ai nostri occhi vedrà poi la luce, stampata coi prodotti del genio o della stoltezza, nelle scienze o nelle arti, o sotto forma di giornali, di cambiali autentiche o falsificate, di carte costituzionali, di partecipazioni di lutto o di gioia, di sentenze di morte, di trattati di pace, di opere drammatiche, di passaporti, di opuscoli politici destinati a far rumore, come in questi giorni Le Pape et le Congrès, di carte da gioco, di fotografie, di lettere amorose e in tante altre forme che uniscono o separano la vita!

Presso Isola fui ospitato in una villa, il cui cortese proprietario mi condusse nel parco del Conte, parco che può gareggiare benissimo con quelli delle ville romane. Certo, i principi Doria o Borghese potrebbero invidiare al conte Le Febvre l'abbondanza delle acque che non devono essere procurate con l'arte, poichè un braccio del Fibreno attraversa il suo bosco, precipitandosi dapprima di scoglio in scoglio con piccole cascatelle e allargandosi poi in un placido e delizioso laghetto. Le sue sponde sono ricche di splendide piante, di ameni prati; vi sono viottoli ombrosi, angoli solitari, fiori in abbondanza; questo parco è, in una parola, un piccolo Tivoli, è un paradiso delle Ninfe, dove sarebbe un vero incanto passeggiare, riposare, leggendo e fantasticando liberamente.

Arrivai a Sora, città vescovile e la prima del regno di Napoli da questa parte, prima delle dieci della sera e trovai alloggio in un buon albergo. In questo luogo vicinissimo allo stato della Chiesa vidi chiaramente come il confine politico diventa ben presto anche confine dell'uso e della lingua. Il cameriere mi offrì una lista di cibi, i cui nomi a Roma sarebbero apparsi incomprensibili, e non mancò di darmi del don.

Il mattino dipoi trovai che Sora è un paese moderno, discretamente pulito, con buone strade e tutt'altro che privo di industrie e di

commercio. Sora è posta sul Liri che svolge le sue acque verdastre fra alti pioppi, simile in ciò ai fiumi della Germania. Un ponte di legno lo attraversa; le sue rive hanno luoghi deliziosi e la sua campagna è fertile, ben coltivata svariatamente a giardini ed a vigne, attraversata da buone strade che portano ai paesi vicini.

Sora è situata in perfetta pianura, nella valle del Liri, circoscritta a distanza dai monti. In qualche punto il piano si restringe ed esce dalla catena un contrafforte. Immediatamente sopra la città si erge un monte di forma piramidale, alto, ripido, di aspetto severo, di roccia nera, selvaggio e nudo; sulla sua cima stanno le rovine pittoresche dell'antica rocca, chiamata Sorella, rovine non meno cupe del monte. Sora riposa tranquilla e idillica all'ombra di questa piramide naturale, tutta moderna di aspetto, sebbene sia un'antica città volsca che non ha mai mutato nome. Essa col tempo divenne sannitica, quindi latina, infine romana. Nel periodo romano vi nacquero i tre Deci e il famoso Attilio Regolo e ne sortì la gente Valeria, alla quale appartenne l'oratore Quinto Valerio; e poi Lucio Mummio: nomi sufficenti ad illustrare la città.

Durante il medio evo anteriore si trova ricordata Sora quale città di confine, più volte sorpresa e saccheggiata dai duchi longobardi di Benevento. Probabilmente allora era bizantina. Posseduta quindi da varî duchi di razza longobarda, finì per passare in potere dell'imperatore Federigo II che la distrusse. Più tardi appartenne ai conti d'Aquino, divenuti signori della maggior parte del territorio fra il Liri ed il Volturno. Carlo d'Angiò nominò conte di Sora un Cantelmi, parente degli Stuart ed Alfonso d'Aragona eresse Sora in ducato di cui primo signore fu Nicolò Cantelmi. Ma i papi frattanto non avevano mai cessato di aspirare alla signoria di questa bella regione e la ottennero sotto Pio II che conquistò Sora per mezzo del suo capitano Napoleone Orsini. Re Ferdinando I di Napoli confermò il possesso, ma Sisto IV ne privò la Chiesa nel 1471, investendone suo nipote Leonardo della Rovere, allorquando questi sposò la nipote del re. Più tardi, nel 1580, Gregorio XIII acquistò Sora dal duca di Urbino per suo figlio don Giacomo Buoncompagni: pochi furono i nipoti in Roma che ricevettero così cospicuo dono. Il territorio rimase in potere dei Buoncompagni-Ludovisi fino alla fine del secolo xviii. In questo tempo tornò al regno di Napoli, e di quello splendore del nepotismo romano non rimase in Roma che il palazzo di Sora e il titolo di duca di Sora, titolo che ancor oggi porta il figlio primogenito del principe Ludovisi-Piombino.

Mentre i della Rovere possedevano Sora, nacque colà un uomo illustre, Cesare Baronio, l'ultimo uomo di grandi meriti di questa contrada. Per quanto incantevoli, melodiose e pittorescamente irradiate dal sole, le sponde del Liri, ombreggiate da lunghe file di pioppi, non produssero mai un genio poetico, un Orazio, un Ovidio, un Ariosto; produssero invece famosi uomini di guerra e grandi oratori, e veramente per i retori è questo un ambiente favorevole alla creazione delle immagini e dei tropi per l'inesauribile eloquenza di questa natura.

Cesare Baronio nacque il 31 ottobre 1538. Lo si può considerare come il Muratori della Chiesa, di cui scrisse gli annali dalla nascita di Cristo all'anno 1198. Nel 1588 fu pubblicato il primo volume della sua opera, in cinque parti, compilata con i materiali degli archivi vaticani, lavoro veramente gigantesco, cui si può ricorrere utilmente, in molte parti, come a fonti originali, specialmente per i primi e più oscuri secoli del medio evo; ma libro di cui convien far uso con molta prudenza, poichè a quell'epoca gli studî storici non erano così innanzi come lo divennero in seguito è quindi opera informata a spirito illiberale ed ingiusto, frutto cioè di uno dei periodi più ardenti della reazione cattolica contro la riforma. Dagli oratori suoi compaesani Baronio non prese nè il sale attico, nè l'urbanità, nè lo spirito di discussione filosofica, nè la purezza della lingua. Non gli fa difetto però una certa ampollosità ciceroniana ed una certa maestosità che risalta ancora maggiormente accanto alle opere del Rainaldo, del Laderchi e del Theiner, suoi continuatori. Egli fece i suoi primi studî a Veroli, poi a Napoli e a Roma dove fu discepolo di quel santo assai originale che fu Filippo Neri; visse anche, come monaco, nell'Oratorio da questi fondato in S. Maria della Vallicella. Fu cardinale e dopo la morte di Clemente VIII, poco mancò che non ottenesse la tiara; ma, punto ambizioso, volle che fosse collocata sulla testa di Leone XI de' Medici, amico suo. Morì due anni dopo, il 30 giugno 1607. Venne sepolto nella chiesa dell'Oratorio di Roma. Il Baronio rimarrà sempre una gloria della storia ecclesiastica e la sua gigantesca opera sarà sempre meritevole di ammirazione.

Voglia ora il lettore gettare ancora uno sguardo su quell'altura di dove abbiamo preso le mosse e dove si scorge sempre Veroli. Chi non conosce, o non ha mai udito parlare di un'opera italiana intitolata "Del beneficio di Cristo?" Pubblicata nel 1542 in Venezia in grande quantità di copie, diffusa in molteplici traduzioni, dopo trent'anni era divenuta già irreperibile, tante erano state le mani che ne avevano fatto ricerca per

consegnarla alle fiamme. Udimmo, pochi anni fa, che inaspettatamente se n'era scoperto un esemplare in una biblioteca di Cambridge e venne di poi ristampata in Inghilterra, in Germania e in Italia. Aonio Paleario di Veroli fu l'autore di quel celebre scritto ed io voglio porlo a fronte di Baronio, suo contemporaneo e quasi suo concittadino, essendo nati in località distanti appena due ore l'una dall'altra. Paleario non morì cardinale; dopo di aver trascorso tre anni nelle prigioni dell'Inquisizione, fu tratto alla forca e bruciato nel 1570.

Non si riesce oggi a comprendere come un uomo abbia potuto essere giustiziato per aver intrapresa, con la coscienza di un santo, la giustificazione della dottrina di Cristo. Leggendo oggi, dopo alcuni secoli quello scritto soave e pio, fondato unicamente sui precetti dell'Evangelo, vien quasi fatto di dubitare se sia proprio vero che per esso l'autore abbia potuto essere condannato al rogo da cristiani.

In quel tempo venne anche giustiziato Carnesecchi, amico di Clemente VII. Era il tempo dei riformatori italiani di Giovanni Valdez, di Bernardino Ochino, di Vergerio, di Paolo Ricci, di Antonio Flaminio; il tempo in cui anche cardinali come il Contarini, il Morone, il Polo, venivano citati innanzi l'inquisizione. Le fiamme del rogo che arsero Aonio, eccitarono lo zelo di Baronio ed i suoi annali della Chiesa ne risentono, perchè scritti alla loro luce.

La città di Sora e tutti i paesi del confine napoletano rigurgitavano di soldati, perchè all'intorno si stava stendendo un cordone militare. Sulla piazza erano disposte artiglierie da montagna; lancieri correvano al galoppo per ogni dove e poco dopo il mio arrivo giunse da Capua il settimo reggimento di linea che riempì tutte le strade di baionette. Trovai che la fanteria aveva molto migliore aspetto della cavalleria ed osservai, particolarmente tra gli ufficiali, dei bellissimi tipi di uomini. Tanto la cavalleria però, quanto la fanteria erano vestite di una tela di un colore tra il bigio e il turchino che faceva assai brutta figura. Il luccicare di tutte quelle baionette, quelle fisonomie abbronzate, gli abiti coperti di polvere, la ressa alla porta delle caserme, le grida di comando, davano l'idea di una piccola guerra. Così io qui m'imbattevo nella questione romana. Quelle truppe erano avviate verso gli Abruzzi. Nel pensare a un nemico, esse non potevano concepirlo che nelle persone di Vittorio Emanuele o Garibaldi. Correvano le notizie più strane, più contraddittorie, gli uni assicuravano che Garibaldi si trovasse di già negli Abruzzi, gli altri che i francesi fossero in marcia verso Ceprano. La

completa segregazione di Napoli, la mancanza di giornali, di ogni mezzo di pubblicità, favorivano la diffusione di tutte queste voci, tanto più che tutti quegli apparecchi accennavano positivamente a probabilità di guerra.

Proseguendo il mio viaggio, incontrai truppe in ogni luogo e durai fatica a prestar fede a miei occhi, quando, nel tornare da Arce, presso il ponte di Ceprano, trovai gli avamposti stabiliti sulla strada come se il nemico fosse già alla frontiera. I romani ridevano di cuore di tutto quell'apparato guerresco.

"Non vi potete fare un'idea - mi si diceva in Ceprano - della paura che i napoletani hanno di Garibaldi; giorni sono abbiamo avuto qui una festa religiosa e, come si usa dappertutto, abbiamo sparato i mortaretti e lanciato dei razzi; sapete di che cosa furono capaci questi napoletani? Dettero il segnale d'allarme con gli squilli delle trombe ed il rullo dei tamburi in Arce e Isola". "Che cosa ve ne pare - mi disse un'altro - di questi napoletani? Se potessimo disporre di cinquecento uomini soltanto, arriverebbero senza ostacoli a Napoli, ma bisognerebbe che fossero buoni parlatori; sapete!".

Quest'ultima frase, prettamente italiana, ci dà una giusta idea della natura delle persone.

Le truppe intanto avevano occupato i loro quartieri ed io mi misi in cammino per recarmi alla patria di Mario. Il carretto che mi portava correva a precipizio ed anzi, presso il ponte, gittò a terra una donna. Gridai, ma fortunatamente la poveretta si rialzò subito e il mio vetturino continuò a sferzare, bestemmiando, il suo ronzino. Per andare da Sora ad Arpino, conviene ripassare per Isola; prendemmo colà due signori di Arpino che lungo la strada furono molto loquaci, forse perchè evitai di parlare di politica; ma appena giunti in città, fecero, prudentemente, le viste di non aver veduto mai il forestiero.

In vicinanza di Sora passammo presso il convento, già famoso e ora rovinato, di S. Domenico. Sorge in un'isola del Fibreno o Carnello, nome questo, che assume poco prima di sboccare nel Liri, in una località bellissima, ricca di piante dove sorgeva la villa che vide nascere Cicerone e suo fratello Quinto.

Questo S. Domenico fu un santo del secolo x, contemporaneo di S. Nilo e di S. Romualdo nato a Foligno nel 951, fu monaco benedettino a Montecassino sotto l'abate Aligero; fondò parecchi monasteri nella Sabina, e nel 1011 questo, aderendo alle preghiere del conte Pietro di

Sora, di stirpe longobarda ed esistono tuttora i documenti di quella fondazione. Domenico vi fu abate, e vuole la tradizione che Gregorio VII vi sia vissuto qual monaco benedettino.

Quante volte non avrà quell'uomo grande e singolare passeggiato fantasticando sotto i pioppi dell'isola di Cicerone; certo però non si sarà mai immaginato di dover vedere un giorno un imperatore ai suoi piedi in atto di penitente e di dover sostenere in Roma ed anzi nella storia del mondo, una parte ben più importante di Mario o del debole Cicerone.

Nonostante la memoria di Gregorio, la disciplina andò rilassandosi fra i monaci di S. Domenico; al contatto di quella splendida e voluttuosa natura, non è facile, anche ai monaci, non cedere all'umana fragilità; e non a torto provvedeva Benedetto confinando i suoi nella severità di monti selvaggi. Onorio III nel 1221 riunì per sempre il monastero di S. Domenico, hortus deliciarum, come lo qualifica nella sua bolla, a quello di Casamari. Rimase così disabitato per cinque lunghi secoli, finchè Clemente XI vi installò i trappisti, che finirono poi per riunirsi a quelli di Casamari. Finalmente Ferdinando II donò S. Domenico al Capitolo della basilica vaticana che oggi ne ricava un esiguo reddito. La chiesa, di stile gotico, è quasi completamente rovinata e nulla vi è di notevole nel convento; il solo ricordo di Cicerone invita ad arrestarsi in quel luogo.

Ivi Cicerone, Quinto ed Attico si trattennero in quei colloqui che ci rimangono ancora nei tre libri, de legibus. Da Arpino, passeggiando lungo il Fibreno, pervenuti in insula quae est in Fibreno, vollero fermarsi per riposare, discorrendo di filosofia. Attico non riusciva a saziarsi di ammirare la bellezza del luogo e Cicerone, narrando che spesso vi si recava a pensare, a leggere, a scrivere, disse che trovava in quella località una particolare attrattiva, perchè era la sua culla, quia haec est mea, et huius fratris mei germana patria; hinc enim orti, stirpe antiquissima, hic sacra, hic gens, hic majorum multa vestigia. Aggiunge che quella era già stata proprietà dell'avo suo, che suo padre, malaticcio, di cui fa un grand'uomo, vi era invecchiato negli studi e che alla vista di quel luogo natio, comprendeva il sentimento di Ulisse, che preferiva l'aspetto d'Itaca alla stessa immortalità. Riconosceva che Arpino era sua patria come civitas, ma che propriamente apparteneva all'agro Arpinate, ed allora Attico descrisse le bellezze dell'isola circondata dalle acque del Fibreno, che andavano a rinfrescare quelle del Liri ed erano talmente fredde, che a mala pena vi si poteva immergere il piede. Sedettero allora per trattenersi intorno alle leggi, e noi oggi possiamo figurarci più

volentieri il gruppo di quei tre personaggi togati, eminenti per istruzione e per urbanità, che non i monaci in tonaca, coll'ispida barba, contemporanei di Gregorio VII, in pieno secolo xi, nell'epoca della maggiore barbarie, della maggiore decadenza di Roma. Quale sorpresa non avrebbero provata Cicerone, Attico e Quinto se avessero potuto vedere i Romani dell'undicesimo secolo!

Cicerone nacque fra questi pioppi del Fibreno, di cui sentiamo sempre con piacere il mormorio delle foglie agitate dal vento. Ma a che parlare della sua stupenda culla a coloro che non potranno forse mai gettare uno sguardo su questa campagna smaltata di fiori, rallegrata da una continua primavera? Quale stupendo panorama di monti tutto all'intorno, quali tinte calde non si perdono nei vapori dell'orizzonte!

Cicerone fu figlio della pianura, non dei monti; egli, spirito vasto, radunò in sè quale fiume potente tutti i ruscelli dello scibile suo contemporaneo. Mario invece fu figlio delle montagne, nato proprio in Arpino, fra le mura dei ciclopi, dove vogliamo salire.

Ho veduto pochi terreni così frastagliati e parlanti come questa patria di Cicerone; sorgenti, canali, ruscelli ad ogni passo e di tutte le tinte; ed in mezzo a tutto ciò, il rumore dei molini, le grida dei lavoratori dei campi, ed il fracasso del nostro char à banc che correva sempre a precipizio.

Passammo nella pianura, dinanzi a parecchi casini e vaghi giardini; quindi, lasciata la valle del Fibreno, prendemmo a salire il monte per una bella e comoda strada, dalla quale si gode una nuova vista, affascinante per la varietà, sulla lontana campagna di Roma e la pianura di Pontecorvo. Sora dista da Arpino sette miglia, di cui quattro corrono in salita in una regione coltivata ad oliveti, lasciando sotto il Liri. Man mano che si sale, diminuiscono le case, e raramente se ne incontra una lungo la strada.

Giunsi finalmente ad Arpino verso un'ora dopo mezzodì ed entrai in città per l'antica porta romana.

La patria di Cicerone e di Mario conta attualmente 17,000 abitanti. Le sue vie sono strette, la piazza piccola, ma non fanno difetto case di signorile apparenza. Del resto, la città è morta e non vi si scorge indizio di attività industriale. In quasi tutti i paesi intorno a Roma esistono chiese antiche; Arpino non ne possiede alcuna, quantunque anticamente la sua cattedrale fosse un tempio dedicato alle nove Muse; ora invece è dedicato agli Angeli, come se vi fosse stato bisogno della musica celeste

di questi per far tacere per mezzo del cristianesimo i canti pagani delle nove vergini sorelle dell'Olimpo.

Arpino è divisa in due parti; la città vecchia, sul punto più elevato dove sorgeva l'antica rocca, e la città propriamente detta che si stende ai piedi del ripido pendio del monte. Questa divisione è antichissima, ed è una caratteristica distintiva di tutte quante le antiche città volsche e latine. Del resto, le mura ciclopiche, scendenti dall'altura su cui sorgeva la rocca, provano che la città moderna è fabbricata sulla stessa area dell'antica, ed anche la porta della città è di origine ciclopica. Le mura sono in tutto simili a quelle di Segni e delle altre antiche città del Lazio. In generale sono ben conservate, specialmente nella parte più alta, cui si accede per una ripida strada scavata nel tufo calcareo, fiancheggiata da oliveti che scendono fino alla parte bassa.

Lassù sorgeva la rocca ciclopica, e nel medio evo il castello dei conti longobardi. Esiste ancora una vecchia torre rivestita di edera; sono vicino ad essa quelle mura di giganti che non si possono guardare senza stupore. E' ancora in piedi una bella porta ciclopica e le mura formano un quadrato attorno alla rocca. Le porte per solito finiscono in un arco a sesto acuto, o tozzo, come quelle di Alatri, di Segni, di Norba; questa invece è di stile quasi gotico, se non che esiste tuttora il macigno che serviva di chiave alla volta e non è possibile che abbia assunto la presente forma in seguito a rovina accidentale. Le pareti sono formate di sei ordini di macigni, collocati tre per tre; la larghezza della porta è di otto passi, la sua profondità interna di sette e l'altezza di circa quindici piedi. I macigni, di tufo calcareo porosissimo, sono di forma quasi quadrata.

Di là scendono le mura con dolce pendenza, come a Segni, interrotte qua e là da una porta quadrata di stile etrusco, o da torri medioevali di guardia. L'edera le ricopre; nelle loro fessure crescono olivi selvatici e arbusti fioriti. Il loro aspetto, cupo e severo, riporta ai primitivi tempi italici, coi quali comincia la storia del Micali. "Nei primi tempi regnò in Italia Giano, quindi Saturno, il quale fuggendo dalla presenza di suo padre Giove dalla Grecia, si ricoverò nella città di Saturnia. E siccome rimase in Italia nascosto(latuit), ne venne a quella regione il nome di Latium".

Gli arpinati sostengono che la loro città è stata fondata da Saturno (non vi è città latina che non lo voglia per fondatore) e che vi sia stato sepolto; a conferma di ciò mostrano ai viaggiatori presso la Porta

dell'Arco un antico sepolcro colossale battezzato per "Tomba di Saturno". In una iscrizione moderna della città alta si leggono le parole seguenti, che, a dire il vero, non peccano di soverchia modestia: "Arpinum a Saturno conditum, Volscorum civitatem, Romanorum Municipium, Marci Tullii Ciceronis eloquentiae Principis et Caji Marii septies consulis patriam ingredere viator; hinc ad imperium triumphalis aquila egressa urbi totum orbem subjecit; ejus dignitatem agnoscas et sospes esto".

Del resto, si può perdonare questo sentimento di orgoglio municipale ad una vecchissima città che ospitò Saturno e fu patria di Mario e di Cicerone. Lo stemma attuale di Arpino consiste in due torri sormontate dall'aquila di Giove o delle legioni romane.

Si può concedere al canuto Saturno di riposare in quella tomba colossale, ma la ingenuità degli arpinati passa ogni limite quando mostrano al forestiero la casa di Cicerone. Mi condussero, infatti, in un angolo della città antica, dove erano una cappella ed alcune casipole ed indicandomi una specie di stalla tutta nera, addossata ad una di quelle, mi dissero: - Ecco la casa del famoso Cicerone! -

Sostai per riposarmi sulle mura ciclopiche, godendo la vista splendida della campagna latina che da quell'altura tutta scoprivo. Il monte di Sora mi apparve di là quasi una piramide d'Egitto accanto al Nilo; la città era immersa nell'ombra proiettata dal monte e si poteva seguire il corso del Liri, fra i monti maestosi che lo fiancheggiano. Si scorgevano pure la Posta, dove nasce il Fibreno, i Sette Fratelli dedicati ai figli della Felicità, dove il monaco Alberico ebbe la famosa visione che precedette quella di Dante, dando probabilmente origine al poema di questi. Parecchie città e castella si staccavano biancheggianti sull'azzurro dei monti; si scorgevano Veroli, Monte S. Giovanni, Frosinone, Ferentino ed a fianco un monte piramidale, di forma strana, su cui sorge Rocca d'Arce; ed un altro su cui campeggia nel cielo la torre solitaria e scura di Monte Negro. Tutti questi paesi rimontano ai tempi di Saturno e stando su queste mura ciclopiche ricoperte di edera su cui sono passate migliaia di anni, si gode un maraviglioso spettacolo.

Su queste mura stesse si arrampicava un giorno il giovane plebeo Caio Mario, all'epoca in cui tutti i popoli, dalle Calabrie al Liri ed al mare Adriatico, erano insorti per la conquista dei propri diritti civili, e di là il giovanetto tendeva lo sguardo verso il Lazio, verso quella gran Roma, cui erano rivolti nelle provincie i pensieri di tutti quelli che anelavano

all'operosità, alla fortuna. E questo ciclopico Arpino deve considerarsi quale culla adatta al sanguinario Mario, vera culla di gigante, la cui terribile e rozza natura porge un non so che di titanico, posta a contatto a quella aristocratica di Silla che con arti volpine gli attraversa continuamente la strada ed arresta costantemente il corso della sua fortuna.

L'atmosfera di Arpino è impregnata di memorie di Mario e di Cicerone. Qui ci si trova in una delle sorgenti della storia; qui si visitano, con la stessa soddisfazione che reca nell'ordine fisico la loro ricerca, le fonti modeste, da cui ebbero origine i grandi fiumi che diffondono nel loro corso la fertilità e la vita. La scienza di Cicerone si può veramente paragonare al fiume più maestoso della letteratura antica, accresciuto durante i secoli del medio evo ed a cui ancora oggi si ricorre con frutto; merito questo però che non diminuisce affatto la sua vanitá, nè la sua debolezza di carattere. Mario, invece, fu uomo di grande energia ed il suo nome segna un'epoca nella storia di Roma e dell'impero, quando si pensi alla grande spinta da lui data a Roma ed al mondo. Senza di lui non sarebbe sorto l'impero; ed Augusto, Tiberio, Caligola, tutta quella serie di despoti, possono dirsi aver avuto origine da Mario ed essere stata Arpino la caverna del drago, da cui uscì l'impero romano.

La figura africana di Giugurta, la sua fine terribile nelle prigioni del Campidoglio, i Cimbri ed i Teutoni, che profetizzarono in certo modo la caduta di Roma per opera delle razze germaniche, la terribile guerra civile, la figura asiatica di Mitridate, Mario nascosto nelle paludi di Minturno, Mario profugo, seduto sulle rovine di Cartagine, Mario vecchio di settantadue anni che entra trionfante a Roma, l'uccisione dei fautori della proscrizione e, cosa strana, la morte tranquilla di un tal uomo; tutto ciò mi passava dinanzi come una lanterna magica e si accordava meravigliosamente col paesaggio. Poi ripensavo a Cicerone giovanetto, quando l'altro era canuto; alla caduta della repubblica preparata dalla guerra civile tra Mario e Silla, alla quale aveva assistito e attorno a Cicerone sorgevano le immagini degli oratori, degli uomini di stato più distinti della morente repubblica; le figure di Pompeo, di Cesare, di Antonio, di Ottaviano, di Bruto, di Cassio, di Catone, di Attico, di Agrippa e, finalmente, il ricordo della testa sanguinolenta di Cicerone stesso, esposta su quella tribuna, teatro un dì della sua splendida eloquenza.

La fantasia del mio lettore potrà completare questi ricordi storici, conseguenza naturale del luogo dove io mi trovavo; chiunque avrebbe

pensato le stesse cose, trovandosi solo, dove sorgeva la rocca di Arpino.

Nello stesso modo che esistono punti elevati dai quali si scopre tutta la vista di una campagna, vi sono punti dai quali appare tutto il panorama della storia.

Arpino è uno di questi punti e nel discendere da quell'altura mi tornava in mente il passo di Valerio Massimo, in cui è riassunta concisamente, ma esattamente, la natura e la vita di Mario.

"Da questo Mario, da questo Arpinate d'infima condizione, da quest'uomo tenuto in Roma come ignobile, da questo candidato poco meno che dileggiato, sorse quel Mario che soggiogò l'Africa, che trascinò il re Giugurta avvinto al suo carro, che debellò le orde dei Teutoni e dei Cimbri che entrò ben due volte sul carro del trionfo in Roma che fu sette volte console e che da proscritto diventò promotore di proscrizioni. Vi fu mai altra vita che, al pari della sua, abbondasse di tanti contrasti? Di lui si può dire che fu tra gli infelici infelicissimo, tra i fortunati fortunatissimo".

Il rozzo Mario e l'astuto Silla con la sua fisonomia pallida, col suo aspetto effemminato, svogliato, sprezzatore di tutto, e dominatore nel tempo stesso di ognuno e di tutto, accompagnati dalla fortuna, sono due delle figure storiche più caratteristiche dell'antica Roma.

Intanto, sulla piazza di Arpino, la cosa cui meno si pensasse quel giorno, 4 ottobre, era certo la storia romana; poichè ricorrevano l'onomastico del re Francesco II ed il genetliaco della regina sua consorte ed i ritratti della giovine coppia reale stavano esposti in una specie di loggia del palazzo municipale e così si ammirava l'immagine di una graziosa principessa bavara, di una figlia di quei Teutoni e di quei Cimbri vinti un giorno dal terribile Mario. Sulla stessa piazza sorge un grande edificio, nella cui facciata stanno entro apposite nicchie i busti di Mario, di Cicerone e di Agrippa, poichè anche quest'ultimo, secondo i buoni Arpinati, nacque nella loro città. Sotto i busti si legge questa iscrizione: Arpinum a Saturno conditum Romanorum Municipium, M. Tullii Ciceronis, C. Marii, M. Vipsanii, Agrippae Alma Patria. Quest'edificio si chiama Collegio Tulliano e lo occupano i gesuiti. Le finestre erano tutte aperte e si vedevano i padri con la loro sottana nera prendere parte anche essi alla festa. Sulla piazza sonava una banda vestita in modo arlecchinesco e si gridava Viva il Re! La banda si mosse ed andò solennemente incontro al giudice che prese posto dietro non già rivestito di toga color

porpora, ma in marsina nera e coi guanti; al suo fianco stavano il sindaco e il primo eletto pure in abito nero. Si gridò di nuovo Evviva il Re! ed il corteo si recò alla cattedrale. Alla sera vi fu concerto, o per parlare più esattamente, vi fu un chiasso diabolico sulla piazza, a cui si dava il nome di concerto; si accesero anche fuochi artificiali, o per dir meglio razzi e si spararono mortaretti, come nelle feste ecclesiastiche.

Non voglio dimenticare che Arpino vanta anche una celebrità moderna, un pittore, Giuseppe Cesari, conosciuto sotto il nome di Cavalier d'Arpino. Come Cicerone e Mario, questi si recò a Roma a cercarvi fortuna e vi dipinse, fra le altre cose, la grande sala nel palazzo dei Conservatori, dove fece gli affreschi che rappresentano fatti della storia romana; le sue pitture murali, pregevoli particolarmente per il colorito, sono ritenute fra le migliori della fine del secolo xvi. La cattedrale di Arpino possiede una sua bella Madonna.

Partii da Arpino su uno char à banc per recarmi a Montecassino. La strada scende per una collina tutta coltivata ad olivi. Si gode la vista del vicino territorio romano, e si passa sotto l'alto Monte S. Giovanni accanto al Liri la cui acqua verde si scorge qua e là fra i pioppi.

La regione, montuosa a sinistra, è quasi deserta; di quando in quando appare un'antica torre medioevale, come quella di Monte Negro, od un dirupato castello come quello di Santo Padre. Si arriva sopra un'altura che divide le acque del Liri da quelle del Melfa e si passa in vicinanza di Fontana e di Arce, senza però toccarle. Quest'ultimo borgo ha veramente l'aspetto di una fortezza inespugnabile e tale infatti fu ritenuta durante il medio evo; però fin lassù riuscirono ad arrampicarsi e ad impadronirsene i Provenzali di Carlo d'Angiò così agilmente come gli zuavi dei nostri tempi. La caduta di Arce sgomentò tutte le città ghibelline del regno e fu preludio alla sconfitta di Manfredi.

L'antica rocca dei Volsci sorge su una rupe alta, scoscesa, dove ancora ne rimangono le vestigia, attorniate da mura ciclopiche, mentre la città moderna si stende sul pendìo del monte. La disposizione di tutti questi paesi è identica; in alto la rocca, al disotto la città. Nella rocca si rifugiavano nel medio evo gli abitanti della città e delle campagne, quando erano minacciati dalle scorrerie degli Ungheri e dei Saraceni dell'Africa. Non è possibile percorrere le sponde del Liri, soprattutto la ridente pianura di Aquino, senza ricordare il terrore che vi portarono una volta i Saraceni. Per ben trent'anni essi funestarono le contrade fra il Garigliano o Liri e Minturno, facendo scorrere per la Campania, la Tuscia

e la Sabina, saccheggiando e distruggendo i monasteri di Montecassino, di S. Vincenzo al Volturno, di Subiaco e di Farfa, riducendo in cenere gli archivi e le biblioteche, perdita questa irreparabile. Solo nell'agosto del 910 poterono esser cacciati, da una lega italo-bizantina, per opera dell'energico papa Giovanni X, e un papa si ornò della gloria di essere stato il salvatore d'Italia.

Al disotto di Arce vi è una dogana, denominata le Muratte; ivi mi fu chiesto il passaporto, ma fortunatamente non mi fu visitato il bagaglio. Avevo però preso la precauzione, con l'aiuto del mio auriga, un giovane arpinate molto svelto, di nascondere accuratamente nella carrozza un libro, ed il manoscritto del mio giornale di viaggio che cavammo in trionfo fuori dal loro ripostiglio non appena la dogana fu oltrepassata. Da ogni parte si vedevano truppe che non disdicevano su questo antico teatro di guerra; nel vederle il mio pensiero correva sempre più a ricordare gli eventi storici di queste stupende contrade, poichè qui appunto ha principio il territorio storico dell'Italia meridionale. All'inizio del medio evo era ripartito in tre gruppi, gli stati longobardi di Benevento, Salerno e Capua; il dominio bizantino delle Calabrie e le repubbliche marittime, di Napoli, Amalfi, Gaeta e Sorrento. Tutte queste regioni passarono in seguito in possesso dei Normanni. Mentre tutti questi diversi elementi, longobardi, greci, imperatori germanici, papi, repubbliche, saraceni, erano fra di loro in continua lotta, la storia dell'Italia meridionale diventa veramente un caos. L'inferno di Dante non può dare che una debole idea di tutti gl'intrighi, le passioni, i delitti che si muovevano in questi stati, in queste corti. Purtroppo la storia di quei tempi manca ancora, essa è un labirinto. Montecassino ne possiede sempre molti elementi nelle sue collezioni di diplomi, particolarmente riguardanti Gaeta. La rinomata opera di Giannone, pregevolissima per ciò che riguarda l'ordinamento civile, e quello della giustizia, non sempre è esatta nel rimanente e non corrisponde più all'attuale progresso della scienza.

Arrivammo al ponte sul Melfa che ha conservato l'antico suo nome e che è ancora, in ottobre, quasi asciutto nel suo ampio letto bianco e sassoso. Si pretende che esso abbia segnato una volta la linea di confine fra gli stati della Chiesa o ducato di Roma e il ducato longobardo di Benevento; ma la cosa è tutt'altro che certa; sembra anzi assai più probabile che allora, come oggi, il Liri dividesse i due stati. Stavano accampati vicino al fiume, attorno ad un mucchio di fieno, dei soldati di

cavalleria.

Poco dopo passato il ponte, comincia l'estremo Lazio, la bella campagna di Aquino e di Pontecorvo, irradiata dal sole, ed attraversata dalla magnifica strada che porta a Capua. Alla sua sinistra si leva la catena degli Appennini, di cui si scorgono la vetta del Cimarone ed i borghi di Castello, di Rocca Secca, di Palazzuola, di Piedimonte; più in là sorge il monte Cairo, mèta della nostra gita. Già si scorgevano gli edifici grandiosi e le cupole di Montecassino, l'Atene del medio evo, faro della scienza nella cupa notte di quei tempi. Colà Paolo diacono scrisse la sua storia dei longobardi.

A destra della pianura apparivano le cime azzurre dei monti Volsci, di natura identica a quelli di Segni e di Gavignano, e poi S. Giovanni Incarico, Pontecorvo, il piccolo territorio pontificio già possesso di Bernadotte e più lontano Oliva, Rocca Guglielma ed altri villaggi. Il Liri qui corre ai piedi dei monti, attraversa campi deliziosi che sembra non voler lasciare mai, perchè allunga la sua strada con mille sinuosità; ad ogni passo accoglie il tributo di un ruscello o di un torrente e le sue acque risplendenti ai raggi del sole, sono veramente meravigliose. Con qual diletto non dovettero soggiornarvi i Saraceni! Certo essi non trovarono mai sponde più amene nè sul Guadalquivir, nè sul Sebeto, nè sul fiume Ciane. Molti popoli dopo l'epoca romana funestarono questo paradiso: i Visigoti con Alarico ed Atalulfo, i Goti valorosi di Totila e di Teia, gli Isauri, gli Unni, i Sarmati, i Greci; le orde terribili di Leutari e di Bucellino, i docili Longobardi che finirono coll'occupare tutte queste terre, col coltivarle e farle rifiorire, gli Arabi, gli Ungari, i Normanni, i Francesi, gli Spagnoli, i Tedeschi; tutti si accamparono qui e vi combatterono; tutti apparvero in questa Campania felice, chiave del regno di Napoli.

Più lontano noi scorgiamo anche i monti di fronte a S. Germano, su cui sorgono Rocca d'Evandro(propriamente Bantra), S. Elia, S. Pietro in Fine, sui quali emerge l'alto Aquilone. La maggior parte di questa bella pianura apparteneva alla diocesi di Montecassino e parecchi di questi paesi, di queste città, debbono al monastero la loro esistenza.

Questa parte estrema del Lazio non ha la severa grandiosità della campagna romana; le sue tinte sono più calde, più dolci, più meridionali, infine, la sua coltivazione è assai più rigogliosa, nè vi sono tante colline.

Essendo giorno di fiera a S. Germano, incontrammo per strada molti contadini, vestiti come nella valle del Sacco e ciociari coi sandali. Le

donne però, anzichè il busto portavano un morbido panno con nastri sulle spalle e due vesti di cui quella superiore fatta a grembiale: questo modo di vestire fa una graziosa figura.

Qui, invito il lettore ad abbandonare la strada di Capua ed a piegare a destra, verso Aquino che giace in mezzo alla pianura. E' piacevole attraversare la linea recentemente ultimata fino a questo punto della strada ferrata di Capua che non può venire ancora esercitata poichè, se il governo napoletano si affrettò a compierla sul suo territorio, quello pontificio è ancora arretrato sul suo, avendo appena oltrepassato Albano.

In un quarto d'ora, attraverso a campi coltivati a granturco, si giunge ad Aquino. Questa città, importante ai tempi dei Romani, è ora un borgo lungo e stretto, su cui emerge solo un campanile. La sua posizione, su di un ruscello, non ha nulla di speciale, senonchè bellissimi per ricchezza e per frescura di vegetazione sono i suoi dintorni e stupendo è il panorama che vi si gode. Esistono ancora presso il paese alcune rovine della città romana, avanzi di porte, di mura, reliquie dei templi di Cerere e di Diana; in complesso però nulla di notevole. Presso il ruscello sono le rovine di una chiesa del secolo xi, S. Maria Libera, basilica a tre navate, sulla cui porta si scorge ancora una Madonna in mosaico, opera bizantina ben conservata. Vicine le une alle altre sorgono così le rovine dell'Aquino romana e dell'Aquino medioevale; a queste due epoche appartengono le celebrità della città.

Aquino si può vantare di aver dato i natali a uno dei meno famosi imperatori romani, a Pescennio Nigro che vi nacque in umile condizione come Mario. Prode soldato, si distinse quale generale in Siria; dopo l'uccisione di Pertinace vestì la porpora, ma la dovette cedere presto all'africano Settimio Severo che lo sbalzò dal trono e lo fece prima imprigionare, poi decapitare. Maggior gloria procurarono ad Aquino due altri suoi figli. Sono due tipi che rappresentano due epoche e che si possono l'uno all'altro contrapporre, come le rovine di un tempio romano a quelle della basilica di S. Maria Libera. Quale maggior contrasto, infatti, di quello che passa tra Giovenale e S. Tommaso d'Aquino, fra il grande poeta satirico della corruzione pagana di Roma ed il più grande filosofo della sacra teologia scolastica, che ebbe il nome di Dottore Angelico? Si direbbe che questi due personaggi tanto diversi abbiano voluto sorgere entrambi in Aquino, nel modo stesso che la corruzione pagana di Roma richiedeva la rigenerazione cristiana.

Giovenale ci trasporta con le sue satire in quelle condizioni di Roma, preparate da Mario e consolidate dalla stirpe Giulia dopo la caduta della repubblica, in quella Roma, pantano sanguinoso, putrida palude morale, menzogna in tutto, dove ogni cosa era appestata, in quella Roma fisicamente e moralmente ammalata, tutta da comprare; dove patrizi e cittadini si affollavano famelici attorno ad un despota onnipotente, terribile come il fato; dove pensiero, parola, penna, erano avvinti in ceppi; dove unica libera era l'adulazione; dove non vi erano che idee servili, libidine di piacere ed una mostruosa prostituzione della natura; dove in quella folla lasciva e tormentata dalla voluttà e dalla paura, alcuni spiriti stoici, concentrati in sè stessi, davano sfogo alla loro nausea morale con la satira e con la storia, non appena lo consentiva un despota più temperato degli altri.

Giovenale nacque in Aquino; poco però si sa della sua vita, come di quella della maggior parte dei poeti dell'antichità, il che, del resto, non torna davvero a loro danno. Le loro persone assumono così quasi l'aspetto di un mito. Nessun erede, parente o amico indiscreto, pubblicò la loro corrispondenza; nessun giornalista descrisse con scrupolosa esattezza il loro aspetto esteriore nei più minuti particolari, non li accompagnò passo passo nella loro vita, partendo dalla culla; non tenne conto delle loro virtù, dei loro vizi, dei loro errori, dei loro debiti presso ebrei e cristiani e d'ogni altro loro imbarazzo. Due pagine bastano, alla vita oscura di Orazio, di Virgilio, di Ovidio; della morte di Eschilo e di Euripide, non rimane che una tradizione favolosa; l'arguto Terenzio scomparve tranquillo in qualche angolo dell'Ellade, presso la palude Stimfalica.

Di Giovenale, solo da un suo verso, si sa che nacque in Aquino. Venne esiliato in Egitto o in Scozia? Dove morì? Nessuno lo sa. La sua lunga vita, ora rattristata, ora allietata dai regni di Claudio, di Nerone, di Galba, di Ottone, di Vitellio, di Vespasiano, di Tito, di Domiziano, di Nerva, di Traiano e di Adriano, fu spettatrice dei più grandi avvenimenti; vide sul trono del mondo una serie di demoni feroci, ed una di genî buoni; vide tempi in realtà miserrimi, a torto detti felicissimi.

E' difficile quindi immaginarsi quale idea dovette farsi della vita, quali impressioni dovette provare un uomo di mente e di cuore che potè vedere l'aspetto truce di un Nerone, e la fisonomia serena di un Tito.

Se egli non avesse visto quella doppia serie di imperatori, se invece di essere nato sotto Claudio, fosse nato ai tempi di Tito, forse non

avremmo le sue satire; ma le impressioni di gioventù dettero la direzione al suo spirito; in fondo poi la società romana dei tempi di Tito era sempre quella stessa dei tempi di Nerone. Povero Giovenale condannato ad essere il poeta della sua età! La sua lingua, la sua narrazione già oscura, difficile, serrata come quella di Tacito, sotto il peso dell'atmosfera romana, sotto la stretta della sua amarezza, dovettero esercitarsi sopra argomenti ai quali non sarebbero stati adatti nè il marmo, nè l'argilla, ma il fango. Chi può leggere le sue satire sugli uomini e sulle donne di Roma senza provare un senso di ribrezzo? Chi può non compiangere un ingegno eletto come il suo, condannato a cercare le sue ispirazioni in quel pantano della società romana dei suoi tempi? Facit indignatio versum, qualemcunque potest.

Giovenale fu paragonato(e con qualche verità) a Tacito, il suo più grande e più nobile contemporaneo; ma lo storico di quell'epoca aveva almeno la coscienza di chiamare il dispotismo davanti ad un tribunale supremo, sempre pronto a pronunciare le sue sentenze. Ma che cosa può confortare il poeta satirico, il pittore della impudicizia nel ribrezzo che deve provare a descrivere la generale corruzione dei suoi tempi? Eppure, quanto non è superiore un Giovenale ai romanzieri ed ai drammaturghi dei tempi nostri, più lascivi, ma più deboli di Petronio, i quali descrivono il vizio coi colori più dolci e sentimentali e ci dipingono vili meretrici come tipi ideali?

Teniamoci fortunati noi tedeschi, almeno per ciò che non possediamo nella nostra letteratura un Giovenale, nè un Sue o un Dumas, ma possiamo porre ancora corone non contaminate sul capo di Schiller, il poeta generoso della libertà e dell'ideale umano.

Ambedue quei romani, Giovenale e Tacito, lamentarono la perduta libertà repubblicana; ambedue disperarono dell'avvenire che non appariva loro diverso da un abisso, e Giovenale ancora più di Tacito. E di fronte ad essi già sorgeva, da loro conosciuto, ma non compreso, anzi disprezzato quale setta giudaica, il cristianesimo, ideale tuttora velato di una umanità ringiovanita. E i Germani, di cui Tacito ammirava la schietta naturalezza e la semplicità eroica, dovevano poi abbattere in Roma il dispotismo e la menzogna.

Il cristianesimo... Siamo sulle rovine di Aquino e tra i ruderi di S. Maria Libera, appare un santo illustre, il Dottore Angelico. Veste l'abito dei domenicani, porta un fascio di libri sotto il braccio, è di statura alta, asciutto, ma cammina curvo, ha una testa potente e voluminosa, viso

abbronzato e rugoso, però molli carne, quae acumen ingenii et excellentiam indicaret.

Erano trascorsi mille e più anni da Tacito e da Giovenale allorchè Tommaso nacque nel 1224, non propriamente in Aquino, ma lassù nel pittoresco castello di Rocca Secca, edificato dall'abate Manso di Montecassino, sul monte Asprano, verso la fine del decimo secolo. Esso appartenne poi ai conti longobardi di Aquino, dell'antica famiglia di Landolfo. Il padre di Tommaso era il conte Landolfo, sua madre Teodora Caracciolo e suo zio Landolfo era abate di Montecassino. Quando il fanciullo ebbe cinque anni, i suoi genitori lo condussero nel monastero di S. Benedetto, con la speranza che un giorno ne diventasse abate. Fu sempre costume dei Benedettini quello di accogliere fra i monaci ragazzi di tenera età e quest'usanza vi è ancora. Don Luigi Tosti, oggi rinomato storico d'Italia, don Sebastiano Calefati, l'erudito bibliotecario, tutti e due uomini illustri, i cui nomi saranno sempre ricordati con piacere da molti studiosi tedeschi, entrarono nel monastero di Montecassino in età di otto anni. Tommaso rimase nel monastero sette anni, quindi si recò a Napoli, dove attese per altrettanti anni allo studio della teologia; vestì l'abito dei domenicani e andò a studiare a Parigi e poi a Colonia, per sentirvi il celebre Alberto Magno; fu professore a Napoli e morì il 7 marzo 1274 nel convento dei cistercensi di Fossanova, presso Piperno, a poche ore di distanza dalla sua patria. Fu uno degli uomini più illustri del medio evo, il primo che propriamente introdusse la filosofia nella teologia, o meglio che innalzò quest'ultima alla dignità di sistema filosofico. Quando oggi si ode il nome di scolastica, si pensa e non a torto, ad un labirinto di meschinità, di sottigliezze, di distinzioni, in cui stette per il corso di molti secoli imprigionato l'ingegno umano. Chi può oggi ancora immergersi nella Somma di Tommaso d'Aquino, arrischiarsi in quella cupa foresta di spiriti, nel cui fitto sta il Minotauro del pensiero aristotelico cristiano? Noi consideriamo attualmente quella grandiosa filosofia gotica come un'anticaglia; tutte le sue sottili distinzioni, tutte le sue ricerche morali e speculative, tutti i suoi problemi privi di ogni utilità per gli scopi della vita, non offrono più alcun interesse a una generazione che tende a scopi pratici e materiali, e che vuol essere più libera e semplice nel suo pensiero. Ma non dobbiamo però dimenticare che anche quei sistemi sono di base alla scienza del pensiero e bisogna confessare inoltre che l'uomo del secolo xix di fronte ai più alti problemi che si può proporre lo spirito, si trova appunto così perplesso, come uno scolastico del medio evo, o come il primo uomo del paradiso terrestre.

Partimmo da Aquino, contenti di aver veduto questo paese, tornammo sulla strada di Capua e in un'oretta arrivammo ai piedi del monte Cairo; girammo il monte, avendo innanzi agli occhi l'anfiteatro romano di S. Germano, città di gaio aspetto, sormontata dal celebre castello di Janula e finalmente là in alto Montecassino che ci aspetta. Ma è ormai tempo di finire, essendo già troppe queste pagine. Se ci volgiamo a considerare tutto quanto si mostra al viandante in un così breve tratto di strada, non possiamo a meno di meravigliarci per la ricchezza di queste contrade. Nessun'altra nel mondo è così penetrata e animata dallo spirito. La natura e la storia hanno versato la loro cornucopia sull'Italia ed ogni epoca storica vi ha lasciato la sua impronta.

L'Italia è la madre della civiltà in occidente e la Pandora della sua cultura sia nel senso buono che nel senso cattivo della parola. Se essa ora risorge e chiede il suo posto di nazione indipendente, fra tutti quei popoli che dopo aver da lei ricevuta la propria civiltà, la sfruttarono, la saccheggiarono, la signoreggiarono, lo fa in nome di un suo incontrastabile diritto. Sì, questa è una nobile terra, degna dell'amore del genere umano! Ed anche in mezzo al caos sconfinato dell'età presente, in questa nauseante mescolanza di errori e di verità, anche oggi noi Tedeschi non possiamo, nè mai lo potremo, far tacere la voce del nostro ardente voto per la liberazione di questa terra.

IL CASTELLO DEGLI ORSINI A BRACCIANO(1870)

Poco dopo la stazione postale della Storta si distacca a sinistra, dalla via Cassia, la via Claudia e per questa ci vogliono ancora tre buone ore di carrozza per arrivare al lago di Bracciano. Il paesaggio è deserto, ma pittoresco; collinette vulcaniche di tufo lo attraversano e qua e là, si scorgono fiorenti praterie e pascoli, con masserie e numerose mandre di bovini.

Il carattere della campagna etrusca di Roma è molto diverso da quello del Lazio. Nel Lazio tutto è più ridente e soleggiato, più ricco di forme ed anche più animato; i monti Volsci e gli Appennini spingono fin là le loro diramazioni ed hanno la bella struttura delle formazioni calcaree; città antichissime, per la maggior parte vescovili, sorgono sulle alture verdeggianti di castani e coperte di oliveti, o inghirlandate dalla vite e

danno alla campagna laziale un'impronta preponderantemente storica; essa è piena di monumenti dell'antichità e del medio evo. Nella regione etrusca invece predomina un terreno montuoso, vulcanico, diruto, con vaste solitudini, severe e melanconiche, d'aspetto quasi misterioso. Qui la vita storica non ha generalmente lasciato traccia di sè: tombe sotterranee e necropoli di un popolo enigmatico sono gli unici tesori e gli unici monumenti della Tuscia. La storia del paese sembra qui interrotta e dove non lo è, manca di significato potente e vivo. Il completo decadimento di una città come Veio e l'intero abbandono del suo territorio in ogni tempo, mi sono sembrati sempre segni caratteristici di questa storica estinzione dell'Etruria romana.

Solitarie torri baronali senza nome, o piccoli paesi privi di valore storico, si levano qua e là melanconicamente sulle colline tufacee. I ricordi in questi luoghi incolti e selvaggi non vanno al di là del medio evo, dell'undecimo secolo, epoca in cui si stabilirono qui, come signore, alcune famiglie feudali germaniche, di origine franca o longobarda, come i conti di Galera e i prefetti di città della casa di Vico. Anche il possente influsso della Chiesa ha qui impresso e lasciato poche orme, essendo il paese passato assai tardi nel patrimonio di S. Pietro.

Al di là del fiume Arrone, emissario del lago di Bracciano, sorgono due grandi fattorie: S. Maria di Celsano e Casale di Galera, qui è necessario scendere di vettura se si vogliono visitare le vicine rovine del castello di Galera. Queste fanno singolare riscontro alla favolosa città di Ninfa, nel Lazio che giace sprofondata nella sua incantevole tomba di edera e di fiori, sul limitare della palude pontina. Anche Galera, sede un tempo d'insolenti e feroci signori che dettero frequenti noie alla città di Roma, è oggi distrutta e presenta le sue vie, la chiesa ed il castello comitale coperti d'edera, nel senso più preciso della parola. Eppure Galera non giace come Ninfa nella profondità paludosa, ma salda ed alta si erge su di una scoscesa rupe di tufo, dominante una gola boscosa da cui l'Arrone precipita in cascate spumeggianti.

Sulla porta rovinata si scorge ancora lo stemma degli Orsini, la rosa, cioè, con le travi. Dietro le potenti mura della città si sale a monte nel paese diroccato, aprendosi la via attraverso la fitta e selvaggia edera che barrica le strade minate. Ancora in piedi rimangono diverse case colle finestre gotiche; la maggior parte del materiale però è stato portato via, o forma adesso dei mucchi di macerie, cinti da cespugli. Galera non è, per quello che di architettura ne resta, bella come Ninfa; soltanto i

muri del castello e della chiesa principale rivelano un'epoca più antica; gli altri sono assai moderni, solo nell'anno 1809 essendo stato il paese abbandonato, o per mancanza d'acqua o, più verosimilmente, per impoverimento della popolazione. E' veramente sorprendente che nel nostro secolo, un paese possa sparire, non distrutto da subitaneo cataclisma, ma intisichito per decadenza interna. Non prova forse ciò ed in modo persuasivo, la mancanza di principio vitale di questa terra etrusca?

Galera(nella regione, dove, secondo gli antichi itinerari, era la stazione ad Careias) comincia ad esser menzionata nella storia solo nel 780, anno in cui papa Adriano I fondò sul fiume Arrone una colonia di questo nome, per coltivare il deserto paese dei Veienti. Questa colonia prosperò ma, per circostanze a noi ignote, si sottrasse al dominio della Chiesa; al principio dell'undecimo secolo vi apparvero come signori i conti di Galera, fieri nemici del papato ed ardenti partigiani dell'impero tedesco.

Gerardo, figlio di Ranieri(questi nomi indicano già l'origine germanica) era conte colà ed era anzi uno dei principali capi della nobiltà imperiale di Roma e del territorio, strettamente legato coi conti di Tuscolo, della stirpe d'Alberico e coi Crescenzi di Monticelli, nella Sabina. Questi signori nell'anno 1058 innalzarono in Roma, con la forza, un papa, Benedetto X: ma Ildebrando, il futuro Gregorio VII, fin d'allora capo del partito papesco e nazionale romano, chiamò a Roma, al servizio dell'appena eletto papa Nicolò II, una schiera di predoni normanni dalle Puglie, contro i conti avversari. Galera, dove Benedetto X si era rifugiato ed altre castella furono assalite.

La potenza dei conti di Galera che dominavano il paese etrusco fino al di là del lago, verso Sutri, fu repentinamente abbattuta, ma ciò nonostante la loro stirpe si mantenne ancora a lungo a Galera. Sparì molto probabilmente solo alla metà del secolo xiii, quando Matteo Rosso della casa Orsini, famoso senatore della repubblica romana, divenne signore di Galera. D'allora in poi gli Orsini rimasero padroni di questo castello finchè, nel 1670, lo vendettero al papa.

Il più fiero nemico di questa regione ed in pari tempo il più forte ostacolo alla coltivazione è oggi la malaria. Un umido venticello insidioso spira sulle pianure incolte e sulle colline vulcaniche disalberate, coperte solo di fiori d'asfodelo.

Sorgono forse i demoni sterminatori della febbre dal lago stesso?... Chi lo crederebbe, quando dalle alture, presso Bracciano, si scorge questo

specchio azzurro e porporino?...

Questo è veramente lo specchio delizioso della ridente e soleggiata felicità, della magica solitudine, è un idillio campestre e lacustre di un genere tutto speciale, grande e maestoso, ma non così vasto da cessar d'essere un quadro completo e bene incorniciato.

Lo splendido lago, in antico lacus Sabatinus ed originariamente cratere vulcanico, si allarga tra dolci catene di colline e leggiadre sponde. Ha un'estensione di 21 a 22 miglia; la sua superficie è dunque perfettamente eguale a quella di Roma, con cui si trova in diretta comunicazione per mezzo del rinnovato acquedotto dell'acqua Paola, edificato da Traiano: l'acqua che per la porta S. Pancrazio entra in Trastevere e sgorga, con un magnifico fiotto simile ad un fiume, dalla fontana di Paolo V, proviene in parte appunto da questo lago, dopo aver girato attorno alle mura aureliane.

A nord lo abbraccia una piccola montagna boscosa, da cui emerge, come un nero picco vulcanico, alto al massimo 2000 piedi, il monte di Rocca Romana. Questa vetta è visibile da tutta la campagna etrusca, come il Monte Cavo, sopra il lago di Albano, è visibile da tutta la pianura laziale. Sotto di esso, sulla riva del lago, sta il villaggio di Trevignano; a sinistra s'innalza la catena dei colli di Bracciano, distanti circa un miglio dal lago sul quale si leva, dominando l'intero paesaggio, il grandioso maniero degli Orsini, splendido edificio pentagonale, con cinque rotonde torri merlate. La sua tinta grigio nerastra appare in armonia con la circostante natura vulcanica, di cui questo castello sembra essere il prodotto storico. A destra infine sporge nel lago un'altra lingua di terra, con un cupo borgo turrito: è Anguillara, sede un tempo dei conti di questo nome, ramo laterale degli Orsini. Colà sgorga l'Arrone dal lago di cui è emissario.

Solo in questi tre luoghi è raccolta tutta la vita storica del lago e de' suoi dintorni: ad egual distanza gli uni dagli altri, formano i tre lati di un triangolo e soli interrompono l'incantevole silenzio di queste sponde, rappresentando l'umana civiltà, senza però disturbare la magia della sua solitudine. Che significano infatti Bracciano, Trevignano, Anguillara?... Chi ha mai udito questi nomi, tranne coloro che hanno familiarità con la storia particolare di Roma?

Se quel castello degli Orsini, cronaca granitica di terribili tempi feudali, non levasse le sue nere torri sul lago azzurro, questi tre paesi, sulle sue sponde, si potrebbero prendere per borghi di pescatori. E così silente è

appunto il lago: non vi si scorge una barchetta; soltanto mandre di giovenchi appaiono sulle rive, o frotte di cavalli selvaggi, col corpo nell'acqua e butteri a cavallo, con la lancia, come nelle paludi pontine.

Ho trovato Bracciano più grazioso di quello che mi attendessi da un paese vassallo; è una cittadina di circa 2000 abitanti, con strade larghe e buone abitazioni, modernamente costruite, molto simile a Marino, dove è il castello dei Colonna, appartenuto un tempo esso pure agli Orsini. Bene abitabile veramente non è che la parte nuova del paese, perchè la vecchia, quella del periodo baronale, giace stretta intorno al castello, come un nero ammasso di case di tufo. Il castello però s'innalza così gigantesco che sembra coprire tutta Bracciano con la sua ombra.

Come regale deve essere stata la potenza della famiglia che in un luogo così remoto costruì questo splendido castello, fortezza inespugnabile e palazzo signorile ad un tempo! Dopo che il castello degli Orsini a Campagnano è caduto in rovina, questo è uno dei monumenti più mirabili del rinascimento romano, è uno de' più bei castelli baronali ed in tutto il Lazio non ve n'è uno che lo eguagli. Il castello di Spoleto, cominciato a costruire dal cardinale Albornoz e condotto a termine da Nicolò V, è più maestoso, è verissimo, ma non è un edificio baronale, come non lo sono del pari i bei castelli di Ostia, di Narni, di Civita Castellana e di Subiaco.

La vista del superbo maniero richiama anzitutto, alla memoria del visitatore, la storia della stirpe degli Orsini che insieme con quella de' suoi nemici ereditari, i Colonna, ha riempito per quasi cinquecento anni gli annali di Roma con le gesta ed i nomi dei suoi innumerevoli membri, tra i quali furono papi, cardinali e capitani di grande rinomanza. Le due case, guelfa l'una e ghibellina l'altra, di Roma, hanno durato più a lungo delle dinastie dei re e degli imperatori e durano anche oggi nei loro avanzi, nei castelli che hanno un tempo posseduto.

Il capostipite degli Orsini, dal romano nome di Orso, si perde nel buio della leggenda: non si sa neppur bene se fosse germanico. I suoi discendenti si chiamarono Filii Ursi: così suona sempre nelle più antiche cronache il cognome degli Orsini. Storicamente appaiono solo nel xii secolo. Celestino III(1191-1198) apparteneva alla loro casa. Nel xiii secolo, durante le lotte degli Hohenstaufen, acquistarono maggior potenza, per opera specialmente del senatore Matteo Rubeus, capo imperante della repubblica capitolina ed instancabile avversario dell'imperatore Federigo II e poi per opera di papa Nicolò III(1277-1280),

figlio di detto senatore. Gli Orsini, fecondi quanto i Colonna, si suddivisero in seguito in più rami e dai loro diversi possedimenti si chiamarono Orsini di Monte Giordano e di Campo di Fiore in Roma, conti e signori di Nola nella Campania, di Tagliacozzo negli Abruzzi; di Gravina e Manoppello, di Monte Rotondo, di Vicovaro, di S. Angelo, di Pitigliano, d'Anguillara, di Bracciano. L'elenco dei loro castelli e possedimenti è conservato nell'archivio di famiglia a Roma e forma un intero volume. Erano egualmente potenti nel regno di Napoli come nel dominio romano. Mentre i Colonna, proprietari essi pure nel napoletano di grandi feudi ed in lotta violenta con i loro nemici ereditari per i marchesati di Tagliacozzo, Alba e Celano, possedevano nel Lazio il nocciolo della loro signoria, gli Orsini dominavano il territorio sabino sull'Anio, da Vicovaro fino a Nerola e Monte Rotondo, ed il paese etrusco da Sutri in giù, fino di là dal lago, verso Galera, ed alla sponda marina del vecchio Cere. In questo paese etrusco eransi già stabiliti fin dal secolo xiii, appropriandosi Galera.

Non si sa quando vennero a Bracciano. Questo villaggio fu fondato in tempo ignoto, si crede su un fondo della gens Braccia. Il Nibby che per primo ci ha fatto conoscere la storia dell'agro romano nel medio evo, ha trovato la prima menzione del Castrum Brassani in un documento claustrale del 1320: io mi trovo in grado di completare la cosa, perchè ho trovato un altro documento, anteriore di quasi cento anni, nell'archivio Orsini: è uno strumento legale del 10 marzo 1234, nel quale Goffredo Amatore e Landolfo, figlio del prefetto Gotifredo, appaiono come signori di questo castello: Domini de Brachiano et de sancta Pupa. Secondo questo, Bracciano apparteneva in quei tempi alla famiglia dei Prefettani o dei prefetti della casa di Vico, potente nell'Etruria, che aveva ridotto ereditaria fin dal xii secolo, la prefettura della città di Roma. Questa famiglia, tedesca di origine, violenta, ghibellina e nemica del papa, si impadronì anche di Viterbo e di Orvieto e tramontò solo nel 1435, allorchè il terribile Giovanni Vitelleschi fece decapitare nel castello di Soriano l'ultimo prefetto, Jacopo di Vico.

La Chiesa confiscò i beni prefettizi; alcuni però furono comprati da Everso, il brigantesco conte d'Anguillara, la cui stirpe orsina aveva da lungo tempo preso piede sul lago di Bracciano. Anche la prefettura di città passò nel 1435 agli Orsini, cioè a Francesco, primo conte di Gravina, un antenato di quel ramo che solo di tutto il casato, sussiste ancora in Roma.

Gli Orsini possedevano Bracciano già nel xiv secolo, essendo Martino V Colonna stato costretto a confermare il vicariato di quel castello ai fratelli Francesco, Carlo ed Orsino Orsini nell'anno 1419.

Dipoi sul lago signoreggiarono il ramo più antico di Anguillara ed il ramo di Bracciano che possedeva molti altri castelli etruschi.

La casa di Bracciano brillò nel xv secolo grazie a due celebri capitani di guerra, Napoleone e suo figlio Virginio. Napoleone(questo nome di battesimo è stato in uso presso gli Orsini sin dai tempi antichi) edificò il castello di Bracciano, quello che tuttora rimane e dopo esser divenuto il più potente dei feudatari del suo tempo, morì a Vicovaro nel 1480. Virginio ereditò i suoi beni e la sua gloria. Ai primi egli aggiunse Anguillara e Cervetri, comprati dopo la caduta della casa di Everso. Fu gran connestabile del regno di Napoli, dove si legò strettamente alla dinastia d'Aragona, egli stesso si chiamò de Aragona, al servizio del re Alfonso II e quindi di Ferdinando II. Fu incaricato di arrestare la marcia di Carlo VIII di Francia, attraverso l'Etruria, ma i figli di Virginio, Giovanni Giordano e Carlo, per ordine del padre, secondo i patti convenuti, consegnarono al monarca che si dirigeva alla conquista di Napoli, i loro castelli e questa inevitabile defezione degli Orsini dischiuse al conquistatore la via di Roma.

Carlo VIII entrò in Bracciano, prese dimora nel castello di Virginio, dove rimase dal 19 al 31 dicembre del 1494 e mosse quindi col suo esercito alla volta di Roma. A Galera lo accolsero sottomessi gli ambasciatori della città e quelli di Alessandro VI.

Nella bufera di questa guerra che doveva decidere delle sorti d'Italia, fu travolto anche Virginio sempre al servizio d'Aragona. Carlo VIII lo fece arrestare in Napoli e lo trasse poi con sè al suo ritorno. L'Orsini fuggì nella famosa battaglia del Taro, per cambiare di nuovo bandiera poco dopo e passare al servizio di Montpensier, il luogotenente di Carlo VIII a Napoli. Ma quando, dopo la rotta dell'esercito francese, gli aragonesi risalirono al trono, egli fu preso, nonostante la sua capitolazione, nell'agosto del 1496 e rinchiuso in un carcere. Così volle papa Alessandro VI che in seguito alla restaurazione napoletana, si era prefisso di sradicare dal suo territorio tutti i baroni romani.

La sua guerra contro gli Orsini ebbe però un esito inatteso e segnò uno splendido trionfo per questa casa minacciata da tanta rovina. Mentre Virginio languiva in un carcere a Napoli, dove poco dopo morì di veleno, difendevano eroicamente il suo castello di Bracciano il giovane Alviano e

sua moglie Bartolomea, sorella di Virginio. Gli assalti degli assedianti, guidati dal duca Guidobaldo di Urbino e dal figlio del papa, Giovanni di Gandia, furon respinti. Altri Orsini recarono soccorso e l'esercito papale soffrì nel gennaio 1497 una sanguinosa sconfitta presso Soriano. Il papa dovette concludere la pace e gli Orsini rimasero signori di Bracciano e di tutti gli altri possedimenti patrimoniali.

Ancora una volta essi furono molestati da Cesare Borgia; ma neanche a lui riuscì di espugnare la forte rocca di Bracciano e finalmente la morte di Alessandro liberò gli Orsini dagli imbarazzi.

Essi durarono quivi ancora per due secoli, mentre il secondo ramo di Anguillara si spense fin dall'anno 1548. Pio IV inalzò Bracciano a ducato nel 1560, a favore del pronipote di Virginio, Paolo Giordano Orsini, uomo, come il suo contemporaneo Sampiero, dalle passioni violente: in lui apparve per l'ultima volta la natura impetuosa della sua stirpe. Combattè gloriosamente a Lepanto. Era sua moglie Isabella, figlia di Cosimo I di Toscana che viveva quasi sempre da lui separata; sul conto di lui si narravano cose incredibili. Un giorno Paolo Giordano la strangolò con le sue mani nel suo castello di Cerreto in Valdarno nel 1576. In Roma s'innamorò poscia follemente della bella Vittoria Accoramboni, moglie di Peretti, un nipote di Sisto V, in quel tempo ancora cardinale; una notte nel giugno del 1583 fece assassinare nel Quirinale il Peretti e tre giorni dopo il fatto Vittoria fuggì, con sua madre, nel palazzo Orsini, presso l'assassino di suo marito. Gregorio XIII proibì le loro nozze e fece rinchiudere la donna in Castel S. Angelo, dove rimase sino alla morte del papa, avvenuta nell'aprile del 1585. Il giorno dell'elezione di Sisto V, Paolo Giordano sposò Vittoria. Il papa bandì l'uccisore di suo nipote e l'Orsini morì poco dopo in esilio. I suoi congiunti odiavano Vittoria, anche perchè ella pretendeva una parte dell'eredità. In Padova, dove era stata costretta a rifugiarsi, un giorno nel dicembre del 1583, fu pugnalata nella sua stessa camera, da uomini mascherati, per mandato di Lodovico Orsini, signore di Monte Rotondo.

Virginio, figlio di Paolo Giordano e di Isabella, continuò il ramo di Bracciano e il duca Flavio lo chiuse nell'anno 1698, come ultimo di questa celebre casa.

Già da alcuni anni don Livio Odescalchi, nipote di Innocenzo XI aveva acquistato Bracciano. Dagli Odescalchi, ai primi di questo secolo, comprò il ducato il Rothschild di Roma, Torlonia, con la clausola però del riscatto. Questo è avvenuta pochi anni or sono: oggi dunque il principe

Odescalchi è nuovamente duca di Bracciano.

Entriamo nel castello. A quanto pare, un triplice muro, solidissimo, costruito con blocchi di basalto, circondava originariamente il maniero, insieme col fossato, ora riempito. Si può entrare nel castello da due robuste e grandi porte, una dalla parte del paese, l'altra dalla parte del lago.

Lo stile generale dell'edificio appartiene al rinascimento; le pareti, le finestre incorniciate di peperino ed i merli ricordano assai il palazzo di Venezia di Roma, la cui costruzione è della stessa epoca. Come in quello, il maggior cortile del castello degli Orsini era in origine cinto da un porticato a colonne che fu più tardi murato. Resta soltanto la gabbia di una scalea, poggiata su colonne di tufo che conduce al piano superiore: come la porta vicina della vecchia cappella, essa mostra il passaggio dal gotico al rinascimento.

Le cinque torri rotonde racchiudono in maniera imponente l'edificio e sembrano sorreggerlo e tenerlo insieme come poderose colonne. In alto, un ballatoio coronato di merli, le unisce fra loro. Al difuori, sopra le porte, come anche nel cortile, si vedono ancora gli stemmi in pietra della casa Orsini che risalgono al tempo della prima costruzione del castello.

Una donna attempata mi ha accompagnato in giro pel castello durante due ore, dopo avermi detto che era tedesca, che da trent'anni stava al servizio degli Odescalchi e che intendeva finire i suoi giorni, tranquilla e felice, nella solitudine di quel maniero.

Abbiamo attraversato alte sale a vôlta e file di stanze, piene di mobili roccocò e moderni e specialmente di armadi parigini, in legno scolpito. Questi ambienti sono tetri e poco adatti ad essere abitati; soltanto la veduta sul lago, dalle profonde finestre, è bella. In generale le esigenze della nostra vita moderna sono così differenti da quelle della vita feudale, come le ville Doria Pamphili o Albani, da questo castello Orsini. In esso poteva sentirsi a suo agio solo una famiglia baronale che trincerava dietro spesse muraglie di pietra i suoi privilegi e le sue barbare passioni, mentre lo sciame dei vassalli devoti e dei servi schiavi obbediva al cenno del padrone, garantito dalle loro sostanze e dalla loro vita. Soltanto ambiziosi pensieri di dominio, di potenza e di guerra potevano agitarsi entro queste mura; la voce della grazia e della musa risuonava qui assai raramente. Ben diverso era il principesco castello d'Urbino, il più bel monumento del rinascimento in Italia, della stessa epoca. Me ne sono ricordato a Bracciano. Colà il geniale Federigo di

Montefeltro, padre di quel Guidobaldo che assediò il castello di Bracciano, formò la sua celebre biblioteca, vi eresse molte statue e ne fece una delle più dotte accademie del suo tempo.

Nelle sale del castello pendono, come in quasi tutti i manieri baronali, molti ritratti di famiglia, quasi tutti però del xvii secolo. I ritratti della famiglia Orsini, se alcuno li possedesse e li riunisse insieme, formerebbero certo intere gallerie e nella lunga fila di ritratti femminili ogni celebre casa aristocratica d'Italia sarebbe rappresentata. La mia cicerona, disgraziatamente, non me ne seppe nominare alcuno. Forse avrei potuto trovare quello d'Isabella Orsini. Mi si mostrò invece la stanza di questa disgraziata principessa che, solo fugacemente, può darsi sia comparsa in questo castello.

Alcuni soffitti sono decorati con figure di stucco, ma pesanti e senza gusto; altri sono stati fatti dipingere dal Torlonia, il cui stemma è qui più volte riprodotto. L'arme di chi è venuto su dall'aristocrazia del danaro appare accanto a quella della vetusta casata degli Orsini, come ironia del tempo moderno sul passato feudalismo. Quanti antenati, quante lotte e fatiche, quale lunga storia di guerre, di paci, di convenzioni, di delitti e di virtù dovettero succedersi prima che un Orsini edificasse questo castello e che un altro ottenesse il titolo ducale di Bracciano! Tutto ciò non occorreva più al banchiere Torlonia: egli era diventato ricco durante la notte, ed un giorno potè metter fine a tutta quella noiosa storia con un paio di cambiali, ponendo il suo stemma: quattro stelle dorate con quattro grossi ciuffi di raggi d'oro, accanto alla rosa degli Orsini, e sorridendo passeggiare come duca sotto i cento polverosi ritratti del castello. Non è forse il mondo un venale mercato di mercerie e di ciarpame?...

La mia brava guida mi condusse sui merli del castello e sulla piattaforma di tutte le torri che sono ripianate sulla cima la quale è lastricata. Mi accompagnò quindi al luogo desolato, dove il conte o duca sedeva per render giustizia ai vassalli o ai prigionieri di guerra e poi nelle camere di tortura, nelle carceri chiuse da forti cancelli, ed in altri luoghi, dove veniva eseguita la giustizia, nel buon tempo antico delle torture e della pena capitale, quando ancora non si discuteva in Parlamento l'abolizione della pena di morte.

Dall'alto delle torri preferii ammirare l'incantevole specchio del lago da una parte e dall'altra la cima del Soratte; quindi lasciai il castello e vagai un poco sotto le alte querce del convento dei cappuccini e infine

attraversai il borgo di Bracciano che possiede un albergo, La Piva, dove si sta abbastanza bene. E' poco frequentato; solo nell'estate talvolta si anima per gli ospiti che si recano ai bagni vulcanici di Stigliano e Vicarello, situati vicino al lago, famosi per le loro virtù salutari fin dall'antichità.

Quei di Bracciano non hanno alcuna industria, tranne le vicine ferriere. In questo paese notai delle brocche di forma etrusca, che le donne e le fanciulle portano sulla testa alla fontana: questi recipienti di terracotta non vengono però fabbricati qui, ma a Vetralla, una delle castella dell'antico paese prefettizio. Mi ricordai che un tempo v'era in Bracciano una stamperia, da cui, per uno strano caso, nell'anno 1624 era uscita la prima edizione della Vita di Cola di Rienzo, una delle più pregevoli opere della storiografia romana del xiv secolo. Non mi fu possibile trovare alcuna traccia di questo stabilimento, impiantato, chi sa per quale ragione, a Bracciano.

Era mia intenzione proseguire il mattino appresso per Anguillara, lungo il lago; scesi perciò dall'altura del castello per un sentiero selvaggio, giù alla sponda. Anguillara mi attirava per la storia dei suoi conti, alcuni dei quali famosi senatori di Roma nel secolo xiv.

Là fu conte un tempo Orso, il mecenate del Petrarca, uomo colto ed amico delle muse che accolse il poeta ospitalmente nel Castello di Capranica e come senatore di Roma lo coronò poi in Campidoglio. Petrarca si recò senza dubbio da Capranica ad Anguillara ed i suoi occhi videro questo lago delizioso, sulla sponda del quale l'usignolo sembra che chiami a sè il poeta. Cento anni dopo, al tempo di Eugenio IV e di Pio II, era conte di Anguillara il terribile Everso, violento signore d'Etruria, temuto tutto all'intorno. Dopo la sua morte Paolo II conquistò gli undici castelli di lui e fece tradurre il figlio, Francesco, in Castel S. Angelo. Così finì questo ramo, ma Anguillara passò più tardi a Virginio Orsini ed a Carlo, suo bastardo. Ricordano ancora Everso i resti del suo palazzo in Trastevere: un'alta torre sulla cui cima, per Natale, si suole esporre il presepio, ed il suo stemma sulla parete esterna dell'ospedale lateranense, al quale questo delinquente aveva fatto un pio lascito.

L'arma dei conti d'Anguillara reca incrociati due serpenti o anguille: a me almeno quei segni sono sembrati anguille e dapprima credetti che anche il cognome derivasse dalle anguille del lago. Ma a Bracciano mi convinsi dell'errore, essendomi stato detto che il lago è ricco di lucci e di carpioni(regine), ma non d'anguille, ed avendo appreso, dalla posizione

stessa di Anguillara che il vero suo nome doveva essere Angularia, giacchè il castello sta su di un promontorio che fa un angolo nel lago.

Proseguendo lungo la sponda, nella direzione di Anguillara, dopo aver attraversato parecchi tratti paludosi, m'imbattei in una grossa mandra di giovenchi e di splendidi tori che minacciava di tagliarmi la strada. Chiamai un pastore in aiuto e questi mi accompagnò per un certo tratto, minacciando con la sua lancia i tori e gridando loro delle parole di comando. Costui, che era dei dintorni di Spoleto e faceva il pastore per vivere, mi condusse in un luogo dove aveva stabilito la sua solitaria dimora: era una specie di grotta sulla sponda, ombreggiata da un albero. Mi sedei ed ammirai estatico l'azzurro lago, dal quale qua e là guizzavano fuori pesci e le idilliche mandre di giovenchi e i cavalli che animavano da ogni parte la riva. Cercavano l'acqua per rinfrescarsi, ma talora si agitavano e correvano sulla sponda, perchè tormentati dalle maligne mosche della palude, i tafani di Io.

Rinunziai a malincuore alla mia gita ad Anguillara perchè, per quanto vicino sembrasse quel paese per la trasparenza dell'aria, altrettanto era invece lontano ed anche perchè sarebbe stato necessario aprirsi la via attraverso la palude e la macchia di Mondragone che sembra arrivare fino al lago. Tornai dunque a Bracciano, lungo la solitaria sponda dove, fra i cespugli, l'usignolo etrusco canta così dolcemente come il suo fratello latino del lago di Nemi. Nel pomeriggio, veramente soddisfatto e ristorato feci ritorno a Roma. Questa gita durò solo cinque ore.