Arturo Graf

"Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. II"

LA LEGGENDA DI UN PONTEFICE(Silvestro II)

I.

Sembra a molti che Dante, col parlare dei mali pontefici come in più luoghi notissimi della Commedia ne parla, con lo sprofondarne un buon numero nell'Inferno, col porre in bocca allo stesso principe degli apostoli quella terribile sfuriata del 27º canto del Paradiso, abbia dato una singolar prova di arditezza e libertà di giudizio, abbia fatto cosa mirabile e nuova, in pien contrasto con le usanze, le opinioni, lo spirito dell'età che fu sua.

È questo un errore.

Il medio evo, se ebbe(come Dante, del resto) viva e salda la fede, e sincera

La riverenza delle somme chiavi,

del papato quale istituzione divina, intesa a procacciare il trionfo della verità e la salute delle anime, ebbe pure, stimolato a ciò dalla stessa indole del suo sentimento religioso, pronta la mente e spedita la lingua a condannare e vituperare i troppo umani traviamenti di quella istituzione, e usò sempre parlando dei reggitori spirituali suoi, così maggiori come minori, non velati giudizii e libere ed acute parole. Di ciò fanno fede certe Bibbie satiriche, certi trattati del pianto e della corruzion della Chiesa, molte poesie di goliardi, molte narrazioni di storici e di novellatori, e alcune leggende meravigliose, le quali, per avere avuto divulgazione larghissima, ed essere state credute vere universalmente, hanno anche più significato e fannovie più valida testimonianza. Tale la leggenda che dice Giovanni XII accoppato dal diavolo; tale l'altra che manda all'Inferno e libera poi Benedetto IX; tale quella che narra della

magia e della mala fine di Silvestro II; anzi questa, essendo per molta parte ingiusta, come or ora si vedrà; non avendo, cioè, nella vita di quel pontefice ragion sufficiente e giustificazione opportuna, riesce più significativa e più notabile delle altre.

La cornice storica, se così posso esprimermi, dentro a cui essa s'inquadra, è, in breve, la seguente.

Gerberto, che poi fu papa col nome di Silvestro II, nacque di umile famiglia in Aurillac, o ivi presso, nell'Alvernia, non si sa precisamente in quale anno, ma verso il mezzo del secolo X. Rimasto orfano, fu accolto, fanciullo ancora, nel monastero di San Geroldo, ove fece i primi suoi studii, e d'onde, in compagnia di Borel, conte d'Urgel, passò in Ispagna a seguitarli, sotto la disciplina del vescovo Attone. In Ispagna dimorò alcuni anni, poi, essendo già versatissimo nella matematica, nell'astronomia, nella musica, se ne venne, insieme col vescovo e il conte, in Roma. In Roma il pontefice, ch'era allora Giovanni XIII, gli pose amore, e dopo alcun tempo lo mandò all'imperatore Ottone II, che a sua volta lo mandò a studiar logica con un arcidiacono di Reims. Nel 972 Gerberto insegna in quella stessa città con grande onore, e la fama del suo mirabil sapere cresce rapidamente; ma Ottone, credendo di fargli bene, lo toglie di là per preporlo all'abazia di Bobbio. Quivi Gerberto si attira molte inimicizie e cade in disgrazia così del papa, come dell'imperatore. Fa ritorno a Reims, si getta in mezzo alle contese politiche, coopera efficacemente alla deposizione di quell'arcivescovo Arnulfo, accusato d'aver tradito Ugo Capeto suo signore, e ne usurpa il luogo; ma nol tiene a lungo, e condannato da un concilio, si ritrae. Nel 999 lo troviamo arcivescovo di Ravenna, e in quell'anno medesimo, il 2 di aprile, è fatto papa. Governa la Chiesa quattr'anni, con fermezza e rettitudine, e muore il 12 di maggio del 1003.

Questi, in succinto, i fatti storicamente accertati, da cui prende argomento, e tra cui s'insinua e si dilata la leggenda che mi accingo ad esporre. Essi hanno, senza dubbio, dello straordinario, ma nulla di portentoso, nulla di arcano, e non eccedono in nessunissima guisa i termini naturali delle cose umane e delle umane operazioni. La fortuna di Gerberto, salito per gradi e lentamente dall'umile condizione di monaco alla suprema dignità di papa, non dà nemmen luogo a uno di quei problemi storici indeterminati e involuti, intorno a' quali il critico, che vede ogni po' dileguarsi o confondersile cause presunte dei fatti, o diventarne perplesso il significato, si affatica inutilmente. Data la

condizione generale dei tempi in cui Gerberto ebbe a vivere, date le qualità dell'ingegno e dell'animo di lui, dato il favore di cui, a tacere d'altri, gli furono larghi gli Ottoni, quella fortuna appar naturale e spiegabilissima.

Appar tale a noi; ma tale non doveva facilmente apparire agli uomini che la videro, o a quelli che, per più secoli di poi, ne udirono il racconto. E però nacque la leggenda, frutto della ignoranza, congiunta, per una parte, con l'ammirazione, per l'altra, col malvolere, stimolata senza posa e riscaldata dalla fantasia.

Dove e quando appajono le prime vestigia di essa, e quali sono le sue prime sembianze? Ogni leggenda, simile in questo a una pianta, nasce di certi germi, cresce, fiorisce, prolifera, e dopo un tempo più o meno lungo, secondo l'indole dei popoli, le condizioni della civiltà, le vicissitudini storiche, svigorisce e muore. Come quell'albero meraviglioso dei tropici, che abbarbicando a mano a mano i suoi rami alla terra, forma intere foreste, la leggenda, sin che dura nel suo rigoglio e nella sua fecondità, copre di sè province e reami; ma negli inizii suoi, e poi nella fine, si raccoglie in poco spazio, e facilmente si occulta; e chi ne vuol dar contezza, non sempre riesce a dire se ci sia o non ci sia, se sia già nata, se sia già morta. E ciò perchè la leggenda è bensì un fatto psicologico e storico alla produzione del quale concorrono cause insistenti, molteplici, generalissime; ma è altresì un fatto che si produce e si determina a poco a poco, in certi spiriti da prima, in uno anzichè in un altro luogo, irresolutamente, con manifestazioni scarse e leggiere, che sfuggono all'occhio e facilmente dileguano.

Così per l'appunto seguì della leggenda di Gerberto. Diffusissima nei tre secoli che seguiron l'undecimo, essa, negli anni più prossimi alla morte di colui che le porge argomento, appena dà qualche segno del suo formarsi. Nei cronisti più antichi, coetanei di Gerberto, o a lui di poco posteriori, non se ne vede pur l'orma. Un monaco di San Remigio, Richerio, grande amico ed ammirator di Gerberto, cui dedicò quattro libri di storie, narra con molte lodi la vita di lui, descrive gli studii, esalta l'ingegno e il sapere, celebra le opere, ma non ha nemmeno una parola che accenni a leggenda. Vero è che Richerio, appunto perchè amico, avrebbe potuto tacere, per deliberato proposito, ciò che da molti, non amici, si mormorava; ma non mancano altri cronisti, antichi egualmente, o poco meno, sui quali non può cadere un sospetto così fatto.Ditmaro di Merseburgo, Ademaro Cabannense, o Campanense, Elgaldo, Radulfo

Glaber, Ermanno Contratto, o di Reichenau, Lamberto di Hersfeld, Mariano Scoto, Bernoldo, Ugo Floriacense, tutti fioriti tra il finire del X e il principiare del XII secolo, nulla narrano che s'accosti od alluda alla posteriore leggenda, e par più che probabile, conoscendo l'indole, il gusto e i costumi di quei semplici narratori, e dei più semplici lettori loro, che nessuna leggenda, propriamente detta, fosse ancora lor giunta all'orecchio. Ma ciò non vuol proprio dire che la leggenda non fosse già nata; vuol dire solo che essa era appena fuor di terra, e aveva poca radice, e non mostrava altrui nè fiori nè fronde. Anzi è probabile che essa avesse cominciato a germogliare mentre Gerberto era ancora vivo, forse nell'ultimo tempo del suo breve papato, forse anche(nessuno potrebbe nè affermarlo, nè negarlo) qualche anno innanzi.

Vediamone un primo germoglio, a dir vero assai debole, e appena formato, ma che potrebbe pure esser venuto dopo altri parecchi, e lascia forse vedere più che non mostri.

Per molti anni, dal 977 al 1030, fu vescovo di Laon un uomo ambizioso e iracondo, Adalberone, detto anche Ascelino, mescolato a molte brighe e fazioni del tempo suo, gran nemico dei Cluniacensi e dei monaci in generale, cattivo poeta, risoluto di animo e sciolto di lingua. Costui, nel 1006, secondo è da credere, compose, in forma di un dialogo col re Roberto di Francia, un lungo poema latino, nel quale diede libero sfogo alle ire che gli covavan nell'anima, pigliandosi quella miglior vendetta che poteva. In certo luogo egli fa che il re alle sue minacce risponda:

Crede mihi, non me tua verba minantia terrent;

Plurima me docuit Neptanabus ille magister.

A primo aspetto questi due versi sciagurati non pajono avere con Gerberto e la sua leggenda relazione alcuna; ma se si riflette che il re, nella cui bocca son posti, era stato, in Reims, discepolo di Gerberto, e se si bada a quel Neptanabus, il quale altro non è che il famoso mago Nectanebus, secondo antiche e divulgatissime finzioni re dell'Egitto e padre adulterino di Alessandro Magno, la relazione si scopre, e si sente il veleno dell'argomento. Roberto dice di non temere le minacce del suo avversario, perchè dal maestro mago apprese a difendersi. Con poco o punto pericolo di errare, noi possiamo vedere in quei versi un'allusione a Gerberto, e un'accusa di magia, per nessun modo larvata ai lettori di quel tempo. Ecco dunque apparire, sino dal 1006, tre anni dopo la morte del pontefice, la leggenda della sua magia; la stessa risolutezza e recisione dell'accenno lasciano ragionevolmente supporre che non fosse

quella lasua prima apparizione.

Teniamole dietro, e vediamola crescere a vista d'occhio.

Negli ultimi anni del secolo XI, un tedesco, fatto cardinale da un antipapa, Benone, compose col titolo di Vita et gesta Hildebrandi, un rabbioso libello, dove con Gregorio VII, suo capitale nemico, sono calunniati e vituperati parecchi dei pontefici che lo precedettero. Benone narra una lunga e tenebrosa istoria, di cui non mancarono di menar vanto e giovarsi, ai tempi della Riforma, gli oppositori più ardenti ed astiosi della Chiesa di Roma; e se molte delle cose ch'ei narra sono frutto della sua fantasia invelenita, altre, e non poche, sono probabilmente(potrei anche osare di dir certamente) frutto dello spirito dei tempi, della comune ignoranza, e del maltalento, non sempre irragionevole e ingiusto, di molti.

A dir di Benone, Gregorio VII, l'amico della contessa Matilde, il trionfatore di Arrigo IV, il più formidabile e potente dei papi, fu uno sceleratissimo mago, discepolo, nelle arti maledette, di Teofilatto, il quale fu pontefice col nome di Benedetto IX, di Lorenzo, vescovo di Amalfi, di Giovanni Graziano, che fu pontefice anch'egli, e si chiamò Gregorio VI. Teofilatto sacrificava ai demonii, innamorava, con le sue arti, le donne, e come cagne se le traeva dietro per selve e per monti. Di ciò fanno fede i libri che gli si trovarono in casa quand'egli finì miseramente la vita, e tale storia è(dice Benone) cognitissima in Roma, al volgo. Grande amico e fautore di Teofilatto era Lorenzo, principe dei malefizii, il quale intendeva il linguaggio degli uccelli, profetava, e destava, coi vaticinii e gli augurii, l'ammirazione della plebe, dei senatori, del clero. Giovanni ospitava in sua casa Lorenzo, e imparava da lui il diabolico magistero. Ildebrando fu degno in tutto de' suoi maestri. Scotendo le maniche, egli spargeva nell'aria un nugolo di faville, e Benone racconta di lui, d'un suo libro magico, e di due suoi familiari, una paurosa novella, che, con poca diversità, ricorre nelle storie di altri maghi famosi, tra' quali Virgilio. Ma la malvagia tradizione e l'esecrando esercizio avevano più antica la origine. Teofilatto e Lorenzo, prima d'esser essi maestri, erano stati discepoli, e il maestro loro aveva avuto nome Gerberto. Benone parla chiaro e preciso: "Essendo ancor giovani Teofilatto e Lorenzo, ammorbò la città co' suoi malefizii quel Gerberto di cui fu detto:

Transit ab R Gerbertus ad R post papa vigens R.

"Questo Gerberto, ascendendo, poco dopo compiuto il millennio, dall'abisso della permissione divina, fu papa quattr'anni, mutato il nome

in Silvestro secondo; il quale, per divino giudizio, morì di morte repentina, colto al laccio di quegli stessi responsi diabolici co' quali tante volte già aveva ingannato altrui. Eragli stato detto daun suo demonio ch'e' non morrebbe sino a tanto che non celebrasse messa in Gerusalemme. Illuso dalla equivocazione del nome, pensando si dovesse intendere di Gerusalemme in Palestina, andò a celebrare messa il dì della stazione in quella chiesa di Roma che appunto si chiama Gerusalemme, dove, sentendosi venire addosso la morte, supplicò gli fossero tronche le mani e la lingua, con le quali, sacrificando ai diavoli, aveva disonorato Iddio. E così ebbe fine condegna a' suoi meriti".

Ecco Roma fatta un covo di pessimi incantatori, i quali, per colmo di danno e di sceleratezza, sono quegli stessi pastori che più gelosamente dovrebbero custodire e difendere la greggia dei fedeli contro le insidie e le offese del lupo diabolico. Credere che tutte quelle accuse sieno mere invenzioni di Benone non mi par ragionevole, soprattutto per quanto spetta a Gerberto. Il nemico di Benone era, non Gerberto, morto oramai da un secolo, ma Ildebrando, e la pensata e voluta denigrazione d'Ildebrando sarebbe riuscita, parmi, tanto più efficace e più piena, quanto più circoscritta e appropriata a lui solo. Benone avrebbe, con minor fatica, reso assai più iniquo Ildebrando, e saziato il suo odio, se invece di far di costui un discepolo, ne avesse fatto un caposcuola; se a lui, anzi che a Gerberto, avesse dato colpa della prima infezion di magia ond'era stato contaminato l'ovile di Pietro. Assai più probabile dunque mi sembra che Benone non inventasse di pianta, ma raccogliesse in uno, forse esagerando, forse travolgendo, credenze, accuse, lembi di leggende, già formate, o in via di formarsi. Lo stesso modo succinto ed elittico usato da lui in parlar di Gerberto mi pare che sia come un accennare a cose note, sottintese, fatte oramai di pubblica ragione. E non si dimentichi che l'accusa di magia pesò anche su altri papi parecchi.

Nel poema di Adalberone abbiamo un cenno allusivo e non più; nel libello di Benone abbiamo già uno schema di racconto. Un cronista di poco posteriore a Benone, Ugo di Flavigny, nato nel 1065, morto non si sa quando, ma dopo il 1102, parla di Gerberto con manifesto dispetto, dice che per l'insolenza sua fu espulso dal convento ov'era stato accolto fanciullo, e che usando di certi prestigi, quibusdam praestigiis, si fece fare arcivescovo, prima di Reims, poi di Ravenna. Non dice altro di notabile; ma mi par da credere che con la parola praestigiis egli abbia

voluto intendere arti magiche, e riferirsi, senza altrimenti esporla, a una leggenda già cognita. E la leggenda fa di bel nuovo capolino nell'opera di un monaco belga, la celebratissima Chronographia di Sigeberto di Gembloux, nato circa il 1030, morto il 1111.Quivi si legge che alcuni, taciuto il nome di Silvestro II, il quale fu per dottrina chiaro tra' chiari, ponevano in suo luogo Agapito, nè ciò senza qualche ragione. Dicesi(così Sigeberto) che questo Silvestro non entrò per l'uscio, e ci è chi lo accusa di necromanzia, e più cose strane si narrano della sua morte, e vogliono alcuni che egli morisse percosso dal diavolo, le quali cose io non affermo e non nego, ma lascio in dubbio. Come si vede, quando Sigeberto scriveva, la leggenda era ancor titubante, mal definita, male compaginata, e si reggeva con le grucce dei si dice e dei si crede, che escludono la fede piena, incontrastata ed universale. Tale carattere essa serba nel racconto di un altro monaco, Orderico Vital, inglese, che fra il 1124 e il 1142 compose la sua Historia ecclesiastica. Fatte lodi grandissime di Gerberto e de' suoi numerosi discepoli, Orderico nota: "Di lui si narra che conversasse col diavolo mentre era maestro, e che avendo chiesto di conoscere il proprio avvenire, il diavolo gli rispondesse col verso:

Transit ab R. Gerbertus ad R., post papa vigens R.

Tale oracolo fu allora abbastanza oscuro a intendere, che poi si vide manifestamente adempiuto; dacchè Gerberto passò dall'arcivescovado di Reims a quello di Ravenna, e fu da ultimo papa in Roma". Questo verso l'abbiam già trovato nello scritto di Benone, e ci tornerà più d'una volta sott'occhio. Il primo che lo rechi è il già citato Elgaldo, il quale nulla sa della sua diabolica origine, ma dice che lo stesso Gerberto il compose, lietamente scherzando sulla lettera R dopo essere stato assunto al pontificato.

Col cenno di Orderico si chiude, per noi, il periodo iniziale della leggenda di Gerberto mago, il periodo delle formazioni embrioniche, dei primi nuclei staccati, a cui tien dietro il periodo delle esplicazioni e delle forme compaginate ed intere. Un terzo ed ultimo periodo è quello dello svigorimento progressivo e della obliterazione finale. Prima d'andar più oltre, soffermiamoci alquanto, e indaghiamo un po' meglio le ragioni, appena accennate sin qui, della leggenda, e le condizioni in mezzo alle quali essa prendeva nascimento.

II.

La ragione prima e principale è da cercare nella riputazione grandissima che Gerberto ebbe di dotto. A noi, che ne abbiamo i frutti tra mani, il sapere di lui non sembra un gran che, ma fu, pei tempi in cui egli visse, straordinario davvero, e a quegli uomini doveva sembrare meraviglioso, e ai più ignoranti inesplicabile e sovrumano. Il già ricordato Richerio parla con entusiasmo del grande ingegno e del mirabile eloquio di Gerberto; celebra la dottrina di lui, egualmente versato nell'aritmetica, nella dialettica, nell'astronomia, nella musica;discorre dell'abaco da lui inventato; ricorda alcune sfere celesti da lui con mirabile artificio costruite. Ditmaro narra che Gerberto fu, sin da fanciullo, ammaestrato nelle arti liberali; che ebbe ottima conoscenza del corso degli astri; che superò in dottrina tutti gli uomini del suo tempo; che nella città di Magdeburgo costruì un orologio solare, spiando a traverso a una canna, la stella che guida i marinai, cioè la polare. Ademaro Cabannense dice che Gerberto fu fatto papa dall'imperatore in grazia del suo sapere, propter philosophiae gratiam.

Ma quel sapere appunto, così fuor del comune, ai più doveva riuscire sospetto, e a molti, che pur non ci sospettavan nulla di soprannaturale, doveva tornare increscioso e non in tutto scevro di colpa. Non si dimentichi che siamo in tempi di fede viva ed angusta, e in mezzo ad uomini superstiziosi, i quali facilmente nel sapere umano scorgono come una presunzione audace di contrapporsi al sapere divino, e negli studii profani un esercizio pien di pericolo, assai più atto a trarre gli spiriti in giù, verso Satana, che a sollevarli in alto, verso Dio. E Gerberto attese con troppo ardore agli studii profani, e non celò la sua passione per essi. Non giunge egli a dire, in una lettera ad Arnulfo vescovo di Reims: "A questa fede noi annodiamo la scienza, poichè non hanno fede gli stolti?" In queste parole facilmente altri avrebbe potuto trovare il germe di una falsa dottrina, contraria agl'insegnamenti dell'Evangelo. Nessuna meraviglia dunque se due cronisti, già più sopra citati, Lamberto di Hersfeld e Bernoldo, pur non facendo il più piccolo accenno ad origini o collegamenti soprannaturali, dicono risolutamente che Gerberto fu troppo dedito agli studii profani.

Ma le cose non potevano fermarsi lì. Durante tutto il medio evo gli uomini più celebrati per ingegno e per dottrina, i filosofi e i poeti più illustri, così degli antichi come dei nuovi tempi, furono tenuti generalmente in conto di maghi, da Aristotile ad Alberto Magno e Ruggero Bacone, da Virgilio a Cecco d'Ascoli. Bastava a Gerberto la fama

di dotto per mutarsi, nella opinione d'infiniti, di vescovo in mago; ma tale mutazione era in lui favorita da più altre ragioni. Si sapeva del suo viaggio in Ispagna; si sapeva che in Ispagna egli aveva atteso con sommo profitto agli studii; e non ci voleva un grande sforzo di fantasia per porlo in relazione con gli Arabi, per far di lui il discepolo di qualche dottore saraceno, avverso, come tutta la sua gente, ai cristiani, e naturale amico del diavolo. La critica del secol nostro provò che Gerberto deriva il suo sapere principalmente da Boezio, del quale fecein versi un fiorito elogio, e che nulla egli deve agli Arabi: ma chi ai tempi di lui, avrebbe potuto provare o affermare altrettanto e troncar dalla radice un sospetto che sorgeva spontaneo e irresistibile nelle menti? Ademaro, che pur gli è tanto benevolo, dice(nè si sa donde tragga cotal notizia) che Gerberto fu a Cordova per amor di studio, causa sophiae. Ora, Cordova era in mano degli Arabi, e se non aveva, come Toledo, fama di essere una scuola massima di magia, e un covo di necromanti, doveva pur sembrare a cristiani un asilo e un propugnacolo dell'Inferno, dove s'insegnava una scienza perigliosa e diabolica. Perciò sarebbe da meravigliare se Gerberto avesse potuto sottrarsi a quella accusa di magia che avvolse tanti altri, i quali forse meno di lui sembravano meritarla.

Ma a procacciargliela, quell'accusa, un'altra ragione cooperò, non meno efficace delle notate: l'odio. Gerberto ebbe amici molti e potenti; ma ebbe anche molti nemici, de' quali fa spesso ricordo nelle sue epistole. Ne ebbe a Bobbio, d'onde gli fu forza partirsi; ne ebbe a Reims pei fatti che ho detto; ne ebbe in tutta la Francia, e in Germania ancora, a cagione della parte presa negli avvenimenti politici; ne ebbe in Roma dove gli odii che sempre bollivano contro l'imperatore si riversavano naturalmente sopra i suoi protetti. E quegli odii Gerberto ricambiava. A Stefano, diacono di Roma, scriveva, piena l'anima di livore: "Tutta Italia m'è sembrata una Roma. Il mondo ha in esecrazione i costumi dei Romani".

Nemici dunque molti, e di varia condizione, e per più ragioni; alcuni mossi solo dalla gelosia e dall'invidia, altri da legittimo risentimento: giacchè non è da tacere che se Gerberto ebbe grandi virtù, e parecchie, ebbe anche gran mancamenti; e se attese fedelmente, con zelo e carità, come vescovo e come papa, all'officio ecclesiastico, nei maneggi e nelle gare della vita si diportò più di una volta in modo degno di biasimo. Certo egli fu poco aperto all'amicizia e agli affetti in genere, non ischivo

dell'adulazione, non sempre alieno dall'intrigo e dall'inganno; soprattutto fu ambiziosissimo; e se la tristizia dei tempi in parte lo scusa, non lo scusa però interamente. Aggiungasi che gli Atti del concilio di San Basolo, da lui compilati, potevano anche far nascere qualche dubbio circa la sua ortodossia. Per quella brutta faccenda dell'arcivescovo Arnulfo gli si dichiararono avversi gli stessi pontefici, Giovanni XV prima, Gregorio V poi.

Qual che si fosse, del resto, la ragion della inimicizia, ben si vede che i nemici dovevano adoperarsi con tutte le forze ad oscurare la fama di lui, e che l'accusa di scelerati commerci con lo spirito delle tenebredoveva essere da loro, se non immaginata e prodotta, almeno accolta e promossa. Quanti poi, ed erano molti, sparsi pel mondo, avevano in odio la curia di Roma, le sue prevaricazioni e le sue frodi, dovevano favorire il sorgere e il divulgarsi di una leggenda che poneva sulla cattedra di San Pietro una creatura del diavolo. Quel medesimo odio suscitò più tardi la leggenda famosa della Papessa Giovanna. Perciò gli è assai probabile che le prime voci, timide e fuggevoli, dell'accusa cominciassero a levarsi e andare attorno mentre Gerberto era ancor vivo. Il non trovarsi cenno della leggenda nei cronisti più antichi non prova punto, come a taluni sembra, il contrario, giacchè le leggende, di solito, compajono nelle scritture un pezzo dopo che sono nate, e quando già hanno cominciato a esplicarsi e assodarsi: prima vivono nella fantasia dei molti o dei pochi, e nelle scucite narrazioni orali.

Il Doellinger crede che la leggenda nascesse in Roma, e che quivi la raccogliesse Benone. Le sue ragioni, a dir vero, non mi pajono di gran peso, e stimo assai più probabile che nascesse un po' qua e un po' là, dove trovava le suggestioni più acconce e le condizioni più favorevoli. Certo gli esplicamenti ulteriori della leggenda non si produssero in Roma.

III.

Lo storico inglese Guglielmo di Malmesbury, accingendosi, nella prima metà del secolo XII, a narrare la storia di Gerberto, diceva: "Non sarà assurdo, credo, se poniamo in iscrittura ciò che vola per le bocche di tutti"; e sul finire di quel medesimo secolo, un altro inglese, Gualtiero Map, accingendosi anch'egli a quel racconto, esclamava: "Chi ignora la illusione del famoso Gerberto?". La leggenda, che nel secolo precedente sembra nota a pochi, ha fatto molto cammino, ed è ora cognita a tutti.

Non solo è cognita a tutti, ma s'è ampliata, ha preso rilievo e colore, ha ricevuto numerosi innesti. Non è più uno schema di racconto, mal composto e reticente, è addirittura un romanzo.

Ascoltiamo Guglielmo di Malmesbury, gran raccoglitore, gran narratore, caloroso, efficace e credulo, di storie incredibili.

Gerberto nacque in Gallia, e fu monaco, sin da fanciullo, nel monastero di Fleury. Giunto al bivio pitagorico(così si esprime l'autore) sia che gli venisse tedio del monacato, sia che il vincesse cupidigia di gloria, fuggì di notte tempo in Ispagna con proposito di apprendere l'astrologia, ed altre arti sì fatte, dai Saraceni, i quali vi attendono e ne sono maestri. Giunto fra loro, potè appagare il suo desiderio, e vinse Tolomeo e Alandreo(?) nella scienza degli astri, Giulio Firmico nella divinazione del fato. Quivi imparò ad intendere e interpretare il canto e il volo degli uccelli;quivi a suscitar dall'Inferno tenui figure; quivi finalmente quanto di buono e di reo può comprendere la umana curiosità. Nulla è a dire delle arti lecite, aritmetica, musica, astronomia, geometria, le quali per tal modo esaurì da farle parere minori del suo ingegno, e con industria grande poi fece rivivere in Francia, ov'erano quasi perdute. Sottraendo, egli primo, l'abaco ai Saraceni, diede regole che a mala pena s'intendono dai sudanti abacisti. L'ospitava in sua casa un filosofo di quella setta, cui egli rimunerò, con molto oro da prima, e con promesse da poi. Nè mancava il Saraceno di vendere la propria scienza, e spesse volte invitava l'ospite a colloquio, ragionando seco lui quando di cose serie e quando di sollazzevoli, e gli dava de' suoi libri da trascrivere. Aveva tra gli altri, il Saraceno, un volume, che contenea tutta l'arte, e questo, Gerberto, sebbene ardesse della voglia di farlo suo, non potè mai trargli di mano. Riuscite vane le preghiere, le promesse, le offerte, egli finalmente diede opera alle insidie, e ubbriacato con l'ajuto della figliuola di lui, il Saraceno, tolse il volume, che quegli teneva custodito sotto il capezzale, e via se ne fuggì. Destatosi il Saraceno dal sonno, leggendo nelle stelle, della cui scienza era maestro, si diede a inseguire il fuggiasco; ma questi, usando della scienza medesima, conobbe il pericolo, e si celò sotto un ponte di legno, ch'era ivi presso, aggrappandovisi con le mani, per modo che, penzolando, non toccava nè la terra nè l'acqua. Così deluso, il Saraceno ebbe a tornarsene a casa, e Gerberto, accelerando il cammino, giunse al mare. Colà evocato con gl'incantesimi il diavolo, pattuì di darglisi in perpetuo, se, difendendolo da colui che l'inseguiva, lo portava oltre l'acqua. Il che fu fatto.

Qui Guglielmo entra a discorrere dell'insegnamento di Gerberto, de' suoi compagni di studio e de' discepoli illustri; ricorda un orologio meccanico(trasformazione dell'orologio solare di Magdeburgo) e un organo idraulico, in cui l'opera dei mantici era supplita dall'acqua bollente, fabbricati l'uno e l'altro da Gerberto per la cattedrale di Reims; dice come Gerberto diventasse arcivescovo di questa città, arcivescovo di Ravenna e finalmente pontefice; poi soggiunge: Fautore il diavolo, Gerberto procacciò la propria ventura per modo che nulla mai di quant'ebbe immaginato lasciò imperfetto, e da ultimo fece segno della propria cupidità i tesori delle antiche genti, da lui per arte necromantica ritrovati.

E qui un'altra storia, che ebbe ancor essa divulgazione grandissima, e che Guglielmo sembra sia stato il primo a narrare.

Era in Campo Marzio, presso Roma(così dice il nostro cronista), una statua, non so se di bronzo o di ferro, che mostrava disteso l'indice della mano destra, erecava scritto in fronte: Percuoti qui; Hic percute. Gli uomini del tempo andato, credendo di trovarvi dentro un tesoro, avevano, con molti colpi di scure, squarciata la statua innocente; ma Gerberto corresse l'error loro, intendendo in tutt'altro modo le ambigue parole. Epperò, notato di pien meriggio il luogo ove giungeva l'ombra del dito, ivi infisse un palo, e sopravvenuta la notte, fatto colà ritorno con la sola scorta di un suo cameriere, che recava una lucerna accesa, fece con suoi incanti spalancare la terra. Ed ecco apparire agli sguardi loro una grandissima reggia, auree pareti, aurei lacunari, e cavalieri d'oro giocanti con aurei dadi, e un aureo re, sedente con la sua regina a mensa apparecchiata, con intorno i ministri e sulla mensa vasellame di gran peso e pregio, ove l'arte vincea la natura. Nella più interna parte del palazzo, un carbonchio, gemma fra tutte nobilissima e rara, fugava col suo splendore le tenebre, e aveva di contro, nell'angolo opposto, un fanciullo con l'arco teso, incoccata la freccia. Ma nessuna di quelle cose, che con l'arte preziosa rapivano gli occhi, poteva esser tocca, perchè come l'uno degli intrusi vi appressava la mano, subito quelle immagini tutte parevano balzargli incontro e voler far impeto nel temerario. Vinto dal timore, Gerberto represse la sua cupidigia; ma il cameriere ghermì un coltello di mirabile valore, che era sul desco, pensando così picciolo furto dovesse rimanere occulto fra tanta preda. Incontanente insorsero le immagini tutte fremendo, e il fanciullo, scoccata nel carbonchio la freccia, empiè di tenebre il luogo; e se il cameriere, ammonito dal suo

signore, non si fosse affrettato a deporre il coltello, avrebbero entrambi pagata la pena della lor petulanza. Così inappagata la loro bramosia, guidati dalla lucerna, se ne tornarono addietro. - Erano quelli i tesori di Ottaviano Augusto imperatore, a proposito dei quali Guglielmo narra altre avventure e altre meraviglie.

Segue un terzo racconto, col quale il romanzo si chiude.

Gerberto, osservati gli astri, compose una testa artifiziata, la quale rispondeva per sì e per no alle domande che le si facevano. Così se Gerberto chiedeva: Diventerò io papa? - la testa rispondeva: Sì. - E se Gerberto domandava: Morrò io prima che canti messa in Gerusalemme? - la testa rispondeva: No. E vogliono che dall'ambiguità di questa seconda risposta egli sia stato tratto in inganno, perchè non pensò esservi in Roma una chiesa che appunto è detta Gerusalemme, dove suol cantar messa il papa le tre domeniche cui dassi il titolo di Statio ad Jerusalem. Ora avvenne che in uno di quei giorni Gerberto, mentre si parava per la messa, ammalò, e crescendogli il male, consultatala testa, conobbe l'inganno e la morte imminente. Chiamati pertanto i cardinali, pianse a lungo i suoi malefizii, e mentre quelli per lo stupore non sapean che si fare, egli, perduto per l'angoscia il senno, ordinò lo tagliassero a pezzi, e così ne lo gittassero fuori, dicendo: Abbia le membra chi ebbe l'omaggio, perchè l'anima mia sempre detestò quel sacramento, anzi sacrilegio.

Due sarebbero state principalmente, secondo la narrazione di Guglielmo, le ragioni che indussero Gerberto a studiare la magia e legarsi col demonio: il desiderio di sapere e l'amor della gloria; la cupidigia appare solo più tardi. In un poema latino anonimo, di cui non è accertato se appartenga al secolo XII o al XIII, narrasi che Gerberto si diede al diavolo perchè non era buono d'imparar nulla, ed ebbe il diavolo stesso a maestro, e da lui apprese a compor l'abaco; ma nel già ricordato racconto di Gualtiero Map vengono fuori altri fatti, altre ragioni, altre meraviglie.

Dice quest'uom dabbene, con torturata e torturante eleganza di concetti e di stile, che Gerberto, essendo in Reims, s'innamorò perdutamente della figliuola di quel preposto, bellissima, ammiratissima, desideratissima. Per amor di lei Gerberto si diede a spendere e spandere, si caricò di debiti, cascò in mano agli usurai, e in poco tempo, abbandonato da servi ed amici, toccò il fondo della miseria. Un giorno, lacerato dalla fame e fuor di sè, nell'ora del meriggio, si cacciò in un

bosco, e vagando a caso, capitò in un luogo dove improvvisamente gli si offerse alla vista una donna d'inaudita bellezza, seduta sopra un gran drappo di seta, con innanzi a sè un mucchio grandissimo di monete. Gerberto volge il piè per fuggire; ma la donna il chiama per nome, e come mossa a compassione del suo stato, gli offre quante ricchezze possa mai desiderare, a patto solo che rinunzii alla figlia del preposto, la quale non si curò punto di lui, e voglia lei, che gli parla, per compagna ed amica. Ella soggiunge: Meridiana è il mio nome, e sono, come tu sei, creatura dell'Altissimo, e a te, come al più degno fra gli uomini, ho serbata la mia verginità. Non sospettar d'inganno e d'insidia; non credere che io sia un qualche demone succubo; io tutto ti offro, e non ti chiedo promessa o patto alcuno. Gerberto, rimosso dall'animo ogni timore, offre la propria fede, bacia l'amica(salvo, dice il buon Gualtiero, il pudore), prende quant'oro può portare, torna in città, paga i suoi creditori, e ajutato dalla sua Meridiana(o Marianna), la quale gli è non meno maestra che amante, e gl'insegna la notte che cosa abbia da fare il giorno, ristoratutto il perduto, agguaglia la magnificenza di Salomone, vince quanti hanno fama di dotti, diventa il soccorritore dei bisognosi, il redentor degli oppressi, e non è città nel mondo che per amore di lui non porti invidia a Reims. La figliuola del preposto, ciò vedendo, arde a sua volta di amore e di gelosia, e si strugge del desiderio di aver tra le braccia colui che tanto avea disprezzato. Con l'ajuto di una vecchia, vicina di Gerberto, appaga il suo desiderio, un giorno che quegli, dopo lauto desinare, s'era addormentato nell'orto. Meridiana si sdegna, e da prima respinge il pentito, poi gli perdona, a patto che si leghi a lei con formale promessa e indissolubile nodo. Muore intanto l'arcivescovo di Reims, e Gerberto, per la fama de' suoi meriti, è chiamato a succedergli; poi, in Roma, è dal papa fatto cardinale e arcivescovo di Ravenna; poi, morto il papa, è, per universale suffragio, coronato della tiara. Ma durante tutto il tempo del suo sacerdozio, egli più non si cibò del corpo e del sangue di Cristo, solo simulando con frode il sacramento. L'ultimo anno del suo pontificato gli apparve Meridiana, e gli annunziò ch'ei non morrebbe finchè non celebrasse messa in Gerusalemme, ed egli, dimorando in Roma, e facendo pensiero di non girsene mai in Terra Santa, si tenne sicuro. Se non che, andato un giorno a celebrare messa nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, si vide improvvisamente innanzi Meridiana, che l'applaudiva, come fosse lieta del suo prossimo venire a lei. La qual cosa veduta, e conosciuto il nome del luogo, egli, convocati i cardinali, e tutto il clero e il popolo, si confessò

pubblicamente, e fatta acerbissima penitenza, morì. Fu sepolto nella chiesa di San Giovanni Laterano, dentro a un'arca marmorea, dalla quale trasuda acqua; e dicono che quando sta per morire il papa, di quell'acqua si forma un rigagnolo che scorre in terra, e quando muore alcun altro grande, se ne aduna più o meno, secondo il grado e la dignità di ciascuno. Gerberto, sebbene per avarizia sia stato gran tempo impigliato nel vischio del diavolo, pure con forte mano e magnificamente resse la Chiesa.

Il racconto di Gualtiero ha una intonazione gaja che manca al racconto di Guglielmo e degli altri: l'orror del diabolico è in esso raggentilito dall'amore e dalla bellezza. Quella Meridiana, o Marianna, non è se non l'antichissima Diana trasformata in diavolo, e più propriamente nel diavolo meridiano, che soleva lasciarsi vedere sull'ora del meriggio, e di cui è frequente ricordo negli scrittori del medio evo. Essa ha nel romanzo di Gerberto, quale Gualtiero lo narra, una parte moltosimile a quella che certe fate hanno nei romanzi cavallereschi, e la storia degli amori appartiene al divulgatissimo tema degli amori d'uomini d'ossa e di polpe con donne soprannaturali.

D'onde attingeva Gualtiero? Dalla propria fantasia, o da una tradizione scioperata e caduca, nata forse e morta in Inghilterra, prima che giungesse a valicar lo stretto e a propagarsi nel continente? Propendo per questa seconda soluzione del dubbio, ma senza poterla provare. Certo si è che un altro scrittore inglese, di poco anteriore a Gualtiero, e non noto per nome, di Meridiana non fa parola: dice che Gerberto si diede al diavolo per avidità di onori e di ricchezze; che fu dallo stesso demonio ingannato con quell'ambiguo responso della messa da celebrare in Gerusalemme, e fatto un cenno della penitenza, chiude il racconto, annunziando la salvazione del pentito, e riferendo il miracolo del sepolcro.

Così abbiam veduto variare le ragioni assegnate al diabolico patto: amor del sapere, inettitudine allo studio, cupidigia di onori e di potere, avidità di ricchezze; più che non se ne sieno addotte per Fausto. Un poeta e cronista alquanto più tardo, il viennese Enenkel, il quale, circa il mezzo del secolo XIII, compose una specie di storia universale in versi, narra che Gerberto, uomo di gran sapere, ma giocatore sfrenato, per torsi alla miseria cui s'era ridotto, si legò col diavolo, pattuendo d'esser suo il giorno in cui celebrerebbe messa in Gerusalemme. Ajutato dal suo diavolo, Gerberto seguita a giocare a dadi, vince quanti si cimentano con

lui, diventa segretario del vescovo, poi vescovo, poi papa. Segue il racconto della messa fatale e della penitenza: le membra tronche sono gettate ai diavoli congregati, che giocano con esse alla palla.

Ma non corriamo tropp'oltre, e prima di seguitare, soffermiamoci un poco a considerar più da presso alcuna delle finzioni che ci si sono parate dinanzi.

IV.

Il verso:

Scandit ab R Gerbertus in R, post papa viget R,

riferito la prima volta, come ho detto, da Elgaldo, ripetuto poi, con leggiere variazioni, da Benone e da molti altri, può benissimo, come lo stesso Elgaldo afferma, essere stato composto da Gerberto dopo la sua esaltazione al pontificato; ma mi par più probabile sia fattura di qualche scolastico di quei tempi. Comunque sia, più tardi esso diventa una specie di vaticinio posto in bocca al diavolo. Il cronista inglese, che andava sotto il nome di Guglielmo Godell, ne fece un epitafio inscritto sulla tomba di Gerberto.

Ditmaro parla di un orologio solare. L'anonimo autore di certi Gesta episcoporum Halberstadensium, il quale scriveva nei primi anni del secolo XIII, si contenta di dire che Gerberto costruì in Magdeburgo un orologio abbastanza ammodo(orologium quoddam honestum satis);ma Guglielmo di Malmesbury vuole fosse un orologio meccanico, e Sant'Antonino dice molto più tardi, nelle sue Istorie, che Gerberto fece un orologio meccanico mirabile. Gli è così appunto che la leggenda lavora.

La storia della statua, che indica misteriosamente un luogo nascosto, ha molti riscontri, ed è certamente, almeno in parte, più antica di Gerberto cui Guglielmo l'appropria. In un libro arabico, intitolato Il libro del secreto della creatura del saggio Belinus(il quale Belinus si crede con buon fondamento essere Apollonio Tianeo), si narra che nella città di Tuaya (probabilmente Tiana) c'era una statua di Ermete, sul cui capo leggevasi scritto: Se alcuno desidera conoscere il secreto della creazione degli esseri, e come fu formata la natura, guardi sotto a' miei piedi. Nessuno aveva mai saputo scoprirci nulla; ma Belinus scavò sotto i piè della statua, e trovò un sotterraneo, e nel sotterraneo un vecchio seduto sopra un trono d'oro, con innanzi un libro aperto. Belinus tolse il libro, e

acquistò per esso la cognizione di tutte le cose. Similmente la storia dei tesori trovati nel sotterraneo fu narrata, prima che di Gerberto, di altri. Il già citato cronista Sigeberto di Gembloux racconta, all'anno 1039, che in Sicilia era una statua marmorea, la quale recava scritto intorno al capo: Alle calende di maggio, nascente il sole, avrò il capo d'oro. Un Saraceno, fatto prigione da Boberto Guiscardo, intendendo il significato di quelle parole, il dì primo di maggio, al nascer del sole, notò diligentemente il luogo ove giungeva l'ombra della statua, e quivi, scavata la terra, trovò un infinito tesoro, col quale potè riscattarsi. Di questo caso fa ricordo anche il Petrarca nel suo libro delle cose memorabili. L'avventura non ebbe così buon fine per un chierico innominato, di cui si narra la storia nei Gesta Romanorum. Costui, penetrato, come Gerberto, in luogo sotterraneo, ov'era accolto un inestimabile tesoro, non seppe frenare la voglia, e tolse un coltello: immediatamente un sagittario scoccò la freccia nel carbonchio che illuminava la caverna, e il temerario chierico, non potendo più, fra le tenebre, rinvenir la via dell'uscita, morì miseramente. Quel sagittario, o uno che assai gli somiglia, appare anche in altri racconti: nella leggenda di Virgilio mago, nella Image du monde, nella Eneide del tedesco Enrico di Weldeke.

Veniamo alla testa artifiziata che dà responsi. Teste così fatte, o anche intere statue favellatrici, o androidi, furono pure attribuite ad Alberto Magno, a Ruggero Bacone, ad Arnaldo di Villanuova, a Enrico di Villena, a un rabbino per nome Löw. Di una si parlò nel famoso processo dei Templari, e Guglielmo di Newbury, storico inglese morto il 1208, racconta di un procuratore diAndegavia, per nome Stefano, ingannato, come Gerberto, da una testa magica; e chi non ricorda la gherminella fatta con una testa presunta magica al povero Don Chisciotte? Se Gerberto sia stato il primo ad averne una dalla generosità della leggenda è difficile dire, e non è gran fatto probabile; ma certo il fallace responso ch'egli ebbe da essa, o dal diavolo, altri ebbero assai prima di lui, come altri ebbero dopo. Di responsi ambigui e fallaci è assai spesso ricordo negli scrittori dell'antichità. Di un responso, o, a dir meglio, di un avvertimento, non diabolico, ma divino, nel quale, come nella risposta data a Gerberto, si ha una equivocazione sul nome di Gerusalemme, narra Giovanni Villani riferendola a Roberto Guiscardo. "Questo Ruberto Guiscardo, dopo molte nobili opere e cose fatte in Puglia, per cagione di devozione si dispose d'andare in Gerusalemme in peregrinaggio, e detto li fu in visione che morrebbe in Gerusalemme. Adunque accomandato il

regno a Ruggieri suo figliuolo, prese per mare viaggio verso Gerusalemme. E pervenendo in Grecia al porto che si chiamò poi per lui porto Guiscardo, cominciò a gravare di malattia. E confidandosi nella revelazione a lui fatta, in nullo modo temea di morire. Era incontro al detto porto una isola, alla quale, per cagione di prendere riposo e forza, vi si fece portare, e là portato non migliorava, anzi più aggravava. Allora dimandoe come si chiamava quella isola: fu risposto per li marinari che per antico si chiamava Gerusalemme. La qual cosa udita, incontanente certificato di sua morte, divotamente di tutte le cose che a salute dell'anima si appartengono sì si ordinò, e divotamente si acconciò e morio nella grazia d'iddio nelli anni di Cristo 1090". Nella leggenda di Cecco d'Ascoli si ha, come in quella di Gerberto un inganno diabolico. Il diavolo aveva annunziato a Cecco ch'e' non morrebbe se non tra Africa e Campo de' Fiori. Condotto al supplizio, l'infelice non dava segno di timore alcuno, aspettando che quegli venisse a liberarlo; ma saputo allora come Africo fosse il nome di un fiumicello che scorreva ivi presso, intese sotto il nome di Campo de' Fiori celarsi Firenze, e si conobbe perduto. Il mago polacco Twardowsky fu, dice la leggenda, ingannato dal diavolo con una equivocazione sul nome di Roma, che aveva pure un piccolo villaggio in Polonia; Enrico IV d'Inghilterra, nel dramma dello Shakespeare che da lui s'intitola, è ancor egli ingannato col nome di Gerusalemme.

Per ciò che spetta alla terribile penitenza con cui Gerberto espiò le sue colpe e si liberò dalle mani del diavolo, la tradizione è certo assai antica, perchè si trova già, come abbiam veduto,nello scritto di Benone, sebbene poi Sigeberto di Gembloux ne taccia. Il medio evo è pieno di così fatti racconti di penitenze spaventose, intesi a mostrare l'efficacia appunto della penitenza, e come non siavi peccato, per quanto grande e mostruoso, che non possa ottenere il perdono di Dio: si direbbe che quella età abbia a bella posta inventati peccatori sceleratissimi, per poi farli pentire, e renderli degni del Paradiso. Anche la penitenza di Gerberto ha non pochi riscontri. Guglielmo di Malmesbury ne racconta una in tutto simile di un mago Palumbo, e Tommaso Cantipratense reca l'esempio di un malvagio pentito, che, condannato a morte, chiede in grazia d'essere tagliato a pezzi. Taluno di tali racconti è ancor vivo nelle letterature popolari.

In relazione con la notizia data da Gualtiero Map, che Gerberto più non comunicò durante tutto il tempo del suo sacerdozio, è quanto dice un altro scrittore inglese del secolo XIII, Giraldo Cambrense, il quale,

ricordato quel caso, soggiunge: "onde fu statuito nella Chiesa Romana che i sommi pontefici, nel momento della comunione, dovessero voltarsi verso il popolo"; precauzione che ricorda quella secondo altri racconti usata per accertarsi del sesso dei pontefici dopo la scandalosa avventura della papessa Giovanna.

Finalmente la favola del sepolcro che suda acqua. Il primo a farne cenno sembra essere un diacono Giovanni, che in Roma, ai tempi di Alessandro III(1159-1181) compose un Liber de ecclesia Lateranensi. Egli dice che il sepolcro di Gerberto, sebbene non fosse in luogo umido, mandava fuori, anche quando l'aria era in tutto serena, gocce d'acqua, e che ciò era agli uomini cagione d'ammirazione. Di presagi non fa parola; ma gli è assai probabile che qualche immaginazione simile a quella che in proposito riferisce Gualtiero, fosse già nata in Roma fra il popolo.

La leggenda di Gerberto faceva ciò che sempre fanno le leggende maggiori, congiunte ad alcuna persona illustre, o ad alcun memorabile avvenimento: come un rivo nato di picciola fonte, il quale ingrossa di sempre nuove acque trovate per via, essa ingrossava di quante finzioni le si paravano innanzi consentanee al suo spirito e conformi al suo tema.

V.

Guglielmo di Malmesbury e Gualtiero Map ci dànno la leggenda nella sua forma più piena e colorita, quale sembra siasi foggiata, per ragioni che ci sfuggono, in Inghilterra. Da indi in poi essa si diffonde sempre più, ma accrescimenti nuovi, di molto rilievo, più non ne riceve; anzi si assottiglia alquanto cammin facendo, e ciò assai prima d'essere pervenuta all'età della declinazione e dell'esaurimento. La storia della figlia del preposto e della bella Meridiana, benchè tale da dover necessariamente piacere alle fantasie di quei tempi, si perde, nè è possibile direperchè: rimangono al loro posto, ma non tutte salde egualmente, le altre parti, il patto col diavolo, la testa magica, il responso ingannevole, l'ultima messa, la penitenza, il miracolo del sepolcro. Talvolta, dell'antica leggenda, tramenata di qua e di là, strappata fuori da tanti libri e cacciata dentro a tanti altri, rinarrata spesso da chi non l'aveva più se non imperfettamente nella memoria, si lascia vedere solo un membro divelto, come un rottame di nave perduta che galleggi a fior d'acqua.

Ma l'opinione della veracità sua, l'opinione che fosse non favola, ma

storia, per lungo tempo sempre più si rafferma. Sigeberto di Gembloux, Guglielmo di Malmesbury e alcun'altro, avevano espresso un dubbio in proposito, dubbio proprio o d'altrui. Sigeberto, narrate le cose che abbiamo udite, soggiungeva: "Ciò udii da altri; se vero o falso, lascio giudicare al lettore". Guglielmo accennava al dubbio che da taluno si sarebbe potuto muovere; ma, diceva, a farlo dileguare basta la prova della morte; nè gli veniva in mente che anche la storia della morte potesse esser favola. Nel secolo successivo ogni dubbio si tace.

Chi volesse ricordare tutte le scritture in cui, per lo spazio di quattro secoli, dal XIII al XVI, ricomparisce la leggenda di Gerberto, dovrebbe recitare una litania non più finita. Io mi contenterò di ricordare le più importanti, notando certe variazioni che, per esse, si andavano introducendo nella leggenda.

La fonte principalissima, quando diretta e quando indiretta, dei nuovi, o, per dir meglio, rinnovati racconti, è Guglielmo, la cui opera fu assai nota nel continente, e usufruita e saccheggiata da molti. Da lui attinse, negli anni intorno al 1230, Alberico dalle Tre Fontane, e da lui attinse, circa quel medesimo tempo, Vincenzo Bellovacense, il cui Speculum historiale procacciò, con la grande sua diffusione, nuova celebrità alla leggenda, e divenne a sua volta una fonte a cui attinsero molti. In quello stesso secolo la leggenda è narrata, ma solamente in parte, da Filippo Mousket(il quale non visse oltre il 1244) in una sua fastidiosissima cronica rimata, e dal celebre Martino Polono, il quale morì nel 1279. Il Chronicon di Martino fu, per tutto il rimanente medio evo, il libro di storia più letto e più frequentemente citato, e accrebbe di molto, se pur era possibile, la diffusione e il credito della leggenda. In esso è per la prima volta ricordata una particolarità curiosa circa il seppellimento di Gerberto. Fattosi troncare le membra, il contrito pontefice ordinò che il suo tronco fosse posto sopra una biga, e sepolto nel luogo ove lo traessero e si fermassero gli animali aggiogati: questi lo trassero a San Giovanni Laterano, e quivi fu sepolto.Della biga molti poi ebbero a ricordarsi, facendola tirare da buoi, da bufali, da cavalli indomiti, rinnovando il tema di altre leggende, così sacre, come profane. Quando Martino scriveva, nessuno più dubitava della veracità di quei racconti, i quali erano stati accolti e condensati in apposita iscrizione, incisa sul sepolcro del pontefice mago. A tale iscrizione accenna chiaramente Martino in fine della sua narrazione. Parve duro a taluno credere che la Chiesa stessa volesse, con l'autorità che le è propria, in luogo sacro, farsi

mallevadrice di tante e così ingiuriose favole; ma la iscrizione ci fu veramente; anzi ce ne furono due, di consimil carattere, l'una in San Giovanni, e l'altra in Santa Croce, vedute entrambe da Michele Montaigne, che ne fa espresso ricordo. Quella di Santa Croce era, dice Raimondo Besozzi nella storia che scrisse di tale basilica, nel lato diritto della cordonata che conduce alla cappella di San Gregorio, e ci fu conservata da Lorenzo Schrader nell'opera sua intitolata Monumenta Italiae, dove si legge del tenore seguente: Anno domini MIII tempore Otthonis III Sylvester Papa Secundus qui fuerat ante Otthonis praeceptor, non satis rite forsan Pontificatum adeptus, a spiritu praemonitus qua die Hierusalem accederet se fore moriturum, nesciens forte hoc sacellum esse Hierusalem secundum, sui Pontificatus anno quinto, statuta die rem hic divinam faciens, ipsa die moritur. Eo tamen divina gratia ante communionem, cum se jam tunc moriturum intellexisset, propter dignam poenitudinem et lacrymas ac loci sanctitatem ad statum verisimilem salutis reducto: reseratis enim post divina populo criminibus suis et ordinatione praemissa, ut in criminum ultionem exanime corpus suum ab indomitis equis per urbem quaqua versum discurrentibus traheretur, et inhumatum dimitteretur, nisi Deus sua pietate aliud disponeret, equisque post longiorem cursum intra Lateranam aedem moratis, istich ab Otthone tumulatur. Sergiusque IIII successor mausoleum deinde expolitius reddidit.

Ma qui nasce un dubbio. Sergio IV, uno dei primi successori di Gerberto(1009-1012), compose, o fece comporre, per il predecessore suo un lungo e pomposo epitafio in distici, che tuttora esiste, sebbene non esista più il sepolcro a cui appartenne. In esso molte e magnifiche lodi, e non un minimo cenno di leggenda ingiuriosa. Non è egli dunque da credere che abbia errato Martino Polono, ricordando come incisa sul sepolcro una iscrizione ispirata dalla leggenda, e che abbia traveduto il Montaigne, credendo di leggere in San Giovanni Laterano una iscrizione simile a quella di Santa Croce in Gerusalemme? L'epitafio di Sergio, epitafio che appunto leggevasi in San Giovanni, non escludeva, con la sua presenza, ogni iscrizione di carattere leggendario ed ingiurioso? Non parmi; e mostrerebbe di conoscere assai malamente il medio evo chi, per affermarlo, si fondasse sulla contraddizione palese e violenta. Aben altre contraddizioni quella età si acconciava, senza addarsene punto, o senza torsene briga. L'affermazione di Martino, il quale(si noti) fu lunghi anni in Roma cappellano e penitenziario papale, è categorica e degna in tutto di fede, com'è categorica e degna di fede l'affermazione di Michele

Montaigne, ed entrambe sono avvalorate dalle parole di un devotissimo tedesco, del quale sarà fatto ricordo più oltre. Ben più strana della notata sarebbe a ogni modo l'altra contraddizione, che la leggenda si potesse veder descritta in Santa Croce, e, poco di là discosto, in San Giovanni, sulla tomba del Pontefice, non se n'avesse traccia. Noi possiamo dunque tener per fermo che una iscrizione di carattere leggendario sulla tomba ci fosse: a canto ad essa il panegirico del buon papa Sergio si reggeva come poteva.

Insieme con quella della biga vengono fuori qua e là, altre particolarità curiose. Dice Martino che, in segno della ottenuta misericordia, il sepolcro di Gerberto, così per l'agitazione e il rumore delle ossa che vi son dentro, come pel trasudare dell'acqua, annunzia la imminente morte dei pontefici. Di quel tumultuar delle ossa molti parlano di poi; al qual proposito è da osservare che l'agitarsi dei morti nelle tombe, è, di solito, considerato quale un segno, non di salvazione, ma di dannazione.

L'acqua, in certi racconti, si muta in olio, e si parla di una indulgenza accordata a quanti si recano a visitare la tomba e vi recitano un Pater noster.

Nei racconti più antichi, Gerberto, pentito, si fa tagliare a pezzi, e la cosa finisce lì; racconti posteriori accolgono il fatto, ma ci mettono un po' di frasca intorno. Filippo Mousket, nella già citata sua cronaca, insiste molto, e con manifesto compiacimento, sopra quella macellazione finale. Le membra del malcapitato pontefice sono date a mangiare ai cani. I diavoli, che, sotto forma di nerissimi corvi e di orribili avvoltoi, erano accorsi in gran numero(più di 536, dice il cronista tirato dalla rima), le contendono ai cani, e se le contendono fra loro, menando un chiasso veramente indiavolato. Enenkel fa, come si è veduto, che i diavoli giuochino con quelle povere membra alla palla. Tali racconti, intesi ad accrescere l'orrore e l'efficacità dell'esempio, trovano ripetitori e rimaneggiatori: due secoli dopo Sant'Antonino, sente il bisogno di mitigare alquanto le feroci immaginazioni de' suoi predecessori, e con lodevole accorgimento vuole che il papa si faccia tagliare a pezzi dopo morto. Circa il 1260, il così detto Minorita Erfordiense narra, con parole di santa esecrazione, che nella cappella dove seguì l'orribil fatto, nessun papa volle più mettere il piede.

E la leggenda sempre più si diffonde, passando di secolo in secolo e di gentein gente. Sin qui non abbiamo trovato scrittori italiani che la narrassero. Romualdo Salernitano, morto nel 1181, sembra che la

ignorasse affatto; ma nel secolo XIV molti Italiani la narrano, primi Riccobaldo da Ferrara e Leone d'Orvieto. Con essi la leggenda penetra nelle storie speciali dei pontefici, d'onde non uscirà più, se non molto tardi. Narrano quasi con le stesse parole, succintamente, e nulla recano di nuovo. Ad essi tengono dietro Tolomeo da Lucca il quale cita Vincenzo Bellovacense e Martino Polono; Giovanni Colonna, il quale attinge da Guglielmo di Malmesbury; Domenico Cavalca, nel Pungilingua, il quale, del resto, è poco più che traduzione di un libro francese, e nei Frutti della Lingua; Andrea Dandolo, che parla della statua e dell'ambiguo responso. Fuori d'Italia ripetono la leggenda Matteo di Westminster, Bernardo Guidonis, Roberto Holkot, Pietro Bersuire(o Berchorio), Amaury d'Augier, Enrico di Ervordia, Giovanni d'Outremeuse, l'autore del Chronicon Vezeliacense, ed altri parecchi. A forza di viaggiare, la leggenda era giunta, già nella prima metà di quel secolo, se non anche prima, sino in Islanda.

Nel secolo seguente, l'antica favola, non punto scemata di credito, riappare nelle già citate Istorie di Sant'Antonino, il quale altro quasi non fa se non copiare Giovanni Colonna; nelle Vite dei Pontefici del Platina; nella Fleur des histoires di Giovanni Mansel; nelle Rapsodiae historiarum di Marc'Antonio Sabellico; nelle Novissimae historiarum omnium repercussiones di Jacopo Filippo da Bergamo; negli Annales silesiaci compilati, ecc.; e nel secolo XVI la riferiscono, Giovanni Wier nel libro suo De praestigiis daemonum; Hans Sachs in una delle innumerevoli sue poesie; Giovanni Guglielmo Kirchhof nel Wendunmuth; i così detti Centuriatori di Magdeburgo nella loro Historia ecclesiastica, e parecchi altri scrittori della Riforma, ai quali stava molto a cuore di narrar le gesta di un papa che s'era venduto al diavolo. Nel 1599 Giorgio Rodolfo Widmann introduceva la novella di Santa Croce in Gerusalemme nella sua Storia di Fausto.

Ben s'intende come alla longeva e vagabonda leggenda dovesse far codazzo un popolo di errori, che la leggenda, veramente, non chiedeva, alcuni dei quali, anzi, essa volentieri avrebbe respinti, ma che in sua compagnia non facevano poi troppo brutta figura. Ne additerò alcuni.

Gualtiero Map, forse più per proposito che per errore, fa nascere Gerberto di nobile prosapia; ma molto prima di lui, in un Catalogo di pontefici, attribuito, non so con quanta ragione, a Mariano Scoto, il quale visse fino al 1086, Gerberto era stato fatto a dirittura figliuolo dell'imperatore Ottone(di quale?). In alcuni, come nell'autore della

cronaca che andava sotto il nome di Guglielmo Godell, nasce un dubbio, se, cioè, Gerberto e Silvestro II sieno una sola e stessa persona, ein certi Annales remenses et colonienses si dice risolutamente che Silvestro II fece deporre Gerberto, il quale aveva usurpato il luogo di Arnulfo, arcivescovo di Reims, e sospendere i vescovi che avevano consentita la sua consacrazione. Altri, a cominciare da Guglielmo di Malmesbury, confondono Silvestro II con Giovanni XVI, l'antipapa che da Crescenzio fu opposto a Gregorio V, e a questo Gregorio Ugo di Flavigny fa precedere Silvestro, che invece fu suo successore. Il nome stesso di Gerberto si altera in varii modi: Guiberto, Gilberto, Giriberto, Goberto, Uberto, e talvolta, come or ora vedremo, si muta, in nomi di tutt'altro suono. Gli anni della esaltazione e della morte oscillano molto, e per solo citare due esempii estremi, mentre, nel secolo XI, l'autore di una parte di certi Annales Formoselenses pone l'esaltazione all'anno 895, con errore di più che cent'anni, Giovanni d'Outremeuse, nel secolo XIV, fa che Gerberto riceva dal diavolo il fallace responso il 7 di giugno del 1022. Gli anni del papato variano da meno di uno a sette. Qui pure sono da ricordare certe affermazioni di storici, le quali contraddicono, o poco, o molto, alla leggenda diabolica. Più cronisti asseverano, quando già la leggenda è larghissimamente diffusa, che fu il popolo romano tutto intero quello che acclamò pontefice Gerberto; e più altri ricordano una santa visione che Gerberto ebbe concernente il conferimento della corona d'Ungheria.

Ci riman da vedere come la leggenda traviasse, e come da ultimo si perdesse, simile a un fiume, che, dopo lungo corso, dilegui, bevuto dalle sabbie del deserto e dal sole.

Un poemetto inglese del secolo XIII narra la meravigliosa istoria di Silvestro II, ma riferendola a un papa Celestino, il quale, evidentemente, non può aver nulla di comune con Celestino II. Esso ricorda in principio, per le cose che narra, il poemetto latino che ho già citato, ma poi se ne scosta molto nel séguito. Celestino, perduto assai tempo nelle scuole senza apprendere nulla, si dà al diavolo, e il diavolo l'ammaestra, e nel corso di pochi anni lo fa arcidiacono, poi arcivescovo, poi cardinale, poi papa. Divenuto papa, Celestino predica, per dodici mesi consecutivi, contro la fede, poi un bel giorno gli viene in mente che ha pur da morire, e vuol sapere quando morrà. Il diavolo, appositamente evocato, lo inganna con quell'ambiguo responso della messa da celebrare in Gerusalemme. Venuto il dì fatale, e scoperta la frode, il papa si pente, e

invoca l'ajuto di Gesù. Vengono mille diavoli, urlando, strepitando, schizzando fuoco, e fanno ressa alla porta della cappella, gridando a gran voci: Il papa è nostro; il papa è nostro! Il povero papa si confessa davantial popolo adunato, disputa e contrasta con i sette peccati capitali, che sono poi altrettanti diavoli, e non cessa di raccomandarsi a Cristo redentore e alla Vergine Maria. I diavoli traggono innanzi un orribile cavallo alato, per portare il papa in Inferno, e menano intorno alla cappella una scorribanda furiosa. Celestino fa testamento, e lascia agli avversarii le vesti, e le membra, che si fa troncar dal carnefice. Quando costui s'appresta a tagliare il capo, ecco scende di cielo la Vergine, con una schiera di angeli e consola il pentito, e gli promette l'eterna salute. Il carnefice compie allora il suo officio, e getta il capo del papa al diavolo Avarizia, che subito lo acciuffa e lo divora. Le altre membra sono trasportate nella basilica di San Pietro, e lo stesso principe degli apostoli scende con cento angioli dal cielo, per assistere alla sepoltura del suo successore, e per dire che il trono di lui è in Paradiso, accanto al suo proprio.

Nel racconto molto più tardo di un buon tedesco, cittadino cospicuo di Norimberga, Niccolò Muffel, che nell'anno 1452 venne in Roma per l'incoronazione dell'imperatore Federico III, e ivi comperò, a buon mercato(così egli dice), una notabile indulgenza, Celestino si tramuta in Istefano. E perchè non rimanga alcun dubbio, Niccolò narra la storia due volte. Quando il papa Stefano vide venire i diavoli in figura di corvi e di cornacchie innumerevoli, subito si confessò, e si fece tagliare a pezzi, e gli uccelli diabolici ne portarono via i lacerti e le viscere, meno il cuore che fu sepolto in San Giovanni Laterano. Niccolò avverte espressamente che il ricordo di questi fatti si leggeva nella chiesa di San Giovanni.

Finalmente, ai tempi di Francesco I re di Francia, la vecchia leggenda riappare in una novella di Niccolò di Troyes; ma, come una moneta, che a forza di correre per le mani degli uomini abbia perduto l'impronta del conio, essa ha perduto l'effigie di Gerberto e non poco di ciò che v'era scritto intorno: pur nondimeno gli è facile riconoscerla. Un cardinale di Roma desiderava ardentemente di diventar papa. Gli viene innanzi il diavolo, e gli promette dieci anni di papato, e di non porgli le mani addosso se non in sancta civitas(sic). Trascorso il termine, il papa va a celebrar messa in una chiesa di Roma, e come appena v'è entrato, ecco più di dieci mila corvi calar d'ogni banda e posarsi sul tetto. La chiesa è detta appunto in sancta civitas. Il papa non si perde di animo: celebra la

messa con gran devozione, chiede a Dio perdono de' suoi peccati, e ottenutolo, vive ancora molt'annisenza paura e senza pericolo.

La leggenda, sfinita, si perde.

VI.

A mezzo il secolo XV, in pien concilio di Basilea, Tommaso de Corsellis, uomo, dice Enea Silvio Piccolomini, storico del concilio stesso, di mirabile dottrina, amabilità e modestia, usciva dinanzi ai padri assembrati, in queste parole: "Voi non ignorate che Marcellino, per comando dell'imperatore, incensò gl'idoli, e che un altro pontefice, cosa ben più grave ed orribile, salì al pontificato con l'ajuto del diavolo". Egli non nominava Silvestro II, e non aveva bisogno di nominarlo: tutti a quel cenno intendevano di chi si parlava.

Ma i tempi erano già molto mutati, e sempre più si venivano mutando. Era nata la critica, e innanzi a lei, sotto il suo sguardo scrutatore, le grandi e immaginose leggende venute su di mezzo alle caligini del medio evo, cominciavano a vacillare, a diradarsi, a smarrirsi, e non molto dopo dovevano dileguarsi affatto, come nubi leggiere in un cielo caldo d'estate. Il secolo XVI vide sorgere i primi difensori di Gerberto, i primi restauratori della sua fama, da tanti secoli offesa. Un domenicano spagnuolo, Alfonso Chacon(Ciaconio), morto in Borna verso il 1600, inseriva nelle sue Vitae et gesta romanorum pontificum et cardinalium un epigramma latino, in cui la imputazione di magia fatta a Gerberto era ascritta alla inerzia ed ignoranza del volgo. Due cardinali celebri, il Baronio e il Bellarmino, sgravarono l'antico pontefice di un'accusa che a molti oramai sembrava assurda, e lo stesso fece il dotto medico francese Gabriele Naudé nella sua Apologie pour tous les grands personnages qui ont été faussement soupçonnez de magie, stampata la prima volta nel 1625. Finalmente un domenicano polacco, Abramo Bzovio, nato nel 1567, morto nel 1637, compose in onor di Gerberto, e in trentotto capitoli, un vero panegirico, che vide la luce in Roma nel 1629, e diede alla tenebrosa leggenda il colpo di grazia. Peccato che alle favole antiche egli, di suo capo, sostituisse una favola nuova, facendo di Gerberto un discendente della gente Cesia, di Temeno re d'Argo e di Ercole. Gli stessi protestanti rinunziarono a usare della leggenda come di un'arma contro la Chiesa di Roma, e alcuni di essi risolutamente la confutarono.

Del resto, una smentita, per dir così, materiale, non si fece aspettar

troppo a lungo. L'anno 1648, rifacendosi per ordine d'Innocenzo X le fondamenta alla basilica di San Giovanni, fu aperta l'arca marmorea di Silvestro II, e il pontefice scelerato, che s'era fatto tagliare a pezzi, e le cui membra erano state involate e divorate da corvi, da cani e da diavoli, apparve, dice il canonico Cesare Rasponi, intero ed illeso, vestito degli abiti pontificali, con le braccia in croce, e la tiarain capo; ma appena sentì l'aria si sciolse in polvere.

Così finiva, dopo quasi sei secoli di vita, una delle più curiose e celebri leggende del medio evo, meravigliosa per le finzioni di cui è tessuta, notabile pel senso che racchiude. Nessuno la stimi una immaginazione scioperata, fatta solo di sogno e di nebbia. Storia essa non è, ma della storia è come un corollario e un commento. Anzi, in certo senso, al pari d'altre leggende senza numero, è storia più generale e più recondita, perchè se non narra singoli fatti veri, esprime ragioni e condizioni di fatti, desiderii e terrori di popoli, spirito, grandezza e miseria di secoli.

DEMONOLOGIA DI DANTE

Una dottrina demonologica ordinata e compiuta negli scritti di Dante non si trova, e nemmeno poteva esserci; ma da molti luoghi della Commedia, e più particolarmente dell'Inferno, nei quali o sono introdotti demonii, o si parla di demonii, e da alcuni altri sparsi qua e là per le rimanenti opere, confrontati fra loro e aggruppati opportunamente, si ricava un certo numero di credenze e di opinioni che giova esaminare congiuntamente e conoscere. E come appena siensi esaminate alquanto, una cosa anzi tutto si rileva, ed è che la demonologia del poeta, in parte è dottrinale e dommatica, si rannoda cioè alla speculazione e alla disquisizione teologica, in parte è popolare, conforme cioè a certe immaginazioni comuni ai credenti del tempo; senza che manchino per altro qua e là, dentro di essa, vestigia di un pensar proprio e personale. Per ciò che riguarda la parte dottrinale, il poeta l'ha senza dubbio attinta dalla teologia scolastica, di cui egli si mostra, come tutti sanno, assai ampio conoscitore, e più particolarmente dalle opere di S. Bonaventura, di Alberto Magno, di S. Tommaso d'Aquino, il suo dottor prediletto. Non è improbabile tuttavia che egli abbia udito in una od altra Università d'Italia, forse anche di fuori, lezioni e dispute sopra un argomento di tanta importanza quale si era nel medio evo la dottrina dei demonii, intimamente congiunta con quella degli eterni castighi, e intorno a cui

s'erano sino dai primi tempi della Chiesa esercitati gl'ingegni più acuti e più alacri. Se non che sono così scarse ed incerte le notizie tramandateci degli studii e delle peregrinazioni di Dante, che nulla si può affermare in proposito. Se fosse vero quanto afferma Giovanni Villani, e infiniti ripeterono dopo lui, che Dante, sbandito di Firenze, se ne andò allo studio di Bologna; quivi avrebbe potuto il poeta apprendere di molte cose circa l'essere e le operazioni di Satana e degli angeli suoi. Una ragione per crederlo si ha in quelle parole che egli pone in bocca a frate Catalano de' Malavolti:

Io udi' già dire a Bologna

Del diavol vizii assai, tra i quali udi'

Ch'egli è bugiardo, e padre di menzogna.

Ma comunque se la procacciasse, il poeta del mondo invisibile non poteva non avere una dottrina demonologica: senza curarci d'altro, vediamo qual sia.

I.

Gli è noto che il mito della ribellione e della caduta degli angeli si fonda sopra alcuni luoghi del Nuovo Testamento, i quali non sono di troppo sicura significazione. Un mito parallelo, e che ha radice nel Testamento Antico, narra di angeli, che avendo avuto commercio con le figlie degli uomini furono cacciati dal cielo. Entrambii miti trovarono credito fra i Padri dei primi secoli; ma poi il primo soperchiò e fece in qualche modo dimenticare il secondo. Dante osserva su questo punto la comune credenza del tempo suo. Nel Convivio egli chiama in generale i demonii intelligenzie che sono in esilio della superna patria, e piovuti dal cielo li dice nel c. VIII dell'Inferno; di Lucifero,

Che fu la somma d'ogni creatura,

dice nel XIX del Paradiso, che

Per non aspettar lume cadde acerbo;

ma nel VII della prima cantica allude alla parte più drammatica del mitico racconto, alla cacciata dei ribelli, vinti dall'arcangelo Michele, che

Fe' la vendetta del superbo strupo;

e cacciati dal ciel, gente dispetta li chiama nel IX. Essi corsero in colpa immediatamente dopo la loro creazione:

Nè giungeriesi, numerando, al venti

Sì tosto, come degli angeli parte

Turbò il suggetto dei vostri elementi;

e ciò avvenne fuori della intenzione divina, benchè non fuori della divina prescienza. Cagione della colpa fu la superbia; e invidia e superbia sono, secondo S. Tommaso, i due soli peccati, che possano propriamente capire nella diabolica natura.

Principio del cader fu il maledetto

Superbir di colui che tu vedesti

Da tutti i pesi del mondo costretto,

dice Beatrice al poeta; di colui che fu primo suberbo, e

Contra il suo Fattore alzò le ciglia.

Di tutti gli ordini degli angeli si perderono alquanti tosto che furono creati, forse in numero della decima parte; alla quale restaurare fu l'umana natura poi creata. I cacciati dal cielo furono precipitati sopra la terra: Lucifero cadde folgoreggiando, dalla parte dell'emisfero australe,

E la terra, che pria di qua si sporse,

Per paura di lui fe' del mar velo,

E venne all'emisperio nostro; e forse

Per fuggir lui lasciò qui il loco voto

Quella che appar di qua e su ricorse.

Questa mirabile immaginazione è, per quanto io so, tutta propria di Dante, e dà luogo ad alcune difficoltà sulle quali io non intendo di trattenermi. Ma non tutti gli angeli tristi peccarono egualmente: alcuni di essi si serbarono neutrali;

non furon ribelli,

Nè fûr fedeli a Dio, ma per sè foro.

Cacciati dal cielo, e rifiutati dal profondo Inferno, essi scontano la loro pena nel vestibolo, insieme con

l'anime triste di coloro

Che visser senza infamia e senza lodo.

Dicono i commentatori, ultimo lo Scartazzini, tal classe di angeli neutrali non trovarsi nella Bibbia, ed esser forse invenzione di Dante. Che nella Bibbia non si trovi è verissimo; ma non così che Dante ne sia

l'inventore. Nella leggenda del Viaggio di S. Brandano, la cui redazione latina risale, per lo meno, all'XI secolo, si legge che, nel corso della sua avventurosa navigazione, il santo, co' suoi compagni, giunse ad un'isola, dovetrovò un albero meraviglioso, popolato di uccelli candidissimi, i quali erano appunto angeli caduti, ma non però malvagi. Essi non soffron castigo, ma sono fuori dell'eterna beatitudine. Certo, la finzione della ingenua leggenda si scosta per più ragioni da quella del poeta, ma ha con essa un concetto comune, il concetto di una schiera di angeli che, travolti nella ruina, perdettero il cielo, senza diventar propriamente ospiti dell'Inferno. La leggenda di S. Brandano fu una delle più diffuse nel medio evo, e passò dalle redazioni latine, di cui rimangono ancora innumerevoli manoscritti, nelle volgari, dove ebbe spesso a soffrire alterazioni di più maniere. Si può tenere per certo che Dante la conobbe. Del resto quella finzione non ricorre soltanto nella leggenda di S. Brandano. Ugone di Alvernia, eroe di uno strano romanzo, del quale, perdutasi la redazione francese originale, non rimangono se non rifacimenti franco-italiani e italiani, viaggiando alla volta dell'Inferno, trova, in prossimità del Paradiso terrestre, e in forma di uccelli neri, demonii d'intermedia natura, i quali han riposo la domenica. Ora, sebbene nella descrizione dell'Inferno, quale si ha nei rifacimenti nostri, sieno evidenti gl'influssi danteschi, molto nulladimeno è in essa che va esente da tali influssi e che certamente appartiene a immaginazioni e tradizioni predantesche, accolte nel poema primitivo. E al poema primitivo tengo per fermo che spetti quanto si dice di quei demonii intermedii, la cui condizione è non poco disforme dalla condizione che Dante attribuisce agli angeli del cattivo coro. Assai probabilmente la intera finzione passò nell'Ugone d'Alvernia dalla leggenda di S. Brandano. Nè questo basta. Una finzione consimile si trova in un altro poema, di un buon secolo anteriore alla Divina Commedia. Wolfram von Eschenbach(m. c. il 1220) fa dire a Trevrizent, nel suo Parzival, che i primi custodi del Santo Gral furono gli angeli che nella battaglia fra Lucifero e Dio si mantenner neutrali.

II.

I demonii che Dante pone nel suo Inferno si possono, avuto riguardo ai luoghi di loro provenienza, dividere in due classi, demonii biblici e demonii mitologici, secondochè sono tolti alla tradizione scritturale e patristica, o al mito pagano. Così è che insieme con Satana, o Beelzebub,

o Lucifero, troviamo nel doloroso regno Caronte, Minosse, Cerbero, Plutone, Flegias, le Furie, Medusa, Proserpina, il Minotauro, i Centauri, le Arpie, Gerione, Caco, i Giganti. E non solo il poeta ricorda molti più demonii mitologici che non biblici; ma assegna inoltre a quelli, fatta eccezione pel solo Lucifero, officii assai più importanti che a questi; infatti, mentre agli altri demonii è solo commesso di tormentare alcune classi di dannati, il che è pure commesso ai Centauri e alle Arpie, Caronte traghetta le anime,Minosse le giudica, Cerbero e Plutone stanno a guardia, l'uno del terzo, l'altro del quarto cerchio, e via discorrendo. Ma qui c'è argomento a parecchie osservazioni.

Più volte fu Dante ripreso per aver mescolato insieme cose appartenenti al mito pagano e cose appartenenti alla credenza cristiana; e chi lo riprese in nome di questa credenza medesima, contaminata, in qualche modo, per tale immistione; chi in nome di certe convenienze estetiche, quanto evidenti e necessarie a chi le propugna, tanto ignote ai tempi di Dante e un gran tratto ancora prima e dopo di lui. Considerare poi quella mescolanza come l'effetto anticipato di certe tendenze e di certe usanze dell'umanesimo, se non è erroneo in tutto, è erroneo in gran parte, e bisogna a questo proposito distinguere una doppia tradizione, letteraria e popolare.

Echi e riflessi del mito pagano si trovano in molte descrizioni dell'Inferno cristiano, a cominciare dai primi secoli della Chiesa e a venir giù giù sino ai tempi che immediatamente precedono Dante. Il Tartaro, l'Averno, il Flegetonte e gli altri fiumi infernali, la palude Stigia, Caronte, Cerbero, ricorrono frequentissimi. L'Inferno descritto nel Roman de la Rose ha tra' suoi abitatori Issione, Tantalo, Sisifo, le Danaidi, Tizio; e Alano de Insulis pone a dominare nelle tartaree sedi le Furie.

Qui noi ci troviamo di fronte a una tradizione letteraria; ma questa non è la sola, chè insieme con essa va anche una tradizione popolare.

È noto che la Chiesa cristiana non giunse a far ciò, che a un certo punto della loro storia religiosa(ma a un certo punto solamente) fecero gli Ebrei: negare cioè in modo reciso e assoluto l'esistenza degli dei delle genti. La Chiesa cristiana, qual che ne fosse la ragione, che a noi ora non tocca indagare, non negò l'esistenza delle deità pagane, ma la divinità, e con lo stesso giudizio le convertì in demonii. Non è cosa su cui gli apologeti e i Padri della Chiesa primitiva insistano con più vigore; nè il fatto è tale da doverne stupire se si pensa che in molte altre religioni avvenne per appunto il medesimo. Così si trasformarono in diavoli, non

solamente gli dei maggiori e minori, ma ancora i semidei, e degli dei quelli più facilmente, come ben s'intende, cui già i pagani attribuivano qualità paurose e maligne: inoltre le Lamie, le Empuse, le Arpie, le Chimere, i Gerioni, non furono spenti, ma diventarono ospiti dell'Inferno, sudditi e aiutatori di Satanasso.

Si potrebbe tessere di questa trasformazione un'assai lunga e curiosa istoria. I nomi delle antiche divinità, o almeno di alcune di esse, continuarono a vivere nella memoria dei popoli bene o male convertiti, e intorno aquei nomi nacquero superstizioni, leggende e fantasie. Sant'Antonio incontrava nel deserto un centauro, e San Gerolamo non sa risolvere se fosse apparizione diabolica, o mostro naturale. Incontrava anche un satiro che parlava e lodava Dio, ma per eccezione certamente, giacchè quella del satiro fu una delle forme che più di spesso si diedero al diavolo. Ai tempi di Gervasio da Tilbury(XII e XIII sec.) si parlava ancora di fauni, di satiri, di silvani, di Pani, e molti affermavano averli veduti: i fauni s'invocavano ancora nella diocesi di Lione ai tempi di Stefano di Borbone(m. verso il 1262).

Mercurio diventa un diavolo nella leggenda di Giuliano l'Apostata; Venere un diavolo in parecchie leggende, di cui la più famosa è quella del cavaliere Tanhäuser; un diavolo, com'è del resto assai naturale, Vulcano. Sigeberto Gemblacense ricorda che certe bocche vulcaniche in Sicilia, le quali si credevano essere spiracoli dell'Inferno, si chiamavano da quegli abitanti col nome di Ollae Vulcani. C'erano diavoli acquatici che si chiamavano Nettuni, pericolosi a chi si trovava in prossimità di acque profonde, e infesti, pare, alle donne; c'erano le sirene che, come in antico, traevano a perdizione col canto gl'incauti navigatori.

Demonio di molta importanza diventò Diana, certamente in grazia della identificazione sua con Ecate e con Proserpina. Di Diana demonio si discorre nella leggenda di S. Niccolò, mentre altre leggende la designano più propriamente come il demonio meridiano. In una Vita di S. Cesario, vescovo di Arles(m. 542) si fa menzione di un demonio chiamato Dianum dai campagnuoli. Un canone, indebitamente attribuito al sinodo di Ancira dell'anno 314, ma riportato da Reginone, abate di Prüm(m. 915), da Burcardo di Worms(m. 1024), da Graziano(m. 1204?), fa menzione di donne le quali s'immaginavano di andare in giro la notte, a cavallo di varii animali, in compagnia di Diana e di Erodiade; e a questa stessa superstiziosa credenza alludono, un Capitolare di Lodovico II imperatore, dell'anno 867, il già citato Stefano di Borbone, Giovanni Herolt(m. 1418),

e altri. Anzi è da notare che il nome di Diana e la credenza accennata non sono per anche in tutto dileguati dalla memoria di alcuni popoli cristiani. Sant'Eligio, morto poco oltre il mezzo del settimo secolo, dice in un sermone famoso, combattendo certi avanzi di credenze pagane: Nullus nomina daemonum, aut Neptunum, aut Orcum, aut Dianam invocare praesumat. Il pessimo pontefice Giovanni XII fu, nel sinodo romano del 963, accusato d'aver bevuto alla salute del diavolo, diaboli in amorem, e di avere, giocando a dadi, invocato l'ajuto di Giove, di Venere, ceterorumque demonum.

Se, dunque, le antiche divinità s'erano tramutate in demonii, era, non pure lecito, manecessario, porle con gli altri demonii in Inferno. Gli autori delle Chansons de geste ricordano spesso quali diavoli Giove ed Apollo, talvolta i Nettuni rammentati di sopra e Cerbero. Cerbero apparisce inoltre come cane infernale in alcun documento di poesia medievale tedesca, e in molti di poesia latina. Nella Visione di Tundalo, Vulcano e i suoi ministri arroventano nel fuoco le anime, le martellano sulle incudini; nella Kaiserchronik si racconta che l'anima di Teodorico fu portata dai demonii nel monte, a Vulcano, in den berc ze Vulkân. Dante anche in ciò non fece se non seguire la tradizione e il costume, salvo che egli si contentò di porre nell'Inferno cristiano divinità pagane infernali, e lasciò in pace Giove, Apollo e gli altri; anzi il nome di sommo Giove diede a Cristo. Forse non gli bastò l'animo di abbassare alla condizione di diavoli malvagi e deformi le divinità luminose di cui la fantasia di lui doveva pure essersi innamorata leggendo Virgilio e gli altri poeti latini.

Ma i diavoli mitologici dell'Inferno dantesco porgono argomento a più altre considerazioni.

Dante ricorda parecchi giganti tolti al mito pagano(Efialte, Briareo, Anteo, Tizio, Tifeo) e uno tolto al mito biblico(Nembrot): sono essi demonii nel concetto del poeta? Credo che sieno a quel modo che i Centauri, ed anche perchè, quelli del mito pagano almeno, sono, non uomini, ma dei. Quanto a Nembrot si può osservare che, sonando il corno, e poi con le inintelligibili e orrende parole, egli sembra, o volere spaventare i poeti che si avvicinano, o avvertire Lucifero di loro venuta, e così fa presso a poco ciò che già prima avevano fatto Caronte, Minosse, Cerbero, Plutone. Perciò non si può dire che i giganti sieno in luogo a loro non conveniente, laggiù nel pozzo dell'ottavo cerchio. Demonii appunto erano, secondo un'antica opinione, i giganti nati dal commercio degli angeli e delle figlie degli uomini; giganti nerissimi, trova

Carlo il Grosso nell'Inferno da lui veduto, intesi ad accendere ogni maniera di fuochi; nelle Chansons de geste i giganti sono spesso considerati come diavoli venuti fuor dall'Inferno, o come figli di diavoli, e Tundalo vede due enormi giganti tenere aperta la voraginosa bocca del mostro Acheronte, la quale capere poterat novem milia hominum armatorum.

Minosse e Flegias sono due semidei, figlio di Giove l'uno, di Ares o Marte l'altro. A prima giunta sembra che se ciò che in essi era di divino doveva rendere possibile e provocare la trasformazione in demonii, ciò che era di umano doveva impedirla, se non per Minosse, il quale aveva già trovato posto, come giudice, nell'Inferno pagano, almeno per Flegias. Ma, in verità, questo impedimento non c'era. Nei demonii GiuseppeFlavio riconosceva le anime degli uomini malvagi(ανθρῶπων πονηρῶν πνεύματα): nelle Chansons de geste appajono spesso come demonii Nerone, Maometto, Pilato; e come demonio appare Maometto nel poema di Giacomino da Verona, De Babilonia civitate infernali. Dante stesso riconosce una grande affinità fra lo spirito dell'uomo malvagio e il demonio, quando col nome di demonio appunto chiama l'anima dannata, e Demonio dice Maghinardo Pagani. Come Dante di Minosse, Wolfram von Eschenbach fa un diavolo di Radamanto.

III.

Dante dà un corpo ai demonii, seguendo in ciò la opinione di molti Padri e Dottori della Chiesa e la vulgata credenza; ma di che natura è desso? Sia che il poeta non avesse in proposito concetti ben definiti, sia che la materia del suo poema e certe convenienze di trattazione non gli permettessero di sempre osservarli, fatto sta che in quanto egli dice o accenna a tale riguardo si nota incertezza e contraddizione. Le opinioni stesse dei Padri non sono troppo concordi. Fra quella di Gregorio Magno, che voleva i diavoli al tutto incorporei, e quella di Taziano, che volentieri esagerava la materialità loro, alcuna ve n'è più temperata; ma si ammetteva quasi generalmente che i demonii avessero un corpo formato d'aria o di fuoco; anzi un corpo si attribuiva anche agli angeli, e si diceva che, dopo la caduta, quello dei demonii era divenuto più grossolano e più spesso. Dante ha gli angeli in conto di forme pure, di sustanze separate da materia, e nulla dice del modo onde i demonii acquistarono un corpo; ma forse ci può dar qualche lume in proposito, quanto egli dice del modo che tengon le anime uscite di questa vita nel

formarsene uno d'aria condensata. E badisi che qui si discorre del corpo che i demonii hanno in proprio, e non di quello onde possono rivestirsi accidentalmente, per loro particolari propositi.

Ho accennato a incertezze e contraddizioni di Dante in sì fatto argomento. Il corpo di cui è provveduto il demonio Flegias è certo un corpo sottilissimo, non più pesante dell'aria entro a cui si muove, e in tutto simile all'ombra di Virgilio, giacchè la barca con cui egli fa passare ai due poeti la palude degli iracondi sembra carca solo quando Dante vi entra. Il corpo di Lucifero per contro dev'essere assai più denso e grave, non solo per quel suo essersi sprofondato sino al punto

Al qual si traggon d'ogni parte i pesi;

e perchè la ghiaccia lo stringe tutto intorno e ritiene, come solo può fare solido con solido; ma ancora perchè i due poeti, e specialmente Dante, che è d'ossa e di polpe, possono scendere e arrampicarsi sopradi esso non altrimenti che se fosse una rupe. Può darsi che Dante abbia con pensato proposito dato un corpo più grossolano e più denso al più malvagio degli angeli ribelli, a colui che è

Da tutti i pesi del mondo costretto;

ma vuolsi notare che qualche incertezza egli lascia scorgere anche riguardo ai nuovi corpi rivestiti dalle anime dannate o purganti. Nell'Antipurgatorio il poeta vuole abbracciare Casella e non può:

O ombre vane, fuor che nell'aspetto!

Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,

E tante mi tornai con esse al petto;

e pure trova poco più oltre le anime dei superbi che si accasciano sotto i ponderosi massi. Nel terzo cerchio dell'Inferno i poeti passano su per l'ombre che adona la greve pioggia, e pongono le piante

Sopra lor vanità che par persona;

ma nel nono Dante forte percote il piè nel viso ad una delle anime triste dell'Antenora. Virgilio non isparge ombra in terra; ma è in grado di sollevare e portar Dante.

Quanto alla forma e all'aspetto de' suoi demonii Dante non dice gran che, fatta eccezion per Lucifero. Caronte è da lui dipinto quale già il dipinse Virgilio. Minosse ha più del bestiale e del diabolico: sta orribilmente, ringhia, agita una lunga coda, con cui può cingersi ben nove volte il corpo, quanti sono i cerchi dell'Inferno. Plutone, che Virgilio

chiama maladetto lupo, mostra altrui un volto gonfio d'ira(enfiata labbia), una sembianza di fiera crudele, ha la voce chioccia. Gerione, mutato l'aspetto che già ebbe nel mito, ha faccia d'uom giusto, il resto di serpe, due branche pelose, coda aguzza, il dorso, il petto, le coste simbolicamente dipinti di nodi e di rotelle. Cerbero, le Furie, il Minotauro, i Centauri, le Arpie, serbano invariate le forme tradizionali; e così dicasi dei Giganti, dei quali non si descrive se non la smisurata statura.

Ma non mancano nell'Inferno dantesco diavoli in cui più propriamente si scorge l'aspetto che ai nemici dell'uman genere attribuì la turbata fantasia dei credenti, specie nel medio evo. Questi diavoli sono neri(angeli neri, neri cherubini), quali già s'immaginavano nel IV secolo, e con forma umana, la forma che in quel medesimo tempo si attribuì loro. I demonii che sferzano i mezzani nella prima bolgia dell'ottavo cerchio, sono cornuti; Ciriatto è sannuto; Cagnazzo mostra, non un volto, ma un muso; ed essi e i compagni loro sono armati di artigli. Il demonio che butta giù nella pegola spessa dei barattieri uno degli anziani di Santa Zita è dipinto quale infinite opere d'arte del medio evo appunto cel mostrano:

Ahi, quanto egli era nell'aspetto fiero!

E quanto mi parea nell'atto acerbo,

Con l'aleaperte e sovra i piè leggiero!

L'omero suo, ch'era acuto e superbo,

Carcava un peccator con ambo l'anche,

E quei tenea de' piè ghermito il nerbo.

Se non che bisogna dire che Dante, trattenuto forse da un delicato sentimento d'arte, non diede a nessuno dei demonii suoi, nemmeno a Lucifero, la deformità abbominevole che spesso hanno i demonii descritti nelle leggende, o ritratti da pittori e scultori nel medio evo.

Lucifero, il principe dei demonii,

La creatura ch'ebbe il bel sembiante,

è da Dante rappresentato di smisurata grandezza, brutto quanto già fu bello, e forse più, con tre facce alla sua testa, l'una vermiglia, tra bianca e gialla l'altra, nera la terza, sei enormi ali di pipistrello, corpo peloso. Quelle tre facce diedero assai da pensare ai commentatori, parecchi dei quali attribuirono loro significati, cui non sarebbero certo andati a rintracciare, se invece di stimarle una immaginazione propria di Dante, avessero saputo che assai prima di Dante si trovano. I commentatori più

antichi, i quali dovevano saperlo, ne diedero, in generale, interpretazione assai più giusta che non i moderni, e non si smarrirono dietro a sogni, come il Lombardi, che nelle tre facce vide simboleggiate le tre parti del mondo onde Satana ha tributo di anime, e come il Rossetti che vi riconobbe Roma, Firenze, la Francia.

Questo Lucifero con tre facce non balza fuori per la prima volta dall'accesa fantasia di Dante; già innanzi la coscienza religiosa l'aveva immaginato e scorto, già le arti l'avevano raffigurato. Esso è come l'antitesi della Trinità, o come il suo rovescio. La Trinità fu qualche volta nel medio evo rappresentata sotto specie di un uomo con tre volti; e poichè il concetto della Trinità divina suggerisce il concetto di una Trinità diabolica, e poichè inoltre nello spirito del male si supponeva essere tre facoltà o attributi opposti e contraddicenti a quelli che si spartiscono fra le tre persone divine, così era naturale che si ricorresse per rappresentare il principe de' demonii a una figurazione atta a far riscontro a quella con che si rappresentava il Dio uno e trino. Lucifero appare con tre facce in iscolture, in pitture su vetro, in miniature di manoscritti, quando cinto il capo di corona, quando sormontato di corna, tenente fra le mani talvolta uno scettro, talvolta una spada, o anche due. Quanto tal figurazione sia antica è difficile dire. Un manoscritto anglo-sassone del Museo Britannico, appartenente alla prima metà del secolo XI, reca una immagine di Satana, nella quale si vede, dietro l'orecchio sinistro(la figura è di profilo), spuntare di traverso una seconda faccia. Più tardi il corpo dei demonii ebbe spesso a coprirsi di facce, significative dimalvagi istinti. Senza dubbio Dante volle con le tre che dà al suo Lucifero, conformemente a una usanza già antica, rappresentare gli attributi diabolici opposti ai divini; e poichè, per lo stesso Dante, come per S. Tommaso, il Padre è potestà, il Figliuolo è sapienza, lo Spirito Santo è amore, le tre facce non possono simboleggiare se non impotenza, ignoranza, odio, come rettamente giudicarono alcuni dei commentatori più antichi.

Non solo Dante non immaginò, egli primo, il Lucifero con tre facce; ma nemmen primo immaginò di porre in ciascuna delle tre bocche immani un peccatore non degno di minor pena. Nella chiesa di Sant'Angelo in Formis, presso Capua, una grande pittura, stimata opera del secolo XI, rappresenta Lucifero in atto di maciullar Giuda. Nella chiesa di S. Basilio, in Étampes, una scultura del XII rappresenta appunto Lucifero che maciulla tre peccatori, e rappresentazioni sì fatte erano, sembra,

frequenti in Francia. Il Boccaccio ricorda il Lucifero da San Gallo, e il Sansovino dice che nella chiesa di San Gallo, in Firenze, era dipinto un diavolo con più bocche.

Dante parla del terror che lo colse alla vista di Lucifero:

Com'io divenni allor gelato e fioco,

Nol dimandar, lettor, ch'io non lo scrivo,

Però ch'ogni parlar sarebbe poco.

Io non morii e non rimasi vivo.

Pensa oramai per te, s'hai fior d'ingegno,

Qual io divenni d'uno e d'altro privo.

Non è forse da tacere, a tale proposito, che la vista del diavolo si credeva potesse essere perniciosa e letale. Cesario di Heisterbach narra di due giovani che languirono gran tempo per aver veduto il diavolo in forma di donna; Tommaso Cantipratense dice che la vista del diavolo fa ammutolire.

Dante non dice nulla delle forme varie che i demonii possono assumere a lor piacimento. Egli fa ricordo di cagne bramose e correnti che lacerano i violenti contro a se stessi; di serpenti che tormentano i ladri; di un drago, che stando sulle spalle di Caco, affoca qualunque s'intoppa; ma non dice che sieno demonii, e noi non possiamo indovinare con sicurezza il pensier suo a tale riguardo. Animali diabolici s'incontrano nelle Visioni: in quella di Alberico si fa espressa menzione di due demonii che hanno forma, l'uno di cane, l'altro di leone; ma, da altra banda è da ricordare che serpenti e scorpioni smisurati e lupi e leoni sono nell'Inferno di Maometto, e che molte fiere selvagge e voraci sono nell'Inferno indiano.

IV.

Circa la natura morale dei demonii Dante non ha, e non poteva avere cose nuove da dire: conosciuti erano gli atti e portamenti loro; la loro riputazione era fatta.

Lucifero fu creato più nobile d'ogni altra creatura; ma il peccato, il superbo strupo,cancellò in lui, come ne' seguaci suoi, ogni natia nobiltà. La superbia fu il suo primo peccato; fu il secondo l'invidia, e questa trasse a perdizione i primi parenti, e con essi tutto il genere umano. Egli è il nemico antico ed implacabile dell'umana prosperità, l'antico

avversaro di tutti gli uomini, ma più di quelli che non vanno per le sue vie, e cui egli tenta trarre a peccato e a ruina; il vermo reo che il mondo fora. Perciò egli con amo invescato attira le anime, e tenta insidiarle persino in Purgatorio, donde lo cacciano gli angeli. Egli, il perverso κατ' ἐξοχήν, è bugiardo e padre di menzogna. Il mal voler, che pur mal chiede, è fatto natura sua e degli angeli suoi: Dante, con tutti i teologi del suo tempo, rifiuta e condanna la opinion di Origene e di alcuni seguaci di lui, che i demonii possano ravvedersi e trovar grazia. L'ira e la rabbia sono passioni principali dei maledetti. Caronte parla iracondo, si cruccia, batte col remo qualunque anima si adagia; Minosse si morde per gran rabbia la coda; Plutone consuma dentro sè con la sua rabbia; Flegias, conosciuto il proprio inganno, se ne rammarca nell'ira accolta; i demonii che stanno a custodia della città di Dite parlan tra loro stizzosamente, il Minotauro morde se stesso,

Sì come quei cui l'ira dentro fiacca;

e non parliam delle Furie e d'altri demonii che con atti o con parole fan manifesta la rabbia che li divora. Quelli della quinta bolgia dell'ottavo cerchio digrignano i denti e con le ciglia minaccian duoli. Opportuna perciò la comparazione che più di una volta Dante fa de' suoi demonii con mastini sciolti, con cani furibondi e crudeli. Se Rubicante è pazzo, come Malacoda lo chiama, la sua è certo pazzia furiosa.

I demonii sono gelosi del loro regno, e malvolentieri vedono altri penetrarvi e aggirarvisi, se non è condotto da loro e in lor servitù. Come già si opposero alla discesa di Cristo, così si oppongono al viaggio di Dante. Caronte, Minosse, Cerbero, Plutone, i demonii della città di Dite, le Furie, forse anche Nembrot, cercano in varii modi e con varii argomenti di farlo retrocedere. Allo stesso modo, nella leggenda del Pozzo di S. Patrizio, i demonii tentano ripetutamente di far tornare addietro il cavaliere Owen. La tracotanza e l'insolenza sono proprie qualità dei superbi caduti, a umiliare le quali è talvolta necessario l'intervento divino. E anche quando sanno non essere senza l'espresso volere di Dio l'andata dei due poeti, i demonii più protervi si studiano di nuocer loro, minaccian Dante coi raffii, ingannano Virgilio con false informazioni, inseguono l'unoe l'altro per prenderli, dopo averli lasciati andare. Nella Visione di Carlo il Grosso appaiono nigerrimi demones advolantes cum uncis igneis, i quali tentano di uncinare Carlo, e ne sono impediti dall'angelo che lo guida; nella Visione di un uomo di Nortumbria, narrata da Beda, demonii minacciano di afferrare con ignee tenaglie

l'intruso; anche Alberico è minacciato da un diavolo e difeso da S. Pietro. Giunto in prossimità dell'Inferno, il Mandeville si vide contrastare il passo da un nugolo d'avversarii, ed ebbe da uno di loro una mala percossa, di cui portò il segno per ben diciott'anni. Che con un naturale sì fatto i diavoli non possano amarsi tra loro s'intende facilmente. Come Alichino e Calcabrina fanno, là, nella bolgia dei barattieri, così debbono gli altri azzuffarsi quando l'occasione se ne porga. Vero è che Barbariccia, co' suoi, tiran poi fuori del bollente stagno, in cui eran caduti, i due combattenti.

Quest'opera di fraterno soccorso ci lascia pensare che anche nei diavoli possa talvolta essere alcun che di men tristo. Minosse, il conoscitor delle peccata, ha da avere, se non altro, un sicuro sentimento di giustizia, senza di che non potrebbe assegnare a ciascun peccatore la pena che gli si conviene. Chirone dà una scorta fida ai poeti; Gerione concede loro il suo dorso; Anteo li posa sull'ultimo fondo d'inferno.

È opinione comune dei teologi che l'intelletto dei demonii siasi ottenebrato dopo la caduta, di maniera che, se vince ancora, e di molto, l'umano, è di gran lunga inferiore all'angelico. Essi non conoscono il futuro se non in quanto Dio lo fa loro palese, o in quanto possono argomentarlo da indizii e da fenomeni naturali; similmente non penetrano l'animo umano, ma da segni esteriori argomentano ciò che in esso si muove. Dante non pare abbia pensato altrimenti, sebbene, sul conto del saper loro, mostri di essere incorso in qualche contraddizione. A suo giudizio i demonii non possono filosofare, perocchè amore è in loro del tutto spento, e a filosofare..... è necessario amore; ciò nondimeno, il demonio che se ne porta l'anima di Guido da Montefeltro può vantarsi d'esser loico, e de' buoni. Caronte conosce essere Dante un'anima buona: da che? non sappiamo. Flegias, per contro, crede vedere in Virgilio un'anima rea. Del resto nè Caronte, nè Minosse, nè Plutone, nè i demonii della città di Dite, sanno la ragione del viaggio di Dante e il divino patrocinio sotto cui esso si compie, e Virgilio a più riprese deve far ciò manifesto. Ora tale ignoranza può parere un po' strana, se si pensa che Dante stesso afferma non avere i demonii bisogno della parola per conoscere l'uno i pensamenti dell'altro.Dato dunque, che non potessero penetrare nella mente di Virgilio e di Dante, essi avrebbero dovuto aver cognizione del fatto come prima uno dei loro l'avesse avuta. Ma i demonii, che Dante trova in Inferno, usano della parola anche quando conversan tra loro.

Della potenza diabolica Dante non dice gran che; ma si conforma in tutto alla comune opinione quando attribuisce ai demonii potestà sugli elementi, e narra della procella da essi suscitata, che travolse con le sue acque il corpo di Buonconte da Montefeltro.

Il demonio può invadere il corpo umano e produrre in esso turbazioni simili a quelle che arrecano certi morbi; può inoltre animare i corpi morti e dar loro tutte le apparenze e gli atti della vita. I traditori della Tolomea hanno, secondo dice frate Alberigo a Dante, questa sorte, che l'anima loro piomba in Inferno e pena, mentre il corpo, governato da un demonio, si rimane, in apparenza ancor vivo, nel mondo:

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,

Che spesse volte l'anima ci cade

Innanzi ch'Atropós mossa le dea.

E perchè tu più volentier mi rade

Le invetriate lagrime dal volto,

Sappi che tosto che l'anima trade,

Come fec'io, il corpo suo l'è tolto

Da un dimonio, che poscia il governa

Mentre che il tempo suo tutto sia vôlto.

Nella medesima condizione si trovano Branca d'Oria, che

In anima in Cocito già si bagna,

Ed in corpo par vivo ancor di sopra,

ed un suo prossimano.

Ora questa ingegnosa invenzione non è, come sembra allo Scartazzini, una invenzione di Dante, suggerita da quanto nell'Evangelo di Giovanni(XIII, 27) si dice di Giuda: Et post bucellam introivit in eum Satanas; perchè con tali parole l'Evangelista non vuole dir altro se non che da indi in poi Giuda fu in potestà di Satana, e come invasato del maligno spirito. In fatti Giuda non muore allora, ma, dopo consumato il tradimento, da se stesso si uccide. La invenzione, o, meglio, la immaginazione, Dante la trovò già bella e formata, e le citate parole dell'Evangelista poterono tutto il più suggerirgli l'idea di applicarla a pessimi peccatori, traditori come Giuda. Cesario di Heisterbach racconta la storia di un chierico cuius corpus diabolus loco animae vegetabat. Questo chierico cantava con voce soavissima e incomparabile; ma un bel giorno un sant'uomo uditolo, disse: Questa non è voce d'uomo, anzi è di

demonio; e fatti suoi esorcismi costrinse il diavolo a venir fuori, e il cadavere cadde a terra. Tommaso Cantipratense racconta come un diavolo entrò nel corpo di un morto, che era deposto in una chiesa, e tentò di spaventare una santa vergine che pregava; ma la santa vergine, datogli un buon picchio sul capo, lo fece chetare. Di undiavolo, che, per tentare un recluso, assunse il corpo di una donna morta, narra Giacomo da Voragine. Ma la immaginazione è assai più antica. Di un diavolo, che, entrato nel corpo di un dannato, traghettava a un fiume i viandanti, con isperanza di poter loro nuocere, si legge nella Vita di San Gilduino; di un altro, che teneva vivo il corpo di un malvagio uomo, si legge nella Vita di Sant'Odrano. Se e come in quei corpi dei traditori animati dai demonii si compiessero le funzioni vitali, Dante non dice: la opinione che non si compiessero se non in apparenza doveva essere la più diffusa. Nei racconti testè citati di Cesario e di Giacomo, i cadaveri, appena abbandonati dagli spiriti maligni, presentano tutti i caratteri di una inoltrata putrefazione, e ciò conformemente ad altre opinioni e credenze, delle quali non mi dilungo a discorrere.

V.

I demonii avevano due sedi, l'Inferno, per punizione loro e dei dannati, e l'aria, per esercitazione degli uomini, sino al dì del Giudizio. Della sede aerea Dante non dice nulla di proposito; ma la suppone evidentemente quando accenna a tentazioni diaboliche, quando parla della potestà che hanno i demonii di suscitar procelle, o di demonii che contendono agli angeli le anime dei morti.

In Purgatorio Dante non pone demonii: l'antico avversario tenta di penetrarvi in forma di biscia,

Forse qual diede ad Eva il cibo amaro;

ma gli angeli, gli astor celestïali, lo volgono in fuga. I teologi sono comunemente d'accordo nel ritenere che in Purgatorio non ci siano demonii a tormentare le anime; ma moltissime Visioni rappresentano il Purgatorio pieno anch'esso di diavoli, intesi a farvi il consueto officio di tormentatori. La Chiesa, che solo nel 1439, nel concilio di Firenze, fermò il dogma del Purgatorio, la cui dottrina era stata innanzi svolta da S. Gregorio e da S. Tommaso, non si pronunziò sopra questo punto particolare. Dante, che, quanto alla situazione e alla struttura del Purgatorio ha immaginazioni e concetti proprii, quanto alla relazion di

esso coi demonii tiene la opinion dei teologi, rifiutando quella dei mistici.

Della situazione dell'Inferno, erano state, ed erano tuttavia, molte svariate opinioni; la più accreditata e diffusa lo poneva nel centro della terra, e questa è appunto l'opinione seguita da Dante. Nell'Inferno dantesco i demonii sono variamente distribuiti, conforme al concetto che il poeta s'era formato della gravità delle colpe e della conseguente gravità dei castighi. Che demonii non debbano essere nel limbo, dove sono gli spiriti magni, solo esclusi dal cielo perchè non ebber battesmo, e i fanciulli morti prima di averlo, s'intende facilmente; e mezzi demonii si possono dire quelli che nel vestibolo scontano lor pena insiemecon gli sciaurati che mai non fur vivi. Il primo vero demonio che Dante incontri è Caronte, ed è strano abbastanza che egli non ne abbia posto alcuno a guardia della porta su cui sono le parole di colore oscuro, e che, forzata da Cristo, trovasi ancora, a dir di Virgilio, senza serrame. Nel secondo cerchio è Minosse, solo nominato; ma debbono pure esservi altri demonii esecutori delle sentenze di lui, quelli per le cui mani le anime giudicate son giù vôlte.1 diavoli appajono per la prima volta numerosi(più di mille) sulle porte della città di Dite. Possono i diavoli che sono in Inferno, e cui è commesso di tormentare le anime, uscir di là entro? Dante nol dice, ma per alcuni espressamente lo nega. Lucifero è confitto nel ghiaccio, nè si può muovere, suggerita senza dubbio la immaginazione da quel luogo dell'Apocalissi, detta di S. Giovanni, ove si narra che l'arcangelo Michele prese il dragone e lo legò per mille anni. Lucifero legato nell'ultimo fondo dell'Inferno appare anche in alcune Visioni. Efialte è legato, mentre Anteo è sciolto. I diavoli della quinta bolgia del cerchio ottavo, non possono uscire di là,

Chè l'alta provvidenza che lor volle

Porre ministri della fossa quinta,

Poder di partirsi indi a tutti tolle.

Ed è assai probabile che Dante abbia inteso il medesimo dei diavoli che nell'altre bolge e negli altri cerchi hanno ufficio di punitori.

S. Tommaso, al pari di molti altri teologi, e conformemente a quanto è accennato nel Nuovo Testamento, ammette che fra i demonii come fra gli angeli rimasti fedeli, ci sieno varii ordini e una gerarchia, a capo della quale è Beelzebub. Dante non esprime a tale riguardo una opinione categorica; ma presenta Lucifero quale re dell'Inferno e principe dei demonii, cui forse Plutone invoca nel suo inintelligibile linguaggio.

Quanto agli altri demonii si può notare qua e là qualche indizio di primazia e di soggezione. Abbiamo già veduto che Minosse deve avere altri demonii sotto di sè, esecutori delle sue sentenze. Chirone sembra essere il duce dei Centauri: Malacoda sembra avere alcuna signoria sui diavoli che tormentano i barattieri. Forse Dante ebbe anche a ricordarsi dell'antica opinione di Erma, di Clemente Alessandrino, di Origene e di altri, che ordinavano i demonii secondo le varie specie di peccati a promuovere i quali più specialmente attendevano: questo dubbio nasce quando si vede l'iracondo Flegias fatto navicellajo della palude degli iracondi; il ladro Caco perseguitare i ladri; Lucifero, il primo traditore, dirompere coi denti i tre grandi traditori.

Dante considera l'Inferno quale un regno opposto e contrario al regno de' cieli, e come Dio è l'imperador che lassù regna,l'alto sire del regno della beatitudine, così Lucifero è

Lo imperador del doloroso regno,

e le Furie sono

le meschine

Della regina dell'eterno pianto.

Questo concetto di un regno satanico si trova già negli Evangeli e in Padri della Chiesa, onde si trasse argomento, nelle rappresentazioni dell'arte, a dare a Lucifero, quali insegne della sua potestà, scettro e corona. Con tali insegne, o seduto sopra un trono, comparve anche Satana fuori dell'Inferno, in molte leggende. Giacomino da Verona chiama anch'egli Lucifero re dell'Inferno; ma, come Dante, gli nega ogni segno e fregio di signoria.

VI.

Vediamo ora i demonii di Dante in relazione coi dannati, nell'ufficio loro di giustizieri e tormentatori infernali.

Quando muore Guido da Montefeltro, resosi, dopo una vita tutta piena di colpe, cordigliero, S. Francesco viene per raccorne l'anima; ma un de' neri Cherubini gli dice:

Nol portar; non mi far torto.

Venir se ne dee giù tra' miei meschini,

Perchè diede il consiglio frodolente,

Dal quale in qua stato gli sono a' crini;

Ch'assolver non si può chi non si pente,

Nè péntere e volere insieme puossi

Per la contradizion che nol consente.

Quando invece muore Buonconte, sinceramente pentito, e col nome di Maria sulle labbra, viene l'angel di Dio e ne prende l'anima; ma quel d'Inferno grida:

O tu dal ciel, perchè mi privi?

Tu te ne porti di costui l'eterno

Per una lagrimetta che il mi toglie:

Ma io farò dell'altro altro governo.

Qui abbiamo, se non isvolti, indicati due contrasti, del demonio e d'un santo l'uno, del demonio e dell'angelo l'altro: nel primo vince il demonio; nel secondo l'angelo.

È noto che contrasti sì fatti furono popolarissimi nel medio evo, e varie letterature di quella età ne serbano numerosi documenti. Il concetto che li inspira scaturisce del resto dall'intimo della credenza cristiana e non è d'indole popolare soltanto. La lotta fra il divino e il diabolico è in essa iniziale, immanente. Prima Lucifero si ribella al suo fattore, poi perverte i primi parenti e tutta l'umana generazione; Cristo vince Lucifero e spoglia l'inferno; Maria calpesta l'antico serpente; l'Anticristo, campione di Satana, rinnoverà la pugna. Se oggetto dell'interminabile contesa è l'umanità, gli è giusto che per ogni singola anima le contrarie potestà combattano. La credenza che ciascun uomo sia, lungo il corso di tutta la vita, accompagnato, a destra da un angelo, da un demonio a sinistra, è tanto antica quanto ovvia, e poichè, mentre dura la vita di quello, i due spiriti avversarii tentano di sopraffarsi a vicenda, l'uno persuadendo il bene, l'altro istigando al male, ragion vuole che il contrasto non cessi, anzi si faccia più vivo in quel supremo momento in cui si decide il destino immutabile delle anime e si suggellasopr'esse l'eternità. In una lettera che i vescovi Remensi e Rotomagensi scrissero nell'858 a Luigi il Germanico si dice che i diavoli sono sempre presenti alla morte degli uomini, così dei malvagi, come dei giusti; e poichè, da altra banda, son pur presenti gli angeli, il contrasto è inevitabile. Un tale, di cui narra la Visione S. Bonifazio, apostolo della Germania(683-755), assistè a una specie di contrasto generale delle milizie celesti e infernali: Innumerabilem quoque malignorum spirituum turbam nec non et

clarissimum chorum supernorum angelorum adfuisse, narravit. Et maximam inter se miserrimos spiritus et sanctos angelos de animabus egredientibus de corpore disputationem habuisse, daemones accusando et peccatorum pondus gravando, angelos vero relevando et excusando. Nel Muspilli è detto che ogni qual volta un'anima esce dal corpo angeli e diavoli s'azzuffan tra loro.

L'immaginazione di sì fatti contrasti è assai antica. Nella epistola cattolica di Giuda, tenuta ora generalmente apocrifa dai critici, ma che si trova già ricordata nel secondo secolo, si accenna(v. 9) ad un alterco che l'arcangelo Michele ebbe col diavolo pel corpo di Mosè. Di Sant'Antonio racconta Sant'Atanasio, che una volta fu rapito in ispirito, e levato dagli angeli in cielo. I diavoli, ciò vedendo, cominciarono a contrastare, e gli angeli a chiedere perchè il facessero, non essendo in Antonio macchia di peccato. I diavoli allora presero a ricordare tutti i peccati che egli aveva commessi prima di abbracciare la vita solitaria, sin dalla nascita, e ad aggiungerne molt'altri, da loro calunniosamente inventati. Finalmente, non riuscendo loro la cosa, sgombrarono il passo. I Mongoli credono che ogni anima d'uomo che muore giunga in presenza del supremo giudice accompagnata da uno spirito buono e da un spirito malvagio, i quali, con sassolini bianchi e neri fanno il novero delle sue buone e cattive azioni.

Il contrasto è più spesso tra demonii e angeli; talvolta è tra demonii e santi, come si vede nella lettera apocrifa che si volle scritta da S. Cirillo, arcivescovo di Gerusalemme a Sant'Agostino, e nella Visione che un sant'uomo ebbe della liberazione dell'anima di re Dagoberto. Talvolta pure è tra i demonii e la Vergine, e ne' varii casi assume varia forma e vario carattere, secondo tempi, luoghi, e condizioni di persone. Come s'è veduto, Dante accenna appena ad un diverbio; anzi diverbio propriamente non pone, giacchè S. Francesco nulla risponde alle ragioni del diavolo loico, e nulla risponde l'angelo ai rimproveri del vinto avversario. Ma di forme così parche e temperate non avrebbe potuto appagarsi nè la fantasia dei mistici, nè la fantasia popolare, e per esse il contrasto doveva, facendosi sempre più grossolano, accogliere in sè tutti i possibili modi della contestazione e dellacontesa. Il libro dove sono notate tutte le buone azioni, e il libro, di solito molto maggiore, dove tutti i peccati son registrati, l'uno recato dagli angeli, l'altro dai diavoli, figurano già nella storia di un malvagio cavaliere del re Coenredo, narrata da Beda, ripetuta dal Passavanti. Essi trovansi del resto anche in altre mitologie. I Mongoli credono che il dio della morte ha un libro dove

nota tutte le azioni degli uomini. In altre leggende cristiane si ha la bilancia con cui angeli e diavoli pesano azioni buone e cattive. In una delle Visioni di S. Furseo, i demonii disputano assai dottamente con gli angeli di peccati e di penitenza, citano le Scritture, e non si mostrano men buoni dialettici del diavolo che se ne porta l'anima di Guido. Per l'anima di Baronto contrastano due demonii e l'arcangelo Raffaele. Disputano un giorno intero, senza venire a nessuna conclusione: allora l'arcangelo, spazientito, tenta di levar senz'altro l'anima in cielo; ma invano, perchè l'uno dei demonii l'acchiappa dal lato sinistro, l'altro, da tergo, la tempesta di calci. La battaglia dura un pezzo, si fa più aspra. Sopraggiungono altri quattro demonii in ajuto de' compagni, altri due angeli in ajuto di Raffaele. Dàgli e picchia, finalmente le potestà celesti trionfano. Notevole esempio di antropomorfismo anche questo, da aggiungersi agl'infinti onde è piena la storia di tutte le religioni. Con certe forme di tali contrasti ha stretta relazione quello che fu chiamato il processo di Satana, di cui io qui non mi curo. Noterò solo che in Dante il contrasto non passa oltre ad un grado, che si potrebbe chiamare, sebbene impropriamente, di prima istanza. Nè S. Francesco per l'anima di Guido, nè il demonio per l'anima di Buonconte, si richiamano di quanto nel primo caso risolve il diavolo loico, di quanto nel secondo pare abbia già risoluto l'angelo. Così non avviene in molti altri contrasti. Nella Visione di S. Furseo angelo e demonio, non potendo accordarsi circa il possesso di un'anima, si appellano a Dio. Giacomo da Vitry narra di un gran peccatore che, in punto di morte si confessò al diavolo, credendo confessarsi a un prete. Morto il peccatore, angeli e demonii furono, contrastando, intorno all'anima, e quelli dicevano che la confessione era valida, perchè fatta in buona fede, e questi gridavano che non poteva valere, perchè fatta al demonio. Per giudizio di Dio il peccatore risuscitò e potè rifare la confessione. Questa storia è ripetuta dal Cavalca.

Degno di attenzione nel secondo contrasto narrato da Dante è il mal governo che il demonio, non potendo avere l'anima, fa del corpo di Buonconte; giacchè, di solito, non è data ai demoniipotestà di offendere i corpi di chi muore riconciliato con Dio. Bensì sono spesso dati loro in balìa i corpi degli scelerati le cui anime vanno in Inferno; e molte storie spaventevoli si raccontano di corpi che furono strappati a furia fuor delle chiese, bruciati negli avelli, o fatti a pezzi. Le peripezie del corpo di Pilato sono note abbastanza.

Ma qui viene in taglio un'altra osservazione. Il diavolo loico prende

l'anima di Guido da Montefeltro, e la porta a Minosse, che la giudica e la manda fra i rei del foco furo. Come ciò? Dice Virgilio che le anime di coloro che muojon nell'ira di Dio convengnon d'ogni paese alla triste riviera d'Acheronte, e che son pronte a passare il fiume, così spronandole la divina giustizia che la tema si volge in desio. Se esse convengono di per sè al fiume; se Caronte è quegli che le traghetta; se per tal via giungono in cospetto del giudice infernale, come va che l'anima di Guido è portata al giudizio da un diavolo? Si può rispondere che Dante, narrando il passaggio delle anime oltre il fiume ebbe in mente il mito pagano, e che narrando poi di Guido, si scordò quel mito, e si sovvenne della comune credenza de' tempi suoi, secondo la quale le anime malvage erano portate via dai diavoli, e non le anime soltanto, ma qualche volta anche i corpi. Nè Dante ebbe a sovvenirsene in questo caso soltanto. Il diavolo che porta nella bolgia dei barattieri l'anziano di santa Zita, dice:

Mettetel sotto, ch'io torno per anche

A quella terra che n'ho ben fornita.

Anche nell'Inferno dantesco i diavoli hanno per ufficio di tormentare i dannati; ma bisogna subito dire che tale officio essi non adempiono con la frequenza, il furore, l'atrocità di cui porgono tanti esempii le altre Visioni. Caronte si contenta di battere col remo qualunque si adagia; poi, per tutto il primo e secondo cerchio, come già innanzi nel vestibolo dove sono i vigliacchi, non è più cenno di diavoli tormentatori, fino a Cerbero, che

Graffia gli spirti, gli scuoja ed isquatra.

Minosse assegna soltanto a ciascun'anima la pena adeguata. Dante volle, non senza un concetto profondo, che i dannati trovassero lor castigo, almeno nella più parte dei casi, in una condizione prestabilita, in un ordinamento fisso e costante di pene, nelle quali i demonii non han troppa ingerenza, e volle ancora sovente che i dannati stessi fossero gli uni contro gli altri esecutori e strumenti del meritato castigo. Così gli avari e i prodighi del quarto cerchio percotonsi coi pesi che van voltando per forza di poppa; così le fangosegenti fanno strazio di Filippo Argenti; così il conte Ugolino rode il teschio dell'arcivescovo Ruggieri con denti come d'un can forti. Però non vediamo nell'Inferno di Dante demonii far bollire le anime in pentole affocate, arrostirle infisse in lunghi spiedi, struggerle in padelle roventi, segarle per lungo e per traverso, come in tante Visioni e rappresentazioni dell'Inferno interviene. L'orribile cuoco

dell'Inferno di Giacomino da Verona non ha luogo nell'Inferno di Dante, dove l'opera dei diavoli tormentatori comincia propriamente solo nel primo girone del settimo cerchio. Quivi i Centauri vanno a mille a mille intorno al fosso, saettando le anime che alcuna parte di sè levan fuori dal sangue bollente. Ora, col settimo cerchio comincia quella parte dell'Inferno nella quale sono puniti i più malvagi, secondo dice Virgilio. Da indi in poi troviamo, per non parlare delle cagne nere, bramose e correnti che inseguono e lacerano i violenti contro a se stessi, e dei serpi che mordono i ladri, le Arpie, le quali si pascono delle fronde degli arbusti in che pure le anime dei violenti contro a se stessi son prigioniere; i diavoli cornuti, che con grandi sferze battono di dietro i mezzani; quelli che coi raffii arroncigliano i barattieri; il diavolo che accisma i seminatori di scandalo e di scisma; Lucifero, che maciulla i tre massimi peccatori, e col vento delle grandi ale aggela Cocito.

Ma i demonii cui è commesso l'ufficio di tormentare i dannati soffrono essi pure una qualche pena, oltre a quella cui soggiacciono per la esclusione dal regno dei cieli, e per l'avvilimento di lor natura, conseguenza della caduta? Non mancano scrittori i quali dicono che dei tormenti infernali essi non soffrono, perchè, se ne soffrissero, assai di mala voglia attenderebbero a quel loro officio, e all'altro di tentare i cristiani; e spesso nelle rappresentazioni dell'arte i diavoli tormentatori mostrano in viso il compiacimento che provano di quel loro esercizio. Del solo Lucifero Dante accenna, più che non narri, l'intimo crucio, quando dice che

Con sei occhi piangeva, e per tre menti

Gocciava il pianto e sanguinosa bava.

Il Lucifero di Dante è confitto nel ghiaccio, nè si può muovere: altrove siede tra le fiamme, o è dagli stessi demonii suoi arrostito a fuoco vivo. Ad ogni modo le torture dei demonii non sono senza refrigerio, se è vero, come gli scrittori affermano, che essi godono del commesso peccato, dell'ingiuria fatta a Dio e ai santi, dell'anima che piomba in Inferno, dei mali infiniti che affliggono la misera umanità. Dante dice che Lucifero nel suo fondo si placa, vedendo le brutture e le nefandità della Curia di Roma.

VII.

I diavoli che Dante trova nella quintabolgia del cerchio ottavo, se

hanno del terribile, hanno anche del comico. Essi stringono la lingua coi denti per far cenno al lor duce, come è usanza dei monelli, e il lor duce fa trombetta di ciò che non occorre rammentare. Si lasciano ingannare da Ciampolo, o chi altri si sia il famiglio del buon re Tebaldo, e due di loro, Alichino e Calcabrina, si azzuffano per ciò, e cadono nel bel mezzo del bollente stagno.

Diavoli così fatti, se possono incutere terrore(e molto ne incutono a Dante), possono anche muovere a riso, ed hanno grande somiglianza con quelli che si vedono trescare per entro ai Misteri e alle Moralità del medio evo. Io non ho a ricercare qui come la fantasia popolare, e anche la non popolare, pure ingombre come erano dei terrori dell'Inferno, giungessero a ideare il demonio burlesco, sciocco, ridicolo. Molti elementi concorrono in sì fatto concetto, a sceverare i quali sarebbe necessaria un'accurata analisi. Ricorderò solo che il diavolo appar ridicolo in numerose leggende, e che viene un tempo in cui l'officio principale suo sulla scena è quello di far ridere gli spettatori.

Se fu in Francia, il che è assai dubbio, Dante può avervi veduto, in certe rappresentazioni di sacro argomento,, diavoli molto simili a quelli ch'ei pone nella bolgia dei barattieri, poichè, già nel XII secolo, alla rappresentazione del Mistère d'Adam, si vedevano demonii correre per la piazza, tra il popolo: ma è da credere che anche in Italia Dante potesse vedere così fatti demonii, sebbene sia vero ciò che nota il D'Ancona, non avere, cioè, più tardi, nelle Sacre Rappresentazioni nostre, il diavolo raggiunto mai quel grado di ridicolo che raggiunse in Francia. La rappresentazione dell'Inferno, fattasi in Firenze nel 1304, e nella quale erano, secondo narra Giovanni Villani, diavoli orribili a vedere, è possibile non si facesse in quell'anno la prima volta. In una sua costituzione, del 1210, Innocenzo III parla di monstra larvarum, che s'introducevano nelle chiese, ed è assai probabile che tra esse ce ne fossero di diaboliche.

Anche i nomi che Dante dà a que' suoi demonii rimandano a Misteri e a Sacre rappresentazioni, dove nomi consimili occorrono frequenti. Tali Misteri e tali Sacre Rappresentazioni sono, gli è vero, posteriori alla Divina Commedia; ma nulla vieta di credere che essi occorressero già in drammi più antichi, non pervenuti sino a noi.

UN MONTE DI PILATO IN ITALIA

Fra le devote leggende più diffuse e più celebri nel medio evo,

diffusissima e celeberrima fu quella di Pilato. Germogliata nei primi secoli del cristianesimo, cresciuta smisuratamente dipoi, trapiantata d'uno in altro suolo, essa soggiacque a varia fortuna, ebbe molte e curiose vicende, si mutò in tutto da quella ch'era stata in origine. I primi cristiani, solleciti di raccogliere quante più prove e testimonianze potevano in favore dell'insidiata e combattuta lor fede, giudicarono molto benignamente il giudice pusillanime; affermarono ch'egli aveva fatto quant'era in poter suo per istrappar Gesù all'ingiusto supplizio; mostrarono una lettera da lui scritta all'imperatore, nella quale era ampiamente riconosciuta l'innocenza del Nazarenoed esecrata la malvagità de' nemici suoi; giunsero a dire persino ch'egli era morto martire della fede. Mutati i tempi, e assicurato il trionfo della Chiesa, mutarono anche i giudizii. La sospetta testimonianza, divenuta inutile ormai, fu lasciata volentieri in disparte, e sotto l'influsso di un altro pensiero, in virtù di un postulato della coscienza che voleva colpiti da formidabile e condegno castigo quanti, in un modo o in un altro, avevano avuto parte nella condanna e nella morte del Redentore, cominciò un lavoro delle fantasie in tutto diverso da quel di prima, e la leggenda si trasformò, e, starei per dire, si capovolse. Ecco Pilato diventare un pessimo scelerato, degno d'andarne alla pari co' rei giudici del Tempio e con lo stesso Giuda. Si narra allora come l'imperatore lo chiamasse al suo cospetto per chiedergli conto della morte del Giusto; come rigorosamente il punisse; come il punito si togliesse da se stesso la vita, e il maledetto suo corpo fosse tramutato di luogo in luogo, cagione sempre alla terra che raccoglieva di turbamenti e di calamità. Si ricercano le origini di lui, il paese ove nacque, i primi suoi fatti, e tutta una storia s'immagina, la quale cel mostra malvagio sino dalla puerizia, e spiega il gran misfatto finale. La sua leggenda si lega ad altre leggende celebri, a quella della Veronica, a quella della vendetta del Salvatore, fa corpo con esse, riceve da esse nuovo vigore e notorietà nuova. Egli finisce con Giuda, e con alcun altro massimo scelerato, fra le mascelle formidabili di un Satanasso trifronte, nel più profondo e tenebroso abisso d'inferno.

Io ho ricordate brevemente le origini e le vicende della leggenda di Pilato; ma non è mio proposito di addentrarmi nello esame e nella discussione di essa. Tale lavoro fu già fatto, se non in modo che possa dirsi compiuto, almeno in modo sufficiente, e qui non accade ripeterlo. Io intendo solamente far parola di alcune immaginazioni che si riferiscono alla presenza di Pilato in Italia, e che propriamente appartengono a

quella parte della leggenda ove si narra della sorte toccata al corpo di lui. In tale argomento sono da notare alcune cose che non furono, per quanto io mi sappia, notate e che non mancano di curiosità.

La leggenda, o, a meglio dire, le varie versioni di essa, fanno nascere Pilato in Vienna di Francia, o in Lione, o in Magonza, o in Forchheim, o nei dintorni di Bamberga, o in Ispagna. La ragione di tale varietà facilmente s'intende quando si pensi che, affermando patria di alcun celebre tristo la tale o tal città, la tale o tale regione,si dava sfogo di consueto a passioni d'inimicizia e di gelosia, e durevole e concreta espressione a un intendimento ingiurioso. Ciò che si fece per Pilato si fece, com'era naturale, anche per Giuda. In un luogo del Dittamondo Fazio degli Uberti dice:

Entrati nella Marca, com'io conto,

Io vidi Scarïotto onde fu Giuda,

Secondo il dir d'alcun, da cui fu conto.

Giuda fu dunque fatto nascere, oltrechè in molti altri luoghi, anche in Italia, e in più luoghi d'Italia, similmente, fu fatto nascere Pilato. Durante il medio evo soleva mostrarsi in Roma, tra l'altre cose mirabili, anche una torre, o casa, o palazzo di Pilato.

La fine di Pilato è, nelle varie versioni della leggenda, narrata assai diversamente. Egli morì sotto Tiberio, sotto Caligola, sotto Nerone, sotto Vespasiano e Tito: fu fatto decapitare; fu ucciso dallo stesso Nerone furente; fu scorticato; fu cucito, come si usava coi parricidi, in una pelle di bue, insieme con un gallo, una vipera ed una scimia, e lasciato morire al sole; fu chiuso in una torre, ed egli con le proprie sue mani si uccise; fu, con la torre insieme, inghiottito dalla terra. La credenza che egli si fosse ucciso, suggerita forse dall'esempio di Giuda, e dal desiderio di far commettere al reo un'ultima colpa, a giudizio di cristiani gravissima, è molto antica e quasi cancellò tutte le altre: ad essa si legano, e da essa in certo qual modo derivano, i racconti in cui si dice delle vicende cui andò soggetto dopo la morte il corpo maledetto, e dei danni ch'esso produsse. Secondo un racconto più antico, Pilato si uccise nella città di Vienna, dov'era stato chiuso in una torre, e il suo corpo fu gettato nel Rodano. Secondo un racconto più recente, e che ebbe poi molto maggior diffusione, Pilato si uccise in Roma, e il corpo suo fu da prima gettato nel Tevere, poi tolto di là, trasportato in Gallia e buttato nel Rodano, ove non rimase nemmeno. Non solamente questi due racconti, che io reco qui in una forma meramente schematica, ma anche altri, sui quali non ho

bisogno di soffermarmi, dan notizia dei turbamenti prodotti dal corpo sommerso del suicida e delle successive traslazioni che ne furono la conseguenza.

In un racconto latino intitolato Mors Pilati qui Jhesum condemnavit, pubblicato dal Tischendorf, si dice che Tiberio, fatto venire a Roma Pilato, ordinò fosse chiuso in un carcere, poi radunò il consiglio perchè pronunziasse sentenza sopra di lui. Saputo d'essere stato condannato a morire di morte turpissima(ut morte turpissima damnaretur) Pilato con un coltello si uccise. "Informato della morte di Pilato, Cesare disse: Veramente è morto di morte turpissima colui chenon risparmiò se stesso. Fu legato a un enorme masso e gettato nel Tevere. Ma gli spiriti maligni e sordidi, tripudiando per amor di quel corpo maligno e sordido, si agitavano tutti nell'acqua, suscitando terribilmente nell'aria folgori e bufere e tuoni e grandini, così che teneva gli uomini un orribil timore. Onde i Romani, trattolo dal Tevere, lo portarono per vituperio a Vienna, e lo sommersero nel Rodano: Vienna, gli è come dire via Gehennae, poichè era allora luogo di maledizione. Ma anche quivi accorsero i malvagi spiriti, producendo le medesime turbazioni. Però gli uomini di quel paese, non potendo sopportare tanta infestazione di demonii, allontanarono da sè quel vaso di maledizione e lo buttarono in certo pozzo, ch'era tutto intorno serrato di monti, dove, per riferimento d'alcuni, si vedono sobbollire tuttavia le diaboliche macchinazioni". Così l'ingenuo ed incognito narratore.

Il codice ambrosiano, dal quale il Tischendorf trasse questo racconto, è del secolo XIV; ma il racconto stesso risale per lo meno al XII, nel qual tempo si congiunse alla già ricordata leggenda dei natali e dei primi fatti del proconsole romano, e diventò parte di maggior racconto, che, sotto il titolo di Vita Pilati, ebbe più redazioni diverse, e grandissima diffusione. Ciò che nella Mors Pilati si narra del corpo di costui, sommerso prima nel Tevere, poi nel Rodano, e gettato da ultimo in un pozzo fra' monti, accenna evidentemente a più leggende locali già sorte, e al desiderio dell'autore del racconto di legarle possibilmente tra loro senza negarne nessuna. L'autore, o, per dir meglio, il compilatore della Vita, procede alquanto più oltre su questa via, e dice che dal Tevere il corpo passò nel Rodano: che tolto dal Rodano, fu trasportato a Losanna; e che tolto finalmente anche da Losanna, sempre per le stesse ragioni, fu buttato in un pozzo dell'Alpi. Questa è la versione che, insieme con molti altri, accetta anche Giacomo da Voragine(m. 1298) nella Legenda aurea.

L'anonimo autore di un commento allo Speculum regum di Gotofredo da Viterbo dice, sebbene in modo erroneo, qualche cosa di più, che accenna a nuove leggende locali; dice, cioè, che il corpo di Pilato, estratto dal Rodano, fu gettato in una palude tra' monti, non lungi da Losanna, vicino a Lucerna: in montanis circa Losoniam(o Losaniam) prope Lucernam in quandam paludem proiecerunt. L'anonimo, il quale sembra fosse romano, fonde qui insieme due tradizioni diverse, l'una che si riferiva a Losanna, l'altra che si riferiva a Lucerna, e, propriamente, al famoso Monte di Pilato, che sorge a ridosso di quella città. Altre tradizioni del resto sembra non mancassero in Isvizzera. Un canonico di Zurigo, Corrado a Mure, dice nel suoFabularium, finito di scrivere nel 1273, che dal Rodano il corpo di Pilato fu trasportato sul monte Septimer, poco lungi da Chiavenna. Forse quand'egli scriveva, la leggenda lucernese non era nata ancora: il primo a fare espresso ricordo di quello che ora si chiama il Pilato, e che prima fu detto il Fracmont, Frakmünd ecc.(mons fractus) sembra sia stato Felice Haemmerlin(Malleolus), morto in Lucerna nel 1457. S'intende facilmente come la Svizzera, in grazia della sua stessa configurazione fisica, dovesse essere paese assai favorevole alla moltiplicazione di così fatte leggende.

Con la sommersione del corpo di Pilato nel Tevere, con la credenza che in Roma si vedesse ancora quella ch'era stata casa del giudice malvagio, sembra che l'Italia, o almeno una regione di essa, volesse richiamare più risolutamente a sè una leggenda illustre, la quale per più altri rispetti le apparteneva. Una leggenda più particolarmente italiana era sorta; ma questa doveva, come abbiam veduto, comporsi con altre leggende più antiche, e se voleva tener dietro, come lo stesso suo spirito le dettava, alle vicende cui andava soggetto il corpo dello scelerato suicida, doveva uscire d'Italia. Doveva, dico, sino a tanto che non avesse trovato modo di supplire alle leggende straniere, e di liberarsi dallo straniero concorso. Ora, un tal modo, o prima o poi, l'aveva a trovar facilmente.

Notiamo anzi tutto che il luogo della relegazione e della prigionia di Pilato non era al tutto certo. Si credeva più generalmente fosse stato in Vienna; ma un racconto famoso, la Vindicta Salvatoris, lo poneva in Damasco, e un altro racconto, famoso ancor esso, e di origine sicuramente italiana, la Cura sanitatis Tiberii, lo poneva in una città di Toscana, variamente detta nei manoscritti Ameria, Amerina, Cimerina, Timernia, Arimena. La città di Toscana, qual ch'essa fosse, facendo

dimenticare Vienna, faceva dimenticare anche l'avventura del Rodano, e poneva la leggenda italiana, sciolta da ogni legame con tradizioni straniere, in condizione di poter narrare a suo modo, e con intendimento italiano, le vicende del corpo di Pilato. In un racconto latino intitolato De Veronilla et de imagine domini in sindone depicta, e che volentieri crederei composto in Italia, o derivato da alcuna fonte italiana, si dice che Pilato fu imprigionato in Roma; che quivi di sua mano si uccise; che il corpo di lui fu gettato nel mare, dove tutti i pesci morirono; che trattolo dal mare, i cittadini lo portarono in un luogo deserto che non si nomina: in heremum tam longe duxerunt, ubi nullum hominem venire ultra sciverunt.

Non mancavano luoghi in Italia a cui la leggenda del corpo di Pilato poteva essere opportunamente legata. Tutte le tradizioni di cui ho fatto cennosin qui parlano di danni recati da quel corpo, e parecchie dicono più specificatamente di formidabili procelle suscitate da esso. Una conseguenza si può subito prevedere: i luoghi di fama paurosa, le solitudini de' monti che si credevano infestate dai demonii, i laghi portentosi di cui da tempo antichissimo si diceva non potervisi gettar dentro un sassolino senza che se ne levassero tempeste devastatrici, dovevano, naturalmente, attrarre a sè la leggenda, dovevano, o almeno potevano, diventare monti e laghi di Pilato. In Italia monti e laghi così fatti erano meno frequenti che altrove, ma non mancavano: l'Etna aveva le sue leggende, le aveva il Lago d'Averno presso Pozzuoli, e Giovanni Boccacci parla del lago Scaffajolo negli Apennini, il quale suscitava procelle spaventose, come appena ci si gettasse dentro alcuna cosa. I monti e il lago di Norcia avevano un'antica riputazione diabolica e magica diffusa per tutta Italia. Quivi ponevasi un antro della Sibilla, che diè luogo a leggende molto simili a quelle sorte in Germania intorno al Monte di Venere; quivi ancora si raccolse la leggenda di Pilato.

Pietro Bersuire(m. 1362) racconta nel suo Reductorium morale la seguente istoria: "Di un terribile esempio che si ha presso Norcia, città d'Italia, udii narrare, come di cosa vera e cento volte esperimentata, da certo prelato, fra tutti degnissimo di fede. Diceva egli pertanto essere tra' monti prossimi a detta città un lago, dagli antichi consacrato ai demonii, e dai demonii sensibilmente abitato, al quale nessuno oggi può appressarsi(salvo che i necromanti) senz'essere da quelli portato via. Perciò fu cinto il lago di muri, guardati da custodi, affinchè non possano andarvi i necromanti a consacrare i libri loro ai diavoli. E la cosa più

terribile è questa, che la città deve, ciascun anno, mandar per tributo ai demonii, entro la cerchia dei muri, presso al lago, un uomo vivo, il quale subito e visibilmente è da essi lacerato e divorato: e dicono che se ciò non si facesse, sarebbe quella città distrutta dalle tempeste. Ogni anno sceglie la città alcuno scelerato, e lo manda per tributo ai demonii. Nè questo io crederei, non avendone mai trovato cenno in iscrittura alcuna, se da tanto vescovo non l'avessi udito asserir fermamente".

La storia narrata da Pietro Bersuire ha molta somiglianza con quella che del monte Cannaro in Catalogna racconta Gervasio da Tilbury nei suoi Otia Imperalia. In essa non è fatto cenno di Pilato, come non ne è fatto cenno nel Guerino Meschino, il quale fu composto poco dopo il tempo in cui il benedettino francese compilava il suo Reductorium, e dove si parla a lungo dell'antro della Sibilla e della lieta vita che simenava nei regni sotterranei di lei; ciò nondimeno, una leggenda in cui figurava Pilato era indubitatamente già nata, giacchè se ne trova il ricordo nel Dittamondo di Fazio degli Uberti, il quale visse sino circa il 1367. Nel già citato luogo di questo poema, Fazio dice, continuando a parlare della Marca:

La fama qui non vo' rimanga nuda

Del monte di Pilato, ov'è uno lago

Che si guarda la state a muda a muda.

Perchè, quale s'intende in Simon Mago

Per sagrar il suo libro là su monta,

Onde tempesta poi con grande smago,

Secondo che per quei di là si conta.

Il Capello nota a questo passo: "El monte de Pilato se dice ch'è supra Norcia, e lì è un luogo di diavoli, al qual vanno quei che si vogliono intendere de arte magica", e non aggiunge altro, e forse non sapeva altro. Può darsi che lo stesso Fazio abbia avuto notizia di questa leggenda un po' tardi, giacchè in un precedente luogo del poema si trova ricordo dell'altra, che poneva in Vienna la prigionia e la morte di Pilato, e le due difficilmente possono insieme accordarsi. Nel L. II, cap. 5, il poeta così si esprime:

Qui ti vo' dir, perchè ti sia diletto,

Pilato fue confinato a Vienna,

Dove s'uccise d'ira e di dispetto.

Merita considerazione un riscontro, forse non fortuito. Pietro Bersuire e Fazio degli Uberti parlano di guardie poste al lago per impedire ai necromanti di accedervi, e il simile si racconta del Monte di Pilato presso Lucerna, su cui, ancora nello scorso secolo, era vietato di salire. Nel 1387 sei ecclesiastici di Lucerna furono messi in prigione, perchè avevano tentata l'ascensione del Fracmont, e il già citato commentatore dello Speculum regum dice, seguitando a parlare della palude in cui era stato gettato il corpo di Pilato: "Egli è certo che ogni qual volta si gitti nella palude alcuna cosa, per minuta che sia, incontanente si muovon bufere e grandini e folgori e tuoni. Perciò vi si pongono custodi, che in tempo d'estate non lasciano che nessuno vi salga". Anche vicino a Lione si poneva un Mont Pilate con un lago suscitatore di tempeste; ma non so se fosse vietato l'andarvi.

La leggenda raccolta da Fazio fu ripetuta da altri, con le variazioni consuete e inevitabili. Un predicator di Foligno, fra Bernardino Bonavoglia, ebbe, sembra, a recitarla dal pulpito: egli nulla sa di muri o di custodi. "Dicesi che presso Norcia sia un monte, e quivi un lago, detto di Pilato, essendo opinione quasi di molti che il corpo di lui fosse quivi portato dai diavoli sovra un carro tirato da tori. E da luoghi prossimi,e da remoti, si recano colà uomini diabolici, e formano are con tre circoli, e ponendosi, con alcuna offerta, nel terzo circolo, chiamano quel diavolo che vogliono, leggendo il libro che da esso debb'essere consacrato. E venendo il diavolo con grande strepito e clamore, dice: A che mi citi? Risponde: Voglio consacrar questo libro; voglio cioè che tu ti obblighi a fare quanto in esso è scritto, quante volte io te ne richiederò, e in premio ti darò l'anima mia. E così fermato il patto, il diavolo toglie il libro, e vi segna alcuni caratteri, dopo di che egli è pronto a fare ogni male, quando altri lo legga. Ecco in che modo son fatti schiavi quei miseri e dannati uomini. Accadde una volta che un tale, voglioso di consacrare nel modo predetto il suo libro, stando nel circolo ordinato, chiamò certo demonio, e gli fu risposto, ch'e' non v'era allora, ma era ito nella città di Ascoli, per farvi morire molti di ferro, così dei fuorusciti, come de' cittadini che hanno il dominio, e che tornerebbe ad opera compiuta, e farebbe ciò onde fosse richiesto. Meravigliato di tale risposta, colui s'avviò verso Ascoli per conoscere la verità di sì gran fatto, e giunse ad un luogo dei frati minori, ove dimorava allora il santissimo fratello Savino da Campello, e narrato per ordine quant'eragli occorso, riseppe che la notte precedente trenta de' fuorusciti erano stati impiccati in piazza, e che molti dell'una e dell'altra parte erano, nella città, morti di ferro.

Venuto a cognizione di ciò, il detto uomo fermamente risolvette... di rinunziare all'arte magica e agl'incanti, considerando grande esser l'arte del diavolo in accalappiare e perder le anime. Ciò riferì il detto sant'uomo frate Savino, a certo frate nostro de' predicatori".

Fra Bernardino accenna ad uomini che venivano da remoti paesi per attendere a lor pratiche di magia; sembra in fatti che la fama dell'antro della Sibilla e del monte e lago di Pilato che si ponevano presso Norcia, si diffondessero per la Germania e per la Francia, e ne richiamassero frequenti visitatori. Nel 1420 vi capitò un noto cavaliere e poeta francese, Antonio de la Sale, che raccontò poi le cose vedute, e nel 1497 ne imitò l'esempio Arnaldo di Harff, patrizio di Colonia. Leandro Alberti, dopo aver parlato, nella sua Descrittione di tutta l'Italia, dell'antro della Sibilla, così prosegue: "Poscia alquanto più in su nell'Apennino, nel territorio Nursino, vi è il Lago, non meno biasimevole della Grotta, addimandato Lago di Norsa, nel quale dicono gli ignoranti notare i diavoli, imperò che continuamente si veggono salire et abbassare l'acque di quello in tal maniera chefanno maravigliare ciascuno che le guarda, parendogli cosa sopra naturale, non intendendo la cagione di tal movimento. La onde in tal guisa essendo volgata la fama di detto Lago, et non meno dell'antidetta Caverna appresso gli huomini, non solamente d'Italia, ma altresì fuori, cioè che quivi soggiornano i Diavoli, et danno risposta a chi gli interroga, si mossero già alquanto tempo(come scrive il Razzano) alcuni uomini di lontano paese(però leggiermente) et vennero a questi luoghi per consagrare libri scelerati et malvagi al Diavolo, per poter ottenere alcuni suoi biasimevoli desiderii, cioè di ricchezze, di honori, d'amorosi piaceri, et di simili cose... Vedendo i Norsini tanto concorso d'incantatori, che salivano sopra questi aspri et alti monti, acciò non possano passare a detti luoghi, hanno serrata primieramente detta Caverna, et poi tengono buone guardie al Lago". L'Alberti, che scriveva verso il mezzo del secolo XVI, di Pilato propriamente non fa menzione, ma cita i versi di Fazio che lo ricordano. Il Razzano da lui nominato è quel Pietro, che nacque in Palermo nel 1420, fu domenicano, storico, oratore e poeta, e morì vescovo di Lucera nel 1492, lasciando molte opere manoscritte. Egli aveva avuto occasione di parlare con alcuni tedeschi dai quali era stato inutilmente tentato l'esperimento della consacrazione.

Nel 1621 ricorda il lago portentoso di Norcia Paolo Merula, nella sua Cosmographia generalis: "Nel Piceno, di fianco al Monte Vittore, dalla

parte che guarda a Oriente, è un lago nobilitato dalla fama, detto Nursino. Dice il volgo ignorante che in esso nuotano i diavoli, e ciò perchè quelle acque si vedono con perpetui moti salire e calare a vicenda, non senza grandissima ammirazione di coloro che ne ignoran la causa". Riferisce ancor egli, come l'Alberti, quanto aveva già detto il Razzano; ma non fa parola di Pilato. Sembra del resto che queste leggende norcine cominciassero allora, o poco dopo, a perdere della loro celebrità, perchè non se ne trova cenno in una poesia che in vituperio di Norcia scrisse monsignor Francesco Maria di Montevecchio, andatovi per sua sciagura prefetto, e nemmeno nei due capitoli che a Pilato e a Norcia consacrò il Marucelli nel suo sterminato Mare magnum, che manoscritto si conserva in Firenze nella biblioteca da lui nominata.

Quando la leggenda norcina di Pilato sia nata io non so, nè vorrei affermare che qualche concorso di elementi e qualche suggestione non le sieno venuti d'oltr'alpe. Essa ha perduto ormai ogni celebrità, e appena ne rimane qualche vestigio tra il popolo di quella provincia; e mentre il Monte di Pilato presso Lucerna è cognito a tutti, e attrae ogni anno migliaja e migliaja di visitatori, son ben pochi coloro che conoscanol'esistenza di un monte e di un lago di Pilato fra gli Apennini, nel cuore d'Italia.

FU SUPERSTIZIOSO IL BOCCACCIO?

I.

Gustavo Körting, parlando, in un suo libro assai noto agli studiosi della letteratura italiana, del sapere del Boccaccio e di quello che si potrebbe chiamare l'indirizzo della mente di lui, notate alcune false opinioni e alcune irragionevoli credenze che si trovan qua e là ne' suoi scritti, non dubita di affermare che, generalmente parlando, il Certaldese, per quanto s'appartiene alla superstizione e alla credenza nel meraviglioso, è, pressochè in tutto, un uomo de' tempi suoi, mentre il Petrarca è anche per questo, come per altri rispetti, quasi un uomo dei tempi nostri.

Un sì fatto giudizio parrà, non solamente eccessivo, ma a dirittura falso a molti, che, leggendo più propriamente il Decamerone, avran creduto di riconoscere nell'autore di esso uno spirito disinvolto e spregiudicato, amabilmente scettico e beffardo, niente devoto della tradizione, poco rispettoso dell'autorità, aperto assai più alle impressioni della vita reale,

di cui fu dipintore insuperato, che non ai sogni della leggenda e alle ubbie di una fede superstiziosa. Dire che il Boccaccio è, pressochè in tutto, un uomo de'tempi suoi, quanto a credulità e gusto del meraviglioso, gli è come dire ch'egli sta quasi alla pari con Gervasio da Tilbury, con Cesario di Heisterbach, col troppo famoso Elinando. La conseguenza a cui si giunge è manifestamente mostruosa. Altri recarono del Boccaccio ben altro giudizio, un giudizio, se non iscevro di esagerazione, assai più giusto sotto ogni rispetto. Col Boccaccio il Settembrini fa principiare un'era nuova, il terrore cessato, cominciato il riso e lo scetticismo; col Boccaccio fa principiare un nuovo mondo il De Sanctis; vanto che non gli si potrebbe in nessun modo concedere se, in fatto di credulità e d'inclinazione al meraviglioso, egli fosse in tutto ancora, o quasi in tutto, un uomo del medio evo. Parlando del libro De montibus, fluminibus, ecc., il Landau riconosce che, quanto a spirito critico, il Boccaccio vince i suoi contemporanei; e l'Hortis, il più profondo conoscitore e l'illustrator più felice delle opere latine del Certaldese, giustamente osserva; "Il Boccaccio fu spesso accusato di ripetere di molte fole;... se non che sarebbe gran torto non avvertire che la massima parte delle favole deriva dagli antichi da lui copiati, e che il Boccaccio ripete bensì mille favole, ma per questo e' non le crede. Quando scrive che agli antichi non osa contraddire e crede più a loro che agli occhi propri, e' non va creduto sulla parola. Quando questi antichi narrano un che d'inverosimile, il Boccaccio li trascrive fedelmente, però vi aggiunge, "ma ciò non cred'io," "ciò mi sembra impossibile," "questa è a mio giudizio una favola," oppure osserva arditamente: "cotesto io lo stimo ridicolo!"

Noi udiamo ora un tutt'altro linguaggio. Quale dei giudici ha ragione? L'argomento non è senza curiosità e senza importanza, e merita, parmi, che se ne discorra un poco.

Vediamo anzi tutto quali sono le prove su cui il Körting fonda la sua accusa. Eccole, nell'ordine stesso con cui egli le reca. Il Boccaccio credeva nei sogni; il Boccaccio credeva che i moribondi potessero esser fatti partecipi dello spirito profetico; il Boccaccio credeva nell'astrologia; il Boccaccio credeva che lo strabismo fosse indizio di anima perversa; il Boccaccio credeva che nelle evocazioni dei morti comparissero, non già questi, ma diavoli; il Boccaccio credeva che Enea fosse veramente sceso all'Inferno, e che Virgilio avesse costruito ogni specie d'ingegni magici. Qui c'è luogo a parecchie osservazioni. Anzi tutto giustizia vorrebbe che,

enumerate le cose cui il Boccaccio erroneamente credeva, si ricordassero quelle cui molto saviamente il Boccaccio non dava fede, e quelle ancora di cui dubitava prudentemente. La lista loro riuscirebbe assai lunga a volerla fare compiuta. Così il Boccaccio non credeva(e il Körting stesso lo avverte) che certe subiteinfermità, e certe morti improvvise, avvenissero per opera del demonio, come era opinione dei meno sani(son sue parole); ma a tali fenomeni assegnava cause in tutto naturali. Il Boccaccio chiama a dirittura ridicola la credenza secondo cui la gramigna nascerebbe dal sangue dell'uomo. Il Boccaccio stima una favola ciò che di quell'arche sepolcrali ricordate da Dante, le quali presso ad Arles facevano il loco varo, dicevano quei del paese, cioè che fossero opera divina. Il Boccaccio non crede che il re Artù sia sopravvissuto alle sue ferite, e debba tornare, secondo l'opinione dei Brettoni; ma dice che morì e fu sepolto segretamente. E notisi che questa opinione, non al tutto spenta in Iscozia, nemmen oggi, fu tanto diffusa ed ebbe già tanta forza, che, secondo afferma uno scrittore spagnuolo, Filippo II, nel dar la mano a Maria d'Inghilterra, dovette far solenne giuramento di rinunziare al diritto acquistato sopra quel regno nel caso che il re Artù facesse ritorno. Il Boccaccio non diede fede alle accuse mosse ai Templari, tra le quali non era ultima l'imputazione di magia. In nessun luogo delle sue opere il Boccaccio mostra d'aver creduto ai miracoli dell'alchimia. Parlando di Giuliano l'Apostata nel l. VII del De casibus virorum illustrium, fa pure ricordo delle arti magiche esercitate da quell'imperatore, secondo piace ad alcuni; ma non dice di credere egli ciò che quegli alcuni credevano. Parlando del lago d'Averno nel libro De montibus, silvis, ecc., dice dagli ignoranti essere stato anticamente creduto si potesse andare per esso ai regni infernali; ma non fa motto, nè degli uccelli negri che, secondo San Pier Damiano e Vincenzo Bellovacense, vi aleggiavano intorno dal vespero del sabato all'alba del lunedì, e non erano se non anime dannate; nè delle ingenti porte di bronzo, infrante da Cristo, che, a detta del veracissimo Gervasio da Tilbury, ci si vedevano in fondo. Discorrendo, nel già citato libro De montibus, delle fonti, ripete, gli è vero, parecchie favole spacciate già dagli antichi; ma queste parecchie son pur poche in confronto di quelle infinite che si leggono in altri e molti consimili trattati del medio evo.

Oltre a ciò se il Boccaccio crede a certe cose, non per questo si deve sempre dargliene carico, o si deve dargliene solo con certa misura, avuto riguardo alla qualità delle credenze, o al modo tenuto dallo scrittore nel farle palesi, o anche alle condizioni generali del sapere e della coltura ai

tempi suoi; e quelle che hanno più particolarmente carattere di errori scientifici non debbono dare argomento a taccia di superstizione, essendo l'errore scientifico e la superstizione due cose troppo diverse fra loro.

Se il Boccaccio crede che lo strabismosia indizio di animo malvagio, noi non lo accuseremo per questo di partecipare ad un error popolare, dopochè si son veduti criminalisti e psichiatri riconoscere in questa e in molte altre deformità un indizio(non una prova certa) d'imperfezione morale e di predisposizione a delinquere; onde viene a trovar conferma l'antico adagio latino: cave a signatis.

Narrata nel l. II, del De casibus la storia di Astiage, il Boccaccio soggiunge alcune considerazioni sui sogni e afferma, provandolo con altri esempii, che per essi l'uomo può avere cognizione dell'avvenire; ma attenua poi di molto egli stesso il valore delle sue parole, avvertendo che non sempre si vuole ai sogni dar fede. Un cristiano difficilmente poteva andar più in là, perchè la veracità di certi sogni è solennemente attestata dalla Scrittura, e di sogni profetici sono piene le vite dei santi. Il Boccaccio non fu in ciò più credulo di Dante, del Petrarca, o di chi, come il Cardano, sulla interpretazione dei sogni scriveva ancora in pieno Rinascimento.

Quanto all'astrologia la questione è un po' più complicata. Il Boccaccio non nega gl'influssi degli astri, ma dice che di questi influssi l'uomo non può aver cognizione, e così dicendo nega la scienza astrologica, e riconosce per vani e per illusorii i pronostici degli astrologi. Inoltre, sebbene in ciò qualche volta si contraddica, pure afferma che gli astri nulla possono sugli animi umani, e che la libertà dell'arbitrio non ne rimane in modo alcuno menomata. Anzichè biasimo, noi dovremmo dar lode al Boccaccio d'aver tenuto una opinione così misurata e prudente in un tempo in cui la credenza comune dava agl'influssi celesti qualità d'irresistibili e di fatali, e un Cecco d'Ascoli(in ciò non primo nè ultimo) assoggettava al corso degli astri la vita dello stesso Cristo, e i principi d'Italia e le stesse città libere tenevano ai loro stipendii astrologi, con gli avvertimenti de' quali si governavano. In certo suo sonetto Cino da Pistoja pregava Cecco di scrutare ne' cieli e di dirgli quali stelle egli s'avesse favorevoli e quali contrarie, soggiungendo:

E so da tal giudizio non s'appella.

La dottrina professata da Dante quanto agl'influssi celesti non è per nulla disforme da quella seguìta dal Boccaccio, e con questo si accorda

anche Giovanni Villani, il quale, del rimanente, si mostra assai più proclive al meraviglioso e più credulo. Certo, il Petrarca mostrò maggiore risolutezza nel bandire la fallacia dell'astrologia e nel combattere gli astrologi; ma bisogna anche dire che le ragioni di cui egli si giova sono assai più religiose che scientifiche. Del resto, quando pure il Boccaccio avesse avuto nell'astrologia assai più fede che veramente non ebbe, non sarebbe questo un buon argomentoper aggravargli addosso l'accusa d'essere troppo impigliato nella superstizione del medio evo, giacchè l'astrologia fiorì assai più dopo il Rinascimento che non prima, ed è superstizione intimamente legata con l'umanesimo, come non poche altre rinovellate allora dall'antichità. Certo, nessuno vorrà accusare di tendenze e d'idee medievali uomini come il Pontano e il Campanella, e pure il Pontano e il Campanella furono partigiani convinti dell'astrologia. Il primo che l'abbia combattuta con altri argomenti che non sieno i religiosi e i morali, fu Pico della Mirandola.

Di alcune altre credenze superstiziose il Boccaccio non dev'essere troppo severamente ripreso, perchè assai difficilmente si sarebbero potute allora, e assai difficilmente si potrebbero anche oggidì, staccare in tutto dalla credenza religiosa: così di quella che concerne le apparizioni degli spiriti maligni. Veggasi, in fatto di apparizioni, quali fanfaluche potesse spacciare in pieno Rinascimento un umanista come Alessandro Alessandri, in quella imitazione delle Notti attiche di Aulo Gellio da lui intitolata Dies geniales.

Ma c'è ben altro da dire.

Da che libri deriva il Körting le prove della credulità e della superstizione del Boccaccio? L'abbiam veduto: dalla Genealogia degli Dei, dai Casi degli uomini illustri, dal Comento a Dante. Or che libri son questi? Son libri di conto per molti rispetti, libri su cui riposa in gran parte la riputazione del Boccaccio come umanista e come erudito, ma libri che hanno, quanto all'argomento di cui si discorre, sia lecito dirlo, un vizio comune e non piccolo, quello cioè di essere, in tutto o in parte, frutti piuttosto tardi dell'ingegno dello scrittore, di appartenere più o meno all'età decadente di lui. La Genealogia degli Dei, sebbene cominciata negli anni giovanili, non uscì dalle mani del suo autore prima del 1373, due soli anni innanzi alla morte. La interpretazione naturale che in questo suo trattato il Boccaccio dà di molti miti dell'antichità classica fa testimonio di una mente tutt'altro che inviluppata negli abiti intellettuali del medio evo, e può ancora porgere occasione di meraviglia

a noi, tanto più addentro di lui nei misteri della mitologia; ma nessuno è in grado di dire che cosa, nel corso del lungo lavoro, egli abbia aggiunto o tolto all'opera sua. Così ancora non prima di quello stesso anno 1373 uscì in pubblico il libro dei Casi degli uomini illustri. Quanto al Comento, esso fu in quell'anno medesimo cominciato, e il Boccaccio, soprappreso da gravissima infermità, e poi dalla morte, non potè condurlo a termine. Il libro dei Casi dunque, il Comento, e, in parte almeno, anche la Genealogia, sono opere senili del Boccaccio, e questa loro qualità dà più che sufficiente ragione di certi caratteri e di certe tendenze che si notano in esse.

La vecchiezza,tutti lo sanno, è assai più inclinata alla superstizione che non la gioventù. Il sentimento della decadenza crescente, la preoccupazione angustiosa di una prossima fine, il sospetto d'insidie celate e di subiti danni, a cui non può fare più schermo l'affievolita natura, lo sfiacchimento della mente, che di signora ridiventa serva, lo stesso arcano della morte che come più incombe più riempie l'animo di meraviglia paurosa, dispongono e quasi forzano a una inclinazione così fatta. Nel detto: aniles fabulae, non è senza grande ragion quell'epiteto. Ed è noto ancora come risorgano irresistibili nel vecchio i sogni e le ubbie onde fu malamente nutrita la mente del fanciullo.

Il Boccaccio ebbe anticipata vecchiezza. I primi segni di scadimento fisico erano già apparsi, quando, a provocare ne' pensieri e nella vita di lui un totale rivolgimento, ecco capitargli addosso il certosino Gioachino Ciani con quella diavoleria delle visioni e delle minacce del santo frate Pietro de' Petroni. Io non ho bisogno di ripetere questa storia notissima, alla quale, non so perchè, si vuole da taluno scemare importanza. Quanto il Boccaccio ne rimanesse sbigottito, e come, ravveduto, si proponesse di fare ammenda de' suoi trascorsi, è noto del pari. Egli rinnegò i frutti migliori del suo ingegno; egli detestò l'opera maggiore, per cui il nome suo vive e vivrà perpetuo nella memoria degli uomini; e ci volle tutta l'autorità del Petrarca per impedirgli di vendere i libri con tanto amore e con tante fatiche raccolti, rinunziare a ogni studio, darsi all'anima interamente. L'infelice avvenimento non ringiovanì certo il Boccaccio, anzi confermò in lui la già sopravvenuta vecchiezza. E che questa vecchiezza non fosse nemmen prima solamente fisica, ma dovesse, in parte, essere anche morale, lo prova il fatto stesso; giacchè il Boccaccio, grandissimo beffatore di frati, e canzonatore di loro miracoli, si sarebbe dato assai poco pensiero dei sogni di fra Pietro e

delle prediche di fra Gioachino, se fosse durata in lui la giovanile baldanza e vivezza del pensiero, l'antico vigore della ragione, e la secura indipendenza del giudizio. Dicono che irreligioso e miscredente il Boccaccio non sia mai stato, e ne recano le prove. Io non lo nego; sebbene si vorrebbe vedere quanto le prove valgano, e quanto addentro ci mettano nella coscienza del nostro autore: ad ogni modo gli è certo che la fede non gli diede mai briga soverchia negli anni della gioventù e della virilità più rigogliosa.

La visita di fra Gioachino dovette produrre un doppio effetto nell'animo del Boccaccio; rinfocolarvi la fede non ben calda, ed eccitarvi il senso del meraviglioso rimasto insino allora sopito. Dando fede al racconto mirabile del frate, il Boccaccio veniva amettere il piede sopra la via maestra della superstizione e della credulità, via sulla quale un passo tira l'altro, e ad ogni passo si perde un tanto di spirito critico e di libertà di giudizio. Se, per esempio, egli credeva alla veracità dei sogni, questa sua credenza doveva farsi più certa che mai. Se aveva opinione che i moribondi vedessero le cose avvenire, questa opinione doveva levarsi in lui al disopra di ogni dubbio. Pentito d'avere speso le forze dell'ingegno in opere che ora gli pajono riprovevoli, il Boccaccio rifugge dal libero esercizio del suo pensiero, e si dà a lavori di compilazione e di erudizione, nei quali la sua mente è come infrenata dal soggetto, si fa recettiva delle opinioni altrui, e perde a poco a poco l'abito e il gusto della critica. La condizione di spirito, in cui egli per tal modo si ridusse, ebbe necessariamente ad aggravarsi quando l'infermità prese a travagliare l'organismo già affaticato. Nella state del 1372, o in quel torno, il Boccaccio potè credersi in fin di vita. Nella lettera che scrisse allora all'amicissimo suo Maghinardo de' Cavalcanti, lettera tutta inspirata a sensi di profondo sconforto, egli, detto de' mali fisici che lo affliggevano, non tace i morali: avversione per lo studio, odio pei libri, indebolimento delle facoltà mentali, perdita della memoria. Il pensare gli si era fatto difficile, e tutti i suoi pensieri erano rivolti alla morte e al sepolcro. In quel tempo appunto egli adoperava lo stremo delle sue forze intorno al laborioso Comento: non doveva lo studio del poema sacro, la cui azione si svolge tutta nei regni del soprannaturale, inclinar più sempre l'animo angosciato del comentatore verso il meraviglioso, ottundere in esso il senso del reale, farlo vago di quanto trascende l'esperienza, o vince la ragione? Nel Comento, più che in altra scrittura del Boccaccio, occorrono frequenti segni di credenza superstiziosa; ma e' non poteva essere diversamente. Noi non dobbiamo già meravigliarci e

scandalizzarci di alcune non gravi superstizioni penetrate negli scritti senili del novellatore pentito e turbato; bensì dobbiamo meravigliarci che il numero loro non sia molto maggiore, e molto più trista la lor qualità.

Ma perchè giudicare superstizioso il Boccaccio sulla testimonianza de' suoi scritti senili? Perchè, ravvisato, o creduto ravvisare certo aspetto del vecchio, dire: tale fu l'uomo? Perchè non cercare piuttosto i documenti del suo pensiero e della sua credenza nelle opere da lui composte nel tempo migliore? Perchè non rintracciarle, sopra tutto, in quell'immortale Decamerone, in cui il poeta mise la miglior parte di sè, e che in ogni sua pagina attesta il vigore degli anni e dell'intelletto? Ponetevi a questo studio, e vedete comesi giunga a tutt'altra conclusione e a tutt'altro giudizio.

II.

Io non dirò col De Sanctis che il Decamerone sia una catastrofe, o una rivoluzione, che da un dì all'altro ti presenta il mondo mutato. Non lo dirò, perchè non credo a queste catastrofi letterarie più che dagli scienziati non si creda alle catastrofi geologiche; perchè ho ferma fede che la legge, di evoluzione, la quale governa le cose tutte che vivono, e quelle ancora che non vivono, non patisce eccezione; perchè ho per sicuro che se un libro può molto nel rifare uomini e cose, il mondo è già profondamente mutato quando appare il libro che porge, come dipinta in un quadro, la mutazione. Quando si dice fonti del Decamerone, s'intende parlare dei luoghi d'onde provengono, per via più o meno lunga, i temi delle novelle raccontate nel libro; ma nel libro non ci sono le novelle soltanto; ci è anche un complesso d'idee, di sentimenti e di giudizii, un modo di considerar la vita, un indirizzo generale di mente, che pajono essere in tutto il fatto dell'autore, e che fatto suo non sono se non in parte. Anche di queste cose ci sono le fonti; ma non è così agevole dire quali e dove sieno, come non è agevole indicare la fonte di un fiume che nasca d'infiniti rivoli, di scaturigini sparse e recondite. Le fonti sono nel pensiero, ancora malamente determinato, di una età tutta intera; il che è tanto vero, che quando poi il libro è nato, nel quale un nuovo pensiero si affaccia in forme vigorose e scolpite, gli uomini di quella età lo riconoscono per cosa loro e si compiacciono in esso. Dico ciò perchè non voglio presentare il Boccaccio come un eroe del libero e spregiudicato pensare, nato di sovrumani connubii, e perchè, con affermare che il suo modo di sentire e di giudicare ha pur le sue ragioni nel pensiero de'

tempi, non credo di fargli maggior torto di quello si faccia a un bell'albero rigoglioso con dire che esso si nutre degli elementi della terra in cui figge le radici, e degli elementi dell'aria in cui distende i rami e le foglie. Del resto, io non ho qui a parlare del Decamerone in quanto ha significazione storica generale, ma ho da parlarne solo in quanto porge documento dell'animo del suo autore rispetto alla credenza superstiziosa. E il documento, a mio credere, non potrebbe essere nè più esplicito, nè più favorevole.

Incominciamo dalla Introduzione.

Nella Introduzione, com'è noto, il Boccaccio descrive la spaventosa peste del 1348, uno dei più tremendi flagelli che la storia umana ricordi, perchè si calcola che nelgiro che fece per l'Europa uccidesse non meno di 25,000,000 di persone. Quale occasione migliore di questa per lasciarsi trascinare dalla fantasia e dare un tonfo nel meraviglioso e nel soprannaturale più sformato? Ma mentre qua e là per l'Europa le menti eccitate dalla paura si smarrivano in mille strane immaginazioni, sino a credere la moria opera dei demonii, il Boccaccio, serbando la serenità del giudizio, non dice altro, se non che essa sopravvenne per operazion de' corpi superiori, o per l'ira di Dio, a correzione della iniquità umana. Qui, senza dubbio, la superstizione fa capolino; ma il poco che se ne mostra è proprio un nulla in confronto di ciò che hassi altrove; e toccato appena delle cause, il Boccaccio passa a fare quella magistral descrizione degli effetti fisici e morali del morbo, la quale tutti conoscono, e che rivela qualità di osservatore eminenti. In certo luogo accenna a diverse paure ed immaginazioni che nascevano negli animi conturbati, ma non dice quali fossero. Nel Comento invece ne ricorda una con le seguenti parole: "E se io ho il vero inteso, perciocchè in quei tempi io non ci era, io odo, che in questa città(Firenze) avvenne a molti nell'anno pestifero del MCCCXLVIII, che essendo soprappresi gli uomini dalla peste, e vicini alla morte, ne furon più e più, li quali de' loro amici, chi uno e chi due, e chi più ne chiamò, dicendo: vienne tale e tale; de' quali chiamati e nominati, assai, secondo l'ordine tenuto dal chiamatore, s'eran morti, e andatine appresso al chiamatore". Il Comento fu scritto vent'anni dopo l'Introduzione e il Boccaccio, pur lasciandosi andare a raccontare il miracolo, non nasconde un certo dubbio che gli si leva nell'animo. Vent'anni innanzi egli non lo aveva creduto meritevole di ricordo; e in fatto, come avrebbe potuto pensare altrimente chi, accingendosi a narrare cosa tutt'altro che soprannaturale ed incredibile,

qual è quella dell'appiccarsi del contagio agli animali, non pare che sappia scusarsi abbastanza, ed esce in queste precise parole che si leggono nella Introduzione: "Maravigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegno udito l'avessi"? Certo, chi andava così peritoso in riferir cosa, insolita, se vuolsi, ma al tutto naturale, non doveva essere troppo disposto a raccoglier leggende e a dar loro lo spaccio.

La novella 1ª della I giornata ha per noi molta importanza. In essa il Boccaccio racconta assai piacevolmente la storia di quel Ser Ciappelletto, che avendone fatte d'ogni risma in vita, muore,in virtù di una falsa confessione, in concetto di santità, e, dopo morto, fa miracoli e dispensa grazie ai suoi molti e creduli devoti. In più altre novelle il Boccaccio si fa beffe della santità bugiarda; ma in questa egli va più oltre, e se non deride a dirittura, mette in mala vista, senza voler parere, e con l'usato suo accorgimento, il culto smodato dei santi, e le pratiche ond'esso è occasione al volgo, pratiche in cui poco o nulla è che s'innalzi sopra la superstizione più grossolana, e biasimate assai volte dagli uomini di fede più illuminata. Nelle letterature del medio evo non mancano altri esempii e documenti di satira contro sì fatto culto. La storia di San Nessuno, contemporaneo di Dio padre, e in essenza consimile al figlio, è un'ardita e abbastanza gustosa parodia di quelle prediche fratesche, in cui si celebravano le virtù e i miracoli dei santi patroni. Nella letteratura francese abbiamo Saint Tortu e Saint Harenc, e nell'italiana San Buono. Santa Nafissa, di cui parla il Caro, e narra l'opere benedette l'Aretino in uno de' suoi ragionamenti, appartiene al Rinascimento. Ma la novella del Boccaccio tende a scalzare le basi stesse del culto dei santi. Se un solenne gaglioffo può, con una semplicissima gherminella, farsi credere santo, chi ci assicura che molti santi del calendario, onorati in sugli altari, non sieno stati gaglioffi? L'ultima, più solenne e più irrecusabile prova della santità, il miracolo, diventa ingannevole anch'essa, se sul sepolcro d'uno scelerato possono avvenire quegli stessi prodigi che sui sepolcri dei santi uomini. "E se così è," nota il Boccaccio con fine ironia, "grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale, non al nostro errore, ma alla purità della fede riguardando, così facendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo, per mezzano della sua grazia, ricorressimo". Dunque indifferente la qualità

del mezzano; dunque inutile il mezzano stesso, se a muovere la grazia di Dio il buon animo basta, in qualunque modo esso si dia a conoscere; dunque biasimevole questo ricorrere sempre a mezzani di dubbia fede e di credito incerto, quando la misericordia di Dio ha sì gran braccia che, senza bisogno di sollecitazione o di ajuto,

Accoglie ciò che si rivolve a lei;

dunque assurda, antireligiosa, ridicola quella distribuzione e division di lavoro fatta tra i santi, con attribuire a ciascuno una particolare cognizione degli umani bisogni, una giurisdizion propria e una personal competenza in fatto di grazie e di miracoli. Le ragioni che, nel medio evo, fecero sorgere e dilatare oltre misura il culto dei santi, in guisa datorre di grado quasi la intera Trinità, con alterazione profonda della idea cristiana, son note anche troppo. Si badi che io intendo parlare più particolarmente della forma che quel culto assunse tra le plebi mezzo barbare. La principale e la più increscevole la porse il desiderio, naturale del resto in animi grossolani, di conseguire con l'ajuto di patroni potenti, senza merito proprio, senza interna dignificazione, senza operosa volontà del bene, benefizii che invano si sarebbero chiesti alla severa ed incorruttibile giustizia di Dio. Il culto dei santi si risolve in una vera e propria clientela, nella quale il devoto è tenuto a prestare certe servitù, e il santo accorda in ricambio protezione ed ajuto. Ognuno può eleggersi il suo particolare patrono, è non v'è così grande scelerato che non possa sperare mercè sua di salvarsi. Per tal modo l'opera del patrono potrà spesso esercitarsi, non solo intempestivamente, ma ancora in aperta contraddizione con la giustizia, colmando di favori chi manco n'è degno. In più di una leggenda si vede la Vergine riscattare dalla morte o dall'Inferno chi, dimentico di ogni legge divina ed umana, non serbò in fondo all'animo efferato altro sentimento irriprovevole che una sterile devozione al nome di lei. In altre si vedono i santi strappare a viva forza dagli artigli dei diavoli le anime dei loro devoti, le quali, non senza giusto decreto del supremo giudice, erano dannate agli eterni castighi. Il culto dei santi, inteso a quel modo, è una grande superstizione cresciuta dentro e sopra al cristianesimo, e noi abbiamo buon argomento per dire che a questa superstizione non partecipò il Boccaccio.

A questo medesimo argomento appartiene il culto delle reliquie, e che cosa pensasse di questo culto il Boccaccio si rileva dalla novella 10ª della giornata VI, dove, con vena comica impareggiabile, è narrata la storia di frate Cipolla. A quale e quanta superstizione di credenze e di

pratiche, a quale esercizio d'impostura desse occasione nel medio evo il culto delle reliquie, è noto abbastanza. I leggendarii, le cronache claustrali, le memorie di chiese infinite, son piene dei documenti di questa triste istoria. Il sentimento che si ritrova in fondo a un culto sì fatto contraddice nel modo più risoluto ai principii essenziali di quella religione dello spirito che è, o avrebbe dovuto essere il cristianesimo. Riappare in esso, mal dissimulato, un feticismo stolto, antica e grossa religione degli uomini, riappare la credenza nella magia. La reliquia è un amuleto o un talismano, il quale, secondo la varietà dei casi, preserva dai morbi, guarda dalla folgore, difende dai ladri, partecipa alle armi vittoriosa efficacia, lega i demonii, assecura contro i periglidel mare, e in mille e mille altri modi protegge, ajuta, salva chi ne è in possesso, e ciò per una sua propria connaturata virtù, la quale può esercitarsi anche se il possessore sia in tutto fuori della grazia di Dio. Così ne' vecchi poemi epici francesi si veggono i maledetti Saracini porre ogni opera a procacciarsi le reliquie tenute più care dai cristiani, e, avutele, giovarsene contro di questi, in onta a Cristo. Informe e sconcia superstizione, a più potere favorita e rinforzata dai frati, che si fecero mercanti di vere o false reliquie, moltiplicarono le più celebrate, le più stravaganti inventarono, e spesso con l'ajuto loro procacciarono ai proprii conventi assai più riputazione di quello avrebbero potuto fare dando esempio altrui di vita santa e veramente cristiana. Invecchiato, il Boccaccio cedette ancor egli alla universal frenesia, e si diede a raccoglier reliquie: da giovane egli certamente derise la superstiziosa credenza, e la sua novella lo prova.

Frate Cipolla, ignorantissimo, ma facile parlatore, e piacevol compare, andava ogni anno in Valdelsa, come usano questi frati, a ricogliere le limosine fatte loro dagli sciocchi. A promuovere la carità, un po' infingarda, di que' buoni terrazzani, egli, una volta, promette di far veder loro una stupenda reliquia, da lui riportata d'Oriente, una penna dell'angelo Gabriele, rimasta nella camera di Maria, quando l'angelo venne a farle l'annunzio divino. Questa è satira mordace, che va più direttamente a colpire certe reliquie non meno solenni che strane, le quali si veneravano qua e là nelle maggiori chiese di Europa, come il latte della Vergine, o la lacrima versata da Gesù sopra il corpo di San Lazzaro, o un pezzo della carne arrostita di San Lorenzo, o proprio penne dell'arcangelo Gabriele e dell'arcangelo Michele. E non è se non il principio; perchè, trovati, per la beffa ordinata da due giovani sollazzevoli, carboni spenti nella cassetta ove aveva riposta la penna

dell'angelo, la quale non era se non una penna di pappagallo, il frate, senza smarrirsi, entra in uno spropositatissimo racconto dei viaggi da lui fatti per mezzo mondo, e ricorda le reliquie da lui vedute in Gerusalemme, le quali erano: il dito dello Spirito Santo, così intero e saldo come fu mai; et il ciuffetto del Serafino che apparve a San Francesco; et una dell'unghie de' Cherubini; e de' vestimenti della Santa Fè cattolica; et alquanti de' raggi della stella che apparve a' tre Magi in Oriente; et una ampolla del sudore di San Michele, quando combattè col diavolo; e la mascella della morte di San Lazzaro et altre. Poi ricorda come nella stessa città di Gerusalemme avesse in dono da quel santopatriarca uno de' denti della Santa Croce, et in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone, e la penna dello Agnolo Gabriello, e altro ancora. In Firenze ebbe poi di quei carboni onde fu arrostito San Lorenzo, e son quegli appunto ch'egli ha nella cassetta.

Che in parecchie novelle del Decamerone, come nella 2ª della giornata II, nella 1ª della giornata VII, si parla con molta irriverenza di certe orazioni e della loro efficacia, basta qui ricordar di passaggio; e tale irriverenza è, non già in ciò che di esse dicono i personaggi introdotti nella novella; ma nella intenzione che l'autor lascia scorgere, nel riso con cui egli manifestamente accompagna, e vuole sieno accolte dai lettori, le parole dei superstiziosi e dei creduli. Togliere argomento di riso e di beffa dalle sciocche credenze del volgo è solo proprio di chi non partecipa a quelle credenze. Parlando di frate Puccio nella novella 4ª della giornata III, il Boccaccio dice: "E per ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle messe, nè mai falliva che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori". Qui non le orazioni soltanto, ma tutte quasi le pratiche di devozione son giudicate cose da uomini idioti e di grossa pasta, non altrimenti da quanto fecero poi più tardi, nel Cinquecento, molti umanisti. Una stolta penitenza, ma non più stolta di molte inventate dal superstizioso ascetismo, dà occasione a quanto poi nella novella si viene narrando, e s'intreccia nel modo più comico, ma più profano ancora, coi fatti tutt'altro che ascetici ond'essa è pel rimanente intessuta.

Che una mente, quale si è quella che il Boccaccio addimostra in queste novelle non dovesse essere troppo inclina a credere ai miracoli s'intende facilmente; e sta il fatto che in tutto il libro non se ne trova uno solo che

sia narrato da senno, ma sempre sono burle e ciurmerie, e non se ne cava se non argomento di riso. Nella novella 1ª della giornata II abbiamo un facchino tedesco, alla cui morte in Treviso, sonarono, secondo che i Trivigiani affermano, tutte le campane della chiesa maggiore, senza che nessun le toccasse. "Il che in luogo di miracolo avendo, questo Arrigo esser santo dicevano tutti; e concorso tutto il popolo della città alla casa nella quale il suo corpo giaceva, quello a guisa d'un corpo santo, nella chiesa maggiore ne portarono, menando quivi zoppi, et attratti, e ciechi, et altri di qualunque infermità o difetto impediti, quasi tutti dovessero dal toccamento di questo corpodivenir sani." Un Martellino, buffone, si finge attratto e mostra di guarire sul corpo del santo. Scoperto l'inganno, il popolo fanatico gli è addosso, e lo concia pel dì delle feste. Dato in mano al giudice, il malcapitato corre pericolo della forca, finchè il signore della città, udita la cosa, e fattene grandissime risa, ne lo manda sano e salvo, col dono di una roba per giunta. E il buon sant'Arrigo si riman con le beffe. Un altro bel miracolo si ha nella novella 2ª della giornata IV, dove frate Alberto si trasforma nell'angelo Gabriele, con quel che segue. Come lo sciocco Ferondo si muoja, vada in purgatorio, e risusciti per le preghiere del santo abate, si può vedere nella novella 8ª della giornata IV, dove non solamente, a parer mio, si deridono le risurrezioni, ma ancora quei fantastici viaggi nel mondo di là, che con tanta frequenza occorrono nella letteratura leggendaria del medio evo. Ferondo, domandato di molte cose, "a tutti rispondeva e diceva loro novelle dell'anime de' parenti loro, e faceva da sè medesimo le più belle favole del mondo de' fatti del purgatoro, et in pien popolo raccontò la revelazione statagli fatta per la bocca del Ragnolo Braghiello".

Dalla considerazione delle cose che precedono mi pare si possa ricavare il seguente giudizio. Il Boccaccio, quando componeva il Decamerone, non sarà stato un miscredente, ma certo non era un credenzone. Nulla prova che egli negasse i dogmi fondamentali della fede cristiana; ma tutto mostra che, di fronte a certe pratiche religiose, di fronte al miracolo e alle credenze volgari, egli assumeva un contegno risolutamente scettico e beffardo. Il Boccaccio non era accessibile allora a nessuna forma di superstizione religiosa, e sotto questo aspetto, sarebbe grande ingiustizia, non solo il dire che egli si manteneva tuttavia, come il Körting dice, al basso livello del medio evo, ma il non riconoscere che sopra quel livello si levava di molto.

III.

Oltre le superstizioni di carattere più particolarmente religioso, molte ve ne sono, le quali con la credenza religiosa o non han che vedere, oppure hanno solamente una qualche attinenza lontana. E anche per queste si possono trovare nel Decamerone i documenti del pensiero del Boccaccio.

Anzi tutto si vuole avvertire novamente che certe opinioni, sebbene contrarie a verità non vogliono reputarsi superstiziose, fondandosi esse sopra semplici errori di fatto. Nella novella 7ª della giornata IV si narra come Pasquino e la Simona morissero dopo essersi fregata ai denti una foglia di salvia, e come dell'esser divenuta velenosa la salvia fosse cagione una botta, o specie di rospo, che trovandosi nel cesto della pianta l'aveva col fiato attossicata. Che il rospo fossevelenoso fu credenza comune nel medio evo, derivata dagli antichi. Alessandro Neckam, nel suo libro De naturis rerum, Corrado di Megenberg, nel suo Buch der Natur, ed altri, dicono che il rospo mangia volentieri la salvia, e comunica spesso il suo veleno alle radici di essa. Checchessia di ciò, al rospo, oltre a parecchie qualità naturali abbastanza strane, non poche se ne attribuivano soprannaturali e diaboliche. Cesario di Heisterbach racconta la meravigliosa storia di un rospo, che ucciso più volte, bruciato e ridotto in cenere, perseguitò senza requie il suo uccisore, finchè potè morderlo e vendicarsi. Nelle pratiche di magia il rospo figura continuamente. Il Boccaccio nella sua novella non accenna se non ad una proprietà naturale.

Che il Boccaccio credesse nei sogni fu già avvertito di sopra, ed è provato ancora dalle novelle 5ª e 6ª della giornata IV, e 7ª della giornata IX. Di questa credenza, la quale non appartiene ad ogni modo alla superstizione più grossolana, non voglio scusarlo; ma è da notare per altro che egli non la séguita senza recarvi qualche restrizione. Cominciando a narrare la novella dell'Andreuola e di Gabriotto, Pamfilo, che esprime qui evidentemente la opinione dell'autore, dice: "..... molti a ciascun sogno tanta fede prestano, quanta presterieno a quelle cose che vegghiando vedessero; e per li lor sogni stessi s'attristano e s'allegrano, secondo che per quegli o temono o sperano. Et in contrario son di quelli che niuno ne credono, se non poi che nel premostrato pericolo caduti si veggono. De' quali nè l'uno nè l'altro commendo, per ciò che nè sempre son veri, nè ogni volta falsi".

Tra le molte credenze superstiziose del medio evo una delle più diffuse e delle più irrazionali fu quella che attribuiva alle pietre preziose svariate

virtù soprannaturali. Basta leggere il Liber lapidum che va sotto il nome di Marbodo, vescovo di Rennes(morto nel 1123) e gl'innumerevoli Lapidarii che ne derivano, per vedere a quali stranezze quella credenza, ereditata del resto in massima parte dagli antichi, potesse giungere. C'erano pietre che rendevano invulnerabili, pietre che assicuravano la vittoria, pietre che componevano le discordie, pietre che davano la sanità, pietre che fugavano i diavoli, pietre che mettevano in grazia di Dio.

Gli è certo cosa strana, e tale da poter offrire argomento a più di una considerazione, il vedere come nella opinione dei superstiziosi le pietre potessero, per virtù propria, operare moltissimi di quegli effetti mirabili a cui le reliquie dei santi erano atte solo per una specie di partecipazione di grazia divina. Che il Boccaccio non prestasse fede alcuna a quelle fole, tuttochè confermate dall'autorità di scrittori di molta riputazione, come Isodoro di Siviglia, Alessandro Neckam,Alberto Magno, Vincenzo Bellovacense, ed altri in gran numero, si può sicuramente argomentare dalla novella 3ª della giornata III. Notisi che quelle fole sono riportate per intiero nel Poema dell'Intelligenza, e dal Sacchetti in un suo trattatello Delle proprietà e virtù delle pietre preziose; e nel Novellino si racconta molto seriamente come il Prete Gianni mandasse a donare all'imperatore Federico II tre preziosissime gemme, delle quali l'una aveva questa virtù, che rendeva invisibile chi se la recava in pugno. Alle virtù delle pietre Marsilio Ficino credeva ancora, e così pure Giambattista Porta e Simone Majolo. Nella novella del Decamerone testè citata si tratta appunto di una pietra che ha virtù di rendere invisibile, l'elitropia, alla quale Marbodo attribuisce, oltre a questa, parecchie altre qualità mirabili, come di dare spirito profetico e buona reputazione, assicurare l'incolumità, ecc. L'eroe della novella del Boccaccio è quel Calandrino, che anche altrove, nel Decamerone, fa così bella figura, e il cui nome è passato in proverbio. Che certe fanfaluche si mettano appunto in istretta relazione con la insuperabile sciocchezza di lui, è già buono argomento a giudicare del concetto in cui quelle fanfaluche si hanno dall'autore. Udendo l'astuto Maso, che vuole burlarsi di lui, parlare delle virtù delle pietre preziose, Calandrino domanda ove tali pietre si trovino, e Maso risponde "che le più si trovavano in Berlinzone, terra de' Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, et avevasi un'oca a denajo et un papero giunta, ecc." Richiesto da Calandrino, se di quelle pietre, non si trovino anche là, presso a Firenze, Maso risponde che sì; essercene due di grandissima virtù, i

macigni da Settignano e da Montisci, di cui si fanno le macine da molino, e l'elitropia, che rende l'uomo invisibile. Vago di trovare tal pietra, Calandrino, con gli altri due famosi burloni Bruno e Buffalmacco, ne va in cerca nel letto del torrente Mugnone, e ci fa quell'acquisto che nella novella si può vedere e che qui non accade ripetere. Non poteva il Boccaccio schernire più saporitamente la sciocca credenza; nè si obbietti che nel Filocopo egli parla di certo anello dotato di virtù miracolose, perchè ei non ne parla se non per maniera di finzione romanzesca, e senza credervi più di quello credesse l'Ariosto all'Ippogrifo.

Un'altra superstizione assai diffusa nel medio evo fu quella delle malie amorose, e contro questa direi che il Boccaccio dovesse avere un'avversione particolare. Il Boccaccio conosce troppo bene il cuore umano, e nella cognizione di quella che si potrebbe dire storia naturale dell'amore non v'è chi gli vada innanzi. Egli sa come l'affetto nasca spontaneo o provocato, comecresca e si nutra, ov'abbia le radici, a quali vicende soggiaccia, come venga meno e si spenga. Egli ha dell'amore un concetto talmente naturalistico che nessuna credenza superstiziosa vi si potrebbe appiccare. Miracoli d'amore egli non conosce se non dovuti a gioventù, a bellezza, a gentilezza d'animo, a naturale concupiscenza: son queste le vere malie a cui si deve ogni amoroso effetto. A che pro i filtri se la seduzione può trionfare di ogni animo più restio? Non v'è incantamento che possa aver più forza d'uno sguardo, di una paroletta, di un riso. Di un'amorosa malia si discorre nella novella 5ª della giornata IX; se non che, a farci intendere sin dalla bella prima quale sia la disposizione d'animo dell'autore, ecco anche qui farcisi incontro il buon Calandrino, il nuovo uccello, a cui non è fandonia che non si possa dare ad intendere. Calandrino, pazzamente invaghito di una femmina di mal affare, ricorre per ajuto a Bruno, il quale fa di carta non nata un certo suo breve magico e dà a credere all'innamorato che, tocca con esso la donna, questa non potrà fare che non lo segua dove più a lui piacerà di condurla. Il povero Calandrino, secondo il solito, paga le pene della sua credulità, uscendo dall'avventura tutto pesto e graffiato. Altre più gravi e complicate malie s'hanno nella novella 7ª della giornata VIII, ma non per altro fine che per servire ad un fiero inganno e ad un'atroce vendetta. Cagione del tutto anche qui una sciocca credulità. La Elena è abbandonata dall'amante suo, e non può darsene pace; la fante "non trovando modo da levar la sua donna dal dolor preso,..... entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu che l'amante della donna sua ad amarla come far solea si dovesse poter riducere per alcuna nigromantica operazione".

Che cosa, del resto, il Boccaccio sentisse degl'incanti, degli affatturamenti, della tregenda e dell'arti magiche in genere, si scorge chiaro dalle novelle 3ª e 9ª della giornata VII, 6ª e 9ª della giornata VIII, 10ª della giornata IX. In quest'ultima è assai piacevolmente messa in canzone la credenza che, per arte magica, gli uomini si possano mutare in bruti, e in tutte l'altre i pretesi incantamenti non servono se non a dar materia di beffa e di riso. Nella novella 9ª della giornata VIII è nominato il famoso negromante Michele Scotto, di cui è memoria in tante scritture di quella età; ma non per altro è nominato che per burlarsi di quel pover uomo di maestro Simone.

Si potrebbe obbiettare che nelle novelle 5ª e 9ª della giornata X, il Boccaccio racconta di prodigi operati per artemagica come di cose veramente accadute. Nella prima si narra di un fiorente giardino fatto sorgere di pien gennajo da un negromante, storia narrata anche di Alberto Magno e di molti altri presunti incantatori; nella seconda, ch'è la notissima storia di messer Torello e del Saladino, si racconta del buon cavaliere cristiano, come per arte magica, in una notte, fu trasportato sur un letto da Alessandria d'Egitto a Pavia. Ma queste due novelle, tanto provano che il Boccaccio avesse fede nella magia, quanto che l'avesse il Goethe può provare il Fausto. Qui abbiamo due temi di racconto assai diffusi nel medio evo e che il Boccaccio accoglie nel Decamerone, non perchè li creda veri, ma perchè li conosce assai vaghi, e tali da poterne con l'arte sua far ottimo uso. Accoltili, s'egli vuole che ne segua l'effetto, bisogna non tocchi alla loro menzogna; e in fatto egli si guarda, contro l'usanza sua che per più esempii abbiam potuto vedere in altre novelle qual sia, di dir pure una parola che lo mostri incredulo, o volga in beffa la credenza altrui. Così facendo egli segue un supremo precetto d'arte, non già la sua propria opinione, la quale è sin troppo chiarita da tutte le altre testimonianze che siam venuti notando. Il parlare seriamente di una cosa non può essere indizio di fede, quando c'entrino le ragioni dell'arte e della storia, mentre è prova certa d'incredulità il parlarne con ironia o con riso.

Questa considerazione vale anche per ciò che mi rimane a dire delle apparizioni e dei fantasmi.

Nella novella 3ª della giornata V si narra di quella bellissima e formidabile apparizione veduta da un giovine di Ravenna nella pineta di Chiassi, quando s'incontrò in una donna ignuda che fuggiva, inseguita da due grandi mastini e da un cavaliere bruno montato sopra un cavallo

nero. L'apparizione è qui data per reale, e quella donna e quel cavaliere per vere anime dannate in atto di esercitare esse stesse il castigo loro imposto. Il Boccaccio tolse la storia della apparizione da Elinando, o dal Passavanti, ma l'innestò in un racconto tutto naturale ed umano, e, per giunta, la fece servire ad un fine cui certo non avevan pensato coloro che la narrarono primi. Alle mani del Boccaccio l'apparizione diventa una macchina di racconto romanzesco. Nella novella 10ª della giornata VII un giovane popolano, stato gran tempo amante di una sua comare, muore, e dopo qualche giorno, apparisce, secondo certo accordo fatto, ad un suo amico, per dargli nuove dell'altro mondo e per dirgli, che cosa? che di là non si tiene conto alcuno dei peccati commessi con le comari, enon se ne paga nessuna pena. Parodia bella e buona di quelle apparizioni d'anime dannate o purganti onde i leggendarii del medio evo son pieni. Che razza di fantasima poi sia la fantasima scongiurata da Gianni Lotteringhi e dalla moglie sua nella novella 1ª della giornata VII, e di che maniera sia lo scongiuro, non ho bisogno di ricordare. Nella già citata novella 3ª della giornata III, raccontando Lauretta come l'abate fosse creduto esser l'anima di Ferondo che andasse in giro facendo penitenza, dice che ciò porse argomento di molte novelle tra la gente grossa della villa. Il mondo dei fantasmi non era un mondo in cui potesse compiacersi una mente come quella del Boccaccio, aperta solo ai colori e alle forme del mondo reale, una fantasia come la sua, pittrice e scultrice della vita. Il temperamento secondava in lui la coltura, ed entrambi congiunti non gli permettevano di smarrirsi nel regno nebuloso dei sogni.

Dal sin qui detto parmi risulti in modo assai chiaro che il Boccaccio, quanto a superstizione, non solo non s'allenta dietro al medio evo, ma anzi se ne trae fuori tanto quanto è possibile ad uomo di quel tempo. Io non voglio negare che anche il Petrarca non abbia in questa parte meriti grandissimi, perchè in troppi luoghi delle sue opere se ne ha solenne testimonianza; ma non parmi ci sia ragione di mettere il Boccaccio tanto al disotto di lui, nè credo giusto trar l'uno sulle più alte cime del sano ed illuminato pensiero per lasciar l'altro giù nella valle della superstizione. E il Petrarca e il Boccaccio non sono uomini nuovi se non in parte; entrambi sono ancora legati al passato; entrambi si rivolgono e tornano ad esso. Quale dei due n'uscì maggiormente? Quale vi retrocesse più addentro? Non è cosa agevole dirlo. Il Boccaccio detestò gli studii prima adorati, rinnegò l'opera sua maggiore; ma di lui, ad ogni modo, noi non abbiam libri da mettere a riscontro del Secreto, dei Rimedii dell'una e

dell'altra fortuna, del Trattato della vita solitaria, coi quali il Petrarca, non per una od altra opinione particolare, ma per il sentimento stesso della vita e per gli abiti della mente ripiomba nel medio evo a capo fitto. L'ascetismo del Petrarca il Boccaccio non lo conobbe.

SAN GIULIANO NEL "DECAMERONE" E ALTROVE

Tutti conoscono la storia poco edificante narrata nella novella 2ª della seconda giornata del Decamerone: Rinaldo d'Asti rubato, capita a Castel Guglielmo, et è albergato da una donna vedova, e, de' suoi danni ristorato, sano e salvo si torna a casa sua. Di che maniera fosse l'albergare della buona vedova l'argomento non dice, ma dice, anzi fa vedere, la novella, dove, per giunta, la buona ventura toccata al mercante astigiano è messa in istretta relazione col così detto Paternostro di San Giuliano l'Ospitaliere, e con la devozione grandissima che si ebbe, durante tutto il medio evo, a questo santo famoso.

Quell'uomo dabbene che fu monsignor Giovanni Bottari, parlando, in una delle sue Lezioni sopra il Decamerone, di questa saporita novella, fitto sempre in quel suo caritatevole pensiero di voler purgare l'autore d'ogni sospetto di miscredenza o d'eresia, dice che in essa, il Boccaccio, da buon cattolico, e non altrimenti, volle biasimare e deridere una tra le tante pratiche superstiziose in uso a' suoi tempi, e una di quelle appunto che più contrastano col sentimento religioso sincero e legittimo. Ora, che il Boccaccio abbia voluto farsi beffe di una sciocca superstizione, come di molt'altre superstizioni si fa beffe in altre novelle sue, è cosa in tutto fuor d'ogni dubbio; ma che egli abbia fatto ciò con gl'intendimenti che monsignor Bottari gli attribuisce, è cosa che non potrebbe provarla nemmanco il Dottor Angelico, se tornasse al mondo.

In fatto, se quelli fossero stati gl'intendimenti suoi, il Boccaccio, per dar loro effetto, non aveva a far altro che troncar la novella nel punto incui, spogliato d'ogni suo avere dai malandrini, e abbandonato da essi nel fitto della notte, in mezzo alla neve, il malcapitato di Rinaldo poteva vedere quanto fosse vana la fede da lui riposta in San Giuliano, e quanto fallace la speranza di compiere, mercè sua, felicemente il viaggio e ottener buono albergo. Il Boccaccio stesso ci mostra Rinaldo starsene in quel brutto frangente tutto tristo e cruccioso, spesse volte dolendosi a

San Giuliano, dicendo questo non essere della fede che aveva in lui. Ma, soggiunge poi subito, San Giuliano avendo a lui riguardo, senza troppo indugio gli apparecchiò buon albergo.

E fu buono albergo davvero, perchè Rinaldo vi trovò, non solo tavola apparecchiata e letto sprimacciato, ma ancora certa donna del marchese Azzo di Ferrara, la quale divenne per quella notte la sua, e dalla quale ebbe soprammercato, in partirsi, buona quantità di denari. Ora, non erano certamente questi gli argomenti più acconci a far persuasi della vanità della superstizione gli uomini creduli e grossi, e il Boccaccio stesso pare che ce ne voglia avvertire, quando fa che Rinaldo, levatosi la mattina, ringrazii della venturosa nottata Dio e San Giuliano.

Vorremo noi fare un altro pensiero e credere che messer Giovanni abbia, di suo capo, allargata a quel modo, oltre ai termini consueti e men disdicevoli, l'azione benefica del santo protettore, tratto a ciò da certo suo spirito di empietà, e dal desiderio di farlo conoscere altrui? Certo, non mancano nel Decamerone fatti e parole d'onde agevolmente si potrebbero trarre argomenti in sostegno di una tal congettura; ma qui non si tratta di sapere che cosa il Boccaccio avrebbe potuto volere secondando certe tendenze del suo spirito; si tratta di sapere che cosa egli fece veramente. Facciamo un'altra ipotesi. Se quanto nella nostra novella è men conforme a devozione appartenesse insiem col resto, e al par del resto, alla credenza superstiziosa messa in azione e derisa? Se il Boccaccio non avesse avuto bisogno d'inventar nulla, nè aggiungere nulla; se nulla avesse narrato che una fede guasta e travolta non potesse, direi normalmente, ripromettersi dal favore di San Giuliano? Se così fosse, la novella, non contenendo inframmesse di un carattere personale troppo spiccato verrebbe ad avere un valore storico anche maggiore e sarebbe tutta satira schietta, senza commistione alcuna di parodia. Ora gli è così veramente, e che sia, prova già lo stesso Rinaldo, il quale non si stupisce punto di quanto da ultimo gl'interviene, nè dà in modo alcuno a conoscere che nel beneficio ricevuto gli paja esserci qualche eccesso, o sconvenevolezza; ma ogni cosa egualmente riferisce alla grazia del santo, il buon albergo, i denari e la donna.Egli nulla riceve che non potesse, in certo qual modo, ragionevolmente e legittimamente aspettarsi.

Il Galvani, prendendo appunto argomento da questa novella del Boccaccio, compose, intorno a San Giuliano, un'apposita dissertazioncella; la quale, per altro, non tocca menomamente la

questione qui messa innanzi, ed è anche sotto più altri rispetti assai manchevole. Perciò spero che la notizia che segue non sia per tornare nè discara nè inutile agli studiosi del nostro massimo novellatore.

Volgiamoci dapprima alla letteratura italiana e vediamo se in essa non ci occorra qualche testimonianza e qualche prova del fatto che abbiamo congetturato: la protezione di San Giuliano essersi estesa anche ai facili amori, alle buone venture. Notiamo peraltro, prima di andare innanzi, che di una estension così fatta non è punto a meravigliarsi. Chi ha qualche pratica dell'agiologia popolare del medio evo, sa che le plebi cristiane attribuirono spesso ai santi qualità ed offici, che con la santità si accordano veramente assai poco, e non mancarono di cercar patroni persino al vizio e alla colpa. I ladri ebbero a protettori San Disma e San Nicola; le donne da partito si raccomandarono a Santa Maddalena, a Sant'Afra, a Santa Brigida. Se i matti furono protetti da San Maturino, non poteva mancare, e non mancò, un protettore agli innamorati, e questo fu San Valentino. Ma essendo quello dell'amore un gran regno e con molte faccende, da non potervi attendere un solo, ne fu data partitamente giurisdizione più o meno onorevole a parecchi santi, e di questi San Giuliano fu uno.

San Giuliano è spesso ricordato in libri nostri di ogni tempo; ma non tutti quei ricordi fanno per noi. Quelli, per esempio, che si hanno nel Pataffio e in una novella di Franco Sacchetti, provano che il Paternostro di San Giuliano era assai cognito, e da molti, all'occasione, recitato, ma non provano altro. Non così un luogo di certa novella del Pecorone. Quivi si narra di una bellissima donna, vestita da frate, della quale s'innamora, non conoscendola, la figliuola di un oste. Un prete, che viaggia con lei, credendola frate davvero, avvedutosi di quell'amore, dice alla sua compagna: Per certo voi diceste stamane il Pater nostro di San Giuliano, però che noi non potremmo avere migliore albergo, nè la più bella oste, nè la più cortese. Qui, di sbieco se si vuole, c'è un accenno ad altro che ad albergo. Ma testimonianze più sicure e più esplicite non mancano. Di Livia, supposta innamorata di Parabolano, dice il Rosso, nella Cortegiana dell'Aretino, che ha detto il Pater nostro di San Giuliano a guastarsi di lui. Nella stessa commedia, l'Alvigia mezzana, trovandosi a un brutto sbaraglio, si raccomanda albeato Angelo Raffaello, a San Tobia, e più particolarmente a San Giuliano, dicendo: messer San Giuliano, scampa l'avvocata del tuo Pater nostro. Ora, avvocata del Pater nostro di San Giuliano, in questo caso non può voler dir altro che mezzana. Si

potrebbero moltiplicare gli esempii, i quali proverebbero pure che il culto di San Giuliano era non meno vivo nel Cinquecento che nel Trecento. San Giuliano era uno dei santi più popolari e più spesso invocati, e lo prova il Franco quando fa dire alla sua loquace lucerna: "Veggo i carrettieri et i falconieri diventare in terra da più di San Vito e di San Giuliano nel paradiso".

Se non che, essendo gli esempii recati di sopra posteriori al Boccaccio, si potrebbe dir che non provano, e si potrebbe riconoscere in essi, anzi che un riflesso della credenza popolare, un semplice riflesso della novella stessa del Decamerone, cognita universalmente e passata in certo modo in proverbio. Ma altrettanto non si potrà certo dire delle testimonianze che ci offre la letteratura francese.

Se San Giuliano fu popolare in Italia, in Francia fu assai più, e v'ebbe più offici, giacchè, non soltanto protettor dei viandanti, e procacciatore di buono albergo, ma vi fu anche patrono delle corporazioni dei menestrelli e dei poveri, e invocato da coloro che languivano in ischiavitù o in prigionia. Vero è che l'officio suo principale rimaneva pur sempre quello di provvedere di buono albergo i suoi devoti. In Parigi c'era una chiesa a lui consacrata, e un poeta, ricordandola insieme con l'altre molte ch'erano nella città, dice:

Saint Juliens

Qui herberge les Chrestiens.

Ora l'albergare di San Giuliano poteva(non dico che dovesse) essere della maniera appunto che si vede nella novella del Decamerone; e avoir l'ostel Saint Julien voleva dire, non solo avere buona stanza, ma spesso anche avere la buona nottata, come Rinaldo d'Asti. Il Legrand d'Aussy cita da una canzone manoscritta i seguenti versi, con cui un poeta, Giacomo d'Ostun, avendo passato la notte con la sua dama, celebra la goduta felicità:

Saint Julien qui puet bien tant,

Ne fist à nul home mortel

Si doux, si bon, si noble ostel.

Nel fableau di Boivin de Provins, alcuni che si credono di accalappiare Boivin, traendolo in casa di una sgualdrina, gli dicono:

Par saint Pierre le bon apostre,

L'ostel aurez saint Julien.

Eustachio Deschamps intende l'ostel nel senso che l'intende Giacomo d'Ostun, quando dice:

On quiert l'ostel Saint Julien,

e quando, facendo il proprio ritratto, esce in questa confessione:

Je ne désir fors que Saint Julien

Et son hostel, dont bon fait trouver l'uis;

De saint George pas grant compte ne tien,

De sa guerre n'est mie grant deduis.

Questi esempii provano che non fuil Boccaccio ad attribuire a San Giuliano il poco onesto officio; ma come mai la devota superstizione fu essa condotta ad affidarglielo? Non è troppo difficile il dirlo. Si tenga ben presente che San Giuliano, il quale per far penitenza della involontaria uccisione del padre e della madre, da lui commessa, fondò un ospizio, dove per molti anni accolse liberalmente i pellegrini, è come il santo titolare della ospitalità; si ricordi che la ospitalità nel medio evo fu intesa assai più largamente di quanto a noi possa parere dicevole, e che era in certo qual modo obbligo di cortesia, nei baronali manieri, offrire all'ospite, oltre alla stanza e alla tavola, anche una compagna di letto per la notte, e si avrà piena ragione e spiegazione del fatto. Un albergo non si considerò interamente buono se non c'era, diciam così, quel complemento, e San Giuliano che procacciava il buono albergo, procacciava il complemento insiem col resto. S'intende poi come trovatori, troveri, menestrelli, uomini che campavano dell'ospitalità e liberalità altrui, si raccomandassero a San Giuliano per tutto quanto era stato così posto sotto la sua giurisdizione. E certo a tutti i favori che il santo poteva largire pensava Pietro Vidal quando diceva:

Domna, ben aic l'alberc saint Julian,

quan fui ab vos dins vostre ric ostal,

e quando il proposito di rimanere in Italia esprimeva in quei versi:

Era m'alberc deus e sans Julias

e la doussa terra de Canaves,

qu'en Proensa no tornarai eu ges

pos sai m'acoilh Lameiras e Milas,

car s'aver posc cela qu'ai tant enquiza,

. . . . . . . . . . . . . ..

E a tutti quei favori similmente doveva aver la mente il Monaco di Montaudon, quando, in una sua canzone, introduce lo stesso San Giuliano a lamentarsi dinanzi a Dio che la decadenza dei costumi cavallereschi, e il picciol animo dei signori abbiano in tutto screditato il suo nome e quasi tolto il suo culto. Considerata ogni cosa, non si stenta troppo a capire come Guglielmo IX di Poitiers, il più scapestrato dei trovatori, potesse render grazie a Dio e a San Giuliano della molta perizia ch'egli si vanta di avere nel dolce giuoco di amore:

Dieus en laus e sanh Jolia;

Tant ai apres del juec doussa,

Que sobre totz n'ai bona ma.

Del resto San Giuliano non deve troppo dolersi di quell'officio commessogli certo contro sua voglia, giacchè officio in tutto simile si trova pure commesso a santi che non avevan poi sulla coscienza ciò che egli ci aveva. In un vecchio poemetto tedesco, intitolato Die Treue Magd, si racconta di uno studente che aveva in uso di recitare ogni giorno due preghiere,l'una il mattino alla Santissima Trinità, perchè non lo facesse capitar male, l'altra la sera a Santa Gertrude(quale delle parecchie registrate nei cataloghi?) per ottenere da lei buono albergo. Si mette in viaggio alla volta di Parigi, e giunta la sera si raccomanda alla santa. Per non fermarci troppo sui particolari, ecco che egli capita in casa di una donna bellissima, il cui marito è assente, e vi trova quelle stesse accoglienze che Rinaldo d'Asti trova in casa dell'amica del marchese Azzo. Sopraggiunge in mal punto il marito; ma allora Santa Gertrude, più sollecita de' suoi devoti che lo stesso San Giuliano non sia, suggerisce(così almeno il poeta dice di credere) alla fantesca della donna un buon provvedimento che salva ogni cosa. Lo scolare riconoscente non dimentica di ringraziare la santa, e tutti contenti. Notisi che il giovane s'era mosso alla volta di Parigi con l'intenzione di attendere non meno agli amori che agli studii.

Così pure non si vede quale ragione potesse indurre il volgo credente in Francia a prendersi una confidenza in tutto simile con San Martino, se non si ammette che, essendo San Martino un santo molto popolare e bonario, il popolo potè credersi licenziato a ricorrere al suo patrocinio anche in casi nei quali l'ajuto dei santi non pare troppo a proposito. Fatto sta che ostel saint Martin significò quel medesimo che ostel saint Julien. Il fableau intitolato Le meunier et les II clers, che corrisponde alla novella 6ª della Giornata IX del Decamerone, ce ne porge una prova. Il poeta,

narrati i casi venturosi ch'ebbero i due giovani albergando la notte in casa del mugnajo, dice:

Il orent l'ostel saint Martin.

E in un'alba di Guiraut de Borneil non invoca il vigile amico la protezione di Dio sopra l'amante troppo felice che non cura il sopravvenire del giorno?

Il Manni crede che la storia di Rinaldo d'Asti narrata dal Boccaccio, non sia cosa inventata, ma vera. Ciò può ben essere; ma in tal caso, inclinerei a credere che al fatto sostanziale vero il Boccaccio avesse messo egli quel contorno di comica superstizione, traendolo, sia da altre storie a lui note, sia dalla divulgata credenza. Ad ogni modo non intendo che si voglia dire L. Cappelletti, quando afferma che le fonti della novella del Boccaccio sono il Panciatantra, le gesta Romanorum, c. XVIII, e la Legenda aurea, hist. XXII. Certo riscontro con una novella del Panciatantra fu notato, e sta bene; ma nei Gesta Romanorum e nella Legenda aurea si narra la storia di San Giuliano, e non si trova indizio di quelle particolarità del culto a esso San Giuliano prestato che appunto sono di capitale importanzanella novella del Boccaccio; e per sapere che San Giuliano l'Ospitaliere era protettor dei viandanti, il Boccaccio non aveva bisogno di ricorrere a quei racconti, ma bastava che ponesse mente al nome di lui, e aprisse le orecchie a' discorsi degli innumerevoli credenti.

Per carità, un po' più adagio in questa faccenda delle fonti.

IL RIFIUTO DI CELESTINO V

Tra le molte novelle che, com'è noto, Ser Giovanni Fiorentino trasse, quasi copiando a parola, dalle Cronache di Giovanni Villani, è pure la 26ª, nella quale si narra come Celestino V rinunziasse il papato. Anche qui il novelliere altro quasi non fa se non trascrivere lo storico, salvo che, venuto quasi al fine della narrazione, v'interpola di suo la notizia seguente: "Vero è che molti dicono, che il detto Cardinale(Benedetto Gaetani, che poi fu papa col nome di Bonifazio VIII) gli venne una notte segretamente con una tromba a capo al letto e chiamollo tre volte, ove Papa Celestino gli rispose e disse: chi sei tu? Rispose quel dalla tromba: io sono l'Angel da Iddio mandato a te come suo divoto servo; e da parte sua ti dico, che tu abbia più cara l'anima tua che le pompe di questo

mondo, esubito si partì". Udita questa ammonizione, e credendo gli venisse veramente da Dio, Celestino, che già assai di mal animo sosteneva il gravissimo officio, depose il manto e la tiara. Ser Giovanni, che cominciò a scrivere il Pecorone l'anno 1378, non inventò questa storiella; essa era già nata da un pezzo, e, come le parole stesse di lui ci provano(molti dicono), era allora largamente diffusa. Poniamoci sulle sue tracce e vediamo fin dove ci possano condurre.

La storiella testè riferita si ha generalmente in conto di leggenda, e a confermarla tale fu osservato che i contemporanei e i testimoni di veduta non ne fanno cenno. Che ne tacessero i fautori e gli amici di Bonifazio s'intende; ma fatto è che nemmeno i suoi nemici ne parlano. Nel famoso libello, che da Longhezza i due cardinali Giacomo e Pietro Colonna scagliarono(10 maggio 1297) contro quel pontefice, si dice bensì che nella rinunzia di Celestino(13 decembre 1294) entrarono multae fraudes et doli, conditiones, et intendimenta et machinamenta; ma si rimane così sulle generali, senza specificar nulla. Jacopone da Todi, che diceva a Bonifazio:

Come la salamandra

Sempre vive nel fuoco,

Così par che lo scandalo

Te sia sollazzo et joco,

non avrebbe taciuta la frode se gli fosse stata nota. I fautori di Filippo il Bello, che tante accuse terribili lanciarono contro il nemico pontefice, e fra l'altre quella d'intendersela col diavolo, non avrebbero mancato d'imputargli anche questo gravissimo sacrilegio della usurpata qualità di messo celeste, se qualche fama ne fosse loro venuta all'orecchio. E Dante n'ebbe egli un qualche sentore? Crediamo di no; o, se l'ebbe, non se ne diè per inteso. Tutti sanno quanto siasi disputato intorno all'essere di colui che nel III canto dell'Inferno Dante accusa di viltà per aver fatto il gran rifiuto. Non entreremo in queste disputazioni, chè la soluzione del dubbio non importa ora al nostro bisogno. Supposto che Dante intendesse parlare di Celestino, gli è chiaro che la leggenda non entrava per nulla in quel suo giudizio, perchè, se egli avesse potuto credere alla gherminella di Benedetto, questa gli avrebbe dato argomento a giudicar Celestino uomo credulo e semplice, vile non già. Ma che il poeta ignorava la leggenda, o, conoscendola, non le dava credenza, si desume da altri due luoghi di quella medesima Cantica. Nel c. XIX, vv. 55-7, Niccolò III, credendo di parlare a Bonifazio, dice:

Se' tu sì tosto di quell'aver sazio

Per lo qual non temesti tôrre a inganno

La bella donna, e poi di farne strazio?

La bella donna, non ostante qualche interpretazione diversa, è senza dubbio la Chiesa, e quel tôrre a inganno può riferirsi, tanto alle male arti usateper indurre Celestino a rinunziare, quanto a quelle usate poi per succedergli. Ma che in quelle parole non si contenga nessuna allusione alla frode della leggenda, provano i vv. 104-5 del c. XXVII, dove lo stesso Bonifazio dice:

Però son due le chiavi

Che il mio antecessor non ebbe care.

Dante credeva dunque che Celestino avesse rinunziato alla dignità papale per insufficienza d'animo, per non sentirsi atto all'officio, e non, oltre che per queste ragioni, anche per obbedienza a un presunto comandamento divino.

Ma il non farsi dai citati sin qui ricordo alcuno della leggenda non prova che la leggenda non fosse già nata; ed anzi noi abbiamo i documenti in mano che ce la mostrano nata quasi ad un tempo coi fatti che le diedero origine. Il Tosti cita, come il più antico autore che la riferisca, il cronista Ferreto Vicentino, che scrisse circa trentadue anni dopo la rinunzia di Celestino; ma essa si trova già narrata in una cronica fiorentina, detta di Brunetto Latini, e pubblicata anni sono dall'Hartwig. L'autore di essa, ignoto del resto, era già adulto nel 1292, e non condusse la sua narrazione oltre il 1303. Egli racconta la leggenda nei termini seguenti: "Questi(Celestino) essendo homo religioso e di santa vita elli fue ingannato sottilmente da papa Bonifazio per questa maniera, ch'ello detto papa per suo trattato e per molta moneta, che spese al patrizio nuch(sic) vedevasi la notte nella camera del papa ed aveva una tromba lunga e parlava nella tromba sopra il letto dello papa e dicea: Io sono l'angelo, chetti sono mandato a parlare e comandoti dalla parte di Dio glorioso, che tu immantanente debbi rinunziare al papatico e ritorna ad essere romito. E così fece tre notti continue, tanto chelli crette alla boce dinganto(sic), e rinunciò al papatico del mese di dicembre, e con animo deliberato colli suoi frati cardinali dispose se medesimo ed elesse papa un cardinale d'Anangna, chaveva nome Messer Benedetto Gatani, e suo nome papale Bonifazio ottavo". Qui la leggenda è bella e formata, e non si dà come leggenda, ma come storia certa: solo è da notare che l'autore

attribuisce bensì a Bonifazio l'idea della frode, ma non la materiale esecuzione di essa, mentre i più di coloro che la narreranno poi ne faranno Bonifazio inventore ed esecutore ad un tempo.

Abbiam parlato sin qui di leggenda; ma non è poi assolutamente provato che leggenda sia e non istoria. Un uomo di pochi scrupoli, come Bonifazio VIII, poteva bene, trovandosi a fronte un uomo semplice e dappoco, quale era appunto Celestino, ricorrere, per conseguire il suo intento, a una gherminella indecorosa sì, ma certo non inefficace.Se non che ciò poco importa al caso nostro. Ammesso che sia leggenda, s'intende come la nota scaltrezza di Bonifazio e la non men nota semplicità di Celestino dovessero farla nascere, e dovessero farla nascere in tempo assai prossimo agli avvenimenti che le davano appiglio, quando di questi avvenimenti appunto si cercava di dar ragione, e quando le passioni suscitate da essi erano calde ancora. Forse il Marino accenna alla vera origine della leggenda in un luogo della sua vita di Celestino V, notando come, dopo la rinunzia, si spargesse per Roma la fama, e Pietro Grasso, notajo regio, attestasse, avere Cristo parlato a Celestino, dicendo: Quid prodest homini si universum mundum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur? Non ci voleva un grande sforzo di fantasia per porre al luogo di Cristo il cardinale Benedetto. Che poi la leggenda, per alcun tempo, dopo esser nata, potesse rimanersi chiusa entro una cerchia piuttosto stretta, in guisa da non venire a cognizione di chi avrebbe potuto giovarsene contro il pontefice, non farà meraviglia a nessuno.

La leggenda, di cui un cronista ci offre la testimonianza più antica, riappare poi in altri cronisti del secolo XIV; e s'intende come con l'andar del tempo, allargandosi anche fuori d'Italia, si venisse in varii modi alterando. Il già citato Ferreto non dà la cosa per sicura, come fa il cronista fiorentino, ma dice: ferunt, e operatore del dolo fa lo stesso Bonifazio. Giovanni Vittoriense non dubita, pare, della frode, ma lascia dubbio se si dovesse o no a Bonifazio. Alberto Argentinense riferisce la cosa, senza affermar nulla. Ma nella seconda metà del XVI secolo Gilberto Genebrardo l'afferma risolutamente.

Se non che le notizie più curiose della leggenda ci sono offerte, non dai cronisti, ma dai commentatori di Dante, alcuno dei quali è forse anteriore a Ferreto. Cominciamo da uno dei più antichi, dall'anonimo autore delle Chiose alla prima Cantica pubblicate dal Selmi. In quella parte di esse che si riferisce al noto luogo del c. III noi troviamo, non

senza meraviglia, la leggenda in una forma assai svolta, e con isfoggio di particolari fantastici che non si riscontrano altrove; il che accennerebbe già di per sè ad una lunga elaborazione. Il racconto merita d'essere qui riportato per intero. "Questi che per viltà fece il gran rifiuto fu papa Cilestrino, il quale essendo Romito Murato, perciò che di poco bene era sazio, e avea le genti d'intorno crediano che fosse santo uomo, e' cardinali credendolo che fosse sufficiente persona, sì lo chiamaro papa, e fu confermato papa. Bonifazio che si fu accorto della miseria e della cattività sua, fece fare ali e volto e manie una scritta con cose che lucono di notte e non di dì; e poi, a sua posta, celato di notte tempo i lumi, spenti in prima tutti i lumi, entrò ne la camera sua, lui dormendo, e chiamò con uno organo: Cilestrino, Cilestrino, tre volte. Questi si svegliò dicendo: Domine, chi mi chiama?... E' rispose: messo di Dio. Cilestrino il mirò, e vide solo le mani e l'ali e 'l volto lucenti. Maravigliossi molto, e disse: che comandi? E que' rispose: a Dio spiace molto la tua vita, e hai lasciata la via del paradiso e vuoli ire a l'inferno. Leggi questa carta del comandamento. E la scritta dicea: i' ti comando, che domattina, fatto il dì, tu prenda il manto e 'l pasturale, e 'l primo cardinale che tu truovi fa sedere in su la sedia di San Pietro, e vestilo d'ogni cosa come l'hai tu, e poi rifiuta, e partiti in maniera che non sii veduto esser partito. Letta la scrittura che d'oro paria, credette per certo che Agnolo di Dio fosse. Disse che si farebbe. Papa Bonifazio ravolse le cose e sparì, e la mattina si levò sì tosto che fu dì. Prima Cilestrino lo vide, aempiè il comandamento, e poselo in sulla sedia, e Cardinali furono d'intorno, e da' più fu confermato a cui parve ragione, e tali per amore, e tali per promesse, e altri per paura, sì che papa rimase".

Nel commento di anonimo pubblicato da Lord Vernon e nelle chiose attribuite a Jacopo Alighieri la leggenda non è ricordata; ma questa poi riappare, tuttochè in forma più semplice e compendiosa, in parecchi dei commentatori posteriori. Secondo Jacopo della Lana furono i cardinali, e non il solo Benedetto, a ordir l'inganno. L'Ottimo paria di certi artificj, ma non dice quali fossero: Pietro Alighieri non fa cenno nemmeno di artifizii. Giovanni Boccacci riferisce una versione secondo la quale a far l'inganno Bonifazio si sarebbe accordato con alcuni suoi servitori. Il falso Boccaccio(Chiose sopra Dante, pubblicate da Lord Vernon) parla di ragioni e di argomenti usati da Bonifazio, non d'altro; e Benvenuto da Imola crede che il reo del gran rifiuto sia Esaù, non Celestino. Francesco da Buti dice che Bonifazio usò e della persuasione e della frode. L'Anonimo Fiorentino, pubblicato dal Fanfani, attinge per la narrazione

dal Villani; poi, al c. XIX, narra l'inganno, introducendo un fanciullo a far la parte dell'angelo; ma pare stimi il tutto una favola. Guiniforto delli Bargigi tace della leggenda, e ne tacciono ancora il Landino, il Vellutello, il Daniello. E tra coloro che ne tacciono sia qui ancora ricordato il Petrarca che, come altri, soload umiltà attribuisce la rinunzia di Celestino.

La varietà delle versioni che abbiam vedute sin qui, e il richiamarsi, che i narratori spesso fanno, alla voce pubblica, provano, ci sembra, la diffusione della leggenda. Non ci recherà dunque meraviglia il ritrovar questa in un racconto islandese contenuto in un codice del sec. XV, e fatto, non ha molto, di pubblica ragione. S'intende come la leggenda non abbia potuto compiere un così lungo viaggio senza molto alterarsi; ma ecco la sostanza del non breve racconto. Celestino aveva accettato assai malvolentieri la dignità papale; Bonifazio, per contro, uomo di facili costumi, e padre di dodici figliuoli, ad essa aspirava. Nella camera del papa erano due letti, uno per lui, l'altro per la sua sposa la Chiesa. Bonifazio scrisse con lettere d'oro una epistola, e dicendo di averla trovata nel letto della Chiesa, la consegnò a Celestino. Questi, apertala, vi trovò una comunicazione della Chiesa celeste alla terrena, nella qual comunicazione si diceva che, non piacendogli l'ufficio, il papa poteva liberamente rinunziarlo; e il papa rinunziò, e Bonifazio ne prese il luogo. Bisogna confessare che, migrando tanto lontano dal suo luogo di origine, la leggenda si fece molto più sciocca, e il povero Celestino tramutò a dirittura di semplice in istolido. Ciò che si dice della epistola scritta con lettere d'oro ricorda la epistola luminosa di cui parla l'autore delle Chiose anonime.

In questo campo ci sarà senza dubbio da spigolare dell'altro, e altri il faccia, se lo stima opportuno. Prima di lasciar l'argomento una sola cosa vorremmo avvertire ancora, e cioè, che la leggenda di cui abbiam parlato, specie nella forma che assume nelle Chiose pubblicate dal Selmi, entra nel copioso gruppo di quei racconti, diffusi così in Oriente come in Occidente, nei quali un mortale prende l'aspetto e gli attributi di alcun essere soprannaturale, per così ingannare altrui e ottenere i suoi fini.

LA LEGGENDA DI UN FILOSOFO(Michele Scotto)

Nella quarta bolgia dell'ottavo cerchio infernale, Virgilio, redento ormai dalla dubbia fama di mago che per secoli ne aveva infoscato e snaturato il carattere, addita e nomina a Dante gl'indovini ed i maghi che quivi son puniti di lor tracotanza. Accennatine alcuni antichi, Anfiarao, Tiresia, Aronta, Manto, Euripilo, e detto alcun che dei loro fatti, il maestro volge l'attenzione del discepolo sopra un moderno:

Quell'altro che ne' fianchi è così poco,

Michele Scotto fu, che veramente

Delle magiche frode seppe il gioco;

poi nomina ancora Guido Bonatti e Asdente, e, senza più far nomi, accenna al popol minuto delle fattucchiere, alle

triste che lasciaron l'ago,

La spola e il fuso e fecersi indovine;

Fecer malie con erbe e con imago.

Se Dante tornasse al mondo, e riscrivesse la Commedia, si può tener per sicuro che Michele Scotto non sarebbe più posto da lui in quella bolgia, tra quei dannati, quando pure il poeta rinascesse così buon cattolico quale già fu, e così inclinato a certe credenze come un cattolico non può quasi non essere; ma, dato il tempo in cui il poeta visse e fu composto il poema; data la celebrità grande di cui Michele Scotto ebbe a godere in quel tempo, e le ragioni e l'indole di tal celebrità, era assai difficile, per non dire impossibile, che il poeta non ponesse il filosofo a quella pena. Dante avrebbe potuto bensì non parlarne, come di tanti altri non parla; ma il giudizio ch'egli avrebbe pensato sarebbe stato in sostanzaquel medesimo ch'espresse parlando. E se noi porgiamo orecchio alle voci insistenti della leggenda e della tradizione, intenderemo chiaramente il perchè.

I.

Le notizie storiche pervenuteci intorno a Michele Scotto sono molto scarse e molto incerte, e il nome stesso di lui dà luogo a dispareri e a dubbiezze. Vuole taluno che Scotto sia forma italiana del cognome Scott, frequente in Iscozia; vogliono altri che Scotto sia nome, non di famiglia, ma di nazione, e che perciò s'abbia a dire e scrivere Michele Scoto, come si dice e scrive Duno Scoto, Clemente Scoto, Ugo Scoto, ecc.. Se non che è da notare che nel medio evo il nome etnico si scrisse

indifferentemente Scotus e Scottus, Scoto e Scotto; ed io, seguendo l'uso degli antichi nostri, scriverò Scotto, senza impacciarmi in questioni, che, nel caso nostro, non importan gran fatto.

Del resto, i dubbii circa il nome debbono essere stati promossi, almeno in parte, da dubbii che si ebbero circa la patria. Secondo Jacopo della Lana, Michele sarebbe stato spagnuolo; ma gli altri commentatori di Dante lo dissero, per la più parte, scozzese; e v'è un anonimo il quale, non solo il conosce per tale, ma sa pure avere egli sì fattamente ammaestrati gli Scozzesi nell'arte sua, che anche non fanno passo che arte magica non seguiscano, e avere per giunta insegnato loro portare calze bianche e gonelle con maniche cuscite insieme. Dei biografi, alcuni lo vollero scozzese, altri inglese, e la opinion dei secondi ebbe seguitatori recentissimi, come gli ebbe la opinione dei primi. Che Michele Scotto nascesse italiano, e più propriamente salernitano, fu, credo, opinione, particolarissima di un Pier Luigi Castellomata, riferita e accettata per buona da Nicola Toppi; ma non meritevole di nessun riguardo. La opinion più plausibile è insomma quella che fa Michele scozzese, confortata anche dal fatto che la leggenda di lui serbavasi viva in Iscozia in principio di questo secolo, come vedremo tra poco, e viva forse ci si serba tuttora.

Per non allungarci troppo stringiamo in poche parole i non molti fatti della vita di Michele che si possono dire accertati, o che si possono considerare come certi fino a prova contraria. Michele nacque verso il 1190, in Belwearie, nella contea di Fife; studiò prima in Oxford, poi in Parigi; soggiornò un tempo in Toledo, ov'era nel 1217; si recò, dopo il 1240, in Germania, dove fu conosciuto e bene accolto da Federico II; fece dimora, certamente non breve, in Italia, nella corte di quell'imperatore, e, si può credere, in parecchie altre città; si ridusse, non si sa quando, in patria; morì verso il 1250. Stando a tradizioni scozzesi, egli fu sepolto, o in HolmeColtrame, nel Cumberland, o nell'Abbazia di Melrose.

Michele Scotto occupa un luogo onorevole nella storia della filosofia del medio evo, sebbene Ruggero Bacone abbia scritto di lui ch'e' fu ignaro così delle parole come delle cose, e Alberto Magno ch'ei non conobbe la natura e non intese a dovere i libri di Aristotele. Ch'e' non abbia inteso a dovere i libri di Aristotele gli è un fatto; ma quanti furono in quella età coloro che non li frantesero? Un merito, ad ogni modo, non si può togliere a Michele, ed è d'avere efficacissimamente cooperato a

diffondere, o, come lo stesso Ruggero Bacone si esprime, a magnificar tra i Latini la filosofia dello Stagirita, e d'essere stato uno degli ajutatori di Federico II nell'opera della restaurazione del sapere da quel principe con tanto ardore promossa. Per Federico II egli tradusse il compendio che Avicenna aveva tratto della Istoria degli animali di Aristotele; per Federico II compose un Liber physionomiae ch'ebbe grandissima celebrità, fu messo a stampa ed ebbe molte edizioni, a cominciare dalla prima di data certa, che è del 1477; poi fu tradotto in italiano, e così impresso in Venezia nel 1537. Voltò di arabico in latino parecchi libri di Aristotele, sebbene non tanti probabilmente quanti, ne' manoscritti, se ne veggono col suo nome; un trattato di Alpetrongi sopra la Sfera; un trattato e alcuni commenti di Averroe, che da lui primamente, secondo avverte il Renan, fu fatto conoscere ai Latini; compose trattati di astrologia e di chiromanzia; tradusse, o compose di suo, parecchi altri libri, de' quali alcuno, attribuitogli certo senza ragione, sta pure a far testimonianza del gran credito in che fu tenuto il suo sapere. Certo è calunnia quanto asserisce il già citato Ruggero Bacone, che Michele, al pari d'altri parecchi che s'arrogarono di tradurre le scritture altrui, non avesse cognizione nè delle scienze, nè delle lingue; nemmeno della lingua latina; e usurpasse l'opera e il merito di un Ebreo per nome Andrea, pubblicando come sue le versioni di costui; sebbene sia vero che del sapere e dell'ajuto di questo Andrea egli ebbe a giovarsi. La corte di Federico II non era corte dove fosse agevole a un ignorante acquistar credito di sapiente, e perchè Federico non era uomo da lasciarsi così facilmente ingannare, e perchè i molti dotti ch'egli si raccoglieva d'attorno avrebbero presto scoperto l'inganno e smascherato l'ingannatore. Per contro noi abbiam prove della riputazion grande onde Michele ebbe a godere appresso gli uomini dotti d'allora. Leonardo Fibonacci, il celebre matematico, dedicò a Michele la seconda parte del suo Abaco. In una epistola in versi che Federico d'Avranches scriveva, l'anno 1236 all'imperatore, Micheleè celebrato quale astrologo, indovino e nuovo Apollo, profetante felicissime sorti all'impero. Finalmente un papa, Gregorio IX, in una lettera scritta il 28 di aprile del 1227 all'arcivescovo di Cantorbery, chiama Michele il nostro caro figliuolo, e di lui loda lo zelo per lo studio, la cognizione del latino, dell'ebraico, dell'arabico, il vasto sapere.

Fra Salimbene racconta del sapere, specie astrologico, di Michele una storiella veramente sbalorditiva. Trovandosi un giorno in certo palazzo, Federico II chiese all'astrologo quanta distanza corresse da quello al

cielo. Michele rispose come la scienza sua gl'insegnava; dopo di che l'imperatore, sotto pretesto d'andarne a diporto, lo condusse in altra parte del regno, e quivi lo trattenne più mesi, nel qual tempo ordinò ai suoi architetti, o ai suoi legnajuoli, di sbassare la sala, per modo che nessuno potesse avvedersene; e così fu fatto. Dopo molti giorni, tornato nel medesimo palazzo, l'imperatore, volgendo accortamente il discorso, ripetè all'astrologo la domanda stessa dell'altra volta, e l'astrologo, fatti suoi calcoli, rispose che, o il cielo s'era alzato, o la terra s'era abbassata: ed allora conobbe l'imperatore ch'egli era astrologo davvero.

Avviene della buona e della rea fama degli uomini come delle valanghe: queste ingrossano della neve e dei sassi che incontrano giù per la china del monte; quelle, giù per la china del tempo, ingrossano d'infinite opinioni, d'infiniti errori e d'infinite novelle. Così, in bene e in male, si formano le riputazioni eccessive, che la critica storica scompone e riduce a' suoi elementi; così, in parte, fuori dalla consueta mezzanità umana, si levano gli eroi, i santi, i mostri tipici.

Il sapere di Michele parve grande, fatta qualche eccezione, agli uomini del suo tempo: agli uomini de' tempi che seguirono, per lungo tratto, esso parve sempre più grande. Di tale fama crescente noi troviamo le testimonianze in tutti, o quasi tutti, gli scrittori che parlarono di lui; e nei più moderni dura ancora il suono delle lodi con cui era stato celebrato il suo nome, dura l'ammirazion d'un sapere fatto ormai universale: Michele, oltre la lingua sua propria e qualche altro linguaggio volgare, oltre il latino, ebbe familiari il greco, l'ebraico, il caldaico, l'arabico; Michele fu matematico insigne, teologo egregio, astrologo insuperato, medico meraviglioso, conoscitore profondo di tutti i segreti della natura. Pico della Mirandola, seguendo gli esempii di Alberto Magno e di Ruggero Bacone, lo giudicherà, gli è vero, scrittore di nessun peso, e di molta superstizione; ma l'opinion di quelli e sua rimarrà opinion di pochissimi.

II.

Come mai, di filosofo ch'egli fu, Michele si tramutò in profeta ed in mago? Come nacque la leggenda che per secoli frondeggiò intorno al suo nome, e che forse conserva ancora,mentr'io ne ragiono, alcun sarmento vivo e alcuna foglia verde? Quel tramutamento seguì ne' modi consueti; la leggenda nacque come molt'altre così fatte nacquero.

Notiamo anzi tutto che tra le opere conosciute di Michele non ve n'ha

nessuna che tratti di magia; ma notiam pure che non v'era punto bisogno d'un tal documento per dar l'aire alle fantasie, sebbene poi la leggenda sel produca da sè. Nel caso presente sono da distinguere una ragion generale e due ragioni particolari. La ragion generale è questa, che in secoli di comune ignoranza la fama di dotto basta di per se stessa a produr la fama di mago; onde noi vediamo dalle fantasie degli uomini del medio evo trasformati in maghi i sapienti così degli antichi come de' nuovi tempi, e ciò con un procedimento uniforme e sommario che mette tutti in un fascio filosofi e poeti e matematici e pontefici e santi e persino uomini così poco necromantici come fu messer Giovanni Boccacci. Libri di magia furono attribuiti anche a San Tommaso d'Aquino: Alberto Magno e Ruggero Bacone, così sprezzanti, come s'è veduto, di Michele Scotto, furono ascritti con lui alla stessa famiglia di maghi, ispirarono lo stesso rispetto pauroso, ebbero la stessa celebrità. Sarebbe in tutto superfluo moltiplicar le prove e gli esempii di cosa ormai molte volte discorsa e notissima: già ebbe a dire Apulejo, parlando de' tempi suoi, che le plebi sospettavano di magia tutti i filosofi.

Questa, dunque, la ragion generale nel caso nostro; le ragioni particolari, o, per lo meno, due delle ragioni particolari, le abbiamo presumibilmente nella dimora che Michele fece in Toledo negli anni della sua giovinezza, e, per qualche parte, nella dimestichezza ch'egli ebbe con Federico II.

Durante tutto il medio evo la città di Toledo godette, in materia di scienze occulte, grandissima riputazione: ivi fiorivano l'arti magiche; ivi fioriva una scuola di magia celebre fra quante ne fossero in terra di Saraceni o di cristiani; celebre tanto che la scienza insegnatavi fu detta per antonomasia talvolta scientia toletana. Virgilio v'aveva studiato; persuaso dal diavolo, vi studiò Sant'Egidio prima della sua conversione; e così vi studiarono molti altri. Il monaco Elinando afferma nella sua Cronica che i chierici andavano "a Parigi a studiare le arti liberali, a Bologna i codici, a Salerno i medicamenti, e in nessun posto i buoni costumi". Nei romanzi di cavalleria Toledo e la sua scuola sono mentovate assai spesso, e Luigi Pulci, ricordandosi di quanto altri assai avevano detto prima di lui, scrisse nel Morgante(XXV, 259):

Questa città di Tolleto solea

Tenere studio di negromanzia;

Quivi di magic'arte si leggea

Pubblicamente e di piromanzia;

E molti geomanti sempre avea,

E sperimenti assaid'idromanzia,

E d'altre false opinion di sciocchi,

Come è fatture o spesso batter gli occhi.

Il troppo famoso Dalrio ricordava ancora quello studio come celebre e detestabile. Michele doveva essere stato condotto a Toledo dal desiderio di apprendervi l'arte magica.

Federico II diede argomento a due diverse, anzi contrarie tradizioni, delle quali, l'una si diffuse più largamente e prevalse in Germania, l'altra si diffuse più largamente e prevalse in Italia; la prima ghibellina ed a lui favorevole; la seconda guelfa ed a lui sfavorevole. Di quella non abbiamo ora a curarci: di questa basterà notare che per essa Federico II fu spogliato di ogni virtù, gravato di ogni nequizia, dipinto quale uomo diabolico, identificato persino con l'Anticristo. Del carattere che così la leggenda gli veniva attribuendo un'ombra s'aveva a stendere su tutto ciò che gli stava d'intorno; e ch'egli e i familiari suoi avessero intelligenza con Satanasso doveva parere presunzione, più che ragionevole, necessaria. Strani uomini si vedevano in quella corte; strane cose vi si facevano; di più miracoli dell'arti occulte(così dicevasi) vi si dava saggio e spettacolo. Quivi Saraceni in gran numero, i quali tutti eran tenuti accoliti e serventi del diavolo; quivi messi, che da paesi remoti ed incogniti recavano meraviglie non più vedute; quivi giocolieri d'ogni nazione e maestria; quivi maghi, operatori d'inauditi prodigi. Federico II traeva a sè gli uomini singolari come la calamita il ferro. Nell'anno 1231, essendo egli alla dieta di Ravenna, ebbe a trovarsi(così narra il cronista Tommaso Tusco) con certo Riccardo, venutovi in compagnia d'altri cavalieri d'Alemagna, il quale si spacciava per iscudiero di Olivieri, del paladino morto da quattro secoli, e asseriva d'essere stato altra volta in Ravenna insieme col suo signore, con Carlo Magno e con Orlando. Richiesto dall'imperatore di dar qualche prova di quanto affermava, fece discoprire certa cappella e certe arche sepolcrali da gran tempo interrate, e scovare sul davanzale di una finestra altissima certi sproni rugginosi, dimenticativi da un gigantesco cavaliere di Carlo. Dei miracoli d'arte che i suoi maestri sapevano oprare diede un saggio Federico quando, volendo ricambiare il soldano di certi ricchissimi doni che n'avea ricevuti, gli mandò, oltre a cento stendardi d'oro, e cento destrieri di Spagna, e cento palafreni da sollazzo, "uno albero tutto pieno d'uccegli, e tutti erano d'argento; e quando traeva alcuno vento, tutti

cantavano e dirizzavansi e chinavansi, ed erano a vedere una grande meraviglia: e questo albero si commetteva tutto insieme.

Chi sa mai quant'altre così fatte novelle dovettero narrarsi di Federico II, le quali non son venute sino a noi, ma che tutte dovevano riuscire a questo effetto, di sollevare e di stendere intorno a lui e alla suacorte come una caligine di meraviglioso, attissima a mutar volto e colore alle persone che ci si movevan dentro, e che già per altre ragioni eran disposte e inchinevoli al mutamento. Fra Salimbene ebbe certo a udirne di molte, che a noi rincresce sieno state passate da lui sotto silenzio, dicendo egli in due luoghi della sua Cronica: Di Federico io so molt'altre superstizioni e curiosità e maledizioni e perversità e inganni, dei quali alcuni consegnai in altra mia cronica, e di cui taccio ora per amor di brevità, e perchè mi rincresce riferire tante sue fatuità. Sebbene di Michele Scotto non sia mai ricordo nei Regesti di Federico, se non in quanto si accenni ad alcuna delle sue versioni; e sebbene non sia da credere all'Anonimo Fiorentino che lo crea senz'altro maestro dell'imperatore; pur nondimeno non è da dubitare ch'ei non fosse uno de' familiari suoi, un frequentatore della sua corte, e forse uno dei molti astrologi che l'imperatore si teneva d'attorno. Ma, s'avesse egli, o non s'avesse cotale ufficio, da quella familiarità e da quella frequentazione doveva venire nuovo argomento e nuovo stimolo alla leggenda magica che già, per altre ragioni, era per formarsi intorno al suo nome.

III.

La leggenda di Michele Scotto, simile in questo a tutte le altre leggende, non nacque certo già bella e formata, ma si venne formando a poco a poco, in virtù di svolgimenti e di aggregazioni successive. In essa si possono distinguere due parti principali: l'una, che narra di lui come conoscitor del futuro o indovino; l'altra, che narra di lui come mago; ma dire qual delle due preceda in ordine di tempo, o se entrambe non sorgano congiuntamente, è cosa impossibile ora. Gli è vero che Salimbene ricorda di lui soltanto le predizioni, e nulla dice dell'arte magica più propriamente detta; ma ciò non significa punto che l'altra parte della leggenda non fosse già nata, se non cresciuta; o che Salimbene dovesse ignorarla; mentre vediamo che Pietro Alighieri, fatto di questa consapevole, se non da altro, dai versi stessi del poema paterno che commentava, dice dell'indovino, o, com'egli latinamente lo chiama, grande augure, ma non tocca punto del mago.

Dante condanna alla stessa pena, promiscuamente, gli indovini ed i maghi; e un altro de' commentatori suoi, quello che chiaman l'Ottimo, giunto ai versi ov'è fatta menzione di Michele Scotto, nota: "Qui descrive l'autore d'un'altra specie d'indovini, li quali usano arte magica". Ma indovini e maghi non erano propriamente la stessa cosa; anzi, tra gli uni e gli altri, più che diversità, c'era, a rigor di dottrina, opposizione e contrasto; dappoichè, se l'arte magica non si poteva esercitaresenza la cooperazion dei demonii, la divinazione escludeva ogni loro concorso, essendo opinione universalmente professata che i demonii non conoscessero il futuro. Di solito, questi indovini andavano debitori di quella molta o poca cognizione dell'avvenire ch'e' si vantavan d'avere alla scienza astrologica; ma tal cognizione poteva, alle volte, avere altra origine, essere di natura divina, confondersi col dono di profezia; e tale essendo, poteva(la qual cosa parrà, ed è forse, un po' strana) accompagnarsi con l'esercizio dell'arte magica, di un'arte iniqua e dannata. In Virgilio, quale se lo venne figurando la fantasia medievale, c'è il profeta di Cristo e c'è il mago; Merlino è profeta e mago ad un tempo; e profeta e mago in uno dovette sembrare a molti Michele Scotto. Graziolo de' Bambagioli, o come altrimenti suoni il suo nome, accenna senza dubbio a scienza astrologica, là dove dice: "Jste Michael Scottus fuit valde peritus in magicis artibus et scientia auguri, qui temporibus suis potissime stetit in curia Federici Jmperatoris"; ma Salimbene parla propriamente di profezie, e così pure Fazio degli Uberti, nel cui Dittamondo si legge:

In questo tempo che m'odi contare,

Michele Scotto fu, che per sua arte

Sapeva Simon mago contraffare.

E se tu leggerai nelle sue carte,

Le profezie ch'ei fece troverai

Vere venire dove sono sparte.

Non vorrei arrischiarmi in una congettura temeraria; ma se Dante non pose nella quarta bolgia, insieme con gli altri indovini, anche Merlino, quel Merlino che assai più di Anfiarao, di Tiresia, di Aronta, di Manto, di Euripilo, era allora noto all'universale, la ragione del non avervelo posto potrebbe essere questa, che il poeta, con altri molti, credeva di origine divina le profezie dell'antico bardo, alle quali solo una decisione del concilio di Trento tolse da ultimo il credito e la riputazione. Comunque

sia, e' si vuole avvertire che noi ci troviamo qui in presenza di cose, di concetti, di credenze, i cui caratteri, la cui significazione, i cui confini, sono per le condizioni stesse del pensiero e della vita del medio evo, incerti ed instabili, con trapassi e straripamenti continui, e commutazioni infinite, e che in tanta mobilità e promiscuità non può esser luogo a definizioni troppo rigorose, a distinzioni fisse e perspicue.

E la unione del profeta col mago in persona di Michele Scotto era agevolata dalla qualità di mago buono ch'egli ebbe insieme con altri parecchi. Qui ci si para dinanzi un fatto che nell'argomento nostro è di capitale importanza e vuol essere inteso a dovere. Antichissima, e serbata durante tutto il medio evo, è la distinzione tra la magia divina e la diabolica, o, se si vuol dare alla parola magia un più ristretto significato, tra la teurgia,che moveva da Dio, e la magia, che moveva dal Diavolo. Ma anche questa distinzione non è così costante e sicura come potrebbe a primo aspetto sembrare. La teurgia apparteneva ai santi; ma la magia non apparteneva di necessità ad uomini malvagi e diabolici; giacchè c'erano maghi buoni e maghi rei, e alcuna volta è assai difficile distinguere il santo dal mago buono. E in vero, non solo operavano entrambi, su per giù, gli stessi prodigi, ma gli operavano ancora con lo stesso animo e con gli stessi intendimenti. Virgilio, se fosse stato cristiano, sarebbe diventato un santo; e la leggenda narra che San Paolo pianse sulla sua tomba, e che San Cadoco ebbe quasi la prova ch'egli era salvo. Alberto Magno, di cui si disse che esercitasse la magia in beneficio della fede e con licenza del papa, al quale aveva salva in certa occasione la vita, fu canonizzato davvero. Ruggero Bacone fu così buon cristiano che una volta punì certo suo servitore perchè non digiunava quand'era prescritto; un'altra volta riscattò un gentiluomo che per quattrini s'era obbligato al diavolo; e da ultimo, preso da scrupoli, bruciò tutti i suoi libri di magia, e si rinserrò in una cella, donde più non uscì, e dove finì di vivere in capo di due anni, tutti consacrati a pratiche di devozione. Avicenna fu un mago buono tra i musulmani. Mago buono è il Malagigi dei romanzi cavallereschi; ottimo il Prospero della Tempesta dello Shakespeare. Di questi e di altri simili maghi, storici o immaginarii, si può dire ciò che di Cipriano dice uno de' famuli suoi nel dramma del Calderon:

Yo solamente resuelvo

Que, si el es mágico, ha sido

El mágico de los cielos.

Come immaginò i demonii servizievoli e amici dell'uomo, così immaginò la fantasia popolare i maghi buoni, stimandoli tali anche quando ricorressero ad arti prave ed illecite. La massima che il fine giustifica i mezzi è massima, in secreto o in palese, professata universalmente; non sempre così malvagia come molti la dicono; e non tale a ogni modo che se ne debbano considerare inventori ed osservatori i soli gesuiti, a cui, generalmente, suol farsene colpa. Oltre di ciò, la opinione che col cielo si possa tergiversare, venire a patti ed a transazioni, è ancor essa in fondo alla coscienza comune; e se noi la vediamo accolta come norma di temperamento, o, a dirittura, come principio regolativo della vita, in più di una religione pratica, ciò non vuol dir altro se non che le religioni, in pratica, prendono sempre forma dalla coscienza comune.

C'è, del resto, un criterio, per cui si può abbastanza sicuramente conoscere il magobuono dal mago reo. Il reo stringe col diavolo un patto, in forza del quale ei si impegna di dargli l'anima in pagamento dell'ajuto che da esso avrà. Il buono non si obbliga con patto alcuno, ma riman libero, ed esercita l'arte, bensì con la cooperazione del diavolo, ma in virtù di un alto potere ch'egli s'è procacciato. Il primo esercita l'arte da mercante, e, in realtà, serve al diavolo, cui par che comandi: il secondo esercita l'arte da gran signore, e comanda al diavolo, cui può chiedere tutto senza concedere nulla. Così è che Salomone poteva forzare i diavoli a ballargli davanti; e dicono i maomettani che chi avesse l'anello di Salomone potrebbe comandare ai diavoli ogni cosa che gli fosse in piacere. Orbene; chi sapeva leggere nei libri magici poteva fare altrettanto. Certo, questi commerci e queste pratiche non erano senza pericolo, come non erano senza peccato; ma il pericolo non era poi troppo terribile, e il peccato, a giudizio almeno di chi non fosse teologo di professione, non era grandissimo. Il Talmud permette d'interrogare i demonii, di chiedere loro consiglio ed ajuto: i cristiani non potevan certo giovarsi delle permissioni del Talmud; ma certe permissioni, quando loro faceva comodo, se le prendevan da sè.

Michele Scotto fu dunque un mago buono, il quale comandò ai diavoli per iscienza, senza(che si sappia) obbligarsi loro nè in vita nè in morte. Non fu, da quanto mostra la sua leggenda, così largo benefattore degli uomini come l'unico Virgilio, ma non abusò dell'arte sua, e dovette essere servizievole uomo e liberale, se a due suoi discepoli, che lasciò in Firenze, impose(come attesta il Boccaccio) fossero sempre presti ad ogni

piacere di certi gentili uomini che l'avevano onorato, e se quelli, obbedienti al precetto, "servivano i predetti gentili uomini di certi loro innamoramenti e d'altre cosette liberamente". Di sua bontà vedremo qualche altra prova più innanzi. Anche fu dabbene cristiano, tuttochè si lasciasse vincere in questa parte da altri, e Alberto Magno accusi in certo qual modo di empietà un suo libro intitolato Quaestiones Nicolai Peripatetici, e parecchi notino ch'egli non era troppo devoto. Vedremo, tuttavia, che un atto di devozione fu, in parte almeno, cagione della sua morte.

E ora, senza più oltre indugiarci, prendiamo in esame le predizioni dell'indovino, o, se meglio piace, del profeta, e i prodigi del mago: e cominciam dalle predizioni.

IV.

Varia e copiosa fiorì in Italia, nei tre secoli XII, XIII e XIV, la letteratura profetica, e due furono le ragioni principali del suo fiorire: il ravvivarsi del sentimento religioso; la passione politica. Il sentimento religioso naturalmente inclina l'uomo a ideare un avvenire conforme a certidati della fede, o a certi postulati della coscienza, e, ideatolo, a palesarlo e bandirlo. La passione politica lo inclina a cercar nella predizione un concetto che lo sorregga e diriga, un'arme di combattimento, un principio di giustificazione. Nascono per tal modo due maniere di profezie, l'una più propriamente ascetica, l'altra più propriamente politica; sebbene tra le due non sia divario di specie a specie, ma solo di varietà a varietà; e sebbene delle due se ne faccia assai volte una sola: e nel riguardo della politica è in più particolar modo da distinguere la profezia che dirò suggestiva, la quale s'adopera a drizzar gli eventi piuttosto per una che per altra via; e la profezia retroattiva, la quale, descrivendo o narrando ciò che assume di predire, giustifica e sancisce, post eventum, un dato ordine di fatti.

Da Gioacchino di Fiora, il quale fu

Di spirito profetico dotato,

a Jacopone da Todi, i profeti moltiplicarono in Italia; e quasichè i nostrani non bastassero, furono tratti a questa volta e forzati a immischiarsi nelle cose nostre anche i forastieri. Di ciò nessun altro esempio più calzante per noi, e che più faccia al caso, di quello di Merlino, profeta e mago.

Le supposte profezie di Merlino, in grazia della compilazione latina che ne fece Goffredo di Monmouth, si diffusero rapidamente e largamente per l'Europa, acquistando fra disparatissime genti meravigliosa e durevole celebrità. Esse furono accolte nelle istorie, come un lume atto a rischiarare le umane vicende e a guidare il giudizio; furono commentate e interpretate da uomini di grande dottrina ed autorità, qual fu uno Alano de Insulis, che consacrò loro un'opera divisa in sette libri. Esse ebbero ad influire più d'una volta sugli avvenimenti, e si serbarono in credito, e si seguitarono a stampare e citare, finchè non sopraggiunse, come s'è notato, il Concilio di Trento, che le dichiarò false e le proibì. In grazia di quella tanta sua riputazione, Merlino non fu più soltanto il profeta dei Brettoni, ma diventò un profeta universale, a cui si attribuirono a mano a mano altri vaticinii, risguardanti, quando le sorti di una particolare nazione, quando eventi di carattere più generale. Così fu ch'ei divenne profeta anche per l'Italia, dove, già nella prima metà del secolo XIII, un Riccardo, che abitava in Messina, compose in francese, a richiesta di Federico II(si noti questo particolare), e spacciandola per autentica, una nuova raccolta di profezie di Merlino, tutte molto favorevoli all'imperatore e altrettanto avverse alla curia romana. Non so se ad esse si riferiscano in qualche modo certe parole del già citato Fioretto di croniche degli imperadori, in un luogo dove, parlando appunto diFederico II, l'autore, che gli si addimostra assai favorevole, nota: "E se Merlino o vero la savia Sibilla dicono veritade, in questo Imperadore Federigo finì la dignitade". Col titolo di Versus Merlini il Muratori pubblicò in calce al Memoriale potestatum Regiensium sessanta versi leonini, assai rozzi, nei quali si accenna confusamente ai casi di molte città e province d'Italia.

Qualche altra prova si potrebbe recare della fama onde, come profeta, Merlino ebbe a godere in Italia; ma quelle recate potranno bastare.

Certo, Michele Scotto non ebbe, nè poteva avere, per questa parte, fama eguale a quella di Merlino, il cui nome era cognito a quanti(ed erano innumerevoli) avessero qualche dimestichezza con le leggende vaghissime, ambages pulcherrimae, come Dante le chiama, del ciclo arturiano, e la cui vita favolosa aveva dato materia a un romanzo famoso, il Merlin di Roberto di Borron, notissimo, come gli altri del ciclo, in Italia, e tradotto nel volgare nostro l'anno 1375. Nè pure ebb'egli la celebrità meravigliosa onde fruì più tardi Michele Nostradamus; ma ebbe, ciò nondimeno, come profeta, non picciolo nome. Salimbene, che

nella sua cronica riferisce parecchie profezie di Merlino e d'altri, ne riferisce anche una dello Scotto, in versi, contenente Futura praesagia Lombardiae, Tusciae, Romagnolae et aliarum partium, e nota in proposito: Quanto sieno state vere queste predizioni, fu da molti potuto vedere, ed io stesso il vidi e lo intesi; e la mente mia contemplò assai cose sapientemente, e fui ammaestrato; onde so che, se alcune poche ne togli, furono vere. Il cronista bolognese Francesco Pipino, il quale fiorì nella prima metà del secolo XIV, ricorda che lo Scotto diede fuori certi versi(probabilmente quegli stessi che Salimbene riporta) ov'era predetta la rovina di parecchie città d'Italia, con altri avvenimenti; e Benvenuto da Imola assicura che parecchie profezie del nostro filosofo si avverarono.

Le profezie qui ricordate furono esse veramente opera di Michele Scotto? o non piuttosto furono a lui attribuite per acquistar loro il credito e la celebrità onde quegli godeva, così come s'era fatto già, o tuttavia si veniva facendo, con Merlino? Che Michele s'arrogasse l'officio di profeta è provato da quanto dice in proposito Enrico d'Avranches, ricordato di sopra; ma che le profezie a lui attribuite sieno proprio di lui non si può provare, e che quella riferita da Salimbene non sia si può affermare sicuramente, quando si consideri che essa è, in sostanza, non favorevole, ma avversa a Federico II. Comunque sia, ciò che più importa a noi si è che dalla comune credenza e dalla leggenda ei fu tenuto profeta.

E la leggenda altro narra in proposito. Il cronista Saba Malaspina(sec. XIII), avvertito come Federico II dessemolta fede ad astrologi e negromanti, e si governasse con loro parole, soggiunge che essendogli stato predetto da certi aruspici che morrebbe sub flore, desideroso di vivere immortale, evitò con ogni studio d'entrare così in Firenze, come in Fiorentino di Campania, senza, per questo, poter fuggire alla sorte che l'aspettava. Chi quegli aruspici fossero Saba non dice. Giovanni Villani narra: "Lo Imperadore venuto in Toscana non volle entrare in Firenze, nè mai non v'era intrato, però che se ne guardava, trovando per suoi augurj, ovvero detto d'alcuno demonio, ovvero profezia, come dovea morire in Firenze, onde forte ne temea;" e alquanto più oltre, narrando come Federico morisse in Firenzuola, soggiunge: "ma male seppe interpretare le parole mendaci, che 'l demonio li avea dette". Giovanni non sa donde propriamente venisse, di che natura fosse l'avvertimento; ma inclina da ultimo a crederlo avvertimento ingannevole di demonio. Altri, e sono il maggior numero, attribuiscono l'avvertimento a Michele

Scotto. Benvenuto da Imola, notato come Michele mescolasse la negromanzia con l'astrologia, e come delle predizioni ch'ei fece alcune ebbero ad avverarsi, dice che male per altro s'appose quando annunziò a Federico che morrebbe in Firenze, mentre morì in Fiorenzuola di Puglia(sic). L'autore del Fioretto delle croniche degli imperadori nomina Michele Scotto, ma non accenna a errore o equivocazion di nome: "E andando per lo cammino(lo imperadore) giunse in Campania a una terra che si chiama Fiorentino, e quivi morì. E tutto ciò gli disse di sua morte Maestro Michele Scotto negli anni domini MCCL:" e avverte poi che Merlino parlò di Federico II, e profetò che vivrebbe settantasette anni. Sant'Antonino ricorda l'equivocazione dei nomi, ma di Michele Scotto non parla; mentre alcuni fra i commentatori meno antichi di Dante, come il Landino, il Vellutello, il Daniello, ne fanno espresso ricordo. Taluno d'essi parla, non di Fiorenzuola, ma di Firenzuola. Com'è noto, Federico morì veramente in Fiorentino di Puglia.

Non ispenderò parole intorno all'indole di questa profezia la quale arieggia certi responsi ambigui degli oracoli antichi: mi basterà notare ch'essa ha numerosi riscontri.

A Cecco d'Ascoli, mutato come Michele Scotto in mago, furono, come a Michele Scotto, attribuite parecchie profezie, ricordate da Giovanni Villani e da altri.

V.

Se celebre come profeta, assai più celebre fu Michele Scotto come mago.

Abbiam già udito il Landino affermare essere stata opinione universale che Michele "fusse ottimo astrologo et gran mago;" e l'Anonimo Fiorentino ch'ei "fu grande nigromante". Il Boccaccio lo fa dire da Bruno "gran maestro in nigromanzia", e Guiniforto delli Bargigi lo vanta "grande incantatore nella corte di Federico II". Nel Paradiso degli Alberti, Maestro Luigi Marsilii, facendosi a narrare una novella che vedremo or ora, dice di voler narrare "uno casoassai famoso e noto e pubblicamente fatto da tale, che, secondo che certo si crede, non fu in Italia già moltissimi secoli più dotto e famoso mago". Aveva dunque avuto ragione Dante di affermare che Michele seppe veramente quel gioco, e Fazio degli Uberti ch'ei seppe contraffare Simon Mago, maestro e principe di tutti i maghi. In sul finire del secolo XV e in sul principiar del seguente

questa celebrità di Michele Scotto non era ancor dileguata: Teofilo Folengo, nella maccheronea XVIII ce ne fa testimonianza.

La leggenda magica di Michele Scotto non dovett'essere per certo, così copiosa e compaginata come fu quella di Virgilio; ma certo fu più compaginata e copiosa di quanto ora appaja a noi, che non siam più in grado di conoscerla tutta. Di ciò le prove non mancano. Benvenuto da Imola ricorda avere udito narrar di Michele, de quo jam toties dictum est et dicetur, assai cose, che pajono a lui piuttosto immaginate che vere; e l'Anonimo Fiorentino: "Dicesi di lui molte cose meravigliose in quell'arte". Più secoli dopo il Dempster nota che ancora a' suoi tempi si narravan di lui innumerevoli fiabe, innumerabiles... aniles fabulae. Avvertasi che la leggenda magica di Michele Scotto nasceva e prendeva vigore giusto nel tempo in cui cominciava ad appalesarsi in modo più risentito il triste vaneggiamento superstizioso che tante sciagure procacciò di poi; quando contro gli stregoni e le streghe s'instruivano i primi processi e s'accendevano i primi roghi; quando Gregorio IX, di cui abbiamo udite le lodi date al filosofo, si levava con impetuoso sdegno contro l'arte dannata e contro i rei che osavan di professarla. Nasceva la leggenda e prendeva vigore in un tempo assai favorevole al suo nascere ed al suo crescere.

I racconti in cui la leggenda prende corpo e colore si possono spartire in due gruppi: l'uno, di quelli nati in Italia, o, per lo meno, riferiti da autori italiani; l'altro, di quelli nati fuori d'Italia, e più propriamente nella patria del filosofo, in Iscozia. Tra questi due gruppi non è diversità quanto al concetto che li informa e sorregge; ma non è nemmeno continuità: li tiene congiunti insieme il nome di colui che diede argomento alla leggenda. Volgiamoci primamente al primo.

Jacopo della Lana, Francesco da Buti, l'Anonimo Fiorentino, Cristoforo Landino, Alessandro Vellutello, narrano, quale più in breve, quale più in disteso, e con particolarità che variano dall'uno all'altro, come, essendo in Bologna, Michele invitasse a banchetto molti gentili uomini della città, senza apparecchiare vivanda alcuna, e neanco accendere il fuoco in cucina, e come, essendo i convitati seduti intorno alle mense, cominciassero a venir per l'aria serviti di molte vivande, eMichele dicesse loro: questo viene dalla cucina del re di Francia; quest'altro dalla cucina del re d'Inghilterra, e così di séguito; e il tutto avveniva per diligenza di spiriti, comandati da Michele.

Il qual Michele, per altro, non potrebbe vantarsi d'essere stato al

mondo solo operatore di tanto prodigio, chè altri l'operarono prima, e altri dopo di lui. Di Pasete, il quale superò tutti gli uomini nell'arte magica, ricorda Suida come facesse apparire sontuosi banchetti, e donzelli che li servivano, e il tutto novamente sparire; e miracoli simili narra Origene dei maghi d'Egitto. Numa Pompilio, Virgilio, Tiridate I, re d'Armenia, un re dei Bramani, Alberto Magno, Ruggero Bacone, Pietro Barliario, Fausto, un rabbino per nome Löw, conobbero tutti quest'arte, e la praticarono con ottimo successo. Il diavolo Astarotte imbandì a Rinaldo e a Ricciardetto un banchetto sontuoso, e avendo i due paladini domandato

onde l'oste abbia avute

Queste vivande che son lor venute;

Rispose il diavol: Questa colezione,

E le vivande che mangiato avete,

Apparecchiava il re Marsilione;

E giunti in Roncisvalle lo saprete,

Che i servi insieme ne fecion quistione;

E se del vostro imperador volete

Ch'io faccia qui venir lesso o arrosto,

Comanda pur, chè ci sarà tantosto.

Nè potrebbe il nostro Michele vantarsi d'essere stato il solo che sapesse operare il miracolo, riferito dall'Anonimo Fiorentino, di far comparire "essendo di gennaio, viti piene di pampani et con molte uve mature", le quali sparvero subito che i presenti si furono accinti a tagliare i grappoli co' coltelli; perchè un miracolo in tutto simile a questo seppe operare anche Fausto, e altri incantatori seppero, di pieno verno, far comparire interi giardini, verdi e fioriti. Così l'Ebreo Sedecia, di cui si dice, nel Paradiso degli Alberti, che l'anno 876 fece sorgere, in presenza dell'imperator Lodovico, uno stupendo giardino, tutto odoroso di fiori, tutto sonante del canto d'infiniti uccelli; così Alberto Magno, che in un giardino miracoloso imbandì un miracoloso banchetto; così Cecco d'Ascoli, di cui si racconta che "in un convito di dame, a tempo d'inverno, fece apparir pergolati, e fiori e frutta, come di primavera e autunno". Ma il prodigio più pomposo e mirabile fu quello operato dal secondo. Nel cuor del verno, Alberto Magno pregò una volta l'imperatore Guglielmo di volersi recare, con tutta la corte, a desinare in sua casa. V'andò

l'imperatore, e il buon mago lo menò, insieme col séguito, in un giardino, dove, tra gli alberi sfrondati, in mezzo alla neve ed al ghiaccio che coprivano intorno ogni cosa, si vedeva apparecchiato il convito. I cortigiani cominciarono a mormorare, sembrando loro uno strano scherzo quello dell'ospite che li aveva condotti a intirizzir di freddo; ma come l'imperatore si fu sedutoa mensa, e gli altri similmente, ciascuno secondo il suo grado, ecco splendere in cielo un sole estivo, ecco disfarsi in un baleno la neve ed il ghiaccio, la terra e gli alberi germinare e vestirsi di verzura e di fiori, brillar tra le fronde i frutti maturi, e l'aria d'intorno sonare del canto soavissimo d'infiniti uccelli. In breve la caldura crebbe di sorta, che i convitati cominciarono a togliersi i panni di dosso, e, mezzo ignudi, ripararono all'ombra degli alberi. Fornito il mangiare, i numerosi e leggiadri valletti che avevan servito sparvero come nebbia, e di subito il cielo si rabbujò, e le piante si dispogliarono, e un orrido gelo ravvolse novamente ogni cosa, con sì acerba freddura, che gli ospiti, tremando, corsero in casa, e si accalcarono intorno al fuoco.

Non estraneo forse ai banchetti magici di Michele era un barletto portentoso, che mai non si votava. Si racconta nelle chiose sopra Dante alle quali si dà il titolo di Falso Boccaccio, che nel campo e nel padiglione dell'imperator Federico, il giorno in cui questi fu sconfitto da' Parmigiani assediati, un povero ciabattino, andatovi con altri infiniti a far preda, trovò un barletto pien di vino squisitissimo, e sel portò a casa. Egli e la donna sua ogni dì ne spillavano; ma per quanto ne spillassero, non potevano vederne la fine: onde il pover uomo, meravigliato, volle vedere che mai ci fosse dentro, e ruppe il barletto, e vi trovò una piccola figurina di un angelo d'argento, il quale con l'un de' piedi premeva un grappolo d'uva, similmente d'argento, e dal grappolo usciva quel perfettissimo vino. Così appagò egli la sua curiosità; ma tosto se n'ebbe a pentire, perchè dal barletto non uscì più nemmeno un gocciolo; e il barletto "era fatto per arte magicha e di negromanzia, e questo fecie Tales, overo Michele Scotto, per la sua scienzia e virtù". L'autore di queste chiose è il solo che affibbii a Michele il nome di Tales(Talete?), nè so dire perchè sel faccia. Di un altro botticino che non si votava mai, ma che avrebbe perduta la virtù il giorno in cui alcuno avesse voluto guardarvi dentro, fu autore Virgilio, secondo attesta Bonamente Aliprando.

Questi racconti hanno popolare l'origine, popolare il carattere. Stimolata dal bisogno e talora dalla fame, la fantasia vagheggiò nell'arte magica un mezzo sbrigativo e sicuro di sovvenire alla fame e al bisogno.

Di qui sì fatte ed altre simili finzioni, le quali perpetuamente rinascono dal desiderio perpetuo. La borsa inesauribile di Fortunato passa di mano in mano: a Pietro d'Abano i denari spesi facevano ritorno da sè, fedelmente; l'antico Pasete, già ricordato, avevaun mezzo obolo che sempre gli rivolava in tasca, e che diede argomento a un proverbio.

Di tutt'altro carattere, e più romanzesco, e men comune, è un altro prodigio che del nostro mago si narra.

Federico II celebrava in Palermo, con solennissime feste, la elezione sua a re dei Romani. Il giorno della festa maggiore, essendo chiarissimo il cielo, e già seduti intorno alle mense i convitati, e cominciato a dar l'acqua alle mani, si presentò all'imperatore Michele Scotto, insieme con un suo compagno, entrambi in abito di Caldei, e ricordato come da un mese circa non fosse più stato in corte, offerse di dar saggio dell'arte sua. L'imperatore lo pregò di far rinfrescare, con un buono scataroscio di pioggia, l'aria, ch'era caldissima. Obbedì il mago, e tosto, rannuvolatosi il cielo, imperversò una furiosa procella, la quale si chetò prontamente, come appena l'imperatore n'ebbe espresso il desiderio. Ammirato e lieto di tal meraviglia, l'imperatore invitò i savii a chiedergli quale grazia più loro piacesse, ch'egli era pronto a concederla, e Michele il pregò di voler dar loro uno de' suoi baroni, perchè fosse loro campione, e li aiutasse ad aver ragione di certi nemici, co' quali erano in guerra. Acconsentì Federico, e li invitò a scegliere tra' cavalieri presenti quello che loro fosse più in grado, ed essi scelsero un cavaliere tedesco, per nome Ulfo, e subito, con esso lui(così parve al cavaliere) si posero in viaggio, sopra due grandi e magnifiche galere, avendo seco numerosa e bella compagnia. Navigando a seconda, risalirono lungo la costa occidentale d'Italia, ridiscesero lungo la costa orientale di Spagna, valicarono lo stretto di Gibilterra, e giunsero "a liti assai domestichi e piacevoli", dove si fe' loro incontro molto popolo festante, ed ebbero, come signori di quel paese, meravigliose accoglienze; e di lì passarono a un luogo, ov'era accampato un grandissimo esercito, pronto a muovere contro il nemico, e dell'esercito, Ulfo fu gridato capitano. Comincia allora una micidialissima guerra. Si combattono due grandi battaglie campali, a cui tien dietro la espugnazione d'una città. Ulfo uccide di sua mano il re nemico, ne occupa il trono, ne sposa la figliuola, e riman, d'ogni cosa, per volontà di Michele, solo ed assoluto signore. Michele e il compagno chiedono allora licenza e si partono, e Ulfo vive lietissimo in compagnia della moglie, che adora, e ha da lei più figliuoli, così maschi come

femmine. Trascorsi quasi vent'anni, Michele e il compagno tornano a lui, e lo sollecitano ad andarsene con loro in Sicilia, alla corte dell'imperatore. Ulfo, benchè di mala voglia si parta dalla famiglia e dal regno, cede alla loro preghiera, si pone con essi inviaggio, giunge con essi a Palermo, ed ecco ritrova, con sua stupefazione grandissima, nella corte di Federico, le cose tutte in quella condizione medesima in cui le aveva lasciate, chè dai donzelli non s'era ancor finito di dar l'acqua alle mani. Quelli che ad Ulfo erano, per illusion di magia, sembrati molt'anni, non erano stati se non pochi istanti; e la novella soggiunge che il povero cavaliere non potè racconsolarsi mai più della felicità che credeva di aver goduta e perduta. In quel punto medesimo Michele e il compagno sparirono, e per quanto Federico, doglioso della tristezza del suo cavaliere, li facesse cercare, non fu più possibile di trovarli.

La novella di cui io ho qui dato un sunto, è narrata molto per disteso nel Paradiso degli Alberti; ma, assai prima che in questo romanzo, fu introdotta nel Novellino, salvo che qui è narrata, come le altre del libro, in forma assai compendiosa, e che il luogo di Michele Scotto e del suo compagno vi è tenuto da "tre maestri di nigromanzia", di nessun de' quali si dice il nome, e un conte di San Bonifazio fa le veci del cavaliere Ulfo. L'avventura, o, a meglio dire, l'incantesimo che le porge argomento, riappare, variato più o meno, in numerosi racconti.

Della valentia di Michele Scotto nell'arti magiche, e dei prodigi operati da lui, rimase lungo ricordo in Italia. Nella maccheronea XVIII del Baldo, Teofilo Folengo, enumerando le varie figure di maghi ond'era adorno il libro di Muselina, non dimentica Michele, e fa cenno de' suoi incantamenti: immagini diaboliche; filtri amatorii; un cavallo invisibile, che rapido come saetta, il portava dovunque gli piacesse d'andare; certa nave disegnata sulla riva, che si mutò in vera e propria nave trasvolante pei mari; una cappa che faceva invisibile chi la indossava, ma lasciava scorgere l'ombra del corpo, se quegli, incauto, si fosse esposto al sole. Non so se altri, prima del Folengo, avesse attribuiti a Michele sì fatti prodigi, che dagli autori più antichi non si vedono ricordati; ma quanto ai prodigi stessi, l'invenzione non è del Folengo. Un cavallo molto simile a quello da lui descritto ci si parerà dinanzi a momenti: il miracolo della nave si racconta di Eliodoro, di Virgilio, di Pietro Barliario, di altri: delle immagini, dei filtri, della cappa che rende l'uomo invisibile, nulla è da dire, tanto sono comuni. In principio del secolo XVII, Antonio Maria Spelta ricordava ancora, ma per burlarsene, i banchetti magici di Michele

Scotto.

Ora sarebbe a dire della morte di Michele secondo la tradizione italiana; ma avendosi, circa quella morte, anche una tradizione scozzese, dirò di entrambe congiuntamente più oltre.

VI.

I raccontiintorno al nostro buon mago dovettero essere in Iscozia, e anche in Inghilterra, assai numerosi. Abbiam veduto il Dempster accennare a favole innumerevoli: Gualtiero Scott, alla cui diligenza dobbiamo le poche di cui s'abbia notizia, dice di riferire alcune delle molte che a' suoi tempi narravansi ancora. E sono queste che seguono.

Certi sudditi del re di Francia avevano, in danno di certi sudditi del re di Scozia, commesso non so che atti di pirateria. Il re di Scozia pregò Michele d'andarne a chiedere soddisfazione e risarcimento, e Michele accettò l'ufficio; ma, anzichè provvedersi di sontuoso equipaggio, come richiedeva la condizione d'ambasciatore, egli si ritrasse nel suo studio, aperse un suo libro magico, evocò un demonio in figura di un gran cavallo nero, gli montò addosso, e lo forzò a volare per l'aria alla volta di Francia. Mentre così volavano sopra il mare, il demonio chiese insidiosamente al suo cavaliere che cosa mai borbottassero le vecchie donnicciuole di Scozia in sul punto di mettersi a letto. Un incantator meno esperto avrebbe risposto: Il Pater noster; e subito il nemico se lo sarebbe scosso dal dorso e l'avrebbe precipitato nell'onde. Ma Michele severamente rispose: Di ciò che t'importa? Sali, diavolo, e vola! Giunto in Parigi, legò il cavallo alla porta del palazzo, si presentò al re, espose arditamente il suo messaggio. Il re accolse poco rispettosamente un ambasciatore che si mostrava in così povero arnese, e stava per rispondergli con un superbo rifiuto, quando Michele il pregò di voler soprassedere ad ogni risoluzione fino a che il suo cavallo avesse dato tre zampate in terra. Alla prima zampata traballarono tutti i campanili di Parigi, sonarono tutte le campane; alla seconda tre torri del palazzo rovinarono; e l'infernal palafreno stava per picchiare la terza, quando il re, prima di vederne gli effetti, concesse a Michele tutto quanto gli aveva domandato.

Questo di un viaggio per l'aria, compiuto con l'ajuto di un diavolo, in brevissimo tempo, è tema di racconto assai comune; e comune la finzione del cavallo diabolico, e l'accorgimento o il precetto di non far

atto, o profferir parola, che abbia carattere religioso. Le streghe, che a cavalcioni d'una granata, o sul dorso di un caprone, si recavan di notte, per l'aria, alla tregenda, erano precipitate a terra se facevano il segno della croce, se invocavano Dio o i santi.

Un'altra volta Michele, mentre dimorava nella torre di Oakwood, sul fiume Ettrick, a circa tre miglia da Selkirk, udì parlare di una strega, detta la strega di Falsehope, la quale aveva sua stanza sull'altra sponda del fiume. Una mattina egli si recò da lei, per metterla alla prova; ma fu deluso,poichè quella negò d'avere qualsiasi cognizione dell'arte magica. Discorrendo, Michele posò sbadatamente la verga sopra una tavola, e la strega, datole subitamente di piglio, lo percosse con quella e lo trasformò in lepre. Egli, così mutato, sguizzò fuori; ma si imbattè nel suo proprio servitore, e ne' proprii suoi cani, i quali presero a corrergli dietro, e in breve l'ebbero serrato così da vicino, che egli, per avere un momento di respiro e poter disfar l'incanto, si dovette cacciare, dopo faticosissima fuga, in una cloaca. Desideroso di vendicarsi, Michele, una bella mattina, nel tempo del raccolto, andò, co' suoi cani, sopra di un colle, e mandò il servo dalla strega, a chiederle un po' di pane per le bestie, istruendolo di quanto dovesse fare in caso che ne avesse un rifiuto. La strega ricusò con parole ingiuriose, e il servo attaccò all'uscio un breve, datogli dal padrone, ove, insieme con più parole cabalistiche, si potevan leggere questi due versi:

Il servitore di Michele Scotto

Chiese del pane e invece ebbe un rimbrotto.

Senza por tempo in mezzo, la vecchia, tralasciata la occupazion sua, ch'era di cuocere il pane pei mietitori, prese a ballare intorno al fuoco, ripetendo que' versi. Giunta l'ora del desinare, il marito di lei, non vedendo venire le provvigioni, mandò l'uno dopo l'altro i suoi uomini a vedere quale fosse la cagion del ritardo; ma tutti furono colti dalla stessa malia, e tutti, senza più pensare a tornarsene indietro, entrarono nella danza. Da ultimo si mosse anche il marito, ma veduto Michele sul colle, sapendo del brutto scherzo fattogli dalla donna, fu più cauto degli altri, e non entrò in casa, ma guardò dalla finestra, e vide i suoi mietitori, i quali, trescando senza volere, trascinavano la moglie sua, oramai più morta che viva, quando intorno, e quando attraverso il fuoco, che, secondo l'uso, ardeva nel bel mezzo della stanza. Non cercò altro, ma sellato un cavallo, corse sul colle, si umiliò dinanzi a Michele, e lo pregò di far cessare l'incanto, grazia che il buon mago subito gli concesse,

avvertendolo di entrare in casa a ritroso, e di staccare con la mano sinistra il breve dall'uscio. Così fece il buon uomo e l'incanto cessò.

Ci sono due cose in questo racconto che richiamano più particolarmente la nostra attenzione: la metamorfosi del mago in lepre; la danza magica forzata.

È credenza antichissima, e comune a tutte le razze umane, che, per virtù di magia, l'uomo possa mutarsi, o essere mutato in bruto, e che una simile mutazione possa anche operare il volere di un nume. La mitologia classica abbonda, a questo riguardo, di notissimi esempii, acui fa riscontro, nella Bibbia, il caso di Nabucco, e fanno riscontro molti miti fanciulleschi di genti selvagge. Il medio evo conservò sì fatta credenza, se pur non l'accrebbe, e per secoli nessuno dubitò della realtà della licantropia, nessuno negò che gli stregoni e le streghe potessero prendere la forma di quell'animale che più fosse loro piaciuto, o farla prendere altrui. La trasformazione era del corpo propriamente, e dicevasi che l'anima, nel corpo mutato, serbavasi inalterata; ma anche in questa, come in tante altre opinioni del tempo, è difetto di precisione e di certezza. Più e più cronisti narrano il caso del re Gontrano di Francia, la cui anima, sotto forma di un topo, fu veduta uscire dalla bocca di lui dormente, passare un ruscello, entrare nel cavo di un monte, scoprirvi un tesoro, e rientrar poi d'ond'era uscita; e molte e molte leggende ascetiche narran di anime vaganti in forma d'uno o d'altro animale, il più sovente di uccelli. Gli è assai difficile dire dove, secondo le idee medievali, cessi il bruto e l'uomo incominci, tanto quello è fatto prossimo a questo. Sono senza numero le pie leggende in cui si vedono i leoni e le tigri rispettare i martiri; i santi anacoreti vivere familiarmente con le fiere del deserto, avere da esse nutrimento e difesa, e talvolta operar miracoli in loro beneficio; varii animali esser fatti messi del cielo, ammonire i peccatori, predir l'avvenire, o, se non altro, osservare le feste. Perciò, come non è a meravigliare dell'uso che il medio evo fece degli animali in servigio della esemplificazione e del simbolo, così non è da stupire delle procedure giudiziali, delle sentenze, delle maledizioni e delle scomuniche cui, più d'una volta, essi porsero occasione e argomento. Perciò San Francesco aveva ragione di predicare agli animali e di farli assistere alla santa messa; aveva ragione di chiamarli fratelli; e non ebbe torto il giorno in cui maledisse una troja che aveva ammazzato un agnello, e che per la forza di quella maledizione morì in capo di tre giorni. Dopo la morte, l'uomo ritrovava gli animali in inferno; ne ritrovava qualcuno,

secondo la popolare credenza, in paradiso.

Di danze forzate sono molti esempii in leggendarii, in croniche, in novelle popolari. Sempre hanno carattere o di burla maligna o di castigo, e chi le promuove può essere così un mago come un sant'uomo. Ruggero Bacone forzò tre ladri a ballare tutta una notte. Infiniti sono i racconti ove si vedono colte successivamente alla stessa malia molte persone, delle quali quelle che giungon dopo vengono col proposito di vedere che cosa sia occorso alle altre, giunte prima, ocon quello di liberarle. Il caso di Michele e della strega porge inoltre esempio di quelle gare di maghi onde tanti altri esempii si hanno, a cominciare da quello celebre di Mosè e dei maghi d'Egitto.

Dice Gualtiero Scott che a tempo suo, nel mezzodì della Scozia, ogni fabbrica antica e di gran lavoro si credeva opera del vecchio Michele, o di Sir Guglielmo Wallace, o del diavolo. Ben s'intende che il vecchio Michele, come ogni altro mago, s'era in ciò giovato della forza e della industria dei diavoli. E la leggenda narra di uno di questi diavoli, il quale era sempre attorno a Michele, e non voleva mai starsi con le mani in mano, ma lo importunava senza fine perchè volesse dargli faccenda. Michele gli ordinò di costruire una diga attraverso il fiume Tweed, a Kelso, e in una notte la diga fu fatta. Poi Michele gl'ingiunse di spartire in tre il colle di Eildon, e in un'altra notte il colle fu spartito. Finalmente Michele gl'impose d'intrecciar corde d'arena, e a questa disperata bisogna il buon diavolo attende tuttora. Notisi che evocare i diavoli, e non occuparli subito in qualche cosa, poteva portar pericolo. Il famulus di Virgilio, avendone evocati molti storditamente, e vedendoli impazienti e minacciosi, ordinò che lastricassero la strada da Roma a Napoli, e così fecero. I ponti, i muri, gli acquedotti, i palazzi fabbricati dai diavoli sono innumerevoli: tra le opere loro si ha pure qualche bella chiesa, e più di un convento.

La morte di Michele Scotto è narrata in modi affatto diversi dalla tradizione italiana e dalla tradizione scozzese.

Francesco Pipino, già ricordato, racconta: Dicesi che Michele Scotto, avendo trovato d'avere a morire della percossa di un sassolino di peso determinato, immaginò una nuova armatura del capo, detta cervelliera, e di quella andava sempre coperto. Un giorno, essendo in una chiesa, nel momento della ostensione o elevazione del corpo di Cristo, egli, per consueta reverenza, si nudò il capo, e in quella appunto il fatal sassolino, cadendo dall'alto, il percosse, e lievemente il piagò. Postolo in una

bilancia, e trovatolo del peso che avea preveduto, intese esser giunta la sua fine, e dato ordine alle cose sue, di quella ferita indi a poco morì.

Con leggiere varianti questa novella è narrata pure da Benvenuto da Imola, dal Capello, commentatore del Dittamondo, dal Daniello, dal Landino, dal Vellutello, e, riferendosi, senza dubbio, ad essa, parecchi cronisti dicono, come il Pipino, Michele inventore della cervelliera. Questa morte di Michele Scotto ricorda quella di Virgilio, che avvertito, secondo la leggenda, di guardarsi il capo, morì d'insolazione.

Stando alla tradizione scozzese, Michele Scotto morì per la malvagità diuna donna, sua moglie, o concubina. Costei riuscì a farsi palesare da lui ciò che, insino allora, egli aveva tenuto a tutti celato; cioè che con l'arte sua egli poteva premunirsi da ogni pericolo, salvo che dalla velenosa virtù di un brodo fatto con la carne di una troja furiosa. Cotal brodo per lo appunto ella gli diede a bere, e il povero mago se ne andò all'altro mondo; non così presto tuttavia, che non gli rimanesse tempo di punir con la morte la traditrice.

Per questo racconto Michele entra a far parte della numerosa famiglia degli ingannati dalle donne, famiglia così spesso ricordata da poeti e romanzatoti del medio evo, e nella quale figurano Adamo, Salomone, Sansone, Aristotele, Virgilio, Merlino, Artù e parecchi altri.

Dei libri magici di Michele Scotto durò lungo il ricordo in Iscozia. A' tempi del Dempster si credeva che essi esistessero ancora, ma non si potessero aprire senza spavento, a cagione de' prestigi diabolici che tosto si offerivano a chi li aprisse. Del pericolo che gl'inesperti potevan correre in aprire i libri magici son molti esempii: due nipoti di Pietro Barliario vi lasciarono la vita. I libri di Michele, dicevasi, erano stati sepolti con lui, o si conservavano nel convento ov'egli era morto, o in un castello, appesi ad arpioni di ferro. Del libro magico di Cecco d'Ascoli si disse in Italia che fosse conservato nella Laurenziana, o sopra le volte di San Lorenzo, assicurato con catene. Nel canto II del suo Lay of the last Minstrel, Gualtiero Scott narra la storia di un cavaliere, per nome Guglielmo Debraine, il quale con l'ajuto di un vecchio monaco, che già aveva conosciuto Michele Scotto, apre la tomba del mago e ne toglie il libro magico. In mezzo a una luce meravigliosa, che riempie la tomba, il mago appar loro come fosse ancor vivo, maestoso nell'aspetto, col libro del comando nella mano sinistra, una croce d'argento nella destra, e quasi co' segni della eterna salute nel volto. Tutto ciò è invenzion del poeta.

VII.

De' prodigi che la leggenda attribuisce a Michele Scotto, non pochi, come abbiam veduto, si narrano di altri maghi; e in generale può dirsi che le numerose leggende di maghi pervenute, in tutto o in parte, sino a noi, presentano, insieme con alcune picciole parti divariate e proprie, una parte, di molto maggiore, uniforme e comune. Di questa uniformità e comunanza son due ragioni: la prima, che i temi principali della finzione sono naturalmente di numero assai ristretto, e, in condizioni simili di coltura e di vita, rinascono e si ripetono simili; la seconda, che i temi passano d'una inaltra leggenda, di modo che i maghi nuovi ereditano dagli antichi; i maghi celebri arricchiscono a spese degli oscuri. Abbiamo qui un caso speciale di quel generale procedimento di attrazione e di accumulazione per cui tutte le leggende crescono, e di cui tanti esempii ci porgono le storie favolose e mirabili degli eroi epici, dei santi, ecc. Così fu che la leggenda di Virgilio crebbe di numerose sottrazioni fatte alle leggende di altri maghi; così fu che crebbe la leggenda di Fausto.

Virgilio, Ruggero Bacone, Pietro Barliario, Cecco d'Ascoli, Fausto, diedero materia a storie popolari, nelle quali si pensò d'avere raccolti ordinatamente tutti i miracoli che loro si attribuivano, narrata per intero la vita, dal nascimento alla morte. In essi appare, non più la leggenda disgregata, ma la leggenda integrata, venuta a termine di crescenza. Non si sa che di Michele Scotto siasi scritta una cotale storia in Italia; ma potrebbe darsi che fosse stata scritta in Iscozia. Un poeta, per nome Satchells, ignoto alle storie letterarie e ai repertorii bibliografici, ma citato, non so con quanta veridicità, da Gualtiero Scott, parla di una storia di Michele Scotto da lui veduta.

Come le altre leggende di presunti maghi, la leggenda di Michele Scotto cominciò a trovar molti increduli, e fu risolutamente negata, dopo che la nuova coltura ebbe sgombrate le menti dalle caligini medievali. Il Pits, il Dempster, il Leland, il Naudé, altri, schifano la leggenda, esaltano, come s'è veduto, il sapere di Michele, dicono ch'egli fu mago solo nell'opinione del volgo. Nel 1739, un Giovanni Gotofredo Schmutzer scrisse un'apposita dissertazione per difendere Michele Scotto dalla imputazione di veneficio. Per veneficio l'autore intese probabilmente, come dai Latini molte volte s'intese, maleficio, sortilegio: a me non fu dato di veder quest'opuscolo.

In Italia le leggende di Pietro Barliario e di Cecco d'Ascoli son vive tuttora, offron tuttora alcun pascolo alla curiosità popolare; ma quella di Michele Scotto è spenta già da gran tempo. In Iscozia, la leggenda di Michele Scotto, viva ai tempi dell'autore d'Ivanhoe, è forse viva anche ora; ma non andrà molto che e questa, e quelle, ed altre parecchie, andranno a raggiungere le innumerevoli che i nuovi tempi, i nuovi costumi e le nuove idee hanno cancellate per sempre dal libro della vita. Allora, solo nei libri degli eruditi esse troveranno ricetto e riposo.

APPENDICE ALCUNI TESTI DELLA LEGGENDA DI MICHELE SCOTTO

1.

Futura praesagia Lombardiae, Tusciae, Romagnolae et aliarum partium per magistrum Michaelem Scothum declarata(Chronica Fr. Salimbene Parmensis ordinis minorum ex codice Bibliothecae Vaticanae nunc primum edita, Parma, 1857, pp. 176-7). Li riproduco tali e quali.

Regis vexilla timens, fugiet velamina Brixa

Et suos non poterit filios propriosque tueri.

Brixia stans fortis, secundi certamine Regis.

Post Mediolani sternentur moenia griphi.

Mediolanum territum cruore fervido necis,

Resuscitabit viso cruore mortis.

In numeris errantes erunt atque sylvestres.

Deinde Vercellus veniunt, Novaria, Laudum.

Affuerint dies, quod aegra Papia erit.

Vastata curabitur, moesta dolore flendo.

Munera quae meruit diu parata vicinis.

Pavida mandatis parebit Placentia Regis.

Oppressa resiliet, passa damnosa strage.

Cum fuerit unita, in firmitate manebit.

Placentia patebit grave pondus sanguine mixtum.

Parma parens viret, totisque frondibus uret.

Serpens in obliquo, tumida exitque draconi.

Parma Regi parens, tumida percutiet illum,

Vipera draconem. Florumque virescet amoenum

Tu ipsa Cremona patieris flammae dolorem.

In fine praedito, conscia tanti mali,

Et Regis partes insimul mala verba tenebunt.

Paduae magnatum plorabunt filii necem.

Duram et horrendam, datam catuloque Veronae.

Marchia succumbet, gravi servitute coacta.

Ob viam Antenoris, quamque secuti erunt,

Languida resurget, catulo moriente, Verona.

Mantua, vae tibi tanto dolore plena,

Cur ne vacillas, nam tui pars ruet?

Ferraria fallax, fides falsa nil tibi prodest

Subire te cunctis, cum tua facta ruent

Peregre missura, quos tua mala parant.

Faventia iniet tecum, videns tentoria, pacem.

Corruet in pestem, ducto velamine pacis.

Bononia renuens ipsam, vastabitur agmine circa,

Sed dabit immensum, purgato agmine, censum.

Mutina fremescet, sibi certando sub lima,

Quae, dico, tepescet, tandem trahetur ad ima.

Pergami deorsum excelsa moenia cadent.

Rursus et amoris ascendet stimulus arcem.

Trivisiiduae partes offerent non signa salutis.

Gaudia fugantes, vexilla praebendo ruinae.

Roma diu titubans, longis terroribus acta,

Corruet, et mundi desinet esse caput.

Fata monent, stellaeque docent, aviumque volatus,

Quod Fridericus malleus orbis erit.

Vivet draco magnus cum immenso turbine mundi.

Fata silent, stellaeque tacent, aviumque volatus,

Quod Petri navis desinet esse caput.

Reviviscet mater: malleabit caput draconis.

Non diu stolida florebit Florentia florum;

Corruet in feudum, dissimulando vivet.

Venecia aperiet venas, percutiet undique Regem.

Infra millenos, ducenos, sexque decennos

Erunt sedata immensa turbina mundi.

Morietur gripho, aufugient undique pennae.

2.

Enrico d'Avranches, Ad imperatorem Fr, cujus commendat prudenciam(Forschungen zur deutschen Geschichte, vol. XVIII(1878), p. 486).

A Michaele Scoto me percepisse recordor,

Qui fuit astrorum scrutator, qui fuit augur,

Qui fuit ariolus, et qui fuit alter Apollo.

Hunc super imperio cum multi multa rogarent:

Esse sibi, dixit, certa ratione probatum,

Quod status imperii, te supportante, resurget.

Prelatis adhibere fidem nolentibus illi,

Addidit hiis verbis formalem pandere causam:

'Hac princeps, et non alia, ratione regendis

Preficitur populis, ipsius ut una voluntas

Unanimes faciat populos, sua jussa sequentes.

Sic opus est; nec enim poterit consistere regnum

In se divisum, sed desolabitur. Hoc est

Ergo: quod imperii rupisse videtur habenas

Principis ad nutum plebs dedignata moveri.

Sed sic est - celum si non mentitur, et astra

Si non delirant, et mobilitate perhenni

Corpora si sequitur supracelestia mundus -:

Excellens alias prudencia principis hujus

Cisma voluntatum dirimet, populosque rebelles

Conteret et legum dabit irresecabile frenun.

Nec tamen arma feret spontanea, sed spoliatus

In spoliatores, quos talio puniet equa:

Omnia dat qui justiciam negat arma tenenti'.

Veridicus vates Michael, hae pauca locutus,

Plura locuturus, obmutuit, et sua mundo

Non paciens archana plebescere, jussit

Ejus ut in tenues prodiret hanelitus auras.

Sic acusator fatorum fata subivit.

Neve fide careant tanti presagia vatis:

. . . . . . . . . . . . . . .

Séguita, dando a Federico suggerimenti conformi alle sentenze e alle predizioni di Michele.

3.

Salimbene, Chronica, Parma, 1857, pp. 169-70.

Septima et ultima curiositas ejus(sc. Friderici) et superstitio fuit, sicut etiam in alia chronica posui, quia, cum quadam die in quodam palatio existens interrogasset Michaelem Scothum astrologum suum quantum distabat a coelo, et ille quod visum sibi fuerat, respondisset, duxit eum ad alia loca regni, quasi sub occasione spatiandi, et per plures menses detinuit, praecipiens architectis, sive fabris lignariis, ut salam palatii ita deprimerent quod nullus posset advertere: factumque est ita. Cumque post multos dies, in eodem palatio cum praedicto astrologo consisteret Imperator, quasi aliunde incipiens, quaesivit ab eo, utrum tantum distaret a coelo, quantum alia vice jam dixerat; qui computata ratione sua, dixit, quod aut coelum erat elevatum, aut certe terra depressa: et tunc cognovit Imperator quod vere esset astrologus.

4.

Francesco Pipino, Chronicon, cap. L, De Michaële Scotto Astronomo(Muratori, Rerum italicarum scriptores, t. IX, col. 670).

Michaël Scottus Astronomiaeperitus hoc tempore agnoscitur, imperante juniore scilicet Friderico. Hic, ut fertur, quum comperisset se

moriturum lapillo certi ponderis parvi, excogitavit novam capitis armaturam, quae vulgo cerebrerium sive cerobotarium appellatur, qua jugiter caput munitum habebat. Quadam autem die dum in Ecclesia hora sacrificii in ostensione videlicet sive elevatione Dominici Corporis caput ea munitione pro reverentia solita exuisset, lapillus fatalis in caput ejus decidit, atque illud sauciauit pusillum. Quo bilance pensato, et tanti ponderis invento, quanti timebat, certus mortis disposuit rebus suis, eoque vulnere post modicum fati legem implevit. Ejus igitur occasu, modo, quo dictum est, praecognito, verificatum in eo cernitur verbum Flavii Josephi disertissimi Historiographi, qui ait: Fatum homines evitare non possunt, etiamsi praeviderint. Michaël iste dictus est spiritu prophetico claruisse. Edidit enim versus, quibus quarumdam Urbium Italiae ruinam, variosque praedixit eventus.

5.

Jacopo della Lana(Comedia di Dante degli Allagherii col commento di Jacopo di Giovanni dalla Lana Bolognese, Milano(1865), p. 93). Lo stesso nella edizione di Bologna, 1866, vol. I, p. 351.

Qui fa menzione di Michele Scotto il quale fu indovino dell'imperadore Federigo; ebbe molto per mano l'arte magica, sì la parte delle coniurazioni come eziandio quella delle imagini; del quale si ragiona ch'essendo in Bologna, e usando con gentili uomini e cavalieri, e mangiando come s'usa tra essi in brigata a casa l'uno dell'altro, quando venia la volta a lui d'apparecchiare, mai non facea fare alcuna cosa di cucina in casa, ma avea spiriti a suo comandamento, che li facea levare lo lesso dalla cucina dello re di Francia, lo rosto di quella del re d'Inghilterra, le tramesse di quella del re di Cicilia, lo pane d'un luogo, e 'l vino d'un altro, confetti e frutta la onde li piacea; e queste vivande dava alla sua brigata, poi dopo pasto li contava: del lesso lo re di Francia fu nostro oste, del rosto quel d'Inghilterra etc.

6.

Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, Firenze, 1887 segg., vol. II, pp. 88-9.

Hic fuit Michael Scottus, famosus astrologus Federici II, de quo jam toties dictum est et dicetur: cui imperatori ipse Michael fecit librum

pulcrum valde, quem vidi, in quo aperte curavit dare sibi notitiam multorum naturalium, et inter alia multa dicit de istis auguriis. Et nota quod Michael Scottus admiscuit nigromantiam astrologiae; ideo creditus est dicere multa vera. Praedixit enim quaedam de civitatibus quibusdam Italiae, quarum aliqua verificata videmus, sicut de Mantua praedicta, de qua dixit: Mantua, vae tibi, tanto dolore plaena! Male tamen praevidit mortem domini sui Federici, cui praedixerat, quod erat moriturus in Florentia; sed mortuus est in Florentiola in Apulia, et sic diabolus quasi semper fallit sub aequivoco. Michael tamen dicitur praevidisse mortem suam, quam vitare non potuit; praeviderat enimse moriturum ex ictu parvi lapilli certi ponderis casuri in caput suum: ideo providerat sibi, quod semper portabat celatam ferream sub caputeo ad evitandum talem casum. Sed semel cum intrasset in unam ecclesiam, in qua pulsabatur ad Corpus Domini, removit caputeum cum celata, ut honoraret Dominum; magis tamen, ut credo, ne notaretur a vulgo, quam amore Christi, in quo parum credebat. Et ecce statim cecidit lapillus super caput nudum, et parum laesit cutim; quo accepto et ponderato, Michael reperit, quod tanti erat ponderis, quanti praeviderat; quare de morte sua certus, disposuit rebus suis, et eo vulnere mortuus est.

7.

Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Commedia di Dante Allighieri, vol. I, Pisa, 1858, p. 533.

Questo Michele fu con lo imperadore Federigo secondo, e fu ancora in Bologna per alcun tempo, e facea spesse volte conviti con li gentili uomini e non apparecchiava niente: se non che comandava a certi spiriti che avea costretti, ch'andassino per la roba, e così recavano di diverse parti le imbandigioni, e quando era a mensa con li valenti uomini, dicea: Questo lesso fu del re di Francia, l'arrosto del re d'Inghilterra, e così dell'altre cose; e però dice che seppe il gioco delle magiche frode; che questo non era se non inganno: imperò che parea forse loro mangiare e non mangiavano, o pareano quelle vivande quel che non erano.

8.

Chiose sopra Dante(Falso Boccaccio) pubblicate a cura di Lord Vernon, Firenze, 1846, pp. 162-3.

Effu il primo filoxafo eastrolagho talese effuchostui altempo dello imperador federigho secondo effu nemico disanta chiesa evenne addosso apparma eassediolla efecie difuori unacittadella allaquale puose nome vittoria. Laonde veggiendosi iparmigiani istretti forti uscirono fuori tutti a romore dipopolo si eintalmodo cheglisconfissono loste delre federigho. Onde rubando iparmigiani ilcanpo unpovero huomo ciabattiere discharpette andava perghuadagnare entro nel padiglione delre enonvi trovo altro chun botticiello dunasoma pieno eportosenelo achasa eimaginando dentro vi fosse vino epostolo inchasa undi ne trasse unbicchiere etrovo chera unperfetto vino eunaltro bicchiere ne diede alladonna sua eognidi ne veniva aumodo etanto natignieva quanto bisogniava diche acierto tempo ilpovero huomo simaraviglio chelbotticino nomanchava volle sapere quelche questo volesse dire eruppe ilbotticiello nelquale dentro vaveva unagnolo dariento piccholo il quale teneva unodesuopiedi insunungrappolo duva dargiento ediquesto grappolo usciva questo perfetto vino. E questo erafatto perarte magicha edinegromanzia equesto fecie tales overo michele scotto perlasua scienzia e virtu eilpovero huomo perde ilsuo bere ellasua vignia ellasua ventura incio.

9.

Anonimo Fiorentino, Commento alla Divina Commedia, stampato a cura di Pietro Fanfani(Collezione di opere inedite o rare dei primi tre secoli della lingua), Bologna, 1866-74, vol. I, pp. 452-3.

Questo Michele Scoto fu grande nigromante, et fu maestro dello imperadore Federigo secondo. Dicesi di lui molte cose maravigliose in quell'arte; et fral'altre che, essendo giunto in Bologna, invitò una mattina a mangiare seco quasi tutti i maggiori della terra, et la mattina fuoco non era acceso in sua casa. Il fante suo si maravigliava, et gli altri che 'l sapeano diceano: Come farà costui? uccella egli tanta buona gente? Ultimamente, venuta la brigata in sua casa, essendo a tavola, disse Michele: Venga della vivanda del re di Francia; incontanente apparirono sergenti co' taglieri in mano, et pongono innanzi a costoro, et costoro mangiono. Venga della vivanda del re d'Inghilterra; et così d'uno signore et d'altro, egli tenne costoro la mattina meglio che niuno signore - Delle magiche frode seppe. Però che questa arte magica si può in due modi usare: o egli fanno con inganno apparire certi corpi d'aria che pajono

veri; o elli fanno apparire cose che hanno apparenza di vere et non sono vere, et nell'uno modo et nell'altro fue Michele gran maestro. Fue questo Michele della Provincia di Scozia; et dicesi per novella che, essendo adunata molta gente a desinare, che essendo richiesto Michele che mostrasse alcuna cosa mirabile, fece apparire sopra le tavole, essendo di gennajo, viti piene di pampani et con molte uve mature; et dicendo loro che ciascheduno ne prendesse un grappolo, ma ch'eglino non tagliassono, s'egli nol dicesse; et dicendo tagliate, sparvono l'uve, e ciascheduno si trova col coltellino et col suo manico in mano. Predisse Michele molte cose delle città d'Italia, cominciando da Roma; et molte cose avvennono di quelle ch'egli predisse: et fra l'altre dice della città di Firenze: Non diu solida stabit Florentia, florem Decidet in foetidum, dissimulando ruet etc.

10.

Teofilo Folengo, Baldus, maccheronea XVIII(Le opere maccheroniche di Merlin Cocai, ediz. di A. Portioli, Mantova, 1883 sgg.).

Ecce Michaelis de incantu gegula Scoti,

Qua post sex formas cereae fabricatur imago

Daemonii Sathan, Saturni facta piombo.

Cui suffimigio per sirica rubra cremato,

Hac, licet obsistant, coguntur amare puellae.

Ecce idem Scotus, qui stando sub arboris umbra,

Ante characteribus designat millibus orbem,

Quatuor inde vocat magna cum voce diablos.

Unus ab occasu properat, venit alter ab ortu,

Meridies terzum mandat, septemtrio quartum,

Consecrare facit froenum conforme per ipsos,

Cum quo vincit equum nigrum, nulloque vedutum,

Quem, quot vult, tanquam turchesca sagitta cavalcat,

Sacrificatque comas ejusdem saepe cavalli.

En quoque depingit magus idem in littore navem,

Quae vogat totum octo remis ducta per orbem,

Humanae spinae suffimigat inde medullam.

En docet ut magicis cappam sacrare susurris,

Quam sacrando fremunt plorantque per aera turbae

Spiritum, quoniam verbis nolendo tiramur.

Hanc quicunque gerit gradiens ubicunque locorum

Aspicitur nusquam, caveat tamen ire per album

Solis splendorem, quia tunc sua cernitur umbra.

11.

Satchells, History of the Right Honourable Name of Scott(citato da Gualtiero Scott, nella nota 11 al canto IIdel Lay of the last Minstrel).

He said the book which he gave me

Was of Sir Michael Scot's historie;

Which historie was never yet read through,

Nor never will, for no man dare it do.

Young scholars have pick'd out something

From the contents, that dare not read within.

He carried me along the castle then,

And shew'd his written book hanging on an iron pin.

His writing pen did seem to me to be

Of hardened metal, like steel, or accumie;

The volume of it did seem so large to me,

As the book of Martyrs and Turks historie.

Then in the church he let me see

A stone where Mr. Michael Scott did lie;

I asked at him how that could appear,

Mr. Michael had been dead above five hundred year?

He shew'd me none durst bury under that stone,

More than he had been dead a few years agone;

For Mr. Michael's name doth terrify each one.

ARTÙ NELL'ETNA

I.

Per secoli fu creduto che Artù, mortalmente ferito in battaglia, non fosse mai morto, ma vivesse in luogo incantato e recondito, d'onde sarebbe, una volta o l'altra, per far ritorno e prender vendetta de' nemici del suo popolo e suoi. Si sa quale luogo tenesse nella coscienza dei Brettoni vinti, ma non caduti di animo, sì fatta credenza; come intimamente si legassero ad essa i ricordi loro più dolorosi e le più accarezzate speranze; come tutto il sentimento loro di nazione trovasse in essa una consacrazione ed un simbolo. Alano de Insulis(m. 1202) ricorda come ai tempi suoi quella credenza fosse ancora così viva e comune in Armorica che il contraddirla avrebbe portato pericolo di lapidazione. Fra le genti d'altra stirpe la lunga e paziente aspettativa diede il tema a locuzioni proverbiali notissime; e Arturum expectare tanto venne a dire quanto aspettar ciò che non può nè deve avvenire; e speranza brettone fu sinonimo di speranza vana ed assurda. A sì fatta speranza sono frequenti accenni nei trovatori di Provenza, e dai trovatori di Provenza, se non da altri, avrebbero gl'italiani potuto averne agevolmente contezza. Arrigo da Settimello, nel suo poema latino De diversitate fortunae et philosophiae consolatione, composto circa il 1192, la rammenta due volte:

Et prius Arturus veniet vetus ille Britannus,

Quam ferat adversis falsus amicus opem.

Qui cupit auferre naturam seminat herbam

Cujus in Arturi tempore fructus erit.

Nel 1248 quei di Parma, assediati da Federico II, colta un giorno l'occasione che l'imperatore era andato a cacciare, uscirono fuori con grande impeto, e presero e distrussero la città di Vittoria, dai nemici edificata quasi sotto le loro mura. Non molto dopo, l'avvenimento fu celebrato in tre carmi, nel terzo de' quali l'anonimo poeta, accennando allevane minacce dell'imperatore, dice:

Cominatur impius, dolens de iacturis,

Cum suo, Britonibus Arturo venturis.

Secondo l'antica tradizione brettone raccolta da Galfredo di Monmouth, Morgana aveva trasportato Artù ferito in quella paradisiaca isola di Avalon, altrimenti detta Insula pomorum, o Fortunata, della quale è sì frequente ricordo in croniche e in poemi del medio evo; ma non era

possibile che, o prima o poi, la finzione non variasse su questo punto, specie migrando fuor di patria, prendendo ad allignare fra nuove genti, incontrandosi con altre finzioni, offerendosi a esplicazioni e connettimenti nuovi. Come Orlando, fatto cittadino di altre patrie, ebbe mutato il luogo della sua nascita e il teatro delle prime sue gesta, così Artù ebbe mutato il luogo della sua miracolosa segregazione.

Ed ecco farcisi innanzi una tradizione, la quale sembra abbia smarrito ogni ricordo dell'isola di Avalon, e pone la incantata dimora di Artù nell'interno dell'Etna. Gervasio da Tilbury, primo fra gli scrittori di cui abbiamo notizia, la riferisce nel modo che segue: "In Sicilia è il monte Etna, ardente d'incendii sulfurei, e prossimo alla città di Catania, ove si mostra il tesoro del gloriosissimo corpo di sant'Agata vergine e martire, preservatrice di essa. Volgarmente quel monte dicesi Mongibello; e narran gli abitatori essere apparso ai dì nostri, fra le sue balze deserte, il grande Arturo. Avvenne un giorno che un palafreno del vescovo di Catania, colto, per essere troppo bene pasciuto, da un subitano impeto di lascivia, fuggì di mano al palafreniere che lo strigliava, e, fatto libero, sparve. Il palafreniere, cercatolo invano per dirupi e burroni, stimolato da crescente preoccupazione, si mise dentro al cavo tenebroso del monte. A che moltiplicar le parole? per un sentiero angustissimo ma piano, giunse il garzone in una campagna assai spaziosa e gioconda, e piena d'ogni delizia; e quivi, in un palazzo di mirabil fattura, trovò Arturo adagiato sopra un letto regale. Saputa il re la ragione del suo venire, subito fece menare e restituire al garzone il cavallo, perchè lo tornasse al vescovo, e narrò come, ferito anticamente in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Modred e Childerico, duce dei Sassoni, quivi stesse già da gran tempo, rincrudendosi tutti gli anni le sue ferite. E, secondochè dagli indigeni mi fu detto, mandò al vescovo suoi donativi, veduti da molti e ammirati per la novità favolosa del fatto".

Esaminiamo un po' questo curioso racconto. Gervasio lo dà per genuino ed autentico, e diffuso tra i Siciliani, almeno tra quelli di Catania e della rimanente regione circostante all'Etna. Intorno a ciò si potrebbe muovere un primo dubbio, e sospettare che il tutto sia invenzione di Gervasio; e il sospetto nonsarebbe certo irragionevole. Negli scrittori siciliani che trattano dell'Etna e dell'altre singolarità dell'isola, non si trova cenno di così fatta novella. Oltre di ciò Gervasio fu inglese; compose per un principe inglese il suo Liber facetiarum, ancora inedito, e per un imperatore mezzo inglese, Ottone IV, i suoi Otia; così che si può

dire ch'egli dovesse essere trascinato a narrare, in un libro tutto pieno di favole, anche qualche nuova favola di Artù, e non trovandone alcuna che già non fosse notissima, inventarla. Altri scrittori, in picciol numero, l'avrebbero, più tardi, attinta da lui. Ma a queste considerazioni altre se ne possono opporre, che conducono a diverso giudizio. Gervasio passa per uno degli scrittori più bugiardi del medio evo; ma tale opinione, se non vuol essere ingiuriosa ed erronea, deve ridursi in più giusti termini. Gervasio è bugiardo perchè riferisce molte cose non vere; non già perchè se le inventi: volendo parlar rettamente egli è favoloso e non bugiardo; e come scrittore favoloso appunto ha, in questi ultimi tempi, acquistato importanza notabile agli occhi di quanti attendono allo studio dei miti e delle leggende medievali. Gervasio viaggiò pressochè tutta l'Italia, e negli Otia molte cose racconta imparate per lo appunto in Italia: fu in Sicilia, ai servigi di re Guglielmo, innanzi al 1190, ed ebbe agio di conoscere direttamente, o per informazioni immediate, molte particolarità di quella terra, delle quali dà conto nel capitolo stesso in cui narra la leggenda trascritta pur ora. E nel racconto di tale leggenda sono alcuni accenni a cose vere e reali, che, mentre rivelano nell'autore un testimone di veduta, o un ripetitore bene informato, confermano il carattere tradizionale di esso. Dei miracoli operati dal corpo di Sant'Agata in guardar la città di Catania dagl'incendii dell'Etna, è frequente il ricordo nelle croniche siciliane. Ciò che si dice del cavallo del vescovo è pure conforme al vero; giacchè sappiamo, non solo che su quelle pendici del vulcano si allevavano cavalli di molto pregio e vigore, non meno agili che animosi; ma, ancora, che per la troppa ubertà dei paschi, gli animali d'armento o di greggia ci venivano soverchio gagliardi e baliosi, cosicchè a certi tempi dell'anno bisognava trar loro sangue dalle orecchie. Subito dopo aver narrata la leggenda siciliana, Gervasio ne narra un'altra, diffusa per le due Brettagne, e dove Artù si presenta sotto l'aspetto del cacciatore selvaggio; e questa seconda leggenda è sicurissimamente popolare. Finalmente, un po' più oltre, ricorda come, secondo la volgare tradizione dei Brettoni, Artù fosse stato trasportato nell'isola di Davalim(sic), e come quivi Morgana lo custodisse e curasse. Poichè entrambe queste leggende appartengono notoriamente alla tradizione, noi abbiamo una ragionedi più per credere che alla tradizione appartenga anche la prima.

E che vi appartenga davvero cel prova, oltre a quanto dovrò dire più innanzi, anche il fatto del trovarla narrata, in forma alquanto diversa, da uno scrittore di poco posteriore a Gervasio, e da lui indipendente;

Cesario di Heisterbach, che la racconta in tal modo. "Nel tempo in cui l'imperatore Enrico soggiogò la Sicilia, era nella Chiesa di Palermo un decano, di nazione, secondo ch'io penso, tedesco. Avendo costui, un giorno, smarrito il suo palafreno, che ottimo era, mandò il servo per diversi luoghi a farne ricerca. Un vecchio, fattosi incontro al servo, gli chiese: Dove vai? e che cerchi? Rispostogli da quello che cercava il cavallo del suo padrone, soggiunse il vecchio: Io so dov'è. - E dove? - Nel monte Gyber(sic), in potere del re Arturo, mio signore. Quel monte vomita fiamme come Vulcano. Stupì il servo in udire tali parole, e l'altro soggiunse: Di' al tuo padrone che da oggi a quattordici dì venga alla corte solenne di lui; e sappii che tralasciando di dirglielo, sarai punito aspramente. Tornato addietro, il servo espose, non senza timore, quanto aveva udito. Il decano si rise di quell'invito alla corte del re Arturo; ma, ammalatosi, morì il giorno prestabilito".

Il racconto è, in parte, quello stesso di Gervasio, e, in parte, è diverso. Il cavallo smarrito, il servo che ne va in traccia, la misteriosa dimora di Artù, sono comuni ad entrambi, mostrano che i due hanno, quanto alla sostanza, la medesima origine; ma, da altra banda, quello di Cesario differisce tanto da quello di Gervasio che, ragionevolmente, non si può supporre ne sia derivato. Nel Dialogus miraculorum non è neppure un indizio che Cesario abbia avuto conoscenza degli Otia. Si potrebbe, gli è vero, pensare che Cesario, togliendo il racconto a Gervasio, lo alterasse e foggiasse deliberatamente a quel modo, per meglio accomodarlo all'indole della distinzione XII del suo libro; ma contro questa congettura sta il fatto che Cesario è, nel narrare, coscienzioso e fedele sino allo scrupolo; che ripete esattamente, senza aggiungervi di suo, gli altrui racconti; e che sempre, quando può, cita i nomi di coloro da cui gli ebbe, o i libri onde li trasse. Oltre di ciò, non si vede che di quell'alterazione egli potesse molto giovarsi per i suoi fini, dacchè il racconto, quale egli lo reca, è, fra quanti ne novera la distinzione XII, il più povero di significato, quello di cui meno s'intende l'insegnamento. Altre cose poi son da notare, le quali accennano a fonti diverse e di più torbida e tortuosa vena. Cesario parla di un decano di Palermo,e sembra ponga Palermo dov'è Catania, alle falde dell'Etna. La forma Palernensi, usata da lui, non è nè latina, nè italiana, ma francese, trovandosi spesso ne' testi francesi Palerne per Palerme (Guillaume de Palerne ecc.). Può ciò bastare per supporre una fonte francese? gli è poco, ma gli è pur qualche cosa. Alcuna considerazione vuol pure quel monte Gyber. Il nome di Mongibello fu fatto capricciosamente derivare da Mulcibero, da Mons

Cybeles, da Monte Bello, e persino da Monte di Beel; ma esso è veramente nome composto di due nomi comuni e d'egual significato, italiano l'uno, monte, arabico l'altro, gibel, che non vuol altro dire che monte; e trovasi non di rado scritto disgiuntamente, come appunto in Cesario. Monte Gibero si ha in testi italiani; perg Gyfers o Givers in testi tedeschi. Per quell'avvertimento che si dice dato dall'incognito vecchio al servo, e concernente il decano, il racconto di Cesario si raccosta a una intera e numerosa famiglia di racconti esemplari, di cui dirò fra poco, e nei quali i vulcani hanno parte cospicua. In fondo il racconto di Cesario è quello stesso di Gervasio, ma alterato alquanto, per infiltrazioni penetratevi, come pare, da un gruppo d'altri racconti, molto più antichi, e d'indole affatto diversa. I due si accordano inoltre abbastanza quanto al tempo. Gervasio dice il fatto accaduto nostris temporibus; Cesario eo tempore quo Henricus imperator subjugavit sibi Syciliam. Nulla vieta di riferire la espressione di Gervasio agli ultimi tempi del soggiorno di lui in Sicilia; e quanto alla conquista di Enrico VI, si sa che avvenne nel 1294.

Il racconto di Cesario rivela, come diceva testè, certe infiltrazioni che in quello di Gervasio non appajono. Penetra in esso un elemento pauroso e tetro, alcun che di infernale e di diabolico che certamente fu estraneo alla tradizion primitiva e più genuina. In esso la leggenda epica non è ancor trasformata, ma tende già a trasformarsi in leggenda ascetica: in un altro racconto, posteriore di poco a quello di Cesario, la trasformazione si vede compiuta. Stefano di Borbone, morto circa il 1261, narra il fatto a questo modo. "Udii narrare a un frate di Puglia, per nome Giovanni, il quale diceva esser ciò avvenuto dalle sue parti, che cert'uomo, andato in traccia del cavallo del suo signore su pel monte presso a Vulcano(sic), ove si crede sia il purgatorio, vicino alla città di Catania, trovò secondo gli parve, una città, che aveva una postierla di ferro, e a colui che la custodiva chiese notizia del cavallo che andava cercando. Il custode gli rispose che n'andasse sino alla corte del principe, il quale, o gliel farebbe restituire, o gliene darebbe notizia;e richiesto dall'altro, in nome di Dio, di alcuna norma circa quell'andata, soggiunse badasse bene di non mangiare di nessuna vivanda che potesse essergli offerta. Parve al cercatore di vedere per le vie di essa città tanti uomini quanti ne sono nel mondo, di ogni generazione e condizione. Passando per molte sale, giunse ad una, ove scorse il principe circondato da' suoi. Ecco gli offrono molti cibi, ed ei non vuole gustar di nessuno: gli mostrano quattro letti, e gli dicono che l'uno d'essi è apparecchiato pel suo signore, gli altri tre per tre usurai. E gli dice il

principe che al signor suo e ai tre usurai assegnava certo giorno come termine perentorio a comparire, e che mancando, sarebbero menati a forza; e gli dà un nappo d'oro, con coperchio d'oro, e lo ammonisce che non l'apra, ma lo rechi in segno della cosa, al padrone, perchè questi beva della sua bevanda; e, di giunta, gli fa restituire il cavallo. Se ne torna il famiglio; adempie il precetto: s'apre il nappo e ne schizza fiamma; si getta il nappo nel mare e il mare si accende. Quei quattro, sebbene confessi(per timore solo, e non per penitenza) il dì assegnato sono rapiti sopra quattro cavalli neri".

Qui abbiamo, in sostanza, il fatto stesso narrato da Gervasio e da Cesario, ma con particolarità nuove, che mostrano un crescente infoscamento della leggenda, e la preponderanza presa dagli elementi infernali e diabolici. Secondo Gervasio, Artù mandò regali al padrone del cavallo, nè in modo alcuno gli nocque: secondo Cesario, un ministro di Artù impose, per mezzo del servo, al padrone del cavallo di presentarsi a giorno fisso alla corte del principe: secondo Stefano, il principe assegnò il giorno del comparire al padrone del cavallo e a tre usurai ad un tempo. Nel racconto di Cesario non s'intende il perchè di quell'assegnazione; ma ben s'intende nel racconto di Stefano, dove la coppa ignivoma, che parrebbe un simbolo del vulcano, e la compagnia de' tre usurai, e quei quattro letti, che non dovevano essere letti di rose, e, più che tutto, i quattro cavalli negri rapitori, lasciano subito intendere di che cosa si tratti. Quella città è una città infernale: quel principe, se non è Satanasso in persona, è uno de' suoi maggiori ministri; e perciò non si chiama più Artù, sebbene sia stato Artù in origine. Anche quella particolarità di non dovere accettare cosa che sia offerta, si trova in numerose leggende diaboliche. Stefano di Borbone compose il libro ove questo racconto si legge negli ultimi anni di sua vita, e conobbe gli Otia di Gervasio e li cita; ma allanarrazion di costui preferì, egli che andava in traccia di esempii predicabili, la narrazion più opportuna dell'ignoto frate di Puglia.

Vedremo or ora che questa graduale alterazione della leggenda, lungi dall'essere capricciosa e arbitraria, era in certo qual modo ragionevole e necessaria; ma devesi, innanzi a tutto, insistere sul fatto che la version primitiva non è quella di Stefano, e nemmeno quella di Cesario; ma bensì quella di Gervasio; anzi una in cui l'elemento romanzesco e cavalleresco doveva essere assai più copioso che nel racconto di Gervasio non sia. Tale prima versione dovette essere affatto serena, affatto consentanea alle forme e allo spirito dell'altre finzioni brettoni; e

noi possiamo credere di rintracciarla, o di rintracciarne una che poco se ne discosti, in un vecchio poema francese intitolato Florian et Florète, e pochissimo noto.

Questo poema, composto già forse nel secolo XIII, ma più probabilmente nel successivo, è di pochissimo pregio, rileva assai poco nella storia delle finzioni brettoni, e non avrebbe anzi, rispetto ad esse, importanza alcuna, se non fosse per quella leggenda arturiana che ci si vede intessuta. Qui la leggenda non è, come nei racconti di Gervasio, di Cesario e di Stefano, una immaginazione slegata e smarrita, ma si allaccia a un'azione epica, qual ch'essa sia, e fa corpo con altre leggende e immaginazioni del ciclo. È questa una prima ragione che il rende meritevole d'attenzione e di studio; ma ce ne sono dell'altre. Nei racconti di Gervasio e di Cesario(lasciamo in disparte ora quello di Stefano) si narra un fatto particolare, occorso ai tempi di quegli scrittori; ma fanno difetto le ragioni e i presupposti del fatto stesso. La leggenda in essi narrata rimanda necessariamente ad un'altra più antica, nella quale doveva dirsi come e perchè Artù fosse capitato nell'Etna. Ora, quelle ragioni e quei presupposti, e quella più antica leggenda, noi troviamo per l'appunto, almeno in parte, nel romanzo francese, la cui azione si svolge mentre il re Artù è ancora nel suo regno, a capo de' suoi cavalieri. Qui l'Etna è una specie di regno fatato, dimora consueta della sorella di Artù, Morgana, e del numeroso suo séguito: è quello che nei romanzi francesi del medio evo si chiama comunemente Faerie, ossia paese o città delle fate: c'estoit leur maistre chastel, dice il poeta, parlando di Morgana e delle sue compagne. In esso Morgana conduce Floriant, figliuolo di un re Elyadus di Sicilia, il quale era stato ucciso dal traditore Maragot, e ve lo fa educare. Il luogo è assai piacente, e ci si mena vita giojosa, e non ci si può morire. Floriant torna poi nel mondo, e incontra molte avventure; ma labuona Morgana, quando conosce ch'egli è prossimo alla sua fine, lo attira di nuovo nell'incantato soggiorno, e ci fa venire anche la moglie di lui, Florète. Artù, che si suppone ancora sano e fiorente, ci andrà poi ancor egli a suo tempo, come annunzia la stessa Morgana(vv. 8238-40):

Li rois Artus, au defenir,

Mes freres i ert amenez

Quant il sera a mort menez.

Quando poi Artù ci fu andato, s'intende che ogni occasione poteva esser buona a fare ch'egli palesasse in qualche modo la sua presenza; e s'intende pure ch'egli dovesse diventare il personaggio principale di

quella corte fatata, e respinger nell'ombra, se non far dimenticare, tutti gli altri. Così la leggenda si circoscriveva e si addensava, diventando più particolarmente la leggenda di Artù nell'Etna. E in vero, nei due racconti di Gervasio e di Cesario, Morgana non è neppur nominata: in quello del primo, il monte è la curia, o corte, di Artù; in quello del secondo, Artù è signore del monte. Ora io credo che la cagione prima del trasponimento della Faerie di Morgana nell'Etna, sia appunto Artù, e ciò per ragioni che vedremo alquanto più oltre.

Ecco dunque uno scrittore inglese, uno scrittore tedesco, due scrittori francesi, porgere documento di una leggenda medesima, variata, dirò così, nella buccia, ma rimasta pur sempre quella nel nocciolo e nel midollo. E le testimonianze non finiscono qui, potendosi alle forastiere aggiungerne una nostrana, assai scarsa ed asciutta a dir vero, ma non però meno significativa. In una rozza e bizzarra poesia, appartenente, come pare, al secolo XIII, e pubblicata son pochi anni, due cavalieri, interrogati dell'esser loro da un misterioso personaggio che si fa chiamare Gatto Lupesco, rispondono:

Cavalieri siamo di Bretangna,

ke vengnamo de la montagna,

ke ll'omo apella Mongibello.

Assai vi semo stati ad ostello

per apparare ed invenire

la veritade di nostro sire,

lo re Artù k'avemo perduto

e non sapemo ke sia venuto.

Or ne torniamo in nostra terra

ne lo reame d'Inghilterra.

Qui si allude, senz'alcun dubbio, a una credenza secondo la quale Artù sarebbe nell'Etna; ma non si afferma già ch'ei ci sia veramente. La cosa rimane in dubbio. I cavalieri se ne tornano indietro senz'essersi potuti accertare del vero(e non sapemo ke sia venuto), e da tutto il passo sembra traspaja qualcosa della solita incredulità italiana in fatto di meraviglioso. Oltre che a quella credenza, vi è accennato, ma in modo indiretto, all'antica opinione che Artù dovesse tornare.

Da ciò che precede rimane, parmi, provata l'esistenza, nei secoli XIII e XIV, di una vera e propria leggenda(non di una semplice e scioperata

immaginazione individuale), la quale poneva nell'Etna la dimora di Artù, e riman provato che tale leggenda fu cognita a molti allorain Sicilia, se pur non fu popolare. Ma il tema nostro non è per anche esaurito, e alcuni dubbii che nascon da esso, e alcune particolarità che in esso si notano, richiedon ora la nostra attenzione.

II.

Come mai, e per quale ragione, ed a chi potè venire primamente in pensiero di strappare Artù all'isola di Avalon per porlo nell'interno di un vulcano, in Sicilia? Dobbiam noi credere che inventori della strana finzione sieno stati que' Siciliani medesimi tra cui Gervasio, secondo attesta, la trovò divulgata? Dobbiam per contrario credere che altri uomini ne sieno stati inventori? Il dubbio, credo, sarà chiarito se si riesce a dimostrare: 1º che i Siciliani non avevano ragione di sorta, nè quasi possibilità d'immaginaria; 2º che la finzione stessa, specie nella forma che veste in Gervasio, ha in sè tutti i caratteri di una finzione, non italica, ma germanica, rimanda a un vero e proprio mito germanico.

Cominciamo dal primo punto.

Che i Siciliani non dovessero avere nessuna ragione, e quasi nemmeno la possibilità d'immaginar la finzione, s'intende assai agevolmente. La finzione stessa presuppone sentimenti, credenze, fantasie, che i Siciliani non avevano e non potevano avere: un ricordevole affetto per Artù; un desiderio immaginoso di raccostarsi in qualche modo all'eroe; una vaga speranza di vederlo tornare, quando che fosse, nel mondo. Chi poneva Artù nell'Etna doveva sentirsi legato a lui da vincoli particolari, da vincoli di cui nessuna ragione potrebbe trovarsi nella storia, nelle costumanze, nelle aspirazioni del popolo di Sicilia; e se la finzione fosse stata frutto naturale e spontaneo della fantasia di quel popolo, noi dovremmo, sembra, trovarne vestigio in alcuna delle sue croniche, laddove non ce ne troviamo nessuno.

Fatto sta che ai Siciliani l'Etna ricordava altre meraviglie e suggeriva altre immaginazioni: fatto sta che anche in Sicilia, come per tanti esempii si vede essere avvenuto nella rimanente Italia, la memoria e la fantasia tornavano ostinatamente alle storie e ai miti dell'antichità classica, ne' quali, come in cosa lor propria, si compiacevano. Nelle croniche dell'isola si trovano ricordati i Ciclopi, i giganti fulminati da Giove, il ratto di Proserpina, la fine di Empedocle, ecc.; e si può credere

che nella coscienza popolare questi fossero più che semplici ricordi di tradizioni e di favole antiche, fossero anzi, alcuni di essi, miti tuttora viventi. Di un'apparizione dei Ciclopi e di Vulcano si fa ricordo ancora nel 1536, poco prima di una grande eruzione dell'Etna. Come in antico, si credeva che il monte ignivomo(e altrettanto dicasi degli altri vulcani, non escluso quello d'Islanda) fosse uno spiracolo dell'inferno; e le leggende che più facilmente dovevano accreditarsi in Sicilia e diffondersi, erano le leggende monacali ed ascetiche, lequali appunto si conformavano a quella credenza, e narravano di anime dannate, portate a volo entro il monte dai diavoli, e d'altre meraviglie paurose. Di queste leggende è grande il numero, e qui basterà ricordare quelle di Eumorfio e di Teodorico, narrate da Gregorio Magno, e quella del re Dagoberto, narrata dallo storico Aimoino. Subito dopo aver narrata la storia del decano di Palermo, Cesario racconta quella di Bertoldo V, duca di Zähringen, a cui i diavoli preparano nell'Etna il meritato castigo. Secondo certo racconto riferito da Pier Damiano nella Vita di Odilone, dentro l'Etna si udivano le querele delle anime purganti, tormentate da infiniti demonii. Nel nome stesso dell'Etna si trovava indicata la condizione sua. Isidoro da Siviglia dice: "Mons Aetnae ex igne et sulphure dictus, unde et Gehenna". Gotofredo da Viterbo raccoglie la comune opinione:

Mons ibi flammarum, quas evomit, Aetna vocatur:

Hoc ibi tartareum dicitur esse caput.

In Sicilia queste credenze dovevano essere assai divulgate. Parlando della grande eruzione del 1329 Nicola Speciale dice: "Parecchi, nelle vicinanze del monte, furono portati via dai diavoli, che assumendo varii corpi, predicavano nell'aria terribili menzogne". Quand'anche non si voglia far conto della trista esperienza che i Siciliani avevano della natura del loro vulcano; quand'anche s'immagini ch'essi avessero perduto il ricordo dei danni sofferti per esso, e poco o niun pensiero si dessero delle sue perpetue minacce, la opinione ch'essi ne avevano, come di una bocca spalancata dell'Inferno, doveva bastare a vietar loro di fingervi dentro il regno incantato di Morgana e il soggiorno di Artù; mentre a finger tai cose potevano essere tratti assai più facilmente uomini venuti d'altronde, i quali non ben conoscessero la natura del monte, e ai quali men tetre fantasie potessero essere suggerite a primo aspetto da quella tanta feracità di campi e giocondità di aspetti, cui già gli antichi non s'erano stancati di ammirare e di celebrare.

Veniamo ora al secondo punto.

La leggenda di Artù nell'Etna non è, come s'è già notato, una leggenda nuova; è una leggenda variata; ma nella variazione sua sono alcune particolarità che meritano d'essere considerate attentamente. Secondo la leggenda brettone originale, Artù vivo, ma ferito, dimora in Avalon, la quale è veramente un'isola del fiume Bret, nella contea di Somerset, e antica sede dei druidi. La poetica fantasia abbellì quest'umile isola, e ne fece un luogo di delizie da porre a riscontro delle famose Isole Fortunate. Goffredo di Monmouth dice di essa, nella Vita Merlini:

Insula pomorum quae fortunata vocatur.

Secondo la leggenda derivata, che, per comodità di espressione, seguiteremo a dir siciliana, Artù dimora nell'interno dell'Etna.

Questa innovazione non incontrò molto favore; e noi vediamo altri eroi, come, per esempio, Uggeri il Danesee Rainouart, andare a raggiungere il buon re Artù nell'isola e non nel monte; ma non però si può dire ch'essa fosse al tutto arbitraria e illegittima. Circa il 1139 avvenne un fatto che avrebbe potuto a dirittura tagliar le radici alla leggenda della miracolosa sopravvivenza di Artù: si credette d'aver trovato, o si disse d'aver trovato, appunto nell'isola di Avalon, presso l'abbazia di San Dnustano, il corpo di Artù, morto e sepolto da secoli. Ma tale ritrovamento, cui non fu, sembra, estranea la politica, non valse a togliere certe dubbiezze, che forse già da gran tempo si avevano circa il vero luogo del rifugio di Artù, e circa alcune altre particolarità della sua leggenda. Di tali dubbiezze abbiamo parecchi indizii, oltre a quello contenuto nei versi italiani riportati di sopra. Il trovatore Aimeric de Peguilain(1205-70) dice in un suo serventese(Totas honors):

Part totz los monz voill qu'an mon sirventes

E part totas las mars, si ja pogues

Home trobar que il saubes novas dir

Del rei Artus, e quan deu revenir.

In un codice di Helmstadt, contenente il già citato poema De diversitate Fortunae di Arrigo da Settimello, si trova una nota ov'è detto che Artù, combattendo contro certa belva, perdette i suoi cavalieri, e avendo ucciso la belva, non fece più ritorno a casa; onde i Brettoni lo aspettano ancora. Del luogo ov'egli possa essere andato non v'è pur cenno. Ma, secondo l'autore del Lohengrin, Artù è in un monte dell'India, insieme coi cavalieri del Santo Gral; e nel Wartburgkrieg si dice che Artù dimora entro un monte, insieme con Giunone e con Felicia, figliuola di

Sibilla. Da tutto ciò si rileva che, fuori di Brettagna, la tradizione era alquanto vaga e malsicura, se non circa la rimozione e la vita soprannaturale di Artù, almeno circa il luogo di sua dimora; e che per tempo una opinione era sorta, la quale poneva quella misteriosa dimora nell'interno di un monte.

Ora, qui, noi ci troviamo in presenza di una finzione essenzialmente germanica. L'immaginazione dell'eroe rimosso dal mondo, serbato miracolosamente in vita, e destinato a futuro ritorno, è comune a molte e svariate genti; ma la immaginazione di un sì fatto eroe(o dio) chiuso nel cavo di un monte è, più specificatamente, germanica. Nella mitologia settentrionale ne sono parecchi esempii. Il dio Wodan abita nell'interno di un monte; in monti hanno stanza, insieme con le loro famiglie, Frau Holda e Frau Venus; in monti stanno rinchiusi, aspettando il giorno del loro riapparire nel mondo, Carlo Magno, Federico II, Carlo V. Questi misteriosi rifugi non sono inaccessibili agli uomini. Abbiam veduto, nel racconto di Gervasio, il servo del vescovodi Catania penetrare nel meraviglioso soggiorno di Artù; ma, similmente, Tanhäuser penetra nel monte ove alberga Frau Venus; un pastore penetra in quello ove Federico aspetta l'ora segnata, ecc. Nel racconto di Gervasio il servo riceve da Artù doni pel suo signore, ed è questa un'altra particolarità che ha numerosi riscontri in miti affini germanici. Non sarà fuor di luogo notare a tale proposito che Artù si trova, in modo abbastanza strano, involto in un altro concetto mitico germanico, il quale ha stretta relazione con quello del trasferimento in un monte, il concetto, cioè, della imprecazione(Verwünschung). Leggesi nella Vita Paterni che questo santo, il quale fu vescovo di Vannes, e morì circa il 448, minacciato da Artù, imprecò contro di lui, dicendo: "Possa la terra inghiottirlo!" le quali parole profferite, tosto la terra si aperse, e inghiottì Artù sino al mento, e nol lasciò fino a che non si fu pentito ed ebbe chiesto perdono.

Esaminata e discussa attentamente ogni cosa, parmi sia questa la conclusione più ragionevole: essere sommamente improbabile che i Siciliani abbiano immaginata una leggenda, la quale, per una parte, contraddice a quanto essi sapevano, o congetturavano, della natura del loro vulcano, e involge, per l'altra, un mito germanico; essere sommamente probabile che essa leggenda sia stata immaginata da uomini venuti di fuori, i quali, mentre col vulcano avevan poca pratica, potevano recar seco il ricordo di quel mito germanico, o aver conoscenza di alcuna variazione già introdotta nella leggenda di Artù.

Che uomini poteron essere quelli? non gli Arabi, certo; dunque i Normanni. Vediamo quali fatti e quali ragioni si possano addurre a sostegno di tale congettura.

III.

Come e in che tempo penetrarono e si diffusero primamente in Italia le immaginose leggende onde s'intreccia il cielo brettone? Quali sono tra noi le loro più antiche vestigia? Quando si tratta delle finzioni del cielo carolingio, rispondere a così fatte domande riesce molto più agevole. Noi vediamo anzitutto le ragioni storiche, e diciam pure morali, che dovevano, in certo modo, tirar di qua dall'Alpi la leggenda carolingia: Carlo Magno, campione della fede e della Chiesa, vincitore dei Saraceni infedeli, non era solamente un eroe franco, era un eroe universale cristiano; e questo eroe cristiano aveva, in Italia, fiaccata per sempre la potenza dei Longobardi; aveva, in Roma, cinta la corona del rinnovato impero. Oltre di ciò, noi possiamo seguitar le tracce di quei giullari vaganti, di quei cantores francigenarum, e di quei pellegrini o romei, che ce la recavano in casa, la rinarravano nelle castella e nelle corti nostre, la propagavano tra i nostri volghi. Poi vediamo com'essa metta radici e propaggini nelle croniche nostre; poi vediamocome divenga quasi cosa nostra, ripetuta da prima in quella lingua stessa con che era giunta fra noi, o in tale che vorrebbe a quella rassomigliarsi; ripetuta poi in volgare nostro, accomodata all'indole e al sentimento di nuovi poeti e di nuovi uditori, cresciuta, variata, rimaneggiata in più modi. Per le finzioni del cielo brettone la cosa procede altrimenti. Non solo la diffusione loro tra noi non fu provocata e sollecitata da quelle ragioni che tanto favorirono la diffusione delle finzioni carolinge, nè da altre equivalenti od affini; ma le vie stesse ed i gradi per cui quella diffusione si venne pure compiendo non ci si lasciano mai vedere distintamente. Esse erano cognite fra noi sin dai primordii della nostra letteratura: è questo un fatto innegabile; ma quando vogliamo intendere e spiegare il fatto, ci è forza ricorrere alle congetture, appagarci degl'indizii.

Che la poesia provenzale abbia largamente contribuito a far conoscere e diffondere tra di noi quelle finzioni, è cosa di cui non si può dubitare. Nei trovatori, i personaggi e i fatti principali che occorrono in esse sono ricordati con molta frequenza, e nei loro ensenhamen esse tengon luogo cospicuo fra le molte che il giullare, sollecito di sua arte, non deve

ignorare. Passando in Italia, la poesia dei trovatori doveva non solo recarvi la notizia sommaria di quelle finzioni, ma, ancora, stimolare efficacemente la curiosità, suscitare il desiderio di conoscerle alquanto più a fondo. I primi trovatori vennero in Italia, per quanto se ne sa, sul cadere del secolo XII, quando l'epopea brettone(chiamiamola così) già sorta, anzi già famosa e divulgatissima in Francia, stava per ricevere l'ultima mano, ed esser levata a quel più alto grado di perfezione a cui allora potesse attingere, dal suo maggiore poeta, da Cristiano da Troyes. I più antichi, della cui venuta fra noi si abbia certo ricordo, sembrano essere stati Pietro Vidal e Rambaldo di Vaqueiras; e nelle loro poesie accenni alle leggende brettoni non fanno difetto. Le poesie di Rambaldo in cui se ne trovano furono composte in Italia fra il 1192 e il 1202. L'uso di tali accenni passò certamente dai trovatori provenzali ai trovatori italiani che rimarono in provenzale, e poscia a quelli che rimarono in italiano. In una delle sue canzoni Bartolomeo Zorzi ricorda gli amori di Tristano e d'Isotta; in una sestina ricorda un fatto della storia di Perceval. Ma assai prima che ce la recassero i trovatori di Provenza, si dovette aver contezza in Italia delle finzioni onde ebbero materia, nella seconda metà del XII secolo, i romanzi francesi, chè non si potrebbe intendere, senza di ciò, come nomi di persona, tolti allagesta brettone, compajano per entro all'onomastica italiana sino dai primi anni del secolo XII, e compajano in modo da lasciar credere che non sia quello il primo tempo del loro introdursi in essa. Molt'anni innanzi che ci venissero i trovatori, dovettero recar la materia brettone in Italia i Normanni.

Si pensi alla parte che i Normanni ebbero nella diffusione della materia brettone. E per ragioni geografiche, e per ragioni storiche, essi diventarono i naturali promotori e propagatori di quelle immaginazioni, di quella poesia. I Brettoni del continente assai per tempo strinsero con loro legami di salda amicizia; e nel 1066, combatterono in buon numero, alla battaglia di Hastings, sotto le vittoriose bandiere di Guglielmo il Conquistatore. I Brettoni insulari poi accolsero come liberatori i Normanni, la cui vittoria diede termine all'odiato dominio anglosassone. Più tardi, Enrico II, non solo cercò, per propria soddisfazione, le vecchie leggende di Artù, ma fece ancora il poter suo perchè fossero largamente diffuse e gustate. Il trovero Gaimar, che primo mise in versi la Historia Britonum di Goffredo di Monmouth, fu normanno, e normanno fu quel Wace che ne imitò con più fortuna l'esempio, a tacere di altri. Leggende brettoni e leggende normanne s'innestarono, si fusero insieme, come può vedersi nel Roman de Rou dello stesso Wace. A gente d'indole

avventurosa, quale in tutta la vita loro si danno a divedere i Normanni, la storia poetica d'Artù doveva piacere naturalmente; e le guerre combattute con gli Anglosassoni, e le vittorie riportate sopra di essi, dovevano esser cagione che quella storia poetica fosse dai Normanni considerata quasi come cosa lor propria. Innamorati di quelle colorite leggende, le quali non narravano solamente, ma vaticinavano ancora, movevano da un passato glorioso e mettevan capo in un più glorioso avvenire, essi, avidi d'avventure e di gloria, dovevano recarle con sè dovunque andassero, come un suffragio poetico ai loro ardimenti, dovevano ripeterle e propagarle dovunque fermassero stanza. Con sè certamente le recarono essi in Napoli, in Puglia, in Sicilia, e in grazia loro dovettero le leggende brettoni esser conosciute per la prima volta in Italia.

Di sì fatta introduzione noi non abbiamo, gli è vero, prove dirette. Nessuno dei cronisti(e non son pochi) i quali narrano le gesta dei Normanni in Italia, fa il più lieve accenno alle leggende brettoni, o lascia intendere in qualsiasi modo che i Normanni avessero recato dalla patria loro un ciclo di tradizioni o di favole, e si adoprassero a diffondere le une o le altre. Ma, dopo quanto s'è notato pur ora circa lo spirito delle croniche nostre, a quel silenzio non è da badar troppo come argomento in contrario; il valor positivo della verosimiglianza vince,in tal caso, quello tutto negativo del silenzio.

Torniamo al soggetto nostro particolare.

Gervasio, nel suo racconto, parla di una pianura assai spaziosa e gioconda, e di un palazzo di mirabile struttura. Non si può credere che i Siciliani immaginassero sì fatte cose nel monte; ma non parrà, troppo strano che ce le immaginassero i Normanni, i quali avevano nella fantasia la deliziosa e incantata isola di Avalon, e credevano forse di riconoscere alcune delle proprietà di essa nella ubertosa campagna in mezzo a cui sorge arduo e maestoso il vulcano. Si sa che i primi Normanni che approdarono alle coste dell'Italia meridionale, tornati in patria, narrarono meraviglie di quelle terre sorrise dal sole, e recaron con sè il desiderio di ritornarvi, come poi fecero, cresciuti di baldanza e di numero. Forse l'isola di Sicilia tutta intera assunse agli occhi loro l'aspetto della paradisiaca isola di Avalon, stanza di Morgana e di Artù.

Pongasi mente ad un altro fatto.

Mentre in Sicilia, come in altre parti d'Italia, sono frequenti i nomi di luoghi e le locuzioni proverbiali derivate dalle leggende del ciclo

carolingio, la qual cosa prova che tali leggende erano veramente passate nella letteratura orale e nella coscienza del popolo, nulla di consimile si vede essere avvenuto rispetto alle leggende del cielo brettone; e ciò prova che il popolo non ebbe gusto alle leggende brettoni, o che se l'ebbe, fu sì debole e scarso da escludere affatto l'ipotesi ch'esso potesse lavorarvi intorno di suo. Una eccezione vuol farsi in favore della fata Morgana. Ho già detto che costei dovette penetrare nell'Etna insieme con Artù. Ora è noto che col nome di fata Morgana si designa un fenomeno ottico(ciò che i Francesi chiamano mirage) solito a lasciarsi vedere con maggiore frequenza e perspicuità appunto nello stretto di Messina. Quel nome designa presentemente il fenomeno stesso, e non accenna più ad alcuna individuata e soprannaturale potenza che ne sia cagione; ma in origine non dovette essere così. Si credette allora alla reale presenza della fata in quei luoghi, e il fenomeno si considerò come un'opera dell'arte sua, forse com'uno dei giuochi o degli allettamenti ond'ella abbelliva l'ore e il soggiorno a' suoi compagni di faerie.

Non è, nè può esser provato, ma è molto probabile che assai prima di approdare in Sicilia i Normanni avessero cognizione di una leggenda che poneva Artù nell'interno di un monte: approdati in Sicilia, essi non ebbero a fare un grande sforzo di fantasia per porre l'eroe entro il massimo monte dell'isola. Può darsi ancora che, prima d'approdarvi, essi avessero una generale notizia della possibile rimozione e dimora degli eroi nell'interno di un monte, o unaparticolare notizia di alcuno eroe in tal modo rimosso e dimorante, e che, trovatisi in presenza del meraviglioso vulcano, pensassero senz'altro di trasporvi il re Artù. Se parecchi poemi francesi pongono la scena della loro azione in Sicilia; se in molti altri la Sicilia è ricordata; se di parecchi si può ragionevolmente congetturare che sieno stati composti nell'isola, noi dobbiamo esserne grati, soprattutto, ai Normanni; e dai Normanni dobbiam riconoscere la leggenda arturiana che Gervasio da Tilbury fu primo a raccogliere e a tramandare.

APPENDICE I. ACCENNI A PERSONAGGI E LEGGENDE BRETTONI NEI POETI ITALIANI DELLE ORIGINI.

Arrigo da Settimello, di cui abbiam notato due allusioni al presunto ritorno di Artù allude pure alle storie ultime venute nel ciclo, alle storie

cioè diTristano, in un luogo ove dice:

Quis ille

Tristanus, qui me tristia plura tulit?

Se Arrigo dovesse la sua cognizione dei casi di Tristano al perduto poema di Cristiano da Troyes, o ad altra storia in verso o in prosa, è dubbio che certamente non tenterem di risolvere, tanto più che egli può bene aver preso quegli accenni, passati ormai in uso proverbiale, dai trovatori, senza avere cognizione diretta dei romanzi francesi. E questo stesso dubbio può esser mosso per ciascuno degli accenni particolari che noi troviamo nei lirici nostri dei primi due secoli, dove essi occorrono accompagnati con quelle solite allusioni a miti dell'antichità classica, a proprietà di animali ecc., che formavano anche in Provenza un frasario d'obbligo nella lingua d'amore. Ciò nondimeno non si può non credere che a quegli accenni, presi in generale, non corrispondesse una cognizione diretta dei romanzi francesi della Tavola Rotonda, che, com'è noto, passarono ancor essi agevolmente le Alpi e si diffusero per l'Italia. Gli accenni in parola, del resto, non sono assai numerosi, ed io non credo di far cosa inutile riportando qui quelli che m'è avvenuto di raccogliere, e a cui altri più se ne potrebbero aggiungere facilmente.

Tristano ed Isotta sono i personaggi delle storie brettoni che pajono avere destata in più particolar modo l'attenzione e la sollecitudine dei nostri poeti d'amore, e quelli a cui si riferiscono ancora gli accenni più antichi. La meravigliosa storia dei loro amori spiega una tal preferenza, della quale porge esempio del resto, anche la poesia dei trovatori. Messer lo re Giovanni che sarebbe, secondo la opinione universalmente ammessa, Giovanni di Brienne(n. nel 1158) suocero di Federigo II, nella canzone che comincia Donna, audite como, dà a dirittura nei versi seguenti l'argomento del romanzo di Tristano:

Quella c'amo più 'n cielato

Che Tristano non facia

Isotta, com'è cantato,

Ancor che le fosse zia;

Lo re Marco era 'ngannato.

Perchè lui si confidia.

Ello n'era smisurato,

E Tristan se ne godia

Delo bel viso rosato

Ch'Isaotta blonda avia.

Quelle parole com'è cantato(se pur non s'ha a leggere com'è contato: vedi Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, fasc. I, Città di Castello, 1889, p. 71) non possono riferirsi che a un racconto in verso. Altri accenni sono più compendiosi. Notar Giacomo(discordo: Dal core mi vene):

Tristano ed Isalda

Non amâr sì forte.

Giacomino Pugliese, o Pier delle Vigne(canzone: La dolcie ciera piagiente):

E non credo che Tristano

Isotta tanto amasse.

Inghilfredi Siciliano(?)(canzone: Del meo voler dir l'ombra)

La mia fede è più casta

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

E più lealtà serva

Ch'en suo dir non conserva

Lo bon Tristano al cui presgio s'adasta.

Danteda Majano(sonetto: Rosa e giglio e fiore aloroso):

Nulla bellezza in voi è mancata;

Isotta ne passate e Blanzifiore.

Canzone anonima:(Piacente viso adorno angelicato):

per te patisco doloroso affano

più che non fe' per Isotta Tristano.

Bonaggiunta Urbiciani(canzone: Donna vostre bellezze):

Innamorato son di voi assai

Più che non fu giammai Tristan d'Isolda.

Garbino Ghiberti(canzone: Disioso cantare):

Credo lo buon Tristano

Tanto amor non portàra.

Jacopo da Lentino(?)(sonetto: Fino amor di fin cor ven di valenza):

E di ciò porta la testamonanza

Tristano ed Isaotta co' ragione.

Che non partir giamai di lor amanza.

Domenico da Prato(canzonetta a ballo):

Cantando un giorno d'Isotta la bionda

Mi ricordai di mia donna gioconda.

Bruzio Visconti, descrivendo le bellezze di Madonna(canzone: Mal d'amor parla chi d'amor non sente):

sicchè la mano fu sanza magagnia,

qual si legge d'Isotta di Brettagnia.

L'Orcagna, in uno di quei suoi guazzabugli di sonetti senza senso, ricorda, fra molte altre cose, l'ampolla di Napoli, fabbricata da Virgilio, secondo la leggenda, e la reina Isotta; e Frate Tommasuccio, ricorda nella sua nota Profezia, non so con quale intenzione, Tristano.

Qualche volta Tristano ed Isotta sono ricordati insieme con altri personaggi appartenenti al ciclo. Brunetto Latini(Tesoretto, cap. I):

Lancielotto e Tristano

Non valse me' di voe.

Bonaggiunta Urbiciani(discordo: Oi amadori intendete l'affanno):

E messere Ivano

E 'l dolze Tristano,

Ciascuno fue sotano

Inver me di languire.

Saviozzo da Siena(canzone: Donne leggiadre e pellegrini amanti) :

Io non so se giammai gli uomini erranti,

I' dico di Tristano o Lancilotto,

O quel che fu più dotto

Da' colpi suoi sapesse or dichiararmi.

Frate Stoppa de' Bostichi(ballata: Se la fortuna e 'l modo) :

Tristano e Lancialotto,

Ancor nel mondo la lor fama vale?

Li altri di Cammellotto

Per la fortuna fecer l'altrettale.

. . . . . . . . . . . . .

Dov'è la gran bellezza

Di Ginevra, d'Isotta e d'Ansalone?

In una delle canzonette a ballo inserite nel Pecorone, Ser Giovanni Fiorentino fa memoria dei molti che per amor fûr di vita privati; ma non nomina se non due, Tristano ed Achille:

Lo specchio abbiam de' famosi passati,

Del bon Tristan, del valoroso Achille.

Gli altri personaggi sono ricordati assai più di rado. Guittone d'Arezzo ricorda Lancilotto(sonetto: Ben aggia ormai la fede, e l'amor meo):

Siccome a Lancillotto uomo simiglia

Un prode cavalier.....

Lo ricorda anche Folgore da San Gemignano(sonetto: Alla brigata nobile e cortese):

Prodi e cortesi più che Lancilotto;

Se bisognasse con le lance in mano

Fariano torneamenti a Camelotto.

Di Morgana fanno menzione parecchi. Guido Giudice(canzone: La mia gran pena e lo gravoso afanno):

Chè se Morgana - fosse infra la giente,

In ver Madonna non paria neiente.

Canzone anonima:(Quando la primavera):

Tu c'avanzi Morgana.

Chiaro Davanzati(canzone: Madonna, lungiamente agio portato):

E ave più valere - e 'nsengnamento

Che non ebe Morgana ne Tisbia.

(E canzone: Dilontana riviera):

Che non credo Tisbia,

Alèna nè Morgana

Avesson di bieltà tanto valore.

Incerto(sonetto: Lo gran valor di voi, donna sovrana):

Più mi rilucie che stella diana

A voi sotana - è tutto valimento,

Ne Blanziflor, ne Isaotta Morgana

Non eber quanto voi di piacimento.

Chiaro Davanzati(sonetto):

Ringrazio Amore de l'aventurosa

Gioja et allegreza che m'à data,

Che mi donò a servir la più amorosa

Che nom fu Tisbia o Morgana la fata.

Merlino figura, sia in compagnia dei grandi sapienti, sia in quella degl'ingannati dalle donne. Leonardo del Guallaco(serventese: Siccome il pescie a nasso):

Se lo scritto non mente

Da femina treciera

Sì fue Merlin diriso.

E Sanson malamente

Tradilo una leciera.

Sonetto anonimo:(Qual uom di donna fusse chanoscente):

Merlino e Salamon e lo ste

e Aristotile ne fu inghannato.

Monte(canzone: Donna di voi si rancura):

Chè Troja andò im perdizione

Mirllino e Salamone.

Lapo Saltarello(sonetto: Considerando ingegno e pregio fino) :

Che Salomon, Sanson e 'l buon Merlino,

David divino hai vinto per sentenza.

Paolo Zoppo da Castello(sonetto: Maestro Pietro lo vostro sermone):

Davit, Merlin o ver lo buon Sansone.

In una frottola dubbia attribuita a Fazio degli Uberti(O pellegrina Italia) Merlino è nominato dopo Giovanni, Matteo, Daniele, Gioele, Abacuc, Salomone, l'abate Gioacchino.

Guittone d'Arezzo ricorda Perceval(canzone: Amor tant'altamente):

Se 'n atendendo alasso

Poi m'avenisse, lasso!

Che mi trovasse in fallo

Sicome Prezevallo - nom cherere.

Al ritorno di Artù allude Fazio degli Uberti(sonetto: Non so chi sia, ma non fa ben colui):

Nè Re Artù, nè altro tempo aspetto.

E poichè siam giunti all'enciclopedico Fazio, non lo lasciam così subito. Fazio allude al ritorno di Artù anche nel Dittamondo: ricordato Uterpendragon e Merlino, detto come Artù succedesse al padre, soggiunge:

Tanto da' suoi fu temuto ed amato,

Che lungamente dopo la sua morte

Ch'ei dovesse tornar fu aspettato.

Nè gli accenni finiscon qui. Nel cap. 23 egli ricorda la torre in cui Ginevra difese il suo onore, il castello espugnato da Lancilotto,

L'anno secondo che a prodezza intese,

Camelotto disfatto, il petron di Merlino, e altro e altro. Nel cap. 22 ricorda i casi della donzella Dorens, e come Artù uccidesse Flores, e come Tristano uccidesse l'Amorotto ed Elia di Sassogna, e si sofferma con particolar compiacenza sulla storia dell'ellera che usciva dalla tomba di Tristano e penetrava in quella d'Isotta, storia allora famosa. Questi passi meriterebbero d'essere riportati per intero e assoggettati a più minuto esame; ma per far ciò bisognerebbe restituirne il testo, corrotto come tutto il poema.

Lo stesso Fazio accenna alla leggendaria morte di Mordret nella sua Invettiva contro Carlo IV:

come a Mordret il sol ti passi il casso.

Nella poesia dialettale dell'Italia del settentrione non trovo accenni a personaggi o leggende brettoni, il che non vuol punto dire che quelle leggende e quei personagginon ci fossero noti. Il poeta anonimo(probabilmente Giacomino da Verona) che in un componimento sopra l'amore di Gesù ricorda Rolando, Oliviero, Carlo Magno e Uggeri il Danese conosceva anche, senza dubbio, Artù e Lancilotto e Tristano; e tra le fable e ditti de buffoni, di cui parlano con tanto disprezzo lo stesso frate Giacomino e Uguccione da Lodi e l'ignoto autore di un poemetto sulla passione di Cristo, dovevano essere comprese certamente anche le favole di Brettagna. Tali favole dovevano avere a mente e recitare quell'Osmondo da Verona, ricordato in una poesia delle lodi della

Vergine, e quegli altri giullari, cui il poeta accusa di gran folia e gran mençogna quando ardiscono chiamar giglio e fiore altra donna che non sia la Vergine, e quelli similmente che si ricordano in una delle poesie genovesi pubblicate dal Lagomaggiore. Una prova notabile della lor diffusione si ha nel poema tedesco di un autore italiano, il Wälsche Gast di Tommasino de' Cerchiali friulano(Thomasin von Zerclar, Zerclaere, Zirklere, ecc.). Questo poema fu composto circa il 1216, come si rileva dalle parole stesse dell'autore che dice di averlo scritto 28 anni dopo che il Saladino ebbe presa Gerusalemme(1187). Parecchi sono i luoghi di esso in cui si ricordano fatti e personaggi della epopea brettone; ma il più importante è un lungo passo del primo libro, passo che comprende non meno di 38 versi. In esso il poeta parla della educazione che si vuol dare ai giovani, dopo aver parlato nei versi che immediatamente precedono di quella che si conviene alle fanciulle. Le fanciulle, egli dice, debbono leggere le storie di Andromaca, di Enida, di Penelope, di Enone, di Galiana, di Biancofiore, di Sordamor. I giovani poi debbono a dirittura formarsi sui romanzi e prendere esempio dai cavalieri della Tavola Rotonda. Tommasino si fa un gran concetto del valore educativo di quei romanzi, o, com'egli li chiama alla tedesca, avventure(âventiure). Le avventure, egli dice, contengono sotto velo di menzogna, buone verità e utili insegnamenti. I giovani debbono conoscere le istorie di Galvano, di Cligés, di Erec, d'Ivano; debbono agli esempii del buon Galvano conformare la vita loro; debbono seguitare Artù, Carlo Magno, Alessandro, Tristano, Sagremor, Calogran, ma non il maligno Keu, il quale ha pur troppo molti seguaci, e che tanto è diverso dall'ottimo Perceval. Tommasino ricorda come sì fatti ammaestramenti avesse già dati in un suo libro Della Cortesia; e a far maggiormente intendere quanto avesse in pregio le storie di Brettagna, ringrazia coloro che le avevan recate in tedesco . Ma certamente egli era in grado d'intendere anche gli originali francesi e li conobbe.

Un'altra prova, emolto importante, del favore onde godevano nel secolo XIII in Italia, tra le persone colte, le storie brettoni, l'abbiamo nel fatto che un poeta latino celebre di quei tempi, il Padovano Lovato, di cui fa tante lodi il Petrarca, compose un poema sugli amori di Tristano e d'Isotta. Di questo poema, probabilmente latino, non si fa ricordo da nessuno storico della nostra letteratura; ma il prof. Novati mi avverte che un'allusione ad esso si trova nell'Ecloga che al Mussato indirizzò Giovanni del Vergilio. Ecco i versi che la contengono:

Ipse..... Lycidas cantaverat Isidis ignes

Isidis, ibat enim flavis fugibundula tricis,

Non minus eluso quam sit zelata marito,

Per silvas totiens, per pascua sola reperta,

Qua simul heroes decertavere Britanni

Lanciloth et Lamiroth et nescio quis Palamedes.

Le glosse spiegano: Isidis, Isottae. Flavis tricis dicitur eo quod dicebatur Isotta la bionda. Fugiens regem Marcum maritum suum et Palamedem. Dall'ultimo verso pare peraltro che Giovanni confondesse le storie di Tristano con quelle di Lancilotto; e in quel nescio si fiuta un certo disprezzo di latinista per le favole romanze.

Quando avrò detto che nel poema dell'Intelligenza tutta la materia della Tavola Ritonda è accennata in pochi versi, e ricordate le note allusioni di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, avrò, non esaurita, ma chiusa questa breve rassegna; non tuttavia senza prima richiamar l'attenzione sopra un cronista verseggiatore, il quale ci porge uno dei più antichi documenti che della diffusione delle leggende brettoni si riscontrino nella nostra letteratura. È questi Gotofredo da Viterbo, nel cui Pantheon, alla particola XVIII, si narrano le storie di Uter e di Aurelio, di Vortigerno, della regina Anglia, di Merlino, della duchessa Jema(Ingerna), sino al concepimento di Artù. Per tutto questo favoloso racconto Gotofredo si accorda, in sostanza con Goffredo di Monmouth; ma presenta pure alcune lievi differenze particolari, le quali si possono spiegare, o con dire ch'egli alterò così di suo arbitrio il racconto dello storico inglese, o con supporre ch'egli abbia avuto dinanzi un libro molto affine a quello di costui, quale, secondo l'opinione dello Scheffer-Boichorst, sarebbe il caso per Alberico delle Tre Fontane . Asserire senz'altro ch'egli attinse da Goffredo di Monmouth, come fanno l'Ulmann, il Wattenbach, e il Waitz, non si può. Checchessia di ciò, Gotofredo da Viterbo fu assai probabilmente il primo ad introdurre mediante uno scritto in Italia parte della leggenda brettone. Egli non finì di lavorare intorno al Pantheon se non nel 1191; ma già nel 1186 aveva dedicato una prima redazione del libro al papa Urbano III. Con questa data si risale ai tempi della venuta dei primi trovatori fra noi. Ma non solamente il Pantheon fu composto in Italia; Gotofredofu egli stesso italiano; e questa sua qualità accresce per noi l'importanza di quella parte della sua storia universale. L'opinione ch'egli fosse tedesco fu

messa innanzi in forma dubitativa primamente dal Baronio, poi sostenuta con tutta risolutezza dal Ficker, e ad essa tuttavia si attiene il Wattenbach; ma l'opinione contraria, professata dagli istoriografi più antichi, fu, parmi, dall'Ulmann dimostrato essere la vera.

APPENDICE II. DI ALCUN RIMESSITICCIO ITALIANO DI LEGGENDA BRETTONE.

Galvano Fiamma(prima metà del sec. XIV) inserisce nel suo Opusculum de rebus gestis Azonis Vicecomitis il seguente racconto:

"Anno supradicto scilicet in MCCCXXXIX, stantibus supradictis concurrentiis Johannes Brusatus de Brixia factus est Potestas Mediolanensis, et coepit regere die penultimo Madii........ Eodem anno sub castro Seprii in Monasterio de Torbeth flante quodam vento terribili, quaedam magna arbor divinitus est evulsa radicitus, subque inventa fuit sepultura ex marmore multae pulchritudinis: in hoc sepulcro jacebat Rex Galdanus de Turbet Rex Longobardorum; in cujus capite erat corona ex auro in qua erant tres lapides pretiosi, scilicet Carbunculus pretii mille florenorum, et unus adamans pretii II. millium florenorum, et unus achates pretii D. florenorum. In manu sinistra habebat unum pomum aureum, a latere erat unus ensis habens dentem in acie satis magnum, qui fuerat Tristantis de Lyonos, cum quo interfecerat Lamorath Durlanth. Unde in pomo ensis sic erat scriptum: Cel est l'espée de Meser Tristant, un il ocist l'Amoroyt de Yrlant. In manu sinistra habeat scripturam continentem hos Versiculos:

"Zesu. Saldi de Turbigez

Roy de Lombars incoronez

Soles altres Barons aprexiés

Zo che vos véez emportés

Per Deo vos pri no me robez".

Questo strano racconto è riferito parola per parola nel Flos florum, cronaca del secolo XIV, attribuita, ma senza prove, ad Ambrogio Bossi. Alcune lievi differenze si hanno nei luoghi in francese e vogliono essere notate. L'iscrizione del pomo della spada è data nel Flos Florum così(cod. Braidense A. G. IX, 35, f. 211, t.):

Cil est le spee de miser tristant

unde il ocisse lamorath de xilant;

e i versi della scriptura nel seguente modo:

Za qui galdi de turbigez

Roy de lombars incoronez

Soles autres barons aprisiez

Zo che vos veez ne portez

por dio vos pri ne me robez.

Il testo di questi versi, tanto nel Fiamma, quanto nel Flos Florum, è abbastanza corrotto, ma si potrebbe restituir facilmente. Il Zesu del primo si risolve in un Je suy; il Soles altres in Sor les altres. Il verso Zo che vos véez emportés, vuol esser corretto col riscontro dell'altro testo in Ço que vos veez n'emportez, come richiede anche il senso. Ma la restituzione si ferma poi dinanzi ad un dubbio: questi versi son essi schiettamente francesi, alterati da trascrittori italiani, o non sono piuttosto franco-italiani sin dalla origine? A questa e a parecchie altre interrogazioni che spontaneamente si affacciano, è impossibile dare risposta soddisfacente. Nella iscrizione della spada si accenna a un noto personaggio e a un noto fatto delle istorie di Tristano: quell'Amoroyt è il Morhault dei racconti francesi: ma a che altra favola sialluda nei versi che vengon poi, confesso di non sapere. Seprio è ora un villaggio sulla destra dell'Olona, in provincia di Milano, comune di Gallarate. Turbigo, che certamente è da riconoscere sotto il Turbeth latino e il Turbigez francese, è un altro paesello di quella stessa provincia. Seprio ebbe nel medio evo assai più importanza che non abbia ora, e fu capoluogo di un contado di abbastanza larghi confini, come si può vedere dallo stesso Galvano Fiamma, che ne parla nel suo Manipulus florum. Ma di quel Galdanus, o Galdi(Saldi è un error di scrittura) re coronato dei Lombardi, non so in verità che mi dire. La forma Galdanus riduce alla mente Galvanus(Gauvain, Gavein ecc.), il magno eroe della Tavola Rotonda; ma Galvano non fu mai, ch'io sappia, incoronato re dei Lombardi. Galdi suggerisce Galdinus, nome frequente in Lombardia; ma con questo nome trovo bensì un san Galdino, arcivescovo di Milano nel 1166, e altre persone di conto, non un re dei Lombardi. Non so pertanto se noi ci troviamo qui dinanzi ad una vera e propria leggenda, oppure dinanzi ad una semplice finzione autogenetica e slegata. Propendo tuttavia per questa seconda opinione, giacchè l'intero racconto m'ha l'aria di una di quelle storielle inventate per uno scopo pratico determinato e speciale. Si sa quale lavoro fu fatto durante tutto il medio evo attorno a certe armi famose e, direi, storiche; a quante favole di ritrovamenti inopinati

diedero esse argomento; come spesso si collegarono ad esse diritti, prerogative e primazie. Le spade di Costantino, di Attila e di Carlo Magno figuravano tra le insegne dell'impero; per le diligenze di Enrico II, fu ritrovata Calibourne, la famosa spada di Artù. Nel racconto del Fiamma quel ritrovamento della spada di Tristano nella tomba del re lombardo Galdano o Galdino, rimanda indubitatamente, a mio credere, a qualche aspirazione o pretensione di carattere politico; ma a quale, propriamente, non sono in grado di dire. Giova inoltre notare che il racconto del Fiamma viene ad urtare contro un altro racconto, secondo il quale la spada di Tristano, molto tempo innanzi sarebbe passata dalla Germania nella Gran Brettagna, fra le mani di Giovanni Senza Terra(1199-1216), cui certo non mancavano ragioni per procacciarsi a ogni modo un'arme di tanto pregio e di tanta virtù. Ma checchessia di ciò, il racconto del cronista milanese ci porge un curioso esempio dell'innesto di una leggenda brettone nelle cose nostre, e in ciò sta la capitale se non unica importanza sua.

Ad esso un'altra finzione può essere raccostata, la quale pone eroi della leggenda brettone in relazione con cose nostre. Si sa che uno dei codici dellaHistoria Imperialis di Giovanni Diacono si conserva nella Capitolare di Verona. In calce alla Historia, dopo la epistola del Petrarca sull'officio dell'imperatore, si trova una breve descrizione dell'Arena, ossia anfiteatro di Verona, scritta, come si può giudicare dalla forma della lettera, sul cadere del secolo XIV, e già ricordata dal Tartarotti. Di essa ebbe a giovarsi, oltre al Saraina e al Panvinio, anche l'anonimo autore di una descrizione delle città d'Italia, la quale, in carattere del secolo XV ex., leggesi in un altro codice di quella stessa Biblioteca Capitolare: l'anonimo anzi la trascrive, solo con qualche rimaneggiamento nella forma, e l'attribuisce allo stesso Giovanni Diacono, stranamente confondendolo, per giunta, con l'Arcidiacono Pacifico, il quale visse nell'VIII e IX secolo. Ecco ora questo breve testo nella sua genuina barbarie:

"Quomodo preliaverunt lancelotus de lachu, et malgaretes regis groonç filius ad invicem in civitate marmorea in antro arene. Set ut ulterius non procedam uolo declarare locum ubi isti malgaretes mundi preliaverunt ad invicem. Nam vocatus fuit arena ab antiquo. Erat enim locus iste rotundus per totum magnis sassis undique prefilatus cum cubalis multis intus, multis formis redimitus. In (?) eius(?) rotunditate scales(sic) magnis saxis erant apposite, et secundum quod in altitudine

veniebant tanto plus in rotunditate videntur ampliare. Nam scale iste sunt infinite, et secundum dictum pro maiori parte plus quam .l. cubitus erant in altitudine. Erant enim in circuitu a latere rotunditatis atrij huius multa loca nobilia, in cuius sumitate quidam locus magnus et nobilis multis formis laboratus alabastro lapide circumquaque redimitus erat. In quo loco pomerius nobilis erat. In quo pomerio barones et nobiles solacium capiebant. Et propter diversitatem temporis plumbeo metallo undique erat cohopertus secundum rotunditatis gradum. In cuius rotunditatem in inferiori parte de suptus erat spatium magnum, in quo spacio, et angulo, magnates isti, prelium ad invicem fecerunt. Et secundum dictum nobilium, quidam nobilis princeps romanus nomine marchus metilia de metellis, fecit hoc atrium edifficare, et vocatur arena".

Così finisce in tronco la scrittura, e, come pare, propriamente nel luogo dove avrebbe dovuto cominciare l'annunciata descrizione del combattimento. Mancando il meglio, essa non può dare argomento a osservazioni di qualche rilievo. La civitas marmorea è la stessa città di Verona, così denominata nel medio evo dalla copia de' suoi marmorei edifizii(secondo trovasi notato), o dai marmi che si cavavano nel suo territorio. Giovanni Diacono dice in un luogo della sua Historia: "Haec civitas ab originibus prius Marmor dicta est a copia marmorum". Di qui il nome di Marmorina che, per citare un esempio, si vede usato dal Boccaccio nel Filocolo. Chi possa essere quel Malgaretes, figlio del re Groonz, veramente non so; ma notisi che mentre ilnome di Malgaretes è dapprima usato come nome proprio di singola persona, poco dopo fa ufficio di appellativo comune, dato ad entrambi i prodi combattenti, malgaretes mundi, quasi dicesse per figura di lode magaritae mundi. La immaginazione di quel combattimento non si può dire in tutto scioperata, perchè è un fatto che più di una volta nell'anfiteatro di Verona si combatterono, durante il medio evo, duelli giudiziarii; ma, ad ogni modo, non mi venne fatto di scovrirne vestigio altrove. Il Maffei dice, parlando dell'Arena nella Verona illustrata: "Fole si raccontano, e in supposti documenti si leggono, di battaglie fattevi da Lancellotto del Lago e dagli eroi romanzieri". Quali sieno questi supposti documenti non so, e il Maffei non lo dice.

E poichè siamo a parlar dell'Arena, non credo inutile accennare ad un'altra leggenda, non so veramente quanto antica, che in altro modo la connette con le finzioni brettoni. In un carme in lode della città di

Verona, carme che il Cremonese Domenico Bordigallo inserì nella sua Cronica, si leggono questi due versi:

Condidit arte sua maga Merlinus harenam(sic)

Quem rapuit Minos fraude, dolo, miserum.

Nella Carminum exposicio rerumque sensus Verone urbis ad intelligentiam che segue, il Bordigallo, venuto ai due versi citati, narra che, a testimonianza del vescovo Sicardo e di Galvano Fiamma, l'Arena fu edificata dal mago Merlino, e che la sua immagine si vede tuttavia scolpita a cavallo, con un corno in mano, un cane e un cervo vicino e i versi O Regem stultum etc. sulle porte di S. Zenone. Come si vede, qui Merlino è sostituito nella leggenda a Teodorico. Di una tale sostituzione che cosa si deve pensare? Il Bordigallo componeva in Verona stessa il suo carme nell'ottobre del 1522, col proposito di celebrare quella città, di rammemorare tutte le glorie sue favolose o reali. Raccolse egli quella favola da una tradizione già formata, o l'inventò di pianta? Non è possibile risolvere con sicurezza il dubbio, ma confesso che mi sento propendere per la seconda congettura. Anzi tutto Sicardo e Galvano Fiamma, citati come testimoni, non dicon verbo di quest'opera di Merlino; poi par difficile ad ammettere che i Veronesi potessero in leggenda di tanto rilievo scartar Teodorico, sì strettamente legato alla storia della loro città, per porre in suo luogo Merlino, che con quella storia non aveva relazione di sorta; da ultimo è da notare che di quell'attribuzione della fabbrica dell'Arena a Merlino non appar segno altrove. Ad ogni modo, anche ammesso che il Bordigallo non l'inventasse, nulla prova che questa favola fosse antica.

UN MITO GEOGRAFICO(Il Monte della Calamita)

I.

Il terzo calendero, figliuolo di re, narra, nelle Mille e una Notte, come dopo aver corso, con dieci navi, moltissimo mare, e sostenuta una furiosa procella, egli ed i suoi smarrissero per sì fatto modo il cammino, che nessuno sapeva più dov'e' fossero. Un giorno, dall'alto dell'albero maestro, un marinajo, che stava in vedetta, gridò che non vedeva, tutto all'intorno, se non acqua e cielo, meno che dalla parte di prua, dove

appariva una gran macchia nera. A tale annunzio il nocchiero mutò colore, buttò il turbante sul ponte, si picchiò il viso, e piangendo gridò: Omio re, noi siam tutti perduti! Sollecitato a spiegarsi, disse quella macchia nera non essere altro che il Monte della Calamita, il quale ormai traeva a sè irresistibilmente le navi, per cagion dei chiodi e dell'altre ferramenta ch'erano in esse, e palesò a tutti ciò ch'era per seguire, ciò che in fatto seguì. Le navi s'andarono sempre più approssimando alla formidabil montagna, e il dì seguente, a certo punto, le ferramenta loro, sbarbate dal legname, volarono ad essa, e con ispaventoso rumore aderirono alla sua superficie, la quale d'altre infinite ferramenta vedevasi ingombra. In un súbito le navi si sfasciarono, e quanti erano in esse furon sommersi nel mare, ch'era ivi di profondità smisurata. Tutti perirono, meno il principe. Costui potè raggiungere il monte, e per una angustissima gradinata salire fin sulla cima, dove, sotto una cupola, vedevasi un cavaliere di bronzo, sopra un cavallo similmente di bronzo; opera magica, da cui veniva alla rupe la sua perniciosa virtù, e che doveva essere distrutta perchè quel mare tornasse sgombro d'ogni pericolo ai naviganti. Istruito da un vecchio, durante il sonno, di ciò ch'ei dovesse fare, il principe disseppellì un arco e tre frecce, saettò il cavaliere, e lo fece precipitare nell'onde, le quali presero a gonfiare ed a crescere, tanto che raggiunsero la cima del monte. Allora venne dal largo una navicella, condotta da un navicellajo di bronzo, e dentr'essa il principe potè allontanarsi e scampare.

È questo un racconto che potrebbe dirsi secondario e composito, nel quale un tema originale, semplice e schietto, appare sformato e adulterato da sovrapposizioni più tarde e affatto disacconce. Il tema originale(altrove leggermente variato) noi lo abbiamo in quel Monte di Calamita che trae a sè e ad irreparabile perdizione le navi; le sovrapposizioni le abbiamo in quel cavaliere e in quel cavallo di bronzo, in quell'artificio magico, il quale, o appar esso superfluo, quando si lasci(come qui si lascia) alla calamita la sua propria e naturale virtù, o, per contro, fa apparire superflua la calamita.

Il tema originale ci si appalesa in parecchi racconti, di cui dirò or ora, e in una doppia tradizione geografica e romanzesca, orientale per l'una parte, occidentale per l'altra; ma giova, nondimeno, avvertir subito, che l'adulterazione di cui porge esempio il racconto delle Mille e una Notte, appare, in qualche modo, anche altrove.

La tradizione occidentale è assai antica. Plinio fa menzione di due

monti, prossimi al fiume Indo, di cui l'uno ha virtù di attrarre il ferro, l'altro di respingerlo, per modo che chi abbia calzari con bollette di quel metallo non può dall'uno staccare il piede, nè fermarlo nell'altro. Parlando delle isole dell'India, Tolomeo ricordale dieci Maniole, dalle quali dicevansi trattenute le navi le quali fossero, in qualche modo, munite di ferramenta; per la qual cosa le navi che frequentavano quei mari usavansi compaginare di solo legname. Questa favola riappare in un trattatello De Brachmanibus, composto da un Palladio, che certamente non fu Palladio da Metone, sofista fiorito ai tempi di Costantino Magno, e nemmeno, secondo è più ragionevole credere, Palladio vescovo di Elenopoli(388-407), ma fu, probabilmente, un uomo che visitò l'India, e quivi intese narrare parecchie delle cose che riferisce: riappare, inoltre, in un opuscolo De moribus Brachmanorum, malamente attribuito a Sant'Ambrogio, e dipendente dal trattatello di Palladio, d'onde la deriva lo Pseudo-Callistene, o un interpolatore del romanzo che va sotto tal nome. Costantino Africano, il celebre medico e monaco cassinense, il quale, nella seconda metà del secolo XI, viaggiò gran parte dell'Oriente e si spinse sino nell'India, narra, in una delle numerose sue opere, su per giù le medesime cose, ma senza far ricordo di quelle isole Maniole, e citando un libro De lapidibus di Aristotele, che lo Stagirita mai non iscrisse, e che a lui fu probabilmente attribuito dagli Arabi. Alberto Magno parla del fatto succintamente. Vincenzo Bellovacense attinge, parlando della calamita, da Plinio e da Isidoro da Siviglia, e riferisce anche il passo di Costantino; ma, sostituendo al vecchio un nuovo errore, attribuisce quel libro De lapidibus a Galeno. Il Mandeville, che tanti miracoli vide, ebbe a vedere anco questo; e poichè la relazion del suo viaggio fu una delle più divulgate scritture del medio evo, e molto giovò, senz'alcun dubbio, a diffondere vie più la notizia che del miracolo già s'aveva in Europa, non sarà inopportuno riferire, nell'antica versione italiana, le parole con cui egli lo vien descrivendo. "Ad Ormes sono le nave di legnio sanza chiovi di ferro per li sassi della calamita, della quale nel mare è tanta quantità, che è una maraviglia. E se per questi confini passassi una nave che avessi ferro, di subito perirebbe; però che la calamita tira a sè per natura el ferro. Per la quale cagione tirerebbe a sè la nave, nè più di là si potrebbe partire"... "in quel mare(il mare che bagna il regno del Prete Gianni, in India) in molti luoghi, sono molti scogli, e assai sassi di calamita, che tira a sè il ferro co la sua propietà; e per questo non passa nave ove sia chiovi o bandelle di fero. Questi sassi di calamita, per sua propietà, tirono le nave, e mai più di lì non si posono

partire. Io medesimo vidi in quel mare, di lungi a modo d'una isoletta, ove eranoalberi, spine e pruni in quantità; e dicevono e marinai, che ciò erano nave, che quivi erono restate pei sassi de la calamita; e perchè erono marcite, lì erono cresciuti questi alberi, spine, pruni e altre erbe, che vi sono in gran quantità. Questi sassi vi sono in molti luoghi in quele parte, e però non v'usano passare mercatanti, se egliono non sanno molto bene la via, o se e' non hanno buono guidatore". Pietro Berchorio e Felice Faber ridicono su per giù le medesime cose, e sul finire del secolo XVI, Simone Majolo ripete ancora la divulgatissima favola.

La qual favola non poteva non variarsi in più modi; onde abbiamo udito alcuni parlare d'intere isole di calamita, altri di singoli monti, altri di scogli sparsi pel mare; nè mancarono alcuni che, come Giovanni di Hese, dissero il fondo stesso del mare, in certi luoghi, formato di calamita, per modo che le navi, le quali vi passavano sopra, erano irresistibilmente inghiottite.

Nè farà meraviglia che monti e rupi di calamita, simili a quelli che s'immaginavano in mare, s'immaginassero pure entro terra. I monti ricordati da Plinio non sembra fossero in mare. Giovanni del Pian dei Carpini parla di una spedizione di Gengis Chan, la quale non sortì l'esito sperato, perchè certi monti di calamita attrassero a sè tutte le armi de' suoi soldati.

La tradizione orientale fu, senza dubbio, assai più copiosa dell'occidentale; ma noi non la conosciamo se non in piccola parte. So Sung, scrittore cinese dell'XI secolo, parla in un suo Erbario, citando certe Memorie delle cose meravigliose che si vedono nei paesi meridionali, di pietre di calamita giacenti nei bassifondi del mare che bagna le coste del Tonchino e della Cocincina, pietre che fermano le navi armate di lastre di ferro. Nel libro arabico sulle pietre attribuito ad Aristotele, e citato da Bailak Kibgiaki, si legge: "A detta d'Aristotele, si trova nel mare una montagna di calamita. Se le navi le si accostano, tutti i chiodi e l'altre ferramenta sono sconficcati dal legno, e volano come tanti uccelli verso il monte, senza che il legno li possa trattenere; e per tale ragione le navi che corron quel mare non hanno chiodi di ferro, ma sono tenute insieme da corde fatte con le fibre dell'albero di coco, fermate con caviglie di legno molle che gonfia nell'acqua. I popoli del Jemen legan pure le navi loro con liste staccate dalle palme. Dicesi inoltre che una simile montagna di calamita si trovi sulle coste del mare d'India, ecc.". Parlando dell'Africa orientale, Edrîsi fa ricordo di una

montagna per nome Agiud, la quale attrae a sè le navi che troppole si avvicinano: Abulfeda pone il Monte della Calamita in prossimità dell'Indo.

E nei mari d'india, o della Cina, lo pongono più generalmente coloro che ne parlano; ma nel poema tedesco di Gudruna esso è trasposto agli estremi confini dell'Occidente, e Guido Guinizelli scrisse:

In quelle parti sotto tramontana

Sono li monti della calamita,

Che dan virtute all'a're

Di trar lo ferro.

II.

Che questa immaginazione del Monte della Calamita(parlo solo del monte, perchè gli è quello che si trova ricordato più spesso) sia orientale di origine, e passata d'Oriente in Occidente, non si può, cred'io, dubitare. Ma come e quando passata la prima volta nessuno può dire. Non sarebbe forse troppo irragionevole congettura quella che la facesse giungere in Europa coi reduci della spedizione di Alessandro Magno, sebbene in Arriano, e negli altri narratori delle imprese del Macedone, e descrittori dell'India, non se ne trovi cenno. Ben si può tener per sicuro che l'antica memoria, raccolta da Plinio, fosse in varii modi, e a più riprese, rinfrescata, oltrechè da notizie di viaggiatori, da racconti giunti nei tempi di mezzo fra le genti cristiane per quelle medesime vie per cui giunsero, dal remoto Oriente, tanti altri racconti. Di ciò vedremo, tra breve, alcuna prova complessa; ma non sono da trascurare, per questo rispetto, certi parallelismi e riscontri che difficilmente si posson credere casuali e spontanei.

Ho notato nel racconto delle Mille e una Notte sommariamente riferito in principio, la sovrapposizione di un elemento estraneo ed eterogeneo a quello che senza dubbio dovette essere il tema primitivo e genuino. Per esso, il Monte della Calamita, perduta quasi la sua virtù naturale, diventa mezzo e strumento di magico potere. Che direm noi quando, in racconti occidentali, vedremo questo medesimo accoppiamento del Monte della Calamita con alcun magico artificio, ovvero il Monte fatto dimora di maghi e di fate? Nel poema tedesco anonimo intitolato: Reinfrit von Braunschweig, e composto sul finire del secolo XIII, o sul principiare del seguente, si narra una strana storia di un gran negromante per nome

Zabulon, il quale, dimorando sul Monte della Calamita, aveva letto nelle stelle la venuta di Cristo milledugento anni prima che accadesse, e per impedirla aveva scritto parecchi libri di negromanzia e di astrologia, delle quali scienze era inventore. Poco tempo prima che Cristo nascesse, Virgilio, uomo di gran sapere e di singolare virtù, avuta notizia di questo mago e delle male sue arti, navigò alla volta del Monte della Calamita, e mercè l'ajuto di uno spirito, riuscì a impadronirsi dei tesori e dei libri di lui. Venuto il termine prescritto, la Vergine potè dare alla luce Gesù. Enrico di Müglin narra in una sua poesia comeVirgilio, in compagnia di molti nobili signori, partisse da Venezia sopra una nave tratta da due grifoni, giungesse al Monte della Calamita, trovasse quivi, chiuso in una fiala, un demonio, il quale, a patto d'avere la libertà, gl'insegnò come potesse impadronirsi di un libro di magia, ch'era dentro una tomba. Avuto il libro ed apertolo, Virgilio si vide comparir dinanzi ottantamila diavoli, ai quali comandò subito di costruire una buona strada, dopo di che se ne tornò tranquillamente co' suoi compagni a Venezia. Queste fantasie fan capolino anche nel Wartburgkrieg. Di un magnifico palazzo, sorgente sul Monte della Calamita, e abitato da cinque fate, si narra nel séguito dell'Huon de Bordeaux in prosa, ed è senza dubbio tutt'uno collo chastel d'aimant descritto in una redazione tarda dell'Ogier. In un romanzo francese in prosa, composto probabilmente nel secolo XV, il Monte, o piuttosto lo Scoglio di Calamita è abitato da maghi e incantato, e per potersene allontanare, dopo esserne stati attirati, bisogna, conformemente a quanto è detto in certa iscrizione, gettar nel mare un anello, ch'è in cima alla rupe. Non è ciò singolarmente conforme a quanto si legge nel racconto del terzo calendero? S'avverta inoltre che nei lapidarii, dove molte immaginazioni si trovano venuteci dall'Oriente, la calamita è messa in istretta relazione con l'arti magiche. In quello attribuito a Marbodo si legge:

Deendor magus hoc(lapide) primum dicitur usus,

Conscius in magica nihil esse potentius arte.

Post illum fertur famosa venefica Circe

Hoc in praestigiis magicis specialiter usa.

Alberto Magno ed altri parlano ancor essi delle virtù magiche della calamita.

Dopo quanto abbiam veduto non ci parrà cosa troppo fuori del ragionevole che il Monte della Calamita diventasse il beato soggiorno, oltre che delle fate, anche di Artù, come si vede essere avvenuto in un

vecchio romanzo francese intitolato Roman de Mabrian, e ci sarà men difficile intendere come e perchè, nel poema di Gudruna, il Monte della Calamita s'identificasse col monte Gîvers, o Mongibello, dove una leggenda, di cui discorro in questo stesso volume, pose per l'appunto la dimora di Artù, e divenisse stanza di un popolo felice, che vive nell'abbondanza, ed abita in palazzi d'oro. A immaginare così fatta stanza e così fatto popolo, sollecitava anche, in certo qual modo, la credenza che le infinite navi tratte da ogni banda inverso il monte, vi recassero copia delle ricchezze tutte della terra.

Che l'idea di porre in relazione col Monte della Calamita i grifoni, facendo di questi un mezzo di scampo per alcuni naufraghi più ingegnosi e più arditi, sia ancor essa orientale di origine, parmi cosa, come vedremo tra breve, più che probabile. Beniamino da Tudela parla di certe, com'eglile chiama, angustie del mar della Cina, dalle quali le navi che ci si smarrivano più non potevano districarsi, onde, venendo a mancare le vettovaglie, conveniva che i naviganti si morissero di fame. Perciò i meglio avveduti portavano con sè pelli di buoi, e quando non rimaneva loro altro scampo, si avvolgevano in esse, e si lasciavan rapire da certe aquile grandi, che li portavano a terra; e così molti se ne salvavano. Fra quelle angustie del mare si cela di sicuro il Monte, o si celano, per lo meno, gli scogli, o i bassifondi di calamita, e quelle aquile grandi sono i ruc o roc delle novelle orientali, divenuti poi, in Occidente, grifoni.

In racconti occidentali il Monte della Calamita è posto spesso nel bel mezzo del Mare coagulato: così nel Herzog Ernst, di cui dirò or ora, nel Jüngere Titurel, ecc.. Il poema di Gudruna lo pone nel Mar tenebroso. Che sì fatti collegamenti fossero già prima avvenuti in Oriente, parmi probabile; ma vuolsi per altro avvertire che la fantasia doveva essere, non meno qua che laggiù, naturalmente inclinata a raccogliere insieme i pericoli tutti del mare; e gli è per ciò che, in parecchi racconti occidentali, al Mare coagulato, al Monte della Calamita, vanno a tener compagnia le sirene.

III.

Come in Oriente, così in Occidente, il Monte della Calamita non doveva figurare soltanto nelle relazioni più e men veridiche dei viaggiatori e nei trattati dei geografi e dei naturalisti, ma, come quello che poteva dare

argomento a descrizioni fantasiose e poetiche, e occasione a strane avventure, doveva, o prima o poi, figurare anche in racconti d'indole romanzesca, e, più particolarmente in quelli che narravano di lontane peregrinazioni, di favolose imprese. Non era quasi possibile ch'esso non trovasse luogo in quelli che, con nome appropriato, si potrebbero dire i romanzi del mare: se l'antico poeta, che narrò i lunghi errori e i patimenti d'Ulisse e de' compagni suoi, ne avesse avuta contezza, il Monte della Calamita sarebbe apparso probabilmente nell'Odissea, fuori dall'onde di alcun remoto ed incognito mare.

Dire a qual tempo risalga la prima redazione del racconto del terzo calendero nelle Mille e una Notte gli è impossibile ora; ma si può, per contro, indicare, se non altro con sufficiente approssimazione, il tempo in cui fu composto il più antico racconto romanzesco occidentale dove si parli del Monte della Calamita. Tale racconto è quello tedesco, ricordato pur ora, del Duca Ernesto, Herzog Ernst. La primitiva redazione latina di questa storia cavalleresca non s'è potuta rintracciare sinora; ma, da essa derivò, tra il 1170 e il 1180, un poema basso renano, di cui rimangono solo frammenti, e lacui sostanza passò nell'anonimo poema tedesco(tra l'XI e il XII secolo) dal quale io trarrò, ridotto in breve, il racconto che si riferisce al Monte della Calamita; in un altro poema, a torto attribuito a Enrico di Weldecke(composto tra il 1277 e il 1285); nel poema latino di un Odone(prima del 1230); in un racconto prosastico latino; in un racconto prosastico tedesco e popolare.

Nel più antico poema pervenuto intero sino a noi, il racconto procede nel modo che segue. Dopo lunga e faticosa navigazione, il duca Ernesto e i compagni suoi giungono in vista di un arduo monte, alle cui falde spesseggia come una gran selva di alberi di nave. Uno dei nocchieri, avendo riconosciuta la natura del monte, il quale s'alza fuori dalle onde pigre del mare coagulato, annunzia al duca e agli altri la rovina irreparabile. Alla forza attrattiva della calamita non è possibile di resistere: tutti quegli alberi sono di navi naufragate; la morte per fame attende i naufraghi. Udito così tristo annunzio, il duca senza smarrirsi, parla amorevole ai suoi, li esorta a innalzar l'anima a Dio, a pentirsi d'ogni errore commesso, a prepararsi ad entrare, con la divina grazia, nel regno dei cieli. Tutti si conformano alle sue esortazioni, ed intanto la nave, con impetuosissimo corso, s'approssima al monte, e a guisa di un cuneo si caccia tra l'altre navi, molte delle quali sono, per vetustà, marcite, e con ispaventevole fragore, sfondando fianchi e travolgendo

rottami, passa oltre, e cozza alla rupe. Le ricchezze perdute che s'offron quivi agli sguardi dei naufraghi son tali e tante che non si posson descrivere. Ma a che giovano? Il monte sorge in mezzo a remotissimo oceano e da nessuna banda si scorge la terra. A poco a poco vengon meno le vettovaglie; l'un dopo l'altro quei valorosi periscon di fame; soppraggiungono i grifoni e ne rubano i corpi, per pascerne i loro nati. Da ultimo rimangon vivi solo il duca e sette compagni, e delle provviste più non avanza se non mezzo pane. Allora il conte Wetzel, illuminato da una miracolosa idea, propone ai soci di avvolgersi in pelli di bue e lasciarsi rapir dai grifoni, non essendovi, fuor di questa, altra speranza di scampo. Il consiglio è accolto con applauso e con giubilo. Vestiti di tutte l'armi, si fanno, primi, cucir nelle pelli il duca ed il conte: vengono a volo steso i grifoni, li levano in aria, li portan di là dal mare. Quando si sentono sul sodo, i due fendono con le spade le pelli, balzan fuori, son salvi. E nella stessa maniera si salvano gli altri, meno uno, cherimasto ultimo, non ha chi lo ajuti ad avvolgersi nella pelle, e muore di fame. Ma, per partirsi dal luogo dove i grifoni li hanno deposti, i superstiti debbono abbandonarsi, sopra una zattera, al corso impetuoso di un fiume sotterraneo, il cui letto è tutto sparso di preziosissime gemme.

Ugone da Bordeaux, il noto eroe della gesta carolingia, corse gli stessi pericoli, si salvò nel medesimo modo; e tra il racconto che narra di lui e quello che narra del duca Ernesto non sono, per questa parte, se non picciole differenze e di poco rilievo. Ugone sopravvive solo ai suoi compagni di sventura, e perciò bisogna che si lasci rapir dal grifone senza ravvolgersi in una pelle di bue, e il grifone lo trasporta in un'isola paradisiaca, dove scaturisce una fonte e maturan pomi che hanno virtù di ridare la giovinezza, e d'onde l'eroe non può altramente partirsi che affidandosi al corso di un fiume sotterraneo, in tutto simile a quello descritto nel poema del duca Ernesto. La differenza maggiore si nota, non tra le avventure dei due cavalieri, ma tra i due cavalieri medesimi. Ernesto affronta impavido il periglio e la morte, incuora e sorregge i suoi: Ugone piange, si dispera, sviene, è confortato dai suoi, scambia i grifoni per diavoli. Egli è di quella picciola schiera di eroi, non meno timorati e piagnucolosi che prodi, a cui appartengono anche Ugone d'Alvernia e Guerino il Meschino.

Non è chi non avverta subito la somiglianza grandissima che questi racconti occidentali, oltrechè col racconto del terzo calendero, hanno con quello del sesto viaggio di Sindbad il navigatore, quale si legge pur esso

nelle Mille e una Notte. Anche la nave di Sindbad è tratta irresistibilmente verso un monte le cui radici sono ingombre di rottami di navi naufragate e d'infinite ricchezze; anche Sindbad, solo sopravvissuto ai compagni periti di fame, scampa, lasciandosi trascinare, sopra una zattera, da un fiume copioso di gemme, che scorre sotterra. E io credo che i racconti occidentali porgano, se non una prova, un indizio, che il racconto orientale è, in certo punto, difettoso o alterato, e dieno anche modo di restituirlo alla integrità e sincerità primitiva. Sindbad non dice che il monte ov'ei naufragò sia il Monte della Calamita; ma che tale fosse veramente in origine parmi si possa argomentare dalle particolarità stesse della descrizione, e dai collegamenti che hanno i varii racconti tra loro. Per le ragioni medesime credo s'abbia ad identificare col Monte della Calamita la montagna smisurata, e lucida come se fosse di acciajo forbito, verso la quale è trascinata la nave di Abulfauaris nei Mille ed un Giorno. Aquesto proposito un riscontro curioso e notabile. Nella storia prosastica latina del duca Ernesto si dice che il Monte della Calamita sorgeva tutto corrusco dall'onde, come se fosse di fiamma viva.

Molti altri eroi, oltre al duca Ernesto e ad Ugone da Bordeaux, corsero questa memorabile e gloriosa avventura. Ho già accennato a racconti intessuti nella Gudruna, nel Reinfrit von Braunschweig, nel Jüngere Titurel, in una tarda redazione dell'Ogier, ecc.: ricorderò ancora la storia tedesca di Enrico il Leone, e una redazione, pure tedesca, del viaggio di quel San Brandano cui nessuno dei miracoli del mare doveva rimanere occulto. La molteplicità e varietà di sì fatti racconti mostrano quanto diffusa e celebre fosse in Europa l'antica favola nata in Oriente, la favola che il Goethe ricordava d'avere udito narrare quand'era ancora fanciullo.

APPENDICE

Séguito dell'Huon de Bordeaux in versi, nel cod. L, II, 14 della Nazionale di Torino, f. 360 v., col. 1ª, a f. 362 v., col. 2ª.

Giuda, l'apostolo traditore, dannato a perpetuo castigo in mezzo a un gran vortice del mare, annunzia ad Ugone la vicinanza della calamita e l'imminente naufragio.

"Tu ies perdus", ce li a dit Judas;

Car ens u gouffre a l'aymant en bas".

Li maronniers et Hues se seigna;

Tenrement pleurent, car cascuns s'esmaia.

III jours siglerent puis c'ont laissié Judas:

Li maronniers remonte sor le mast,

Devant lui garde tant que bos veu a.

Li maronniers, quant le bos ot coisi,

Moult liement l'a dit a Huelin:

"Je voi la bos a .xx. liues de chi"

"Vrais dix" dist Hues, "je vous en rench merci!

Moult a lonc tans que jou terre ne vi.

Quant bos i a, de la terre ist il".

Atant s'en vont et ont siglé tous dis,

Tant qu'a .iij. liues li maronniers pres vint:

Dont choizi mas et grans callans gentis,

Nes et dromons et grans callans de pris.

Adont s'escrie: "He las, je suis trais!

He bons quens Hues, or nous convient morir!

C'est l'aymans que je voi devant mi:

Jamais de lui ne porrons mes partir".

"He las!" dist Hues "pour coi fui aine nasquis

Quant il m'estuet en tel liu prendre fin?"

il voit tant barge et dromons et sapins:

Detant de naves s'est Hues esbahis.

"Par foi", dist il "se trestous li pais

Qui onques fussent arrivassent ichi,

S'a il trop barges et dromons entour li.

He, aymans, con tu fais a hair!

Tante persone as ci faite morir".

La nef aproce, pres de l'aymant vint,

Tant aussi près qu'elle se pot tenir.

Quant ele areste dont pleure Huelins.

"Si m'ait dix!" li maronniers a dit:

Jamais nul jour ne partirons de chi.

Confessons nous, qu'il nous convient morir;

Si nous estoit la vitaille partir".

Or est li nave a l'aymant tournée.

Le jour entier ne font el qu'il plorerent

Dusqu'au demain que l'aube aparut clere.

Li maroniers dist Huon sa pensée:

"Biax sire Hues, par la vertu nommée,

De no vitaille iert droiture moustrée.

Il est droiture parmi la mer salée

Que la moitiés est au seignour donnée".

"Amis", dis Hues, "c'est bonne destinée;

Ja de par moy ne sera refuzée".

Li .xiiij. homme la vitaille aporterent;

Dont le partirent, a Huon l'ont livrée:

En une nave l'a Huelins posée;

Tant que porra iert sa vie salvée.

Dont fu sa terre durement regrettée,

Et Esclarmonde qu'il avoit espouzée:

"Suer douce amie, ci a grief destinée.

Je vous avoie de vo terre jetée;

Royne fasses de fin or couronée,

En poverté vous ai mize et pozée.

He, quens Raoul, mal de l'ame ton pere!

Par toi sui jou caciés de ma contrée.

Auberon sire, ma fois iert parjurée.

A vous de voie aler la tierce anée;

Mais jou voi bien que ma vie iert outrée".

Dont se pasma; sa gent pour lui plorerent:

Au redrecier moult bel le conforterent.

Quant Hues fu de pasmisons levés,

Tenrement pleure, ne se puet acesser.

Li maronier l'ont moult réconfortè:

"He, Hues sire, que vaut vostres plourers?

Ains pour duel faire ne vi riens conquester".

"Seignour", dist il, "jou le lairai ester,

Car je voi bien ne le puis amender".

II moys et plus ont iluec sejorné;

Mais a court terme les converra finer,

Car lor vitaille ne puet plus lor durer.

Quant Hues voit ses homes empirer,

Et de famine et morir et enfler,

De sa vitaille lor commence a doner:

Tant lor depart li gentis adoubés

Qu'il n'en a mais qu'a .iiij. jours passer.

Et non pourquant sunt tout mort et outré,

Fors que Huon n'en a plus demoré.

L'un apres l'autre les voit Hues finer;

Dont les commence Hues a regreter:

"He las" fait il, "franc chevalier membré,

O moi venistes par si grant amisté;

Or estes mort et a vo fin alé;

Or ait Jhesus de vos ames pité".

Dont se perchoit Hues qu' est esseulés,

N'il ne set mais a cui il puist parler.

"He las", dist il, "con poi me doi amer

Quant chi me voi en si grant poverté,

Ne je ne puide cest liu escaper.

Auberon sire, or m'as tu oublié:

Malabron frere, je ne t'os apeler.

En tante painne as pour mon cors esté,

Li cuers du ventre me deveroit crever".

Entre ses mors s'est Huelins clinés:

N'est hom vivans, s'il l'oist dementer,

Et Esclarmonde sa femme regreter,

Et les barons qu'o lui ot amenés,

Que grant merveilles n'en eust grant pité.

Moult parfu Hues li quens en grant freour

Quant il se voit enclos en mer majour.

"Sainte Marie", dist Hues li frans hom,

"Tant ai eu et grietés et dolors,

Ains n'en eut tant nus caitis a nul jour.

Oublié m'a li bons roys Auberons,

Et sa maisnie et li preus Malabrons.

Or voi je bien jamais ne me verront.

Mort sunt mi home, dont j'ai au ceuer dolour,

Car pour .i. poi que li cuers ne me font.

Pucelle dame, mere au creatour,

Tante miracle a Jhesus fait pour vous;

Je vous reclaimme con uns hom peurous.

Destroit de mort est forment soufraitous;

Vo doulch enfant, cui je tieng a seignor,

Voellies priier qu'il m'oste de dolour,

La ou je sui en si grant tenebrour.

Tres douce dame, tant aves de valour;

Qui vous reclaimme bien doit avoir secours.

Tant crierai apres vous nuit et jour,

Que s'il vous plaist vous en ares tenrour".

Ensi que Hues crioit sa garison,

Une noise ot venir par mer majour,

Et avolant voit venir .i. griffon,

Qui est plus grans c'uns destrier de valour.

Tant a volè par la mer a bandon,

Que pour .i. poi que en l'aigue ne font.

Envers les naves venoit a garison;

Des mors avoit sentu la flairison;

Si les vient querre pour porter ses faons.

Quant li quens Hues voit le griffon venir,

Qui plus est grans c'uns destrier arrabis,

De sor le mast de sa nef est assis;

Tout le conploie du grant branle qu'il fist.

Tant ot volé que moult fu amatis,

Car pour .i. poi qu'en la mer n'est flatis;

Fors de la goule li langue li sali;

Le bec ot lonc bien .ij. pies et demi;

Grans ot les ongles, u mast les enbati,

Tous li plus cours ot bien piét et demi.

Or cuide Hues ce soit uns anemis:

N'est pas mervelle s'il ot paour de lui.

Il le regarde; tous li sans li bouli:

Repus estoit pour le griffon veis:

La mere dieu reclama de cuer fin:

"Très douce dame, royne genitris,

Je vous aour au soir et au matin,

Et vous reclaimme de vrai cuer enterin.

Secoures moi, s'il est vostres plaisirs,

Que ne m'ocie cis cuivers anemis.

Las, je croi bien qu'il m'a assenti!"

Et li griffons quant son repos ot pris,

Tourne sa teste et regarda son pris:

Moult se hirece; en la nef descendi;

.I. des mors hommea ses ongles saizi,

Sor le mast monte, a voiler s'escuelli.

Hues se saigne, a regarder le prist,

Et li oisiax s'en vola sans detri,

A ses faons liés et joians s'en vint:

Chascun jour va pour les mors Huelin.

Li bons quens Hues forment s'esmerveilla

Pour le griffon qui sa gent emporta.

"Vrais dix", dist Hues, "qui le monde formas,

En a il terre la ou cis oisiax va?"

D'une mervelle quens Hues s'apensa,

Qu'en aventure le cors de lui metra;

A cel oizel son cors abandonra;

S'il plaist a diu a terre le metra.

A dameldiu de euer se confessa,

Dame Esclarmonde de bon cuer regreta,

Et Clarissette, sa fille qu'engenra:

En plorant dist que mais ne les verra.

Bien s'est armés; .ij. haubers endossa,

Puis chaint l'espée, près de lui le sacha;

Son hiaume lace, en son cief le ferma;

Entre les mors en plourant se coucha;

Et li griffons par la mer avolla,

Grant bruit demainne, si s'assist sor le mast.

Hues le voit, tous li sans li mua,

Et li oisiax vollentiers l'esgarda,

Ains des armures forment s'esmervilla.

Li oisiax pense cis est et gros et cras,

A ses faons, s'il puet, l'emportera.

Repozés fu, a Huon s'adrecha,

Ses trenchans ongles u haubert li enbat,

Toutes ses armes erramment li percha,

Demie paume li fiert dedens le char.

Hues le sent ne mais crier n'osa,

Les dens estrainst pour l'angoisse qu'il a,

Et li oisiaus a tout lui si s'en va.

Deseur la mer li griffons s'aridele,

De ses .ij. elles moult durement ventele,

Huon as ongles detrence le char bele,

Li sans li foite, entour lui s'aclotele;

Souspirer n'oze, le chief ot desous l'elme,

Ains dist embas: "Sainte Marie belle,

Secoures moi; je croi que jou voi terre".

Une montaigne acoiste moult bele;

Chou est une ille a l'amirant de Perse.

Mais ains nus hom ne monta en la terre

Pour les oisiax qui i font tel moleste;

Iluecques sont et si ont lor repere.

Sains est li lix et la montaigne bele;

Ains n'i vit nuis orage ne tempeste.

La repoza Jhesucris nos salveres;

Si le saigna de sa main digne et bele.

De tous les fruis c'on a veu sor terre

La plenté gisant sunt desor l'erbe:

Bel sont li arbre gent et haut et honeste.

En la montaigne ot une fontenele

Que dix i fist quant il alla par terre.

Contre soleil ot une ente moulte bele,

Les brances vont tout entour dusc'a terre;

La est li fruis de jovent par ma teste:

Sous ciel n'a home, pucelle ne ancelle,

Que s'il avoit .m. ans vescu sor terre,

S'ele en mengast ne sainblast jovencele.

Iluec descent li griffons desor l'erbe;

Huon met jus, n'i a fait lonc arreste,

Qu'il avoit pris a l'aymant rubeste.

FINE DEL VOLUME SECONDO E DELL'OPERA.