Arturo Graf

"Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. I"

CAPITOLO I. SITUAZIONE DEL PARADISO TERRESTRE.

Dice la Genesi che Dio piantò il mirabil giardino nella parte orientale di una regione chiamata Eden; e questo cenno fece prevaler la credenza ch'esso fosse stato, o fosse tuttavia, nella parte orientale della terra, o, a dirittura, nell'estremo Oriente. Tale fu, come può rilevarsi da Giuseppe Flavio, la comune credenza degli Ebrei; e tale fu pure la credenza più accetta, nei primi secoli, ai Padri della Chiesa, e poi nel medio evo, e oltre il medio evo, a teologi, a viaggiatori, a romanzatori, a cosmografi. San Basilio Magno dice che i cristiani pregano volti ad Oriente, quasi cercando la patria perduta; e Jesujabo, vescovo nestoriano di Nisibi nel secolo XII, reca, come argomento della superiorità dell'Oriente sull'Occidente, il fatto che il Paradiso terrestre è appunto in Oriente.

A confermare tale credenza cooperava del resto una ragione alla quale è forse da far risalire, in qualche parte, la stessa indicazione biblica. Basta ripensare un istante ai caratteri e agli officii proprii del sole in tutte le mitologie, e in ispecie del sole nascente, per tosto avvedersi che l'Oriente, cioè quella plaga della terra onde si leva l'astro datore di vita e dispensator di letizia, doveva, in virtù di un'associazion di concetti non meno naturale che inevitabile, parer la più acconcia a porvi la culla dell'uman genere, il giocondo ricetto della prisca felicità e della vita immortale. Che se più tardi noi troviamo il Paradiso trasposto in altre regioni, o, a dirittura, nell'ultimo Occidente, ciò avviene, come vedremo, per ragioni particolari e avventizie, le quali, posteriori di tempo, nulla detraggono a quella ragion generale e primitiva. Nè prova nulla in contrario il fatto che l'Elisio, le cui descrizioni, come di stanza di beati, concordano in molte parti con quelle del Paradiso terrestre, ponevasi dagli antichi nell'ultimo Occidente, nella regione cioè ove si occulta il sole, e muore il giorno; perchè l'Elisio era stanza, non di vivi ma di morti,

e perciò immediatamente prossima all'Hades. L'opinione pertanto più antica, ed anche, data l'indole del pensiero mitico, più razionale, era quella che situava il Paradiso terrestre in Oriente, e ad essa si legava naturalmente, per le stesseragioni, l'altra che faceva volta ad Oriente la porta(quando si parlava d'una e non di più porte) del Paradiso medesimo. Da altra banda, il non trovarsi più vestigio di esso nelle regioni prima cognite dell'Asia, e poi nelle regioni che furono conosciute più tardi; e quella natural tendenza che induce gli uomini a immaginare come lontanissimi da loro, dalle loro consuete dimore, i luoghi di sognate meraviglie e di sognata felicità, dovevano esser ragioni atte a far trasporre il Paradiso terrestre in un Oriente sempre più remoto ed arcano. Nell'apocrifo etiopico, d'incerta età, intitolato Combattimento d'Adamo ed Eva, si dice che Dio piantò il giardino paradisiaco il terzo giorno, ai confini orientali del mondo, di là dai quali non v'è più se non l'acqua che circonda la terra e attinge il cielo. Perciò la credenza che il Paradiso fosse in Mesopotamia, credenza suggerita dallo stesso racconto biblico là dove nomina il Tigri e l'Eufrate, se trovò in ogni tempo, e anche ai dì nostri, chi l'accolse e difese, non però si può dire che sia stata la più diffusa. e, anzi, nelle leggende di cui avrò a parlare più oltre, non compare nemmeno.

Fare una enumerazione di tutti gli scrittori sacri e profani, antichi e del medio evo, i quali si contentarono di dire che il Paradiso terrestre è in Oriente, senz'aggiungere altra più precisa indicazione, sarebbe fatica non meno incresciosa che vana: essi sono, starei per dire, innumerabili. A noi importano ora le notizie, o le affermazioni, le quali, riferendosi pur sempre all'Oriente, sieno in qualche modo più specificate e più precise.

Molte mappe del medio evo pongono il Paradiso terrestre in terra ferma, nell'India, o di là dall'India, in una regione incognita, all'estremo limite della terra bagnata dall'oceano che tutto circonda; e di là dall'India lo posero l'Anonimo Ravennate e la più parte dei trattatisti, espositori e commentatori ch'ebbero a parlarne. Non aveva già detto Erodoto che quanto è di più bello al mondo si trova agli estremi confini della terra abitata? Nel secolo XV la credenza per questo rispetto non muta. Le mappe di Andrea Bianco(1436), di Giovanni Leardo(1448), del Museo Borgia, altre, seguitano a porre il Paradiso nell'India, o di là dall'India. Ma la nozione era di necessità confusa ed incerta. Nel secolo XIV, Giovanni di Mandeville afferma di essere stato in India, ma di non aver veduto il Paradiso, il quale è in regione assai più lontana; mentre Giordano da

Sévérac riferisce una credenza secondo cui il Paradiso sarebbe stato fra quella che si chiamava la terza India e l'Etiopia. Nel secolo XV, Fra Mauro colloca il Paradiso in Oriente, molto remoto dala habitatione cognition humana; ma non segna nella sua mappa il luogo preciso. Da molti il Paradiso terrestre ponevasi nel Regno del Prete Gianni, o in prossimità di quello, come vedremo più innanzi; regno che mutò più d'una volta luogo sulla faccia della terra, secondo il bisogno della leggenda; ma che fu da prima in India, o da quelle parti.

Dice Ranulfo Higden, nel suo Polychronicon, esser falsa la opinione di coloro che credono il Paradiso disgiunto dalla terra abitata per lunga distesa di mari; ma bisogna pur riconoscere che tale opinione professata, fra gli altri, nel nono secolo, da Valafredo Strabone e da Remigio di Auxerre, e accennata da Rabano Mauro, doveva imporsi, come quella che meglio s'accordava con certi sentimenti, e appagava la fantasia, a molti spiriti. L'isola felice e la città d'oro dei Vidyâdhari, di cui si racconta nel libro di novelle di Somadeva, son poste anch'esse in parte remotissima ed ignota del mondo, e molte altre immaginazioni affini si potrebbero qui recare a riscontro, delle quali sarà detto più opportunamente altrove.

Quella opinione prendeva due forme diverse, secondochè il Paradiso si faceva sorgere nell'antictone di Aristotele e di Eratostene, ossia nella terra opposta all'abitata, divisa da questa dall'oceano innavigabile; oppure in un'isola, remota sì da ogni contrada popolata dagli uomini, ma appartenente nulladimeno al nostro emisfero.

Già Sulpizio Severo, nel IV secolo, dice, parlando dei primi parenti, che essi furono cacciati come esuli nella terra da noi abitata, in nostram velut exules terram ejecti sunt; e in quello stesso secolo Efrem Siro, ne' suoi Commentarii sulla Genesi, andati perduti, colloca il Paradiso nell'antictone; ma Cosma Indicopleuste, nel VI, espone tutta una sua dottrina in proposito la quale ha strettissima relazione con antiche dottrine asiatiche, e, senza dubbio, ne dipende. Cosma immagina la terra oblunga, e divisa in due parti, delle quali l'una è interna e circondata dall'oceano, l'altra è esterna, cinge l'oceano e si congiunge col cielo, volto in alto e all'ingiro a modo di cupola. Il Paradiso è nella terra esterna, verso Oriente, e in quella terra rimasero gli uomini sino al Diluvio. Noè, con l'Arca, traversò l'oceano, e approdò in Persia, d'onde la sua progenitura si sparse in questa parte di mondo ch'è ora abitata, mentre l'altra, che fu prima abitata, ora è deserta. I quattro fiumi

dell'Eden s'inabissano laggiù nella terra, passano sotto l'oceano, e riscaturiscono di qua, dalla parte nostra. Sia ricordato, di passata, che gl'Indiani immaginano un altro mondo(loka) di là dai Sette Mari, e che di là dall'oceano immaginano gli Arabi la montagna di Kâf. Mosè Bar-Cefa, nel secolo X, pose ancor egli il Paradiso nell'antictone; e tale opinione, avvalorata dal fatto (contraddetto,come poi vedremo, da molti sogni che pure avevansi in conto di fatti) che il Paradiso, per quanto si fossero corse le terre ed i mari, non s'era mai potuto rinvenire, ebbe non pochi seguitatori, Dante fra gli altri.

Che Dante, ponendo il Paradiso terrestre sulla cima del monte del Purgatorio, fece cosa non caduta in mente a nessuno dei Padri e Dottori della Chiesa, fu notato già da parecchi; ma che, quanto alla situazione del Paradiso, l'opinione di lui s'accorda con quella dei Padri e Dottori che lo posero nell'antictone, non fu, ch'io sappia, fatto osservare da alcuno. Conformemente alla comun dottrina de' suoi tempi, Dante crede che la terra emersa, la Gran secca, com'egli la nomina, sia tutta nell'emisfero settentrionale, e non si stenda se non picciol tratto(circa 11 gradi secondo Tolomeo) oltre l'equatore. L'emisfero meridionale è occupato dalle acque dell'oceano, salvo che in un punto dove sorge il monte del Purgatorio, diametralmente opposto alla città di Gerusalemme. Notisi tuttavia che de' quattro fiumi egli non dice parola. Quel viaggio sotterraneo, che altri faceva compiere loro, doveva destare troppe obbiezioni nella mente di chi aveva disputato la questione De aqua et terra, e aveva così giusta cognizione della legge di gravità.

Molto più diffusa fu l'altra opinione, che poneva, come ho detto, il Paradiso in un'isola del nostro emisfero, la quale quando è in Oriente e quando in Occidente, secondo le immaginazioni. Poichè io parlo ora della general credenza che assegnava il Paradiso all'Oriente, dirò, prima, dell'isola, o, piuttosto, dell'isole orientali, salvo a dir delle occidentali un po' più innanzi, quando parlerò di un'altra credenza principale. In tanto viluppo ed intreccio d'immaginazioni, le quali spesso nascono le une dalle altre, gli è affatto impossibile di serbare, discorrendone, un ordine logico molto rigoroso.

Ma, prima di passar oltre, non sarà fuor di luogo ricordare che l'idea di porre in un'isola segregata la stanza dei beati, o di attribuire ad isole remote ed incognite una felicità non concessa al resto della terra, è una idea naturale, molto antica e molto diffusa. L'Elisio fu posto in una o più isole; e tutti sanno quanto dagli antichi siasi favoleggiato intorno alle

famose Isole Fortunate. L'isola dei Feaci, e l'isola di Ogigia, descritte da Omero, sono terre di letizia e di felicità; e l'isola di Pancaja, descritta da Diodoro Siculo, ha con l'Elisio non piccola somiglianza. L'Atlantide di Platone e la Merope di Teopompo erano immuni dagl'infiniti mali cui vanno soggette l'altre contrade abitate dagli uomini. Oltre al monte Kâf, gli Arabi avevano l'isola di Vacvac, ricordata nei viaggi di Sindbad delle Mille e una notte, e di cui tante meraviglie narrano Masûdi e altri;e avevano le isole Saili, le quali erano di tanta vaghezza e felicità che chi vi approdava dimenticava il resto del mondo. Di un'isola dalle poma d'oro narrarono le meraviglie i Celti.

L'isola paradisiaca sorgeva dalle acque di quel misterioso oceano che fasciava tutto intorno la terra abitabile. L'immaginazione di quest'oceano, antichissima, dacchè, prima che nei poemi di Omero e di Esiodo, trovasi in India e in Caldea, durò viva quanto il medio evo. Isidoro di Siviglia l'accetta, e l'accetta ancora il Boccaccio, quando il medio evo si chiude: le mappe la figurano. Notisi, a tale riguardo, che, secondo Giuseppe Flavio, il fiume il quale esce dal Paradiso, cinge tutta la terra, e che San Giovanni Damasceno fa di quel fiume e dell'oceano circondante una cosa sola.

E molte mappe figurano anche l'isola, posta bensì in Oriente, ma non sempre, come si può ben credere, nel medesimo luogo. Di solito essa non è designata con altro nome che quello di Paradiso, o Isola del Paradiso. Nel poemetto che Cinevulfo(secolo X) compose intorno alla Fenice, è detto che Dio pose l'isola santa così lontano dai peccatori che nessuno può giungervi, e Dante fa un'isola del monte che si leva più dall'onda. Una compilazione francese di storia antica, che passò in traduzioni italiane, la ricorda, e dice che è una dolcie contrada, ed è assisa verso oriente, nel gran mare che tutto il mondo atornea. Talvolta l'isola paradisiaca prende un nome, o s'identifica con un'isola, non più immaginaria, ma reale. Giovanni Witte di Hese(di Hees, Hesius) che negli ultimi anni del secolo XIV compiè con la fantasia, senza muoversi da Utrecht, ov'era prete, un meraviglioso viaggio in Oriente, e ne scrisse, in latino, un racconto che fu messo a stampa sino dal 1489, dice che egli e i compagni suoi, lasciate le terre del Prete Gianni, giunsero, dopo dieci giorni di navigazione, a un'isola deliziosa, detta Radice del Paradiso, e dopo dodici altri giorni, al monte Edom, il quale si leva erto e diritto di mezzo il mare, come un'altissima torre, sicchè da nessuna parte vi si può salire, e in cima ad esso si vuole che sia il Paradiso: "e circa l'ora del

vespero," quando il sole declina, "si vede il muro del Paradiso splendere di gran chiarità, e vaghissimamente a mo' di stella". Di questo monte e isola di Edom, il cui nome è, con tanta disinvoltura, tolto alla Palestina, non so che sia fatta menzione altrove.

Giovanni de' Marignolli, vescovo di Bisignano, che, insieme con altri, fu da Benedetto XII(1334-1342) mandato in missione al Gran Cane dei Tartari, afferma, nel suo Chronicon, che il Paradiso è a quarantamiglia italiane dall'isola di Ceilan, d'onde si ode il fragore e lo scroscio delle sue acque cadenti. Egli si vanta d'avere superato la gloria del massimo Alessandro, il quale, pervenuto all'ultimo termine della sua peregrinazione, eresse, a perpetua memoria, una colonna, e di avere, nel cono del mondo, in cono mundi, alzata, di contro al Paradiso una lapide, e sparsovi sopra dell'olio. Ricorda la opinione di alcuni, i quali asserivano in Ceilan stessa essere stato il Paradiso; opinion ch'ei rifiuta, parendogli contraddetta dal nome. Sta a ogni modo il fatto che alcuni ponevano il Paradiso in Ceilan, e vedremo, in altro luogo, parecchie ragioni di così fatta credenza.

Che il Paradiso dovesse essere nella zona torrida, sotto il tropico del Cancro, o a dirittura sotto l'equatore, fu opinione antica benchè non molto diffusa. Tertulliano credeva che per il flammeum gladium della Genesi s'avesse appunto a intendere la zona di massima caldura, e fu in tale sua credenza seguito da Filostorgio, da San Tommaso d'Aquino, da San Bonaventura, e da parecchi altri. Ma a tale opinione contraddicevano molti, cui sembrava non la si potesse accordare con quanto sapevasi del temperatissimo clima del Paradiso, e della copia delle sue acque; al che rispondevano quei primi con dire che la troppa caldura poteva essere mitigata dall'altitudine e da altre condizioni. Al punto d'intersezione dell'equatore e del gran meridiano, gli Arabi posero il Castello d'Arîn, di malagevole accesso, e il trono d'Iblîs.

Efrem Siro fu di opinione che il Paradiso, di là dall'oceano, circuisse tutta la terra; al qual proposito è da ricordare che anche dell'Hara-berezaiti dei Persiani fu da taluno creduto altrettanto, e che Plutarco parla di un continente che cinge tutto intorno la terra(μεγαλη ἤπειρος) contrapposto al continente abitato(ἡ οἰκουμένη). Altri andaron più oltre, e sostennero che il Paradiso si dovette stendere sopra tutta la superficie della terra, senza di che non avrebbe potuto contenere l'intero genere umano, che vi doveva avere sua dimora, durando in istato d'innocenza. Tale opinione professò ancora in pien secolo XVI, Gioachino di

Watt(Vadianus Sangallensis) nel suo Trium terrae partium epitome.

Ma altre opinioni correvano, affatto a queste contrarie. Sin da' tempi di San Teofilo di Antiochia(m. c. 181) c'era chi dubitava se il Paradiso fosse mai stato in terra, dubbio ch'egli combatte; e San Gerolamo ricorda una tradizione ebraica, secondo la quale il Paradiso sarebbe stato creato avanti il mondo, e però fuori de' suoi confini. I Valentiniani lo posero sopra il terzo cielo; e i musulmani credono ch'esso fosse nei cieli, e che Adamo, cacciato, cadesse nell'isola di Serendib(Ceilan), e che quivi morisse dopo aver fatto un pellegrinaggio al luogo dove poi doveva sorgerela Mecca. In un manoscritto del Museo Britannico si legge che il Paradiso è meravigliosamente sospeso fra il cielo a la terra, quaranta cubiti sopra il più alto livello raggiunto dalle acque del Diluvio, che, com'è noto, superarono di quaranta cubiti le cime delle più alte montagne. Altri pensarono che il Paradiso fosse bensì stato in terra, ma che Iddio, corrucciato, l'avesse distrutto il giorno stesso del peccato, o avesse più tardi permesso che lo distruggesse il Diluvio. E qui è da dir qualche cosa della opinion di coloro i quali credevano che il Paradiso fosse stato in Gerusalemme. Tale opinione è già impugnata, nel IV secolo, da Sant'Atanasio, arcivescovo di Alessandria; ma bisogna riconoscere ch'essa non era sorta senza qualche plausibile ragione, e che pareva formata a bella posta per secondare certe tendenze della coscienza religiosa e per appagare certi sentimenti dei fedeli. Dice Ezechiele in un luogo delle sue profezie(V, 5): Ista est Jerusalem: in medio gentium posui eam et in circuitu ejus terras. Questo luogo, malamente interpretato, fece nascere la credenza, serbata poi lungamente, che Gerusalemme fosse collocata nel centro del continente abitato. Ora, è noto quanto la fantasia cristiana sia stata vaga nei primi secoli, e poi nei secoli di mezzo, di collegar fra loro, col sussidio di varie immaginazioni, più che non avvenisse nel puro concetto dottrinale, i fatti varii della caduta e della redenzione del genere umano, e di conferir loro, oltre alla continuità e unità morale, anche una certa continuità e unità materiale. Si credeva dai più che Adamo ed Eva, cacciati dal Paradiso, fossero poi vissuti in luogo prossimo a quello; si credeva che Adamo fosse stato sepolto sul Calvario; che la croce, fatta del legno dell'albero fatale, che aveva dato esca al peccato, fosse sorta su quella tomba, e che il sangue del redentore avesse bagnate le ossa del primo peccatore. Come non credere allora che l'opera stessa della redenzione si fosse compiuta nel proprio luogo ov'era stato commesso il peccato, e che in quel luogo appunto fosse sorta la città santa e predestinata?

Dante pose il Paradiso terrestre agli antipodi di Gerusalemme; ma parecchi dopo lui, sin oltre il secolo XVI, seguitarono ad aver l'opinione che il Paradiso fosse stato in Giudea.

Se non che questa credenza, e la precedente, ebbero poco seguito, e incomparabilmente maggiore l'ebbe l'altra, la quale affermava, non solo che il Paradiso era stato veramente in terra, ma ancora ch'esso ci si trovava tuttavia, serbato incolume, nella sua condizion primitiva. Di ciò vedremo in seguito molte prove.

L'Elisio di Omero, le Isole dei beati di Esiodo, gli Orti delle Esperidi, mutarono più volte luogo sulla facciadella terra col mutare dei tempi, e altrettanto può dirsi del Meru indiano, dell'Hara-berezaiti iranico, del monte su cui, dopo il Diluvio, si fermò l'Arca ecc. Allo stesso modo mutò luogo il Paradiso terrestre, salvo che il mutar suo non fu, di regola, come in altri casi avvenne, effetto di migrazioni; ma fu più spesso effetto di speculazioni e interpretazioni discordi, e talvolta di alcuno accrescimento del sapere, o di alcuna scoperta geografica; e, più frequentemente ancora, della irrequietezza stessa della fantasia, della mobilità della leggenda. E al mutar suo, almeno in un caso molto importante, non fu estraneo l'influsso di certi miti dell'antichità, e non furono estranee le speciali condizioni di vita e di pensiero di alcuni popoli che non entrarono se non tardi a far parte della grande famiglia cristiana.

La credenza più antica e più diffusa era, come abbiam veduto, quella che poneva il Paradiso in Oriente; ma di contro ad essa vediam sorgere una opinione contraria, che pone il Paradiso in Occidente, quando più a settentrione, quando più a mezzodì. Già sin dal primo secolo dell'èra volgare, gli Esseni, cedendo, senza dubbio, all'influsso di miti pagani, ponevano di là dall'Oceano Atlantico il soggiorno dei beati. I Celti non avevano diversa credenza. Secondo la dottrina loro, "gli uomini hanno per primo progenitore il dio della morte, e questo dio abita una regione lontana, di là dall'Oceano; egli ha sua dimora in quell'isole estreme, d'onde, secondo l'insegnamento dei druidi, era venuta direttamente una parte degli abitanti della Gallia". - "Secondo le credenze dei Celti, i morti vanno ad abitare di là dall'oceano, verso Mezzodì, là dove si corica il sole la più parte dell'anno, in una regione meravigliosa, che vince di gran lunga, per gioje e seduzioni, questo mondo di qua. Da quel paese misterioso traggono origine gli uomini". Queste credenze, hanno, come si vede, molta somiglianza con quelle dei Greci e dei Romani, ed è anzi probabile che abbiano esercitato sopra di esse un influsso non lieve,

concorrendo a fare spostare, specialmente verso il Settentrione, l'isola di Saturno e il regno dei morti. Da altra banda, le immaginazioni dei Greci e dei Romani non potevano non esercitare alla lor volta un notabile influsso su quelle dei Celti. Mutata la fede religiosa, molte delle antiche credenze naturalmente sopravvivevano, accordandosi, fondendosi con le nuove, e in più varii modi alterandone il concetto e la natura. Gaeli e Cimri favoleggiavano di un meraviglioso paese, il quale sorgeva in mezzo all'oceano profondo, e i cui abitatori, bevendo le acque dolcissime della fontana di gioventù, non conoscevano nè la vecchiezza, nè i morbi. Un tal paese, nelle menti dei convertiti, dovevanecessariamente identificarsi col Paradiso terrestre; ed è per questo che San Brandano muove, come vedremo, alla ricerca del Paradiso navigando per l'Oceano occidentale. Tale credenza aveva dunque un fondamento pagano, e perciò non è senza ragione che Isidoro di Siviglia nota di paganità la opinion di coloro che ponevano il Paradiso nelle Isole Fortunate.

Per le ragioni medesime furono talvolta situati in isole remote dell'Oceano Atlantico il Purgatorio e l'Inferno. Già fra gli antichi era nata una opinione che poneva in Gallia, o in Brettagna, il regno dei morti. Plutarco ne fa ricordo, attingendo da un ignoto e più antico scrittore. Claudiano, narrando certa navigazione oceanica di Ulisse, già prima narrata da Solino, dice che l'eroe visitò un popolo di ombre su quella estrema parte della Gallia che si protende nell'Oceano, nè lascia intendere se alluda propriamente all'ultimo lembo occidentale dell'Armorica, o alla Cornovaglia insulare(Cornu Galliae). Procopio dà, in forma più compiuta, il racconto di Plutarco, e narra di una popolazione di marinai, sulle coste settentrionali della Gallia, officio de' quali era di tragittare di notte tempo le anime de' morti in Brettagna. Di questa credenza è pur cenno negli scolii di Tzetzes all'Alessandra o Cassandra di Licofrone, e nel medio evo essa non era ancora del tutto perduta, perchè se ne trova un curioso ricordo in un racconto tedesco del secolo XIII.

Ho detto che la latitudine del Paradiso occidentale variava, quando più verso Settentrione, quando più verso Mezzodì. Che le fantasie lo venissero respingendo talvolta nelle regioni più inospitali del globo, verso i ghiacci e le nebbie del polo, non deve far troppa meraviglia, se si pensa che già gli antichi ebbero alcune immaginazioni consimili; che gl'Iperborei, i quali menavano vita felicissima, furono da essi cacciati nell'estremo settentrione, di là dai monti Rifei; che nell'isola Prodesia, vicina a Tule, fu posto l'Elisio; e che tra gl'Iperborei furono collocati da

taluno gli Orti delle Esperidi. Ed è curioso vedere come, nella seconda metà del secolo XI, Adamo Bremense tramuti sulle rive del Baltico le Amazzoni, i Cinocefali, i Macrobii, gl'Imantopodi, altri popoli strani e mostri varii, tolti la più parte all'Asia leggendaria, e i Ciclopi per giunta. Incoraggito da sì fatti esempii, nel sec. XVI, il famoso Guglielmo Postel, che, fra molt'altre cose, pretendeva d'essere ringiovanito e risuscitato, asserì nel suo Compendium cosmographicum che il Paradiso terrestre era sotto il polo artico.

Ma, di solito, si preferivano latitudini alquanto più basse. A dispetto d'Isidoro di Siviglia, alcuni seguitarono a credere che il Paradiso fosse in quelle Isole Fortunate di cui tanto aveva favoleggiato l'antichità, e dove pure erano stati messi gli Elisii. E a questo proposito è da ricordare che i geografiarabici chiamarono le isole che si trovano a occidente dell'Africa con due nomi diversi, Isole Eterne e Isole della Felicità, e che queste Isole della Felicità pare fossero le Canarie, che poi dovrebbero essere le Fortunate. E dico dovrebbero, perchè nel medio evo ci fu grandissima confusione a questo riguardo. Così, per citare qualche esempio, una delle carte di Marin Sanudo(1306) pone a occidente dell'Irlanda nientemeno che 358 isole beate e fortunate, e sulla mappa di Fra Mauro(1457-9) si trovano le insule de Hibernia dite Fortunate. Verso la fine del secolo XV(1471) Grazioso Benincasa segna ancora due gruppi d'Isole Fortunate, l'uno a ponente dell'Africa, l'altro a ponente dell'Irlanda. Nel primo gruppo sembra che ponesse il Paradiso terrestre Cristina di Pisan, la quale visse sino all'anno 1431.

La vicinanza delle Isole Fortunate all'Africa doveva, o prima o poi, suggerire l'idea che il Paradiso fosse appunto nel continente africano, tanto più che si credeva da molti, come vedremo, essere il Nilo uno dei quattro fiumi ricordati dalla Bibbia. Abbiam già veduto che Giovanni de' Marignolli situava il Paradiso fra la terza India e l'Etiopia: Lodovico Ariosto, più risoluto, lo pone senz'altro sul monte onde nasce il Nilo, vicino al paese del Senapo, o Prete Gianni, mutato ancor esso di luogo, e Giovanni Milton ne segue l'esempio. Più d'uno udrà con meraviglia che il celebre Livingstone cercava ancora il Paradiso nel cuore dell'Africa, nella regione dei grandi laghi equatoriali.

Cristoforo Colombo ricorda la opinione di coloro che ponevano in Africa il Paradiso, ma non vi si acconcia; anzi vuole ch'esso sia nelle nuove terre da lui scoperte, non molto lungi dall'isola di Trinità e dalla foce dell'Orenoco. E con lui il Paradiso terrestre, dopo aver fatto in certo

modo il giro del mondo, ritorna in Oriente, giacchè, com'è noto, il sommo navigatore morì senza sapere d'avere scoperto un nuovo continente, anzi credendo d'aver raggiunto, navigando a occidente, le isole e la costa orientale dell'Asia; la qual credenza gli faceva dire che la terra non è così grande come dai più si crede. Si dovrà, per la stessa ragione, riportare in Oriente il paradiso dei Gaeli? Ebbero veramente costoro cognizione della rotondità della terra, come fu da taluno asserito, e scoprirono essi, insieme con gli Scandinavi, l'America, più secoli prima che il Colombo nascesse? e in che misura la scoprirono? Non bisogna esser troppo corrivi nè ad affermare nè a negare in così fatta materia. Se avessero proprio avuta quella cognizione, e fatta quella scoperta, l'estremo Occidente, ov'essi tante meraviglie ponevano, ridiventava, in certo modo, l'estremo Oriente dei Padri e della più comune credenza. Ma sia di ciò come si voglia, non è da dimenticareil fatto che parecchie mitologie, oltre alla greca e alla romana, posero in Occidente paesi di delizie e di beatitudine. In Occidente sorgeva, secondo gl'Indiani, Kanaka-puri, la Città d'oro; in Occidente immaginano gli abitatori della Polinesia un'isola paradisiaca detta Bulotu.

Chiudiamo questa ormai lunga rassegna con dire che non vi fu parte della terra dove non si ponesse il Paradiso. Giorgio Federico Daumer, nato nel 1800, lo pose in Australia, dove cresce l'albero del pane; il celebre Giacomo Casanova lo cacciò insieme coi Megamicri, non degeneri discendenti di Adamo, nell'interno del pianeta.

In leggende popolari tuttora vive, il Paradiso è in luogo prossimo a chi le va rinarrando, nelle Alpi, per esempio, o nel Fichtelgebirge.

CAPITOLO II. NATURA, CONDIZIONI E MERAVIGLIE DEL PARADISO TERRESTRE.

Nella Genesi non si dice che il Paradiso fosse un monte, o sopra un monte; ma i quattro fiumi che ne scaturivano lasciano congetturare quale sia stata a tale riguardo la immaginazione primitiva. Essa non era certamente disforme da quella che si trova in altri miti affini: il Meru indiano, l'Alburz iranico, l'Asgard germanico, il Kâf arabico, sono tutti monti; nè è questo il luogo d'andar ricercando le ragioni di così fatta immaginazione. Ezechiele pone il giardino dell'Eden sopra un monte tutto scintillante di gemme. Tale riman poi la credenza nei primi secoli

del cristianesimo e durante tutto il medio evo. Molti identificarono il monte del Paradiso col monte su cui si fermò l'Arca di Noè quando cominciarono a scemare le acque del Diluvio; per Dante il Paradiso è sulla cima del monte del Purgatorio.

Qui ci si offre una particolarità costante nella finzione. Il monte paradisiaco s'immagina altissimo sopra tutti gli altri monti della terra; al qual proposito non è da dimenticare che molti popoli, fra' quali gli Ebrei, attribuirono ai monti più alti un certo carattere di santità. Il Meru, meravigliosamentedescritto nel Mahâbhârata e nei Purâni, si leva tanto sopra le nubi che nemmeno il pensiero vi può salire. L'Alburz, l'Asgard, sono ancor essi di smisurata altezza. Del Caucaso dissero gli antichi che attingesse col vertice le stelle, e dell'Atlante che sorreggesse il cielo. Il Sinai e l'Olimpo si levavano sopra la regione dei venti.

Le opinioni circa l'altitudine del Paradiso sono tutte concordi in questo, che fanno veramente smisurata la elevatezza del monte, sebbene poi discordino nei ragguagli. La credenza di alcuni, che il giardino dell'Eden fosse stato distrutto dalle acque del Diluvio, era contraddetta dalla credenza degl'innumerevoli, i quali pensavano che le acque punitrici avessero bensì superato tutte l'altre cime della terra, ma non quella, sopra tutte l'altre innalzata, del monte sacro. Nel già citato Combattimento di Adamo si legge che le acque del Diluvio sollevarono l'Arca, sino appiè del giardino, e che quivi si umiliarono gli elementi sconvolti ed infuriati. Efrem Siro, ed altri assai, dicono che il Paradiso non fu sommerso dal Diluvio; Merlino, insieme con altri nove bardi, andò in traccia dell'isola verde che il Diluvio non aveva potuto sommergere.

Nel l. VII delle Istorie apostoliche, attribuite ad Abdia, supposto vescovo di Babilonia, San Matteo, predicando al popolo, afferma il Paradiso terrestre salir tant'alto da esser vicino al cielo; e Alberto Magno dice aver trovato in antichissimi libri che Matteo Apostolo fu il primo a metter fuori la opinione secondo cui il Paradiso attingerebbe il cerchio della luna. Tale opinione ebbe seguaci parecchi, fra' quali Rabano Mauro, Valafredo Strabone e Pietro Lombardo; ma fu combattuta dai più. Mosè Bar-Cefa si contentò di dare al monte del Paradiso una grande altezza, allegando che senza di ciò non avrebbero potuto i quattro fiumi passar sotto il mare e scaturir di bel nuovo nelle nostre regioni; e San Giovanni Damasceno di dire ch'esso è più sublime di ogni altro luogo che sia in terra. E' pare che Dante ponesse ben alto il suo Paradiso, se s'ha a giudicare da ciò che nel c. XXVII del Purgatorio dice delle stelle, le quali

sembravangli più chiare e maggiori; ma vuolsi notare tuttavia che in fatto di astronomia stellare le nozioni erano molto imperfette a' suoi tempi, e che appena dei corpi del sistema solare si calcolava, assai falsamente, la distanza. Al monaco Alberico il Paradiso era parso prossimo al cielo: in una leggenda italiana di tre monaci che andarono al Paradiso terrestre, leggenda della quale dovrò parlare a suo luogo, il monte è alto cento miglia. Il già ricordato Giovanni de' Marignolli dice che il monte di Ceilan è forse, dopo quello del Paradiso, il più alto che sia interra.

Le opinioni circa l'estensione del Paradiso furono molto discordi, e alcune di esse inconciliabili con la credenza che il Paradiso stesso formasse la cima di un monte, o uno spianato altissimo. Come abbiam veduto, credettero alcuni che il Paradiso coprisse in origine tutta la faccia della terra, o la cingesse tutto intorno; altri pensarono ch'esso chiudesse ne' suoi confini più regioni assai vaste, in modo da potere accogliere tutto il genere umano, qualora Adamo non avesse peccato. Nella leggenda di San Brandano, si dice che costui, e i compagni suoi camminarono quaranta giorni nell'isola del Paradiso senza poterne trovare la fine. I rabbini disputarono molto intorno a questo punto, e alcuni di essi fecero l'Eden parecchie centinaja di volte più spazioso della terra. Rabbi Giosuè(Jehoshûa), che ci fu e lo descrisse, vi trovò, fra l'altro, sette case, ciascuna delle quali era lunga 120000 miglia e larga altrettanto. Per contro affermò il Tostato che il Paradiso ebbe non più di tre o quattro leghe di diametro, e circa dodici dì circonferenza.

La credenza più comune fece il Paradiso non troppo esteso, e permise di cingerlo di un muro, il quale è talvolta di solida materia, e talaltra di fiamma viva. Il muro solido è, secondo i casi, di cristallo, di diamante, o d'altra gemma, di bronzo, d'argento, d'oro. Il muro di fiamma, che probabilmente trae la origine dalla spada fiammeggiante del cherubino, ricordata nella Genesi, s'incontra assai più spesso. Già Tertulliano, e poi Lattanzio e San Giovanni Crisostomo, ne fanno menzione; ma chi ne ribadì la credenza nel medio evo fu Isidoro di Siviglia, il quale dice che quell'incendio quasi s'alza sino al cielo; e da esso attinsero, direttamente o indirettamente, Rabano Mauro, Onorio Augustodunense, Giacomo da Vitry, Rodolfo da Ems, e altri assai. Nella già ricordata mappa dei tempi di Carlo V di Francia il muro di fiamme è assai chiaramente indicato, e in pieno secolo XVI lo descriveva ancora Davide Lindsay nel suo poema intitolato The dream. Tale immaginazione non è, del resto, senza

riscontri. Il castello in cui, secondo la saga raccolta nell'Edda, dorme per decreto di Odino la valkiria Sigurdrifa, è circonvallato di fiamme; a detta del Mandeville, l'Arca di Noè, tuttavia esistente sul monte Ararat, è circondata da un fuoco celeste che non permette altrui di avvicinarsele.

Molto sovente il Paradiso fu immaginato, nel medio evo, non più come un giardino propriamente, ma come una città chiusa, o come un castello, cinto di buone mura, fornito di torri e provveduto di porte; e così si vede rappresentato in molti manoscritti e in parecchie carte. Tale fantasia si lega, senza dubbio, come vedremo più oltre, alla descrizioneche della Gerusalemme celeste si legge nell'Apocalissi, descrizione che diede più di un elemento alle nostre finzioni. Del resto il Vara, o Paradiso dell'iranico Yima, era anch'esso cinto di muro e conteneva molti e varii edifizii.

Ma prima di spingerci attraverso quel formidabile muro di fuoco, o di varcare la soglia di quelle porte, per vedere le meraviglie molteplici che in sè racchiude il divino luogo, bisogna che noi scorriamo alquanto il paese dattorno(isole o terra ferma) e vediamo di qual natura esso sia. Ora, è da notare che queste vicinanze si presentano nella finzione con caratteri alle volte affatto opposti, quando dilettose e felici, quando spaventose ed orrende.

L'idea di far precedere al Paradiso una regione che mostrasse in sè alcuna delle condizioni di quello, e ne ricevesse, in certo qual modo, il benefico influsso, era un'idea così naturale che non poteva non sorgere negli spiriti e non riversarsi nella leggenda, sebbene dovesse contrariarla il racconto dei patimenti a cui erano andati soggetti Adamo ed Eva dopo la cacciata, durante il loro soggiorno in luoghi affatto prossimi al giardino di beatitudine. In certo libro di Juniore Filosofo, libro composto, secondo ebbe ad opinare il Mai, ai tempi dell'imperatore Costanzo, e conservato in un manoscritto del secolo X, si parla di un popolo il quale abita nel paese d'Eden, prossimo al Paradiso, in una condizione di felicità e d'innocenza. Vivono quegli uomini di pane che piove loro dal cielo, non conoscono le infermità e campan cent'anni. In parecchie delle leggende che dovrò riferire più innanzi, coloro che muovono in cerca del Paradiso sono avvertiti della sua prossimità dalla mitezza dell'aria, dallo splendore del cielo, dall'amenità dei campi, dal sorriso dell'intera natura. Il paese del Prete Gianni, situato a poca distanza dal Paradiso, è una specie di paradiso esso stesso, dove è dolcissimo il clima, e gli animali sono pieni di mansuetudine, e abbondano piante di gran virtù e di soavissimi frutti,

ed è grandissima copia di oro e di gemme, e scaturiscono acque le quali serbano l'uomo sempre sano e sempre giovane, e scorrono persino fiumi di miele e di latte.

Quivi il balsamo nasce; e poca parte

N'ebbe appo questi mai Gerusalemme.

Il muschio ch'a noi vien quindi si parte;

Quindi vien l'ambra, e cerca altre maremme;

Vengon le cose in somma da quel canto

Che nei paesi nostri vaglion tanto.

Giovanni di Hese, del quale feci ricordo nel precedente capitolo, parla di un'isola deliziosa, ove non è mai notte, e che si chiama Radice del Paradiso: nel romanzo di Ugo d'Alvernia, la terra prossima al Paradiso è detta Terra di promissione. Terre beate si stendono appiè del Meru e dell'Hara-berezaiti.

Non dirado l'immaginazione è tutt'altra: appiè del Paradiso si stende una regione selvaggia, tenebrosa ed orrenda, asserragliata da monti inaccessibili, piena di serpenti spaventosi e di altri animali terribili. Giacomo da Vitry afferma che tra la dimora dei primi parenti e questo nostro esilio è un gran caos, una gran distesa di terre, popolata da serpenti innumerevoli. Giordano da Sévérac narra che nella Terza India, ov'è il Paradiso, "sono dragoni in grandissima quantità, i quali recano sul capo pietre lucenti, dette carbonchi. Questi animali giacciono sopra arene d'oro, e crescono assai, e mandan fuori un fiato puzzolente ed infetto, simile a densissimo fumo, quando si leva dal fuoco. A certi tempi si accolgono insieme e mettono le ali, e cominciano ad alzarsi per l'aria; ma allora, per voler di Dio, cadono, essendo di sì gran peso, in un fiume ch'esce dal Paradiso, e quivi muojono." Di una regione popolata di serpenti è spesso fatto ricordo in racconti orientali, come, per citarne uno, in quello dei viaggi di Sindbad, che si legge nelle Mille e una notte; e del Meru è detto che serpenti orribili ne guardano l'accesso. Il Mandeville e altri parlano della regione inospitale ed asprissima che si frappone tra il Paradiso e le terre abitate; una regione tenebrosa trovasi già descritta nelle storie favolose di Alessandro Magno.

Nelle Visioni il Paradiso terrestre è, non di rado, posto in regione assai prossima all'Inferno o al Purgatorio, di guisa che l'anima peregrina passa subitamente dai luoghi di tormento, al luogo di beatitudine. Così nella leggenda del Pozzo di San Patrizio, nella Visione di Thurcill, in quella di

Frate Alberico, ecc. Il Mandeville pone una specie d'antinferno in vicinanza del fiume Fison, e l'Ariosto apre una bocca dell'inferno alle radici del monte su cui è il Paradiso. Dante fa che il Paradiso coroni il monte del Purgatorio, e in una specie di prologo che precede una delle redazioni del noto poema La vengeance de Jésus-Christ, contenuto in un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Torino, il Purgatorio è nel fosso da cui il Paradiso è cinto tutto all'intorno. Così l'Elisio fu, dagli antichi, immaginato contiguo al Tartaro: Ulisse, Enea, passano direttamente da questo a quello.

E ora varchiamo il fosso e il muro e penetriamo nel luogo sacro, il quale, stando a una ragionevole opinione di Marcione, il noto eresiarca del secondo secolo, fu formato con la più pura parte della terra, e, secondo Filosseno vescovo di Bagdad(secolo IX) e Mosè Bar-Cefa(secolo X), di una materia più tenue e più pura, che teneva dello spirituale. Regna nel beato giardino una perpetua primavera; non mai turbata da venti e da procelle. Il cielo,che spande sopr'esso un lume sette volte più chiaro che non sia quello del nostro giorno, ma scompagnato da ogni fastidiosa caldura, non vi patisce nube alcuna, e mai non lo ingombra la notte. Nè mai per l'aria dolcissima si riversa grandine o pioggia, nè mai vi s'ode il pauroso fragore del tuono e l'orrendo schianto della folgore. Tiene il luogo un'altissima quiete, una pace serena e sacra, ignote affatto a chi vive quaggiù. Padri e Dottori della Chiesa, e poeti cristiani dei primi secoli, vanno a gara in descrivere tanta letizia, e le lor voci raccoglie Dante, quando nel canto ventesimottavo del Purgatorio descrive

La divina foresta spessa e viva,

e ricorda l'aura dolce, senza mutamento, che ne sommoveva le fronde, e la perpetua primavera. Anche qui i riscontri abbondano. Il Meru e l'Hara-berezaiti non conoscono i rigori del verno, nè le tenebre, nè le nubi, nè intemperie di nessuna sorte. Di tutti gli altri luoghi di beatitudine fu necessariamente immaginato altrettanto. Veggasi ciò che Omero ed Esiodo e Platone e Virgilio e tanti altri antichi dicono del soggiorno dei giusti, o della condizione della terra durante l'età dell'oro, o del paese degl'iperborei, o di altri così fatti:

Hic aeterna quies, nulla hic jura procellis.

L'isola di Avalon, di cui tanto favoleggiarono nel medio evo i poeti e i romanzatori del ciclo arturiano, e dove Artù, mortalmente ferito in battaglia, era, per forza di miracolo, serbato in vita, l'isola di Avalon

godeva gli stessi benefizii del Paradiso terrestre.

Che quella stanza del Paradiso dovesse poi essere saluberrima; che i morbi non vi potessero penetrare, nè vi potesse penetrare la morte, s'intende di leggieri, ed è cosa in tutto conforme al concetto del mito biblico. Ma non si creda che essa fosse sola a fruire di così notabili prerogative. Dell'isola di Pafo fu creduto anticamente che nessuna infermità vi potesse aver luogo. Nell'isola de' Macrobii, posta nel mare dell'India, e visitata da Alessandro Magno, l'aria era così pura, e così sano il clima, che gli uomini vi solevan vivere circa un secolo e mezzo. Plutarco, rimaneggiando finzioni antichissime, narra di due isole a ponente della Brettagna, abitate, l'una da uomini di santa vita, immuni da ogni umana infermità, l'altra da Crono, immerso in letargo e servito da demonii. Nel l. VIII delle sue Istorie Filippiche, delle quali non sono rimasti se non pochi frammenti, Teopompo raccontava, conformemente a un'antica leggenda, come il re Mida fosse riuscito ad ubbriacare Sileno e ad avvincerlo di catene. Per racquistare la libertà Sileno dovette comunicare al re la sua scienza, e tra l'altro gli narrò della terra Merope, posta di là dall'oceano, e dove gliuomini vivono il doppio che altrove, e non conoscono infermità, e il suolo spontaneamente produce le messi e ogni altro frutto. Di consimil natura era l'isola di Jambulo, di cui dà ragguaglio Teodoro Siculo. Anche di luoghi dove non si moriva ce n'era più d'uno. Giraldo Cambrense parla di due isole, poste in un lago dell'Irlanda, nella minor delle quali nessuno poteva morire e nessuno mai era morto, e perciò era detta Isola dei viventi. Chi oppresso dai morbi, o giunto allo stremo della vecchiezza, desiderava por fine a una vita divenuta ormai troppo incresciosa, si faceva trasportare nell'altra isola, e come appena toccava terra, moriva. Queste isole sono spesso ricordate in leggende celtiche, e veggonsi poste più di frequente nel mare ibernico. Si legge nel Perceforest che i principi Dardanon, Gadiffer con la moglie sua, Perceforest e Gallafar si ritrassero nell'Isola di vita, per potervi aspettare la venuta del Redentore. Invecchiano oltre modo aspettando, tanto che la vita s'è fatta loro insopportabile. Avuta la nuova che il Redentore è nato, si fanno trasportare altrove e muojono in pace. Pietro Comestore parla di più isole dei viventi, ove a nessuno è dato morire, e Gervasio da Tilbury ne ricorda una, visitata da Alessandro Magno, là nei mari dell'India. Contrastava con queste un'isola dove non si poteva nascere. Il Paradiso terrestre, che Dante, acconciamente, disse

Fatto per proprio dell'umana spece,

era immune dalla morte e dai morbi, non solo perchè il santo luogo non poteva, per sua natura, essere contaminato da nessuna delle miserie di quaggiù, le quali furono il tristo retaggio della colpa; ma ancora perchè accoglieva in se stesso, come ora vedremo, più cose le quali avevano virtù di combatterle e di tenerle lontane.

Degl'infiniti alberi d'ogni specie, che dovevano empiere il giardino dell'Eden, la Genesi ne nomina più particolarmente due: l'albero della vita e l'albero della scienza del bene e del male, concesso quello, vietato questo ai due primi parenti. Il linguaggio del libro sacro è del resto un po' ambiguo, perchè ora pare vi si parli di due alberi diversi, e ora di uno solo, il che è da ascrivere certamente alla imperfetta corrispondenza e alla poca fusione dei due racconti onde il libro stesso fu composto. Vi è poi anche ricordato il fico, delle cui foglie Adamo ed Eva copersero la lor nudità. Non parlo del bedolach, intorno alla cui natura fu tanto disputato.

La stretta affinità che gli alberi paradisiaci della vita e della scienza hanno con alberi meravigliosi di altre mitologie, col soma degl'indiani, con l'haoma degl'Irani, con l'albero delle tradizioni caldeo-assire, con l'albero della immortalità, che insieme con altri alberi meravigliosi sorge nel Kuen-lundei Cinesi, con quello che, tutto splendente di poma d'oro, era custodito gelosamente nell'Orto delle Esperidi, fu notata da un pezzo, nè io intendo di farne qui particolare discorso.

Molto fu immaginato e disputato circa la specie e la natura dei due alberi della vita e della scienza, e più specialmente del secondo. Dall'uno o dall'altro si fece derivare, in una leggenda celebre di cui avrò a parlare in luogo più acconcio, il legno onde fu formata la croce; e il primo diede argomento anche a un'altra leggenda, assai strana, ove si narra che mille anni dopo il peccato dei primi parenti, Dio trapiantò l'albero della vita nell'orto di Abramo; che una figliuola di Abramo ingravidò respirando il profumo dei fiori dell'albero, e diede alla luce un fanciullo, il quale si chiamò Fanuel; e che costui, avendo forbito sulla propria coscia il coltello con cui aveva tagliato uno dei frutti dell'albero, vide la coscia gonfiarsi e mettere al mondo, a tempo debito, una bambina che fu Sant'Anna, madre della Vergine Maria.

Nel Testamento d'Adamo Seth domanda che albero fosse quello del cui frutto mangiarono i suoi genitori, e Adamo risponde che era un fico. Isidoro Pelusiota, morto circa il 450, dice che, secondo l'antica opinione, l'albero che condusse a peccare i primi parenti fu un fico, e un fico si vede talvolta rappresentato nei monumenti della primitiva arte cristiana.

Un fico lo dissero pure alcuni rabbini; ma altri rabbini, seguiti in ciò dai Bogomili, pensarono che dovesse essere la vigna(la quale fu, per contro, dai Mandaiti considerata pianta di vita) oppure il grano. Nel Libro d'Enoch, il profeta, seguitando una sua fantasiosa peregrinazione, giunge al giardino di giustizia, e vi trova, fra altri alberi, l'albero della scienza, il quale somiglia al tamarindo, ha i frutti simili a grappoli d'uva, e spande intorno un profumo balsamico. Secondo una opinione molto diffusa tra i musulmani il frutto vietato era, come per alcuni rabbini, il grano. Felice Faber afferma che tutti gli Orientali credevano l'albero fatale essere il musa(banano, fico del Paradiso), e dice che il frutto mostra, quando è intero, la traccia di un doppio morso, e quando è tagliato a mo' del rafano, il segno della croce, con una oscura immagine del crocifisso, in ogni fetta che se ne leva. Felice scriveva verso la fine del secolo XV; ma molti prima di lui avevano parlato del musa, e de' suoi frutti, chiamati anche pomi del Paradiso(arbor Adae, poma Adae). Giacomo da Vitry e Giacomo di Maerlant, nel suo poema Der naturen bloeme, e Thietmar, e, in generale, tutti i peregrinatori di Terra Santa, ne fanno ricordo, notando più di proposito laparticolarità di quel morso, che pareva attestare in modo irrefragabile l'origine della pianta e la parte da essa avuta negli umani destini. Burcardo di Monte Sion descrive abbastanza minutamente la pianta e i suoi frutti, ma nulla dice nè del morso, nè del segno di croce. Giovanni de' Marignolli per contro sa che delle foglie del musa, le quali sono assai grandi, si coprirono, dopo il peccato, i primi parenti, e che tagliando per traverso il frutto si vede in ciascuna metà l'immagine di un uomo crocifisso. Comunque sia, si credeva universalmente che il pomo vietato, e gli altri frutti del Paradiso, fossero di così grato odore e di così squisito sapore da vincere di gran lunga quanti ne nascono in terra. San Giovanni, Enoch ed Elia ne dànno alcuni ad Astolfo

Di tal sapor, ch'a suo giudicio, sanza

Scusa non sono i duo primi parenti,

Se per quei fûr sì poco ubbidienti.

Ma si sa che il mal desiderato frutto restò nella strozza ad Adamo, e formò quello che appunto si chiama dal volgo il pomo d'Adamo, e dai dotti cartilagine tiroidea. Dio, "perciò che l'uomo sapesse che tutte le schiatte doveano essere colpevoli di questo peccato, fece rimanere lo nodo che àe la gola", si legge nel Libro di Sidrach; e più esplicitamente nei Fioretti della Bibbia: "Et quando Adamo mangiò del pome, avengnia

che buono gli parve al ghusto, sì gli ricordò del comandamento che iddio gli avea fatto, et puosesi allora la mano alla ghola, e ristrinse la volontae e fu pentuto, et per questo si dice che gli uomeni anno uno nodo nella ghola e le femmine no".

Tutti, o quasi tutti coloro che poterono penetrare nel Paradiso terrestre, videro l'albero che aveva dato materia al peccato, spoglio delle sue fronde e inaridito. Le leggende che io riferirò nel capitolo IV cel proveranno. Nel Combattimento d'Adamo è detto che Dio stesso disseccò, dopo il peccato, la pianta; e disseccata prima, poi rinnovellata di novella fronda, la vide Dante:

Io sentii mormorare a tutti: Adamo!

Poi cerchiaro una pianta dispogliata

Di fiori e d'altra fronda in ciascun ramo.

Tale, e ingombra di spine per giunta, e con avvolta al tronco la scoglia d'un serpente, la descrive Federigo Frezzi:

Quando trovai un arbor senza fronde

Ch'era di spoglio d'un serpente avvolto,

Sì come un'edra che un ramo circonde.

Lo spoglio avea di forma umana il volto;

E l'arbore di spine era pien tutto

Intorno a sè, siccome luogo incolto.

Ogni altro legno ivi era pien di frutto,

E di be' fiori e frondi, fresco e bello;

E questo solo era secco e distrutto;

E su non vi cantava alcun uccello.

Nello strano raccontofrancese che ho citato poc'anzi si dice che Dio aveva fatto dono dell'albero della scienza ai demonii, e che Adamo ed Eva, avendo mangiato del suo frutto, caddero in loro potestà.

Nella leggenda italiana de' tre monaci, della quale ho già fatto parola, si ricordano quattro alberi meravigliosi di cui andava lieto il Paradiso: l'albero del bene e del male, l'albero della salute, del cui legno fu fatta la croce, l'albero della vita e l'albero della grazia, o della gloria; ma ben più numerose eran le piante che v'allignavano. Ezechiele ricorda nominatamente i cedri, gli abeti e i platani, e accenna a molti altri ligna voluptatis, quae erant in Paradiso Dei. Nelle innumerevoli descrizioni che

se ne fecero la selva divina appar sempre densa di alberi, e dove non è selva, è campo sparso di minori piante, vestito d'erba e smaltato di fiori. I fiori sono, di solito, questi nostri, la rosa, il giglio, il giacinto, la viola, salvo che hanno assai più vivi i colori e più soavi i profumi. Gli alberi, o sono i nostri, con più perfetta natura, come si conviene al luogo, o son di specie meravigliose, incognite a noi, e sempre in grandissima quantità. Rabbi Giosuè già ricordato, ne noverava 800,000 specie.

Si credeva che le piante aromatiche, le spezie, i balsami, venissero dal Paradiso terrestre, o da luoghi prossimi al Paradiso terrestre, e fatti, in certa misura, partecipi della sua condizione. Già Tertulliano ricorda, a tale proposito, la cannella e l'amomo, e Alcimo Avito descrive piante che stillano balsami. Arnaldo di Bonneval(m. dopo il 1156) dice, in una sua entusiastica descrizione, che dalle piante del Paradiso stillavano resine odorose e balsami d'ogni specie; e il Mandeville fa venir giù dal Paradiso, con la corrente del Nilo(che diventò, come s'è già notato, uno dei quattro fiumi) l'aloe; e il Joinville, oltre l'aloe, ne fa venir la cannella, lo zenzevero o gengiovo, il rabarbaro, i garofani e altre spezie. Ma sino dal IV secolo, Sant'Atanasio, arcivescovo di Alessandria, aveva detto che gli aromati vengono dall'Oriente, perchè il Paradiso terrestre, che appunto è in Oriente, impregna de' suoi olezzi le piante delle regioni circostanti; opinione seguìta poi dall'Anonimo Ravennate. A quei fiati del Paradiso accenna Gualtiero di Châtillon, quando, descrivendo l'Asia, dice:

instat ab arcto

Caucasus, irriguo Paradisus spirat ab ortu.

Secondo una leggenda musulmana gli aromati nacquero dalle lacrime di Adamo, espulso dal Paradiso e caduto nell'isola di Ceilan, mentre dalle lacrime di Eva nascevano le perle.

Nel Paradiso era pure ogni specie di piante medicinali. Tertulliano, dopo aver descritte molt'altre cose mirabili che ci si trovavano, dice:

Et pulcre redolet munus medicabile Cretae,

alludendo al dittamo, o a piùerbe medicinali, per cui andò famosa un tempo l'isola di Creta. Nel trattato Abodath Hakkodesh del Talmud è detto che nel Paradiso terrestre sono tutte le piante medicinali; e Gotofredo da Viterbo fa menzione di certi frutti ch'eran buoni, sembra, contro tutti i mali:

Optima per fluvium currentia poma tenentur;

Infirmis oblata viris medicina tenentur;

Solus odoratùs sanat odore caput.

Piante medicinali coprivano i fianchi del Meru: nell'isola d'Avalon, qual è descritta nella Bataille Loquifer, le pietre della città guarivano tutti i mali del corpo e dell'anima.

Il Petrarca paragona il suo lauro simbolico agli alberi del Paradiso:

In un boschetto novo i rami santi

Fiorian d'un lauro giovenetto e schietto

Ch'un degli arbor parea di paradiso;

ma gli è certo che nel Paradiso ci erano alberi i quali vincevano di molto in pregio e in virtù quel suo lauro. Onorio d'Autun ne ricorda di proposito tre, oltre a quello della vita. Chi, a tempo opportuno, avesse gustato dei frutti del primo, non avrebbe mai più avuto fame; e chi avesse gustato dei frutti del secondo, sarebbe stato liberato in perpetuo dalla sete; e chi di quei del terzo, non avrebbe più conosciuto stanchezza. Vedremo più oltre che nel Paradiso c'erano pure alberi con le fronde d'oro e d'argento. In un luogo del Mondo creato Torquato Tasso accenna a canuta e sacra fama appo gli Ebrei, secondo la quale le piante del Paradiso avrebbero avuto senno e favella. Da altra banda, nel Libro d'Enoch, è ricordato un albero sempre verde, sempre fiorito, che spande un soavissimo odore, e a cui non può agguagliarsi nessuno di quelli dell'Eden. I frutti suoi sono serbati agli eletti dopo il Giudizio. Le piante del Paradiso non abbisognavano di nessuna coltura; e benchè mai non le bagnasse la pioggia, serbavansi sempre verdi e fresche, e recavano sullo stesso ramo il fiore appena sbocciato e il frutto già maturo. Tutti i poeti concordemente lo affermano.

Sia ricordato ancora che il paradiso di Maometto è tutto pieno di alberi, tra' quali primeggia lo smisuratissimo Thuba, grave sempre di ogni specie di frutti; che un nuovo albero vi si pianta ogni volta che un credente dice Lode a Dio! e che secondo una opinione del Profeta, o a lui attribuita, deriva dal Paradiso il succo del popone, il quale perciò guarisce settanta specie di mali, e ha tal virtù che un boccone che se ne mangi equivale a dieci buone opere e cancella dieci peccati. Alberi erano pure nel Vara, o paradiso dell'iranico Yima.

Nel racconto biblico è fatta parola della fonte che irrigava il Paradiso, e da cui nascevano i quattro fiumi; ma non è detto che essa avesse virtù di perpetuare lavita, o di restituire la giovinezza perduta. Ciò nondimeno, l'idea di porre accanto all'albero della vita anche una fontana di vita e di

gioventù era un'idea così naturale, tanto consentanea ad una delle fantasie mitiche più diffuse e più costanti, che non poteva, o prima o poi, non sorgere nello spirito di qualcuno. A farla sorgere sarebbero bastati i parecchi accenni che ad una fonte di vita si trovano nelle Sacre Scritture; sarebbe bastato l'esempio dell'autore dell'Apocalissi, che nella celeste Gerusalemme fa scorrere presso l'albero della vita il fiume della vita; ma, anche senza di ciò, la fonte meravigliosa sarebbe scaturita nel luogo di tutte le delizie, e perchè la natura stessa del luogo pareva richiederla, e perchè essa esisteva già e non c'era bisogno d'inventarla. Nel paradiso indiano sgorga la fonte Ganga, da cui nasce il Gange; nell'iranico sgorga la fonte di vita Ardvî-sûra; nel cinese è un fonte giallo dell'immortalità, il quale si spartisce in quattro fiumi, o un fiume giallo, che ritorna alla sua fonte, ed ha la stessa virtù; negli Orti delle Esperidi, o nell'Elisio, sono i fonti dell'ambrosia, cioè del sacro liquore che procaccia la immortalità. Una fonte di giovinezza si trova nel paradiso messicano, e nel gaelico, e in quello degli abitanti dell'arcipelago di Hawai, e in altri. Di uno stagno, le cui acque hanno virtù di ringiovanire, si parla nel Satapatha Brâhmana. La immaginazione riappar frequente in tradizioni di più sorta e in novelline popolari, alcune delle quali sono senza dubbio assai antiche. Di una spedizione di Alessandro Magno alla ricerca della miracolosa fontana si narra nello Pseudo-Callistene, nei poemi di Firdusi e di Nizâmi, in quello di Lambert li Tors e Alessandro da Bernay, ecc. Tra le fiabe tedesche pubblicate dai fratelli Grimm, ve n'è una intitolata Das Wasser des Lebens, nella quale si narra di tre giovani principi, che per ridare la sanità al padre ammalato muovono in cerca dell'acqua della vita: solo il minore dei tre riesce a trovarla. Questa novella fu narrata anche in latino, ed ebbe corso nel medio evo; fiabe consimili si trovano nelle letterature popolari di tutta Europa. Nei racconti orientali la fontana di vita, o di gioventù, è spesso ricordata, e i più dei geografi arabici la pongono in Oriente, e in Oriente la lasciano, di solito, i racconti occidentali. Il desiderio di Fausto fu desiderio di tutti i tempi e di tutte le genti.

La fontana di vita e di giovinezza doveva dunque scaturire dal suolo benedetto del giardino di felicità. Nel Combattimento d'Adamo, l'acqua di che si formano i quattro fiumi sgorga dalle radici dell'albero della vita. Sant'Agostino racconta nel suo trattato Deorigine animae come a Santa Perpetua fosse conceduto di vedere il proprio fratello, morto di lebbra, "aggirarsi pieno di salute e di bellezza in una splendente dimora, bevendo acque miracolose entro una coppa d'oro". Non dice che acque

fossero; ma s'indovina ch'erano attinte a una fontana di vita: quanto alla dimora splendente, essa è, senza dubbio, come vedremo più oltre, il Paradiso terrestre. Nelle leggende medievali concernenti il Paradiso si parla risolutamente di una vera e propria fontana.

In altre leggende questa fontana appar di bel nuovo fuori del Paradiso, con cui può serbare o non serbar relazione: nel secondo caso nulla vieta di credere che si ammettessero più fonti diverse; nel primo la fonte deriva in qualche modo dal Paradiso, o è piuttosto un'acqua derivata dalla fonte del Paradiso. Di una fonte così derivata si parla nell'Huon de Bordeaux:

Ens ou vregiet l'amiral est entré;

Dix ne fist arbre qui péust fruit porter

Que il n'éust ens el vregiet planté.

Une fontaine i cort par son canel;

De paradis vient li rius sans fauser.

Il n'est nus hom qui de mere soit nés,

Qui tant soit vieus ne quenus ne mellés,

Que se il puet el ruis ses mains laver

Que lues ne soit meschins et bacelers.

Nel già citato Romans d'Alixandre di Lambert li Tors e Alessandro da Bernay la fontana ha la medesima origine, sebbene non troppo se ne intenda il modo:

Li fontaine sordait de l'flun de paradis,

De l'aighe de Deufrate qui départ de Tigris.

Nel Trojanischer Krieg di Corrado da Würzburg, Medea usa di un'acqua venuta dal Paradiso terrestre per far ringiovanire il padre di Giasone; e dal Paradiso deriva la fonte che guarisce tutti i mali, della quale si parla nel Titurel di Albrecht. Nell'Arzigogolo del Lasca è ricordata cert'acqua che ha virtù di far ringiovanire e che un tale andò a cercare nel Paradiso terrestre, sul Caucaso, consumando nel viaggio gran parte della vita

Ma della fonte si parla pure, come ho detto, indipendentemente dal Paradiso terrestre. Stefano di Borbone(m. c. 1262) narra, per averlo udito narrare da altri, il caso di un vecchio, il quale avendo, là nelle terre d'oltremare, bevuto, senza intenzione, dell'acqua di certa fonte, tornò subito giovane, ma dopo non potè ritrovar mai più il luogo ov'essa scaturiva. Il Mandeville, che tante cose vide, vide anche questa. Egli dice

che la fontana miracolosa sgorga alle falde di un monte, vicino alla città di Polambe; che ha odore e sapore di tutte spezie, e muta l'uno e l'altro a ciascun'ora del giorno. Chi, a digiuno, beve tre volte di quell'acqua guarisce d'ogni male; e gli abitanti di quelle terre vicine, i quali spesso ne usano,vanno esenti da malattie e pajono sempre giovani. Il viaggiatore volle berne ancor egli e credette di sentirsi tutto ringagliardito. Nel Phisiologus di Teobaldo(sec. XI), nei Bestiarii di Filippo di Thaun(sec. XII) e del chierico Guglielmo(sec. XIII), e altrove, è riferita una credenza secondo la quale l'aquila, quando è vecchia, sale verso il sole, e ne' suoi raggi quasi s'abbrucia, poi va in Oriente, s'immerge nell'acqua di certa fontana, e insieme con la giovinezza racquista il vigore perduto. Questa fontana benedetta fu anche fatta sgorgare nel Paese di Cuccagna e nel paese del Prete Gianni. Nella lettera a Emanuele, imperatore d'Oriente, lettera che andò soggetta a tante interpolazioni, il Prete Gianni dice che in un suo palazzo, il quale vince di magnificenza tutti gli altri palazzi del mondo, "scaturisce un fonte che non ha l'eguale per fragranza e per sapore, e che non esce da quelle mura, ma corre da uno a un altro angolo del palazzo, e scende sotterra, e correndo quivi in contraria direzione, ritorna là d'onde è nato, a quella guisa che torna il sole da Oriente a Occidente. L'acqua ha il sapore di quella cosa che colui che la gusta può desiderare di mangiare o di bere, ed empie di tanta fragranza il palazzo come se ci si manipolassero tutte le sorta di balsami, di aromi e di unguenti". Chi la beve con certo modo e regola campa più di trecent'anni, serbandosi sempre in età giovanissima.

In pieno secolo XVI la fontana di vita o di giovinezza faceva ancora sognare più d'uno. Luca Cranach si contentava di torla a soggetto di un suo dipinto, e Giovanni Sachs di una poetica fantasia; ma Ponce de Leon, lo scopritore della Florida(1512), mosse appositamente con due navi per cercarla nell'isola di Bimini, dove credeva ch'essa scaturisse. Altri pure ebbe sì fatti sogni, e trovò, sembra, chi lo mise in canzone.

La fantasia degli uomini del medio evo non si appagò del resto della fontana di vita o di giovinezza, ma più altre cose venne immaginando provvedute di quelle stesse virtù. In molti racconti si parla di un'erba che ridà la vita. Nella continuazione dell'Huon de Bordeaux si parla di pomi del Paradiso terrestre che fanno ringiovanire; e Ugone ne dà a mangiare anche al sultano di Tauride. Gervasio da Tilbury dice che i frutti degli Alberi della Luna e del Sole, alberi che diedero responso ad Alessandro Magno, facevano vivere quei sacerdoti quattrocent'anni; e Uggieri il

Danese ebbe a mangiarne. Del Santo Graal fu detto che avesse, tra le altre virtù, anche quella di ringiovanire i vecchi e risuscitare la Fenice; e del pastoraledi San Patrizio la leggenda narra che conservava la gioventù e la bellezza. Virtù consimili furono attribuite a molte altre cose. L'anello che Morgana dà ad Uggieri il Danese lo restituisce e lo serba in età di trent'anni, sebbene egli ne abbia più di cento: il cavallo bianco del re Thiermana-Oge, nel paese di gioventù, ha, secondo la leggenda irlandese, tal qualità, che chi vi monta su racquista immediatamente la più florida giovinezza, ma, come ne smonta, subito la perde.

La fontana, di cui ho parlato, mi conduce ora, naturalmente, a dire dei fiumi. La Scrittura ne ricorda quattro, tanti quanti ne venivan dal Meru. La fonte da cui traggono l'origine, sia essa, o non sia, la fonte di vita o di giovinezza, è spesso descritta come ridondante di acque, dalle quali i quattro fiumi prendono nascimento. A far immaginare tanta copia di acque nel Paradiso deve aver contribuito, oltre i precedenti mitici normali, la scarsità di cui se ne pativa in Palestina, e che doveva di molto accrescerne il pregio agli occhi degli Ebrei: in fatti sono frequenti nei profeti le lodi dell'acqua fresca; e anche nel paradiso di Maometto sono acque in gran copia. Il Mandeville dice che a cagione delle grandi acque le quali vengono dal Paradiso tutta l'India è come spartita in isole. Precipitando dal monte altissimo, su cui fiorisce il giardino, nella sottostante pianura, le acque levano un così terribil fragore che le genti di quelle terre vicine son fatte sorde, anzi nascono sorde.

Già dentro al Paradiso, oppur fuori di esso, da un lago che il fonte formava, nascevano i quattro fiumi, Fison, Gihon, Tigri(Hiddekel) ed Eufrate, i quali ridussero alla disperazione quanti cercarono di conciliare ciò che se ne dice nella Genesi con una realtà geografica qualsiasi. Circa gli ultimi due non vi fu dubbio, generalmente parlando; ma circa i due primi le opinioni furono infinite, e chi volesse raccogliere tutte quelle che si trovano sparse negli scrittori ecclesiastici e non ecclesiastici potrebbe formare un volume che riuscirebbe di mole non picciola e di assai maggiore fastidio. Basti dire che non vi fu fiume di qualche importanza il quale non siasi fatto venire dal Paradiso. L'antica, diffusa e comoda dottrina del corso sotterraneo, e anche sottomarino dei fiumi, permetteva, a tale riguardo, e rendeva inconfutabile qualsiasi più arrischiata e più strana opinione; e la confusione, solita a farsi, dell'India con l'Etiopia agevolava le più chimeriche fantasie. Ne ricorderò solo qualcuna.

Che uno dei quattro fiumi, e propriamente il Gihon, fosse il Nilo è credenza antica. Già Giuseppe Flavio, certamente non primo, asseriva che il Gange, l'Eufrate, il Tigri e il Nilo derivanodal fiume paradisiaco che cinge tutto intorno la terra. Nel medio evo quella credenza fu molto comune e sarebbe lungo ed ozioso recarne le testimonianze: la confusione, pur ora notata, fra l'India e l'Etiopia doveva favorirla e la favorì nel fatto. Secondo gli autori del Bundehesh e dell'Avesta, risalendo l'Indo e il Nilo si giungeva all'Hara-berezaiti. Altri, per ragioni facili a intendere, fece venire dal Paradiso il Giordano; e altri, non si sa perchè, il Danubio. Federigo Frezzi, per non far torto a nessuno, fa venire dal Paradiso, oltre i quattro fiumi biblici, anche il Danubio, il Po, il Reno, il Tanai.

Ma al Paradiso i soli fiumi d'acqua non potevano bastare, e Tertulliano vi fa scorrere i rivi di latte. Più di un rabbino parla di fiumi di latte, d'olio, di vino, di balsamo; e Maometto se ne ricorda descrivendo il luogo di beatitudine serbato a' suoi seguaci. Cosa ben più strana, vi scorreva anche un fiume di pietre preziose. Veramente, da prima, si parla di uno o più fiumi che, venendo dal Paradiso, trascinano con sè grande quantità d'oro, d'argento e di gemme. Nel già citato libro di Juniore Filosofo è detto che quelle genti, le quali abitano in prossimità del Paradiso terrestre, raccolgono con reti le gemme che seco mena un fiume. Per Brunetto Latini questo fiume è l'Eufrate; ma secondo Giordano da Sévérac le gemme abbondano in tutti e quattro i fiumi. I fiumi del paradiso di Maometto hanno le rive d'oro, il letto pieno di rubini e di perle, scorrono fra montagne di muschio; e nella paradisiaca dimora di Quetzalcoatl, quale la immaginarono gli Aztechi, sono in copia, fra molte altre cose meravigliose, le gemme e i metalli preziosi. Nella ricordata lettera del Prete Gianni all'imperatore Emanuele si discorre di un fiume, chiamato Idono, il quale, venendo dal Paradiso, mena con sè gran quantità di smeraldi, di zaffiri, di carbonchi, di topazii, di crisoliti e di altre pietre preziose; e si discorre di un altro fiume, il quale passa sotterra, menando similmente con sè grandissima copia di gemme. Di questo secondo fiume, che dà occasione a una delle avventure di Sindbad il Navigatore nelle Mille e una Notte, non è detto che venga dal Paradiso. Un piccolo sforzo ancora e si avrà il fiume di sole gemme immaginato da Giovanni d'Outremeuse(secolo XIV), fiume che sbocca nel mar dell'arena; nè quello era uno sforzo difficile a fare, giacchè di un fiume di sassi e di un mare d'arena, che si vedevano in Asia, parecchi avevan narrato le meraviglie.

Era naturale che nel Paradiso terrestre si ponessero tutte le ricchezze e tutti gli splendori: l'oro, l'argentoe le gemme vi dovevano essere in abbondanza. Un passo di Ezechiele mostra sì fatta tendenza in modo assai spiccato; il monte Meru, secondo una delle molte immaginazioni cui porse argomento, aveva quattro lati, l'uno d'oro, l'altro di cristallo, il terzo d'argento e il quarto di zaffiro. Nell'Elisio descritto da Platone gli alberi recano gemme, come nel paradiso di Maometto; e nella Gerusalemme celeste descritta dall'autore dell'Apocalissi, abbondano le pietre e i metalli preziosi. Delle molte gemme che sono nel Paradiso terrestre Tertulliano ricorda il prasio, il carbonchio, lo smeraldo, e Alcimo Avito afferma che quelle che noi chiamiamo gemme sono i sassi di colà. Sebbene il Mandeville dica che non si può sapere di che cosa sia formato il muro del Paradiso, tanto lo velano agli altrui sguardi il musco e l'edera, pure molti sapevano ch'esso era di materia preziosissima e tutto tempestato di gemme. Secondo qualche rabbino, tutto il Paradiso era selciato di pietre preziose e di perle. Si sapeva inoltre che Adamo, uscendo dal giardino, aveva potuto recar con sè l'oro, l'incenso e la mirra che dovevano poi, dai Re Magi, essere offerti al bambino redentore, e deporli, insieme con altre ricchezze, in una caverna, detta, per ciò appunto, la Caverna dei Tesori. Se si pensa alle virtù meravigliose, che già nell'antichità, e poi, durante tutto il medio evo, si attribuirono alle gemme, virtù di cui si discorre largamente nei Lapidarii, e al significato simbolico che si soleva dar loro, non parrà strano che di gemme si volessero pieni il Paradiso e le sue acque.

Il Meru, quale è descritto nel Mahâbhârata, è coperto d'oro, e aureo è detto nei Purâni. Aureo meriterebbe d'essere chiamato anche il Paradiso terrestre. Il muro che lo serra è, talvolta, tutto d'oro, e d'oro sono i palazzi e le chiese ch'esso contiene. Un soldato di cui San Gregorio narra la visione, passa un fetido fiume, e giunge a prati fioriti, dove si stan costruendo, di mattoni d'oro, mirabili case. Note sono le relazioni mitiche dell'oro con la luce, col sole, con la felicità. Una città d'oro, stanza di beatitudine, sognarono gl'indiani; la Gerusalemme celeste sfolgora d'oro; i palazzi del paradiso di Maometto sono costruiti d'oro, di perle, di smeraldi e di rubini. El Dorado chiamarono gli Spagnuoli la nuova terra di promissione.

Con tali condizioni di luogo e di clima quali abbiamo vedute, con tanto rigoglio di vegetazione soprammirabile, con tanto splendore di metalli preziosi e di gemme, il Paradiso terrestre doveva essere di tale bellezza

e magnificenza da vincere ogni più ardita e fervida fantasia. Ma ciò appunto doveva stimolare e far vie più intenso il desiderio di rappresentarselo ecolorirselo nella mente, di descriverlo con parole. Chi sa quante anime innamorate di solitarii e di reclusi lo sognarono nelle ore di estatica contemplazione, credettero d'intravvederne gl'immortali splendori nello spettacolo d'un tramonto pomposo! I primi poeti cristiani, che presero a sparger di fiori la nuda terra del Golgota e a lumeggiare l'austera speranza sorta novamente negli animi, andarono a gara in narrarne le divine delizie. Bisognava che gli uomini conoscessero ciò che avevano perduto per poter meglio intendere il pregio di ciò che il sangue di Cristo aveva loro ridato. Tertulliano, Proba Falconia, Prudenzio, Draconzio, Mario Vittore, Alcimo Avito, ci lasciarono tutti descrizioni calde di entusiasmo e non prive di merito, le quali hanno questo carattere comune, che tutte traggono elementi, colori ed immagini dalle descrizioni che i poeti gentili avevan fatte, degli Elisii. Nè questo poteva sembrare ai poeti cristiani un procedimento illegittimo, giacchè essi credevano che il mito degli Elisii altro non fosse se non una ricordanza e come dire un riflesso alterato del racconto biblico. E fu appunto la gran somiglianza di sì fatte descrizioni quella che permise di attribuire a Lattanzio il noto poemetto De Phoenice, il quale, non solo non è di lui, ma non è, forse, nemmeno di autore cristiano, e in cui si descrive, non già, come fu creduto, il Paradiso terrestre, ma il Bosco del Sole. Proba Falconia formava la descrizion sua, e tutto il compendio del Vecchio e del Nuovo Testamento di cui quella descrizione è parte, con versi tolti a Virgilio. Mario Vittore chiamava il Paradiso col nome di Tempe, e sebbene in certa Epistola de perversis suae aetatis moribus ad Salmonem abbatem rimproverasse, più specialmente alle donne, di posporre Salomone e Paolo a Virgilio, ad Ovidio, ad Orazio, a Terenzio, i suoi versi sono tutti pieni di reminiscenze classiche. L'autore di un metrum in Genesim(forse Ilario d'Arles, ancor egli, come Mario Vittore, del V secolo), prendeva a modello il primo libro delle Metamorfosi, e Sidonio Apollinare, cristiano, descriveva gli Orti del Sole con quelle parole medesime che si usavano a descrivere il Paradiso terrestre.

Le descrizioni del Paradiso terrestre si possono dire innumerevoli, e vanno moltiplicando dai primi tempi del cristianesimo, attraverso il medio evo, sino ai giorni nostri, e sono in verso e in prosa, e sono in tutte le lingue. Compajono com'è naturale, nei Commentarii alla Genesi, negli Hexaemera, nelle Bibbie versificate e istoriate, in molti trattati teologici; compajono in trattati scientifici, varii di natura e di forma;

compajono in cronache, in Visioni, in leggende; compajono in poemi d'ogni sorta. I rabbini gareggiano in così fatte descrizioni coi dottori e coi poeti cristiani, e di gran lunga li vinconoquanto a stranezza e audacia d'immaginazioni; e tra' cristiani v'è chi non si contenta delle descrizioni fatte da uomini, ma altre ne pone in bocca a Dio stesso e agli stessi demonii.

Molte di quelle descrizioni sono documenti assai notabili del carattere che venne assumendo nei primi secoli del cristianesimo e nel medio evo il sentimento della natura. La natura vi è idealizzata conformemente a una immaginazione di bellezza e di giocondità sovrammondana, che il Frezzi rese non infelicemente in tre versi:

Rallegra tutto il cor quel paradiso:

Ivi ogni cosa intorno m'assembrava

Un'allegrezza di giocondo riso.

Il Paradiso terrestre diventava un prototipo di bellezza, e suscitava altre immaginazioni affini, e di esso si ricordavano quanti poeti prendevano a descrivere luoghi di delizie e di felicità. Isole e giardini d'incantevol bellezza abbondano nei poemi cavallereschi, nei romanzi di avventura, e hanno col Paradiso terrestre anche questa somiglianza, che rinchiudono un principio malvagio, una causa di scadimento e di perversione, come i giardini di Alcina e di Armida. Il paese delle fate, o pays de faërie, o semplicemente Faërie, spesso descritto nei romanzi francesi, ha col Paradiso terrestre moltissima somiglianza, e così l'hanno il regno sotterraneo di Venere nella leggenda tedesca, e quello della Sibilla nella leggenda italiana.

E a somiglianza del Paradiso terrestre fu immaginato il Paradiso celeste, come già prova la Gerusalemme celeste dell'Apocalisse, e come si può vedere negli scritti di parecchi Padri. Tale somiglianza è spiccatissima in un Rhythmus de gloria et gaudiis Paradisi, falsamente attribuito a Sant'Agostino, ma certamente assai antico. San Pier Damiano pone nel Paradiso celeste prati fioriti, odori soavi, musiche meravigliose. Leggendo certa poesia latina pubblicata dal Böhmer, non s'intende di qual Paradiso il poeta voglia parlare, fino a che, a togliere il dubbio, non appajono il trono dell'Eterno, e i cori dei santi e degli angeli che gli stanno d'intorno. Talvolta il Paradiso terrestre e il celeste sono fusi insieme e ne formano un solo.

Tali, quali abbiamo vedute, erano le bellezze e le meraviglie di quello

che gl'Italiani chiamarono dolcemente il Paradiso deliziano: vediamo ora quali ne fossero, o ne fossero stati, gli abitatori.

I' vidi apertamente,

Come fosse presente,

Li fiumi principali,

Che son quattro; li quali,

Secondo lo mio avviso,

Muovon dal Paradiso:

Ciò son Tigris, Fison,

Eufrates e Geon.

L'un se ne passa a destra,

L'altro ver la sinestra:

Lo terzo corre 'n quae,

Lo quarto va in lae:

Sì, ch'Eufrates passa

Ver Babilone cassa

In Messopotamia;

. . . . . . . . . .

Erat autem murus ingens iuxta flumen positus

Et in summitate muri campus amenissimus.

Ipse murus velut eris protendebat speciem

Sine manu constitutus a summo artifice.

Sed et via per anfractus inerat deposita,

Per quam poterat ascendi ad camporum menia.

Ergo cum illuc transiret vir prefatus spiritu,

Vidit beatorum turbas tripartita gradibus.

Prima hora ultra flumen super muri verticem

Trahet iter in immensum spatiorum limitem.

Ibi loca spaciosa illustrata lumine

Et in ipsis gens beata fruens pacis requie.

Ibi silve quam condense diversarum arborum

Poma ferunt universe saporum suavium,

Alte valde ut excedant ceterarum species.

Umbra quarum fit iocunda caloris temperies.

Abest anguis, abest rana, abest mala bestia,

Totum pulchrum, totum tutum, totum plenum gloria.

Il pellegrino vorrebbe penetrare in quel luogo di delizie,

Sed cum multa perlustrasset ad radicem ducitur

Montis alti cuius rupis murus est argenteus.

Vidit scalam elevatam super montis verticem,

Per quam scandit et iustorum contemplatur speciem.

Ibi quoque spaciosam perspicit planitiem,

Spatiose visionis exhibens blandiciem.

Inter species herbarum prata viridantia,

Liliorum et rosarum redolet fragrancia.

Ibi multi dividuntur rivulorum impetus,

Qui de fonte vite fluunt in mille meatibus.

CAPITOLO III. GLI ABITATORI DEL PARADISO TERRESTRE.

Il primo uomo, e il primo abitatore umano del Paradiso terrestre fu, secondo la Genesi, Adamo. Il mito ampliato e variato de' tempi posteriori s'attenne scrupolosamente, per questo rispetto, alla parola biblica, ela invenzione dei preadamiti, che prima di Adamo avrebbero dovuto popolare la terra, è una invenzione assai tarda, ignota ai cristiani dei primi secoli, ignota a quelli dei tempi di mezzo. Eva fu la compagna di Adamo nel beato soggiorno.

Il racconto biblico è assai sobrio di notizie intorno ai due primi parenti; ma una tal sobrietà non poteva appagare la fantasia dei credenti, memori dell'antico peccato e consci della infelicità ond'esso era loro stato cagione. Il bisogno di conoscerne meglio gli autori, le condizioni, le conseguenze, nacque spontaneo negli spiriti; e da quel bisogno ebbe origine una moltitudine d'immaginazioni, le quali ripeterono fantasticamente tutta la storia dei due protoplasti, dalla creazione alla morte, e più oltre ancora, sino alle vicende della più prossima loro discendenza. In grazia di quelle immaginazioni, il succinto e arido

racconto biblico si muta in un lungo romanzo pieno di meraviglie e di stravaganze, le cui parti non sono tutte insieme congiunte; anzi si può dire che formino come tanti romanzi separati, aventi il soggetto medesimo, e informati, generalmente parlando, dal medesimo spirito. Esse appartengono, quando in comune, quando in particolare, alle tre grandi famiglie religiose che nei libri dell'Antico Testamento cercano il verbo primo, se non anche l'ultimo, delle loro credenze: ebrei, cristiani, maomettani.

Prima di passare a vedere un buon numero di quelle immaginazioni, non sarà fuor di luogo dare una rapida indicazione delle fonti da cui esse derivano, o, per parlar più giusto, giacchè ben poco si conosce circa le loro origini prime, delle scritture in cui ebbero a raccogliersi. Le principali sono: 1º, Alcuni trattati del Talmud; 2º, la Piccola Genesi, o Libro dei Giubilei, opera di autore ebraico, anteriore a Gesù Cristo; 3º, Il Combattimento di Adamo ed Eva, tradotto dall'arabico in etiopico, e malamente attribuito a Sant'Epifanio, vescovo di Cipro; 4º, La Caverna dei Tesori, già ricordata; 5º, Il Testamento d'Adamo, il quale è, assai probabilmente, tutt'uno con l'Apocalissi d'Adamo di cui fa parola Sant'Epifanio, e con la Penitenza d'Adamo registrata nel decreto di papa Gelasio; 6º, Il Libro d'Adamo dei Mandaiti; 7º, una Vita greca: 8º, una Vita latina; 9º, il Corano, e non poche storie, e non pochi trattati geografici degli Arabi.

Le prime favole di cui noi dobbiamo ora prendere notizia sono quelle concernenti la creazione di Adamo e di Eva. Anzi tutto è da ricordare che i cabalisti conobbero un tipo celeste dell'Adamo terrestre, e lo chiamarono col nome di Adam Kadmon, e che un Adamo celeste si mostra pure nelle dottrine dei primi gnostici. La Bibbia si contenta di dire che il Signore plasmò il corpo di Adamo della polvere della terra; ma tale linguaggioparve poi ai credenti troppo generico. Secondo una finzione dei rabbini, la polvere con cui Dio plasmò quel corpo fu raccolta da tutta la faccia della terra; secondo una finzione analoga dei musulmani, la terra necessaria fu dai quattro angeli maggiori recata dai quattro punti cardinali: solo il cuore ed il capo furon fatti di terra tolta nei campi dove sorsero poi la Mecca e Medina, la santa Kaaba e il sepolcro del profeta. Ebrei e cristiani vollero far notare, che Adamo era stato creato di terra vergine, di terra, cioè, non ancora bagnata e polluta dalla pioggia e dal sudore e dal sangue, nè seminata, nè arata; e Sant'Agostino, per tal ragione, poneva il nascimento del primo uomo a riscontro del

nascimento di Cristo, figliuol d'una vergine. La terra non parve più materia sufficiente a tant'opera, e si disse che Adamo fu formato di otto parti diverse, e che la terra fu una delle otto, assegnando le altre, con più varie enumerazioni, a elementi diversi, o sostanze, o corpi; per esempio: mare, sole, nuvole, vento, pietre, spirito santo, chiarità del mondo. La credenza del resto che l'uomo fosse formato di otto parti, si vede già ricordata da Plutarco, il quale l'attribuisce agli stoici. Stando a un'opinione assai diffusa, Adamo fu creato nell'agro damasceno; ma parecchi affermarono ch'ei fu creato in Ebron, presso Gerusalemme, e ciò per ragioni che vedremo tra poco.

I musulmani, i quali narrano più cose mirabili del modo con cui l'anima immortale fu introdotta da Dio nel corpo appena plasmato, e del diffondersi di quella per le varie membra e pei sensi, in guisa che ciascuno ne ricevesse la vita, i musulmani asseriscono che il primo uomo fu creato un venerdì, nell'ora in cui i credenti sogliono recitare la terza preghiera, a egual distanza dal mezzodì e dal tramonto del sole; e s'accordano così, quanto al giorno, con ebrei e con cristiani. Dice Sant'Ireneo che Adamo fu creato un venerdì, e di venerdì peccò, nel qual giorno poi ebbe a morire il Redentore per ricomprar quel peccato. Altri scrittori ecclesiastici notarono che come Adamo fu creato il sesto giorno, così Cristo nacque nel sesto millenario. Vedremo in seguito altri riscontri e collegamenti simili, immaginati per coordinare sempre più fra loro i due fatti del peccato e della redenzione, dei quali l'uno era causa e l'altro effetto; ma gioverà notare sin da ora che nel racconto biblico quel benedetto giorno non è molto sicuramente indicato, perchè mentre in una parte l'uomo appar creato nel sesto, subito dopo i bruti, in un'altra appar creato prima dei bruti e prima delle piante; altro segno della poca curacon cui furono congiunte insieme le due tradizioni. Nel Bundehesh si legge che Ahura Mazda spese settantacinque giorni in formar l'uomo: non so che nulla di simile siasi detto del creatore di Adamo.

Ma non da tutti si credette che di una così vile e malvagia creatura come subito ebbe a mostrarsi l'uomo potesse essere fattore Iddio. Gli gnostici, che tanto travaglio diedero alla Chiesa primitiva, e per oltre due secoli ne minacciarono le dottrine e l'esistenza; gli gnostici, per cui la materia era la corporalità stessa del male, affermarono che tutta la creazione, e però anche l'uomo, fosse fattura, non già di Dio, ma del Demiurgo, il quale, nella loro concezione dualistica, s'immedesima sempre più col principio del male, e contro cui è tutta rivolta l'opera

salutare di Cristo. Pei Marcioniti il Demiurgo creatore è bensì il Dio degli Ebrei, ma è, in pari tempo, un principio malvagio, contrapposto al Dio superiore, il quale è tutto amore e bontà. Il Demiurgo creò l'uomo e gl'infuse il suo spirito. Fra i Manichei il Demiurgo assume talvolta il nome di Satana. Nel Libro d'Adamo dei Mandaiti, libro tutto penetrato di dottrine gnostiche, si dice che il corpo del primo parente fu creato da genii malefici. Nel medio evo i Concorezensi, i Bogomili e i Catari pensarono che i primi parenti fossero spiriti angelici rinchiusi in corpi plasmati da Satana, e che fosse un'illusione e un inganno dello stesso Satana il Paradiso terrestre.

Che Eva fosse stata creata con una costa d'Adamo fu generalmente ammesso dalle varie famiglie di credenti che si attennero al racconto biblico; e alcuni rabbini seppero dire perchè il Signore avesse scelta quella parte del corpo anzichè un'altra, e provarono pure che, togliendola ad Adamo, Dio non era stato un ladro. Ciò nondimeno una opinione diversa ebbe pure a sorgere, che suggerita da un'altra ambiguità di quel racconto medesimo, trovò numerosi seguaci fra i rabbini, e qualcuno anche tra i cristiani; la opinione cioè che Adamo fosse creato primamente androgino, o con due corpi di sesso diverso, congiunti insieme e poi separati da Dio. La celebre visionaria Antonietta Bourignon(1616-1680), la quale giunse a veder l'Anticristo, vide pure il primo padre Adamo, quale fu nella sua gloria, e lo vide androgino; ma a modo suo. In luogo di membro virile egli aveva un naso, simile in tutto a quello che adorna il volto, e provveduto delle medesime facoltà; e nel suo ventre avveniva così la produzione come la fecondazione degli ovuli da cui nascevano altri uomini.

Naturalmente si volle che, prima del peccato, Adamo avesse avuto un corpo molto più perfetto che non ebbe di poi, e chenon sia questo nostro; e si disse che, mentre durò nello stato d'innocenza, egli fu tutto luminoso. Altrettanto si narrò di quel Yami della mitologia indiana, il quale ha con l'Adamo biblico più di una somiglianza. Nell'Evangelo di San Matteo è detto che i giusti risplenderanno come il sole nel regno del padre loro, e di una parziale lucidità miracolosa apparsa nel corpo di un santo uomo parla Cesario in uno de' suoi racconti. Alcuni rabbini pensarono che Dio avesse creato Adamo con la coda, ma che poi gliela togliesse per amor di bellezza; e qualcuno pur ve ne fu che di quella coda disse formata Eva. Ad ogni modo, Adamo fu la più bella delle creature, superiore in bellezza agli angeli ingelositi, inferiore solamente a

Dio; ed Eva fu la sua degna compagna; e se poteva importare, per altri rispetti, che essi avessero, o non avessero avuto ombelico, per la bellezza non importava gran fatto.

Ebbero bensì statura acconcia alle altre loro perfezioni. Secondo i rabbini, Adamo toccava col capo il cielo, si stendeva da una a un'altra estremità della terra. Gli angeli ne furono sgomenti, e allora Dio lo rimpicciolì sino a mille cubiti; oppure, dopo il peccato, gli gravò una mano sul capo e lo ridusse di 1000, 900, 300 o 200 cubiti. Anche pei musulmani Adamo toccava col capo il primo de' sette cieli, e opinioni consimili corsero tra' cristiani. Mosè Bar-Cefa riferisce, in relazion con l'opinione che poneva il Paradiso terrestre nell'antictone, una credenza, secondo la quale Adamo ed Eva, essendo di smisurata statura, avrebbero attraversato l'oceano a guado per venirsene nella terra di qua. Non mancarono valentuomini che sulla vera ed esatta statura dei primi parenti istituirono lunghe e faticose indagini.

Il nome stesso di Adamo diede argomento a parecchie strane immaginazioni, perchè non pareva possibile che il nome imposto al primo padre da Dio medesimo, non fosse formato in qualche maniera speciale, non contenesse alcuna significazione occulta. Giuseppe Flavio si contenta di dire che Adamo vuol dire Il Rosso, e che il primo uomo fu così denominato perchè formato di terra rossa; ma in un opuscolo De montibus Sina et Sion, falsamente attribuito a San Cipriano, si mostra come il nome Adam sia formato delle quattro lettere con cui principiano, in greco, i nomi dei quattro punti cardinali, ἀνατολή, δύσις, ἄρκτος, μεσημβρία; e ivi stesso si svela che nel nome di Adamo era indicato il tempo della passione di Cristo e il numero d'anni speso da Salomone in costruire il Tempio. Sant'Agostino dice che quella composizione del nome di Adamo sta a mostrare, sia che la discendenza di Adamo si spargerà per le quattroplaghe della terra, sia che dalle quattro plaghe saranno raccolti gli eletti. Per quella ragione Adamo fu detto tetragrammatos e microcosmo. Tralascio di parlar di coloro che nei nomi di Adamo e di Eva trovarono, o credettero di trovare, le prove del solito mito solare.

La creazione del primo uomo, se fu incominciamento d'iniquità e di sciagura sopra la terra, fu pure cagione di discordia e di ruina nel cielo. Narrano i rabbini, che come appena si sparse colassù la nuova che l'Eterno voleva creare Adamo, si affollarono intorno al trono di lui gli angeli e i genii, de' quali, parte lo esortavano a crearlo, e parte ne lo dissuadevano. Gli angeli della Misericordia, della Pace, della Giustizia e

della Verità, espressero varii sentimenti e diedero opposti pareri. Quest'ultimo gridò piangendo: "Padre del vero, tu crei sulla terra il padre della menzogna". Ma l'Eterno rassicurò le schiere degli spiriti, dicendo che la verità avrebbe legato la terra col cielo; e Adamo fu creato. Nel Corano il contrasto si aggrava, e produce effetti disastrosi. Dio, dopo che ebbe creato Adamo, chiamò le schiere degli angeli suoi perchè onorassero la nuova creatura. Tutti si piegarono volentieri al divino comando, salvo Iblîs, l'angelo superbo, il quale ricusò d'inchinarsi alla creta, e fu per tale disobbedienza cacciato dal cielo; di che poi si vendicò, trascinando l'uomo e la donna al peccato. Fantasie simili ebbero anche i cristiani, e si può tener per sicuro che Maometto, il quale da cristiani e da ebrei toglieva ciò che gli tornava utile, ne conobbe qualcuna. Nella Vita latina ricordata di sopra, Satana stesso narra ad Adamo la cagione della sua caduta. Creato l'uomo, Dio ordinò a tutti gli angeli di adorare quella sua immagine. Primo obbedì Michele, il quale poi fece obbedire gli altri; ma Satana, tenendosi troppo da più di Adamo, ricusò di adorarlo, e alle minacce di Michele rispose che porrebbe la sua sede sopra gli astri del cielo, e si farebbe simile all'Altissimo. L'ira dell'Altissimo piombò su di lui. Egli fu espulso, insieme coi suoi seguaci, dal cielo, e per vendicarsi trascinò alla colpa chi fu involontaria cagione della sua caduta. Qualche accenno a sì fatto mito si trova già, come fu notato da altri, in Tertulliano, in Sant'Ireneo, in Sant'Agostino. Questi lo ricusa, e sostien la opinione che Satana cadde per superbia nell'inizio dei tempi.

Il primo uomo aveva, del resto, qualità e pregi quasi divini, tali, insomma, da meritargli l'ammirazione e la reverenza degli angeli. In più luoghi si trova detto che egli vinceva in perfezione tutti gli spiriti celesti: stando a una delle tante fantasie rabbiniche, gli angeli, vedutolo, credettero ch'egli fosseun secondo Dio, e l'unico vero Dio, per disingannarli, lo fece cadere in un profondo sopore, Non si dimentichi che in molte altre mitologie il primo uomo è un dio, o quasi un dio.

Adamo fu il più sapiente degli uomini, superato solo da Cristo, l'Uomo Dio. Seguendo San Tommaso e la tradizione patristica, dice Dante che in Adamo e in Cristo fu infuso da Dio stesso

Quantunque alla natura umana lece

Aver di lume.

Sapere connato dunque, non acquisito. I cabalisti pensarono invece che Adamo fosse stato ammaestrato dagli angeli, e Mosè Maimonide

asserì ch'egli fu uno stolto finchè non ebbe gustato il frutto proibito. La opinione, per altro, ch'egli avesse in sè, comunque acquistata, ogni dottrina, fu la opinion prevalente. Alcuni rabbini dissero che Dio stesso mandò ad Adamo, per mezzo dell'angelo Rasiele, un libro, in cui erano dichiarati tutti i secreti del cielo, ed esposte tutte le sante dottrine, e che gli angeli scendevano apposta per udirne la lettura. Questo libro miracoloso ritornò da sè stesso in cielo dopo il peccato; ma quando Adamo ebbe fatto penitenza, Dio ordinò all'arcangelo Raffaele di riportarglielo, e Adamo ne fece diligente lettura, e lo lasciò, morendo, a Seth. Una finzione simile a questa corre tra' musulmani: nella fantasia di taluno il libro diventò un vero e proprio libro di magia. Adamo fu tenuto inventore dei caratteri, peritissimo in astrologia e, generalmente parlando, institutore di tutte le scienze e di tutte le arti. Frutto di tanto sapere furono parecchi libri. Sant'Epifanio ricorda certe rivelazioni attribuite dagli gnostici ad Adamo; alcuni rabbini parlarono di un libro di singolarissimo pregio in cui egli raccolse quanto nel Paradiso terrestre udì dalla bocca di Dio; Mosè Maimonide dice che i Sabei facevano Adamo autore di trattati sopra l'agricoltura: persino libri di alchimia gli furono attribuiti. Due salmi si volle fossero opera sua. Eva dovette avere, in qualche parte almeno, il sapere di Adamo: Sant'Epifanio fa menzione di un evangelo che si diceva dettato da lei.

Una solenne e innegabile prova del suo sapere, se non altro filologico, diede Adamo quando, essendogli stati condotti innanzi, da Dio, tutti gli animali creati, egli seppe nominar ciascuno in settanta lingue diverse, mentre, per confession dei rabbini, gli angeli non avevano saputo nominarli nemmeno in una lingua sola. Gli è vero, per altro, che di solito non si concede ad Adamo la cognizione di tante lingue quante ne nacquero poi, al tempo della edificazione della Torre di Babele; ma si ragiona della lingua parlata da lui come di una lingua assai più perfetta che non quelle venute dopo, e perdutasi già sin dai tempi della prima sua discendenza.

La lingua ch'io parlaifu tutta spenta

Innanzi assai ch'all'ovra inconsumabile

Fosse la gente di Nembrot attenta,

dice lo stesso Adamo a Dante, là nel Paradiso. Vero è che nel trattato De vulgari eloquentia, Dante aveva affermato che la lingua parlata primamente da Adamo fu quella stessa che parlarono poi gli Ebrei, serbata integra, affinchè il redentore del mondo potesse parlare il

linguaggio della grazia, e non un linguaggio nato dalla confusione.

Vogliono alcuni che Adamo fosse introdotto da Dio nel Paradiso terrestre solo quaranta giorni dopo la sua creazione. Checchè sia di ciò, la felicità di cui godettero nel giocondo giardino egli e la donna sua fu quale noi non possiamo nemmeno immaginare, nonchè descrivere. Vivendo in terra, eglino eran fatti partecipi della vita del cielo. Nel Testamento ricordato pur dianzi, lo stesso Adamo racconta al figliuolo Seth quale fosse la condizione di lui e di Eva nel Paradiso, prima del peccato. Udivano il suono armonioso che moveva dalle ali dei serafini preganti; udivano la gran voce dell'acque, le quali, dal profondo, adoravano il loro fattore; udivano le preghiere di tutti gli esseri distribuite per le diverse ore del giorno e della notte. Fruivano della beatifica visione di Dio, e pascevano l'anime della parola divina. Godevano delle delizie incomparabili del giardino, circondati dalla reverenza e dall'amore di tutte le creature viventi.

Ma quanto tempo godettero di così invidiabile felicità? quanto durò, in altri termini, lo stato di loro innocenza? Su questo punto le opinioni divariano assai, giacchè nulla dicono le Scritture. San Giovanni Crisostomo crede che Adamo ed Eva non rimasero forse nemmeno un giorno nel Paradiso; e narrano alcuni talmudisti che Adamo peccò nella decima ora del giorno in cui fu creato, e che egli ed Eva furono pieni di terrore quando, essendo già stati cacciati dal Paradiso, videro per la prima volta in lor vita tramontare il sole. In Occidente si accreditò in più particolar modo la opinione che i primi parenti non rimanessero nel Paradiso più di sett'ore, dalla prima alla settima, o dalla terza alla nona del giorno in cui furono creati, o vi furono introdotti. Perciò dice Adamo a Dante:

Nel monte, che si leva più dall'onda,

Fu'io, con vita pura, e disonesta,

Dalla prim'ora a quella che seconda,

Come il sol muta quadra, l'ora sesta.

Ma altre opinioni vi furono in buon numero, delle quali alcune poco si dilungavano da questa, e altre moltissimo; e secondo che si badi all'una o all'altra, Adamo ed Eva sarebbero rimasti nel Paradiso un giorno, sei, nove, quaranta giorni, sett'anni, quindici, ventotto, un secolo. I maomettani ce li fanno stare cinquecent'anni.

Non si creda, del resto, che questi numeri fossero sempre immaginati

a caso; molte voltesi cercò in essi un indizio di misteriose e recondite colleganze tra i due fatti capitali della storia del genere umano, la caduta e la redenzione. Le condizioni e il modo di quella dovevano prenunziare le condizioni e il modo di questa. Perciò da taluno si fece durare il soggiorno dei primi parenti nel Paradiso quanto poi durò la passione di Cristo; e si disse che il peccato fu commesso l'ora sesta, nella qual ora Cristo fu posto in croce; e che l'espulsione avvenne l'ora nona, nella quale ora poi Cristo morì. Altre corrispondenze pure s'immaginarono. I quarant'anni dovevano rispondere agli altrettanti che gli Ebrei passarono nel deserto.

Secondo i musulmani, che drammatizzarono in assai poetico modo la storia della tentazione, Adamo resistette ottant'anni alle sollecitazioni di Eva, che voleva fargli gustare il fatal pomo. I cristiani non si curarono di sapere troppi particolari in proposito. Ammisero, senz'altro, che Adamo fu trascinato al peccato da Eva; e solo si mostrarono alquanto più curiosi di conoscere la vera qualità del peccato commesso da entrambi. La opinione ortodossa e legittima è ch'essi abbiano veramente trasgredito il divino precetto mangiando il pomo; non un pomo simbolico, ma un pomo reale. Divieti simili a quello di cui narra la Genesi si trovano in tutte le mitologie, e non di rado riguardano appunto una pianta; e di ciò non si meraviglia chi ricordi con quanta facilità gli uomini primitivi attribuissero ai frutti, o ai succhi di certe piante, virtù di conferire, sia la immortalità, sia un sovrumano sapere. Dante, che in così fatte questioni suol farsi ripetitore delle dottrine approvate dalla Chiesa, dice, parlando della sacra pianta del Paradiso terrestre:

Per morder quella, in pena ed in disio

Cinquemil'anni e più, l'anima prima

Bramò colui che il morso in sè punio;

e facendo consistere la colpa, non nel fatto materiale dello aver mangiato il frutto, ma nella disobbedienza, pone in bocca ad Adamo queste parole:

Or, figliuol mio, non il gustar del legno

Fu per sè la cagion di tanto esilio,

Ma solamente il trapassar del segno.

Alcuni talmudisti, per altro, pensarono, non ostante il detto divino Crescete e moltiplicate, che il peccato fosse consistito nella copula, e questa loro opinione ebbe seguitatori anche fra' cristiani.

Dove, quando seguì il primo accoppiamento dei due primi genitori? Anche intorno a ciò vi furono più disparate opinioni. Alcuni rabbini dicono ch'esso avvenne nel Paradiso, e che nel Paradiso furono concepiti Caino e Abele. I musulmani narrano meraviglie delle nozze di Adamo ed Eva, e del padiglione di seta sotto cui esse furono celebrate, nel bel mezzo del Paradiso. Ma i Dottori cristiani, tra cui San Girolamo e Sant'Agostino, sostennero sempre cheAdamo ed Eva uscirono vergini dal Paradiso terrestre, e non si congiunsero se non passato certo tempo, più o meno lungo, dalla loro espulsione; e Felice Faber afferma che, se fossero rimasti nel Paradiso, avrebbero generato senza perdere la verginità. Ad ogni modo si ammetteva da tutti che, immediatamente dopo il peccato, essi avessero perduto in certa guisa la verginità dello spirito, avvedendosi della nudità propria. Perciò parecchie sètte di eretici, che si chiamarono col nome di Adamiti, sorte in varii tempi, considerarono la nudità come un segno di libertà di spirito e d'innocenza, e rifiutarono ogni maniera di vesti.

Ma fu veramente Eva la prima moglie di Adamo? ed Eva, la gran prevaricatrice, fu ella sempre fedele al suo legittimo sposo? Strani dubbii si mossero intorno a ciò; anzi strane cose si affermarono. Fu credenza diffusa tra' rabbini che, prima di generar figliuoli con Eva, Adamo ne generasse con un demone femmina per nome Lilith, il quale vuolsi da taluno che sia una cosa istessa con Ilithia, dea della notte e dello spazio, adorata in Grecia ed in Egitto. Da quelle prime nozze nacquero molti spiriti maligni. Secondo un'altra finzione, Dio, prima di trarre Eva dalla costa di Adamo, creò di terra Lilith, la quale rifiutò di obbedire al marito, lo abbandonò, e divenne un genio malefico, infesto ai pargoli, e madre di demonii. Per contro, una favola satirica, dovuta assai probabilmente alla fantasia di un trovero, narra che, prima d'Eva, Dio aveva dato ad Adamo una compagna assai più perfetta; ma che Adamo, ingelositosi della superiorità di lei, la uccise, dopo di che Dio, per punirlo, diedegli Eva, che lo trasse al peccato. E fu persin detto che Adamo non ischifò di congiungersi con le fiere.

Eva, da canto suo, non avrebbe dato prova di troppo maggior continenza. Vogliono ch'ell'abbia avuto commercio con Samaele, principe de' demonii, e procreato con esso più figliuoli, tra cui v'è chi pone Caino, e anche Abele. Del resto le notizie intorno ai figliuoli di Adamo ed Eva sono molto confuse, e non di rado contraddittorie.

Negli apocrifi ricordati di sopra si narra l'aspra e dolorosa vita che

dovettero condurre i due primi parenti dopo la loro cacciata dal Paradiso; si narra la dura e lunga penitenza con cui si studiarono di cancellare il peccato e di racquistare la grazia e l'amore di quel Dio che avevano offeso; si narra la vecchiezza loro e la morte, supreme calamità che sulla terra produsse la colpa. Usciti dal luogo di beatitudine, si trovano in una terra inospitale ed ingrata, fra belve fatte nemiche; errano in cerca di cibo, e debbono contentarsi di quello onde lebelve si pascono. S'accostano di bel nuovo al Paradiso, con isperanza d'esservi riammessi, ma la speranza rimane delusa. Essi piangono vedendo i corpi loro tanto mutati da quelli di prima; piangono pensando alla felicità irreparabilmente perduta. Pregano senza fine il Signore, ne implorano la pietà, digiunando, rimanendo immersi per lunghi giorni nelle acque del mare, o in quelle del Giordano o del Tigri. Ma Satana, e gli spiriti suoi, non dànno loro pace, li insidiano in tutti i modi, tentano di ucciderli, seducono una seconda volta Eva, distogliendola dalla cominciata penitenza. A consolare tanta miseria, a confortare gli animi che stanno per cedere alla disperazione, viene di quando in quando dall'alto la voce del Signore, che annunzia il futuro perdono e la redenzione: a rinfrancare i corpi afflitti Dio misericordioso manda delle frutta del Paradiso. Nuovi uomini nascono sopra la terra e si vanno aggravando le conseguenze fatali della colpa. Caino uccide Abele: Adamo ed Eva piangono amaramente l'ucciso. Sono corsi nove secoli, e Adamo, stremato dalla vecchiezza e dalla malattia, manda il figliuolo Seth, manda la moglie, prima cagione di tanto soffrire, a chiedere al cherubino, cui fu commessa la custodia del Paradiso, l'olio di misericordia. Qui nuova promessa di futura redenzione. Adamo passa di questa vita, profetando nuove colpe e nuove sciagure; Eva non tarda a seguirlo. I figliuoli dànno sepoltura ai loro corpi, e la storia del mondo procede qual fu pronunziata, correndo incontro al Diluvio.

Tale in succinto, raccolta da' varii racconti, la storia dei due primi uomini dopo il peccato. Come ognuno può immaginar facilmente, più e più opinioni particolari si ebbero sopra tale, o talaltro punto di essa. Nel trattato Erubim si legge che la penitenza di Adamo durò centotrent'anni: secondo una tradizione musulmana, le lacrime ch'egli pianse dopo il peccato formarono il Tigri e l'Eufrate; secondo un'altra, quelle lacrime caddero sull'isola di Serendib, e produssero le piante medicinali e gli aromati. Uno dei tristi e più visibili effetti della colpa fu, a detta di certi rabbini, la calvizie. Circa il luogo ove i due primi parenti vissero dopo la espulsione dal Paradiso, e il luogo dove poi ebbero sepoltura, furono

varie credenze. Si disse da alcuni ch'e' furono rimessi nell'agro damasceno, ov'era stato creato Adamo. Secondo Sant'Epifanio(sec. IV), Adamo ed Eva dimorarono alcun tempo in prossimità del Paradiso, poi errarono per molte regioni, e finalmente vennero in Giudea, ove morirono. Dionigi di Telmahar(sec. IX) dice che la caverna dei tesori, ove ripararono e vissero i due cacciati, e sulla quale apparve poi la stella che guidò i Re Magi, era posta nell'ultimo Oriente, nella montagna di Scir, di contro all'oceano che cinge il mondo,e non lungi dal Paradiso terrestre. Coloro poi che ponevano il Paradiso nell'antictone, pensavano, come abbiam veduto, o che Adamo ed Eva fossero rimasti di là, e la progenitura loro similmente, sino al Diluvio, o che fossero venuti di qua, attraversando l'oceano. Secondo un'altra opinione, che fu diffusissima, così in Oriente, come in Occidente, e in Oriente è viva tuttora, Adamo ed Eva vissero gli anni del loro esilio nell'isola di Serendib, o Ceilan.

Questa credenza è, senza dubbio, di origine maomettana, o, piuttosto, è una credenza buddistica trasformata da maomettani; ed ecco in qual modo. Credevano, e credono ancora i buddisti, che il Budda soggiornò alcun tempo sopra un monte dell'isola di Ceilan, chiamato Langka dai bramani del continente; che quivi menò vita contemplativa; e che sollevandosi poi al cielo, lasciò nella rupe la impronta del proprio piede, visibile a tutti. I maomettani, usando un procedimento assai frequente nella storia delle leggende, riferirono ad Adamo quanto si narrava del Budda, e le due tradizioni continuarono a vivere l'una accosto all'altra. Di ciò ci porge una curiosa testimonianza Marco Polo nella relazione dei suoi viaggi. Egli dice che nell'isola di Ceilan, sulla cima di un alto monte, al quale non si può salire se non con l'ajuto di catene, è un sepolcro, che i Saracini dicono essere di Adamo, e gli idolatri(intendi i buddisti), di Sergamon Borcam. Il séguito del racconto mostra che questo Sergamon non è altri che il Budda, il quale andò soggetto, come è noto, ad una altra consimile trasformazione, diventando il santo Josafat della leggenda cristiana. Gli Arabi chiamarono il monte Rahun, e il primo loro scrittore che abbia fatto ricordo della leggenda sembra essere stato Suleymân. Edrîsi, il quale scrisse il suo trattato geografico alla corte di Ruggero II di Sicilia, nel 1154, Edrîsi, il quale attesta, fra tant'altre cose, d'aver visitato la grotta dei Sette Dormienti presso Efeso, e d'aver veduto i loro corpi tra l'aloe, la mirra e la canfora, non s'intende bene se morti, o sopiti di nuovo, riferisce la leggenda del monte, da lui chiamato el-Rahuk. A suo dire, narrano i bramani esservi sulla vetta del monte l'impronta del piè di Adamo, lunga settanta cubiti e luminosa. Da quel

punto, con un passo, Adamo giunse al mare, ch'è lontano due o tre giornate. Dicono inoltre i maomettani che Adamo, cacciato dal Paradiso, cadde nell'isola di Serendib, e quivi morì, dopo aver compiuto un pellegrinaggio al luogo dove poi doveva sorgere la Mecca. Una descrizione del monte si trova pure nei viaggi d'Ibn-Batûta.

La leggenda passò d'Oriente in Occidente, e dai maomettani ai cristiani; e il monte di Ceilan, chiamatopoi dai Portoghesi Pico de Adam, diventò celebre. Eutichio, patriarca d'Alessandria(m. 940) dice solo che Adamo fu cacciato in un monte dell'India; ma il monte è poi sempre quello di Ceilan. Odorico da Pordenone lo descrive succintamente, e narra che nella sommità di esso era un lago che quelli dell'isola dicevano formato delle lacrime piante da Adamo e da Eva per la morte di Abele. Giovanni de' Marignolli ha un racconto più particolareggiato e più esplicito. L'angelo di Dio prese Adamo, e lo posò sul monte di Ceilan, e l'impronta del piede di Adamo rimase miracolosamente impressa nel marmo, lunga due palmi e mezzo. Sopra un altro monte, lontano dal primo quattro piccole giornate, l'Angelo posò Eva, e i due peccatori stettero disgiunti, immersi nel lutto, quaranta giorni, trascorsi i quali, l'angelo condusse Eva ad Adamo, il quale era ormai disperato. Sulla prima montagna erano, oltre l'impronta del piede, una statua seduta, con la destra stesa verso l'Occidente; la casa di Adamo; una fonte di purissime acque, le quali si credeva venissero dal Paradiso, e in cui eran gemme, formate, secondo la opinione di quegli abitanti, delle lacrime di Adamo; un orto pieno d'alberi che recavano ottimi frutti. Molti pellegrini si recavano a visitare il santo luogo. Sulla fine del secolo XVII, Vincenzo Coronelli diceva ancora che sulla cima del monte era sepolto Adamo, e che ci si vedeva un lago formato delle lacrime versate da Eva per la morte di Abele. Quest'ultima affermazione contraddiceva a un'altra credenza, che non sembra, per altro, sia stata molto diffusa. Il già ricordato Burcardo di Monte Sion dice che nel fianco di un monte, nella valle d'Ebron, era la spelonca ove Adamo ed Eva piansero cent'anni la morte di Abele, e che ci si vedevano ancora i letti su cui avevano dormito, e la fonte delle cui acque avevano bevuto.

Se fu posta sulla sommità del monte di Ceilan, la sepoltura di Adamo fu posta pure in molti altri luoghi. Secondo una leggenda orientale, Adamo fu seppellito nel Paradiso terrestre; e nella già più volte ricordata Vita latina si dice il medesimo; e nell'Apocalissi greca si dice anche di Eva. Ma questa credenza non ebbe molto favore. Nel Testamento di

Adamo si narra che Adamo fu seppellito a oriente del Paradiso, e che gli stessi angeli e le Virtù del cielo ne fecero i funerali. Nel Combattimento di Adamo ed Eva il racconto si arricchisce di particolari a questo riguardo, e si narrano parecchie vicende a cui andò soggetto il corpo del primo genitore. Adamo mancò l'anniversario del giorno in cui fu creato, ricorrendo l'ora in cui fu espulso dal Paradiso.Il suo corpo fu deposto nella caverna dei tesori, dove andarono a raggiungerlo a mano a mano i corpi degli altri patriarchi. Avvicinandosi il Diluvio, Noè e i figliuoli tolsero, per comandamento divino, dalla caverna il corpo di Adamo, insieme con l'oro, l'incenso e la mirra che v'erano stati raccolti, e lo portarono nell'Arca, lasciando gli altri corpi nella caverna, la quale fu chiusa da Dio per modo da non lasciarne veder segno; e così rimarrà sino al giorno della risurrezione. Molti anni dopo, morto Noè, Sem e Melchisedec traggono, per ordine di Dio, il corpo dall'Arca, e, guidati da un angelo, vanno a seppellirlo sul Golgota. Ecco qui la leggenda celebre che vuole sepolto il peccatore nel luogo stesso ove dovrà poi sorgere la croce del redentore, e che narra bagnata del prezioso sangue di questo il capo ribelle che non aveva saputo piegarsi al divino comandamento. Di questa, che certo è leggenda mirabile, s'inspirarono le arti del disegno: il teschio che in infiniti quadri si vede fuor di terra, appiè della croce, è il teschio di Adamo. Alcuni eretici si spinsero più oltre nei liberi campi della fantasia: essi identificarono il redentore col peccatore, fecero passar l'anima di Adamo prima in Davide, poi in Cristo. E Cristo fu anche detto secondo Adamo. Vogliono alcuni Padri della Chiesa greca che la tradizione, la quale dice Adamo sepolto sul Golgota sia di origine giudaica: concesso pure che tale sia la sua origine(e gli Ebrei dovevano essere naturalmente tratti a raccostare il padre del genere umano a Gerusalemme) bisogna riconoscere che quella tradizione aveva ogni desiderabil carattere per farsi accettar da' cristiani. Sant'Agostino esprimeva il pensiero e il sentimento di molti quando mostrava che alla riparazione nessun altro luogo poteva essere più acconcio di quello ove giaceva sepolto il colpevole. Accostandosi a certi racconti di cui dovrò parlare più innanzi, e seguitando una opinione professata da parecchi rabbini e da parecchi Dottori cristiani, dice l'inglese Sevulfo, nella relazione del viaggio che fece in Palestina negli anni 1102 1103, che Adamo era seppellito nella valle d'Ebron, insieme con Abramo, Isacco e Giacobbe. Di così ingegnosi collegamenti non si dilettarono, del resto, solamente gli ebrei e i cristiani: secondo una delle tradizioni maomettane, Adamo fu seppellito a poca distanza dal luogo ove doveva

sorgere la Mecca, sul monte Abù-Cais, oppure sul monte Arafat, dove Adamo si ricongiunse con Eva dopo centovent'anni di separazione.

Adamo ed Eva lasciarono, com'è ben naturale, lungo ricordo di sè, del loro peccato, e della punizione che gli tenne dietro, nella loro progenie, defraudata per essi della felicità a cui Dio la voleva chiamata, e data in preda ainenarrabili sciagure. Non si può aprire libro di sacro argomento senza incontrare i loro nomi, e un qualche cenno della istoria loro. Per secoli, durante tutto il medio evo, essi furono vivi nella coscienza dei credenti, che sognavano e agognavano, nella comune desolazione, la perduta felicità. Ai tempi di Michele Psello(sec. XI) si vedevano in un luogo di Costantinopoli le statue di Adamo ed Eva accanto a quelle della prosperità e della fame. Nella solitudine dei chiostri, i monaci si proponevano a vicenda indovinelli, cui porgevano argomento Adamo ed Eva, domandando per esempio: Chi morì senz'esser mai nato? Nei Misteri si vedeva la creazione dei due primi parenti, e tutta la storia dolorosa della tentazione e del peccato, sceneggiata. Nelle epopee francesi del medio evo sono molto frequenti le preghiere poste in bocca a tale o talaltro dei personaggi, e quelle preghiere cominciano assai spesso con un cenno alla creazione dei due progenitori e al peccato da essi commesso. Non era forse uscita da quel peccato tutta la storia dell'uman genere? I versi d'Alcuino esprimevano a questo riguardo la credenza e il rammarico di un infinito popolo:

Postquam primus homo paradisi liquerat hortos,

Et miseras terrae miser adibat opes:

Exilioque gravi poenas cum prole luebat,

Perfidiae quoniam furta et maligna gerit:

Per varios casus mortalis vita cucurrit,

Diversosque dies omnis habebat homo.

Ma lasciamo ora, per ritrovarli anco una volta un po' più innanzi, Adamo ed Eva, e volgiamoci ad altri abitatori del Paradiso.

Primi ci si presentano Enoch ed Elia, il patriarca e il profeta che mai non pagarono il debito loro alla morte, e vivi furono sottratti alla vista degli uomini. La tradizione che entrambi li pone ad abitare nel Paradiso terrestre è assai antica, e comune così ad ebrei come a cristiani: essa aveva una sua ragion naturale nel pensiero che chi scampava per divina grazia alla morte dovesse rientrar nel luogo ove la morte non poteva aver potestà, ov'era l'albero della vita. Sant'Ireneo, Tertulliano, Santo

Agostino, Mario Vittore, Gregorio di Tours, Sant'Aldelmo, altri assai, così del tempo più antico, come del medio evo, la ricordano, e se i più l'accettano, parecchi ancora la rifiutano. Un dubbio rimane, se il luogo dove i due santi soggiornano da secoli sia proprio il Paradiso terrestre. Nell'apocrifo Libro d'Enoch è detto che nessuno mai conobbe il luogo ov'ebbe ricetto il patriarca; e Alano de Insulis, per non recare altri esempii, in uno degli scritti suoi dice che il santo fu trasportato nel Paradiso terrestre, e in altro ch'egli fu trasportato, sia nel Paradiso terrestre, sia in luogo a noi occulto. Ma questo dubbio fu di pochi. Le leggende medievali ci mostrano assaispesso Enoch ed Elia nel Paradiso; e nel Paradiso li pongono Fazio degli Uberti e Federigo Frezzi; e Dante non dice qual ragione l'abbia indotto a non lasciarveli vedere.

Tradizioni simili a queste hanno i maomettani, i quali narrano che Enoch, da essi chiamato Edris, ed Elia(Kheder, Khidr) trovarono la fontana di vita, e avendo bevuto delle sue acque non conobbero la morte: essi sono pressochè sempre in moto per vegliare alla sicurezza dei pellegrini che si recano alla Mecca, e solo di tanto in tanto riposano in un paradiso ripieno di tutte le delizie. Il viaggiatore Abulfauaris dei Mille ed un giorno trova Elia e Kheder(qui Kheder è diverso da Elia) in un paradiso serbato agli amici e discepoli del profeta.

Enoch ed Elia compaiono di solito vecchissimi, sebbene questa loro vecchiezza male s'accordi con la credenza che nel Paradiso terrestre fosse la fontana di giovinezza. Essi non sono mai morti, e serbano il corpo che già ebbero mentre furon tra gli uomini; ma non per questo si sottrarranno alla comune e inflessibil legge cui è soggetta tutta la discendenza d'Adamo. La morte loro è solamente differita. Alla fine dei tempi essi torneranno sulla terra d'esilio, e combatteranno contro l'Anticristo, e saranno uccisi da lui, ma per risuscitare poco dopo, ed essere assunti alla gloria eterna del cielo. Questa credenza suggerita, per una parte, dalla opinione che i due santi dovessero, come tutti gli altri uomini, andar soggetti alla morte e alla risurrezione, e per un'altra, da ciò che nell'Apocalissi è detto di due testimoni non nominati, i quali saranno uccisi dalla bestia diabolica e poi risusciteranno, questa credenza ebbe tra' cristiani grandissima diffusione. Non senza variare tuttavia in parecchi particolari. Così qualche scrittore aggiunse terzo campione ai due primi San Giovanni; altri fece compagno ad Elia, non già Enoch, ma Mosè, o Geremia, o Eliseo; altri parlò del solo Elia. I rabbini favoleggiarono di un ritorno di Elia pel tempo della venuta del

Messia, e poi pel tempo della irruzione dei popoli di Gog e Magog. Non sarà fuor di luogo ricordare a questo proposito che Lao-Tseu si tolse agli occhi degli uomini ritraendosi sulle cime del Kuen-lun, ov'è il paradiso dei Cinesi; e che la rimozione, o segregazione(quella che i Tedeschi chiamano Entrückung) degli eroi, o di altri personaggi tra l'umano e il divino, è tema comune la molte mitologie.

Nell'Evangelo di Nicodemo Enoch ed Elia accolgono nel Paradiso terrestre le anime che Cristo ha liberate dall'Inferno, e a capo delle quali è Adamo. Che quel Paradiso dovesse esser luogo di dimora pei giusti e per gli eletti, fu opinione seguitata da molti, così tragli ebrei come tra' cristiani, e assai naturalmente suggerita dal pensiero che le anime riscattate da Cristo dovessero racquistare quanto la diabolica frode aveva fatto loro perdere. Sant'Isidoro Pelusiota(sec. V) dice che i giusti risorti saranno accolti da Cristo nel Paradiso terrestre, come nella propria lor patria, dalla quale li ha esclusi il peccato; e nel già più volte citato Combattimento di Adamo Dio promette al peccatore che il giorno in cui scenderà nel regno dei morti, e spezzerà le ferree porte dell'Inferno, condurrà le anime dei giusti nel giardino di beatitudine.

Ma la credenza prese, come si può bene immaginare, più forme, e se da molti fu accolta, fu pure da molti contraddetta. Nel Libro di Enoch, il quale, non tenendo conto di certe aggiunte posteriori, fu composto, secondo la più probabile opinione, oltre a cent'anni prima di Cristo, è fatta menzione del giardino ove abitano i giusti e gli eletti, e tale giardino è, senza dubbio, quello stesso di Adamo. Nel racconto di Rabbi Giosuè, figliuolo di Levi, ricordato di sopra, e in un altro racconto rabbinico, ove si narra un'avventura di Alessandro Magno, e del quale dovrò far parola più innanzi, si dice similmente che il Paradiso terrestre è luogo di dimora ai giusti, e nel secondo si soggiunge, sino all'universale Giudizio.

Tra' cristiani, i più di coloro che pensarono dovere i giusti aver ricetto nel Paradiso terrestre, asserirono che questo loro soggiorno sarà temporaneo, e durerà solo sino alla risurrezione e al Giudizio, dopo il quale ascenderanno in cielo. Taluno di essi volle usata ai soli martiri cotal grazia; mentre altri, o sostennero la opinione che giusti e rei sono accolti in un luogo medesimo sino al novissimo dì, o concedettero ai giusti d'entrare nel Paradiso celeste immediatamente dopo la morte. Quest'ultima opinione trionfò dopo il V secolo, e riuscirono vani gli sforzi con cui Giovanni XXII tentò di far prevalere la contraria dottrina, che gli

eletti non saranno ammessi alla beatifica visione di Dio se non dopo il Giudizio universale. Ciò nondimeno, questa dottrina, che l'Università di Parigi condannò come ereticale nel 1240, si vede implicitamente professata in alcune leggende, delle quali dovrò dire più oltre, e in parecchie Visioni. In esse, il luogo ove i giusti attendono il gran giorno, è talvolta il Paradiso terrestre, espressamente nominato, e talvolta un luogo non nominato, che può essere, o non essere, secondo i casi, il Paradiso. Beda narra di un uomo di Nortumbria che, pellegrinando nel mondo di là, giunse a una pianura fiorita e ridente, innondata di luce, chiusa da altissimo muro, e popolata da innumerevoli beati vestiti di bianco, i quali, non essendo statiperfetti in vita, attendono ivi il Giudizio. Non dice che fosse quello il Paradiso terrestre. Nel racconto di cert'apparizione, riferito da Gervasio da Tilbury, è fatto cenno di un Purgatorio nell'aria, e di un altro luogo, più remoto dalla terra, dove le anime dei giusti aspettano il novissimo giorno. Il monaco di Evesham, di cui narra la Visione Matteo Paris, trovò dopo essere uscito dai luoghi di punizione, anime beate, che soggiornavano in campi luminosi e fiorenti, separati dal Paradiso da un muro di cristallo. Nella Visione di Tundalo si parla di anime non abbastanza buone per meritare il cielo, le quali si stanno esultanti in una dilettosa campagna; ma non è detto che questa campagna sia il Paradiso terrestre, sebbene possa farlo credere la fontana di vita che vi si trova. Per contro nell'Apocalypsis Pauli sono anime beate, le quali aspettano nel Paradiso terrestre il giorno del Giudizio, in compagnia di Enoch ed Elia; e il medesimo si ha nella leggenda del Pozzo di San Patrizio, nella Visione di Frate Alberico e in altre.

Quel Thurcill, di cui narra la Visione il testè ricordato Matteo Paris, trovò nel Paradiso terrestre, seduto appiè di un albero meraviglioso, accanto alla fonte da cui scaturiscono i quattro fiumi, il primo padre Adamo, il quale sembrava ridere con un occhio e pianger con l'altro, ed era coperto di una veste di più colori e di meravigliosa bellezza. Egli rideva pensando ai discendenti suoi che andrebbero a vita eterna, e piangeva pensando a quelli che andrebbero a eterna dannazione. La sua veste non era intera, ma andava crescendo per le virtù dei giusti, simboleggiate nei colori di quella: quando sarà tutta compiuta il mondo avrà fine. Una Visione molto simile a questa narra di un novizio cistercense Vincenzo di Beauvais, il quale ne trae il racconto da Elinando. Qui nulla è detto di altri eletti che si trovino nel Paradiso; ma non si esclude che ci sieno. Altrove si ha notizia di altri particolari eletti,

di cui si recano i nomi, sia poi che ad essi diensi pochi compagni soltanto, o moltissimi, quanti possono essere i giusti. I rabbini nominano di proposito, oltre ad Enoch ed Elia, il Messia che deve venire, Elieser, servitore di Abramo, Hiram, re di Tiro, il quale, montato in superbia, ne fu espulso e precipitato nell'Inferno, e alcun altro, nove o tredici in tutto. Nell'Apocalypsis Pauli è fatto speciale ricordo, oltrechè della Vergine Maria, la quale non è da considerare come abitatrice ordinaria del Paradiso terrestre, e di Enoch e di Elia, anche di Abramo, d'Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe, di Mosè, d'Isaia, di Geremia, diEzechiele e di Noè. Frate Alberico dice che di coloro che sono nel Paradiso San Pietro gli nominò soltanto Abele, Abramo, Lazzaro e il buon ladrone. L'ingresso del buon ladrone nel Paradiso terrestre è descritto nell'Evangelo di Nicodemo, dove si dice pure che dei redenti da Cristo egli fu il primo a penetrarvi. Altrove sono ricordati i nomi di Giosuè, di Salomone, e, con assai maggior frequenza di San Giovanni evangelista. Credevasi generalmente che in conformità di alcune parole pronunziate da Gesù a suo riguardo(Sic eum volo manere donec veniam) l'apostolo prediletto non fosse mai morto, e aspettasse, per ricomparire, il ritorno del suo maestro. Gregorio di Tours racconta che San Giovanni si fece seppellir vivo e che dal suo sepolcro scaturiva manna Isidoro di Siviglia ripete questa notizia, e dopo lui la ripetono parecchi, alterandola più o meno; e fra i parecchi sono Brunetto Latini e il Mandeville, il quale ultimo non dice cosa punto nuova quando dice che il santo era stato portato in Paradiso, e nel sepolcro suo non si trovava se non manna. L'Ariosto, facendo accogliere Astolfo da San Giovanni nel Paradiso terrestre, si conformava a modo suo a una tradizione assai antica. Un'altra leggenda fa entrar San Giovanni nella numerosa famiglia dei Dormienti, e narra che l'apostolo dorme in una caverna vicina ad Efeso, aspettando le ultime battaglie della fede e il ritorno di Cristo.

Secondo una opinione che discorda da tutte le precedenti, gli eletti non entreranno nel Paradiso terrestre, il quale alle volte diventa tutt'uno col celeste, se non dopo il Giudizio universale. Da altra banda i chiliasti pensarono che tutta la terra dovesse diventare, in certo qual modo, Paradiso terrestre durante i mille anni del regno di Cristo, prima dell'ultimo sovvertimento finale.

Ma il beato giardino non fu abitato solamente da uomini: esso fu ancora abitato da bruti, i quali vincevano di molto in dignità, in bellezza ed in senno i loro simili della terra d'esilio, ed erano per ogni rispetto tali

da aggiunger vaghezza alla santa dimora. Non solo mostravansi pieni di benignità e mansuetudine; ma ancora, secondo afferma San Basilio, parlavano assai sensatamente; e la leggenda maomettana racconta che il cavallo Meimun rinfacciò ad Adamo, suo signore, il commesso peccato. Com'è noto, nel paradiso di Maometto sono parecchi animali, fra gli altri il cammello del Profeta, e l'asino su cui Gesù entrò in Gerusalemme; e una leggenda tedesca narra di un paradiso degli animali, dove questi, sotto la tutela di Dio, vivono in piena tranquillità ed innocenza. Vogliono alcuni che tutti gli animali parlassero in origine, e che perdessero la favella in séguito al peccato.

Fra gli animali del Paradiso tengonoil principal luogo gli uccelli, i quali empiono tutto il giardino dei loro dolcissimi canti. Non è descrizione del santo luogo che non ricordi espressamente, insieme con l'altre, anche questa delizia; e in più leggende particolari è detto tale essere l'armonia e la soavità di quei canti da forzare al sonno chiunque li ascolti. L'uccello del Paradiso è spesso descritto nel medio evo per la sua gran bellezza, e il nome suo indica la sua presunta origine. Francesco da Barberino scrive meraviglie di due uccelli bianchi che sono nel Paradiso terrestre e una leggenda dei Copti cristiani narra che il gallo fu messo in Paradiso per aver rivelato a Cristo il tradimento di Giuda.

Ma di quanti uccelli poterono ornare e rallegrare di lor presenza il Paradiso, il più mirabile fu, senza dubbio, la Fenice, quell'unica e immortale Fenice, di cui tanto aveva favoleggiato l'antichità, e di cui tanto ancora doveva favoleggiare il medio evo. Le ragioni che dovevano favorire, anzi richiedere, l'introduzione della Fenice nel Paradiso son quelle stesse che noi abbiam già veduto operare in altri casi analoghi: tutto quanto si sottraeva alla morte, a quella morte ch'era apparsa nel mondo come un effetto del peccato, apparteneva in certo qual modo al Paradiso, stanza naturale dell'innocenza e della vita. I rabbini spiegarono la immortalità della Fenice narrando che tutti gli uccelli mangiarono, insiem con Eva, del frutto proibito, salvo quella, che perciò rimase immortale. Per i Dottori cristiani il meraviglioso uccello diventò un vivente simbolo della risurrezione, del rinnovamento mediante il battesimo, della felicità restaurata, della vita eterna, e sono senza numero quelli che ne parlano. Come di simbolo ne usò l'arte cristiana sino dai primi tempi, ritraendo la immagine sua sopra monete, in sepolcri, in mosaici; ponendola accanto a quelle di Cristo e dei santi; facendone più tardi una figura del Redentore medesimo. Secondo Alcimo

Avito, la Fenice raccoglie in Paradiso gli aromati con cui forma il vitale suo rogo. Non m'indugerò a ripetere le descrizioni che di essa si leggono nei Bestiarii, e in altri trattati del medio evo, come sarebbe il Tresor di Brunetto Latini. Dirò solo che della sua esistenza nessuno dubitava; che il Prete Gianni asseriva d'averla in quel suo fortunato paese; e che il Mandeville, il quale pretende d'averla veduta due volte, la dipinge più grossa d'un pavone, con una specie di corona in capo, le ali e la coda color di porpora, il dorso turchino, e tinta di tutti i colori dell'arcobaleno quando il sole la illumina. Il Petrarca vide un giorno, sognando desto,

Una strania fenice, ambedue l'ale

Di porpora vestita e 'l capo d'oro;

ma il Tasso, il quale osa dirla

Augelloeguale alle celesti forme,

ne fa una pittura ben più pomposa nel poemetto che appunto s'intitola La Fenice. Nè m'indugerò a dire dell'altre sue meraviglie; del modo che teneva per abbruciarsi, anzi per rinnovarsi; e del tempo che si diceva passare tra uno e un altro rinnovamento, e che varia, secondo le opinioni, da 500 a 7000 anni. Noterò solamente, parendomi abbia più stretta relazione col nostro argomento, che le fu attribuita anche una certa virtù curativa, conveniente, del resto, alla natura del luogo ove credevasi da molti ch'essa dimorasse. Secondo certa versione di una leggenda che io ho già ricordata più sopra, i tre figliuoli del re infermo vanno in cerca, non della fontana di giovinezza, o di vita, ma della Fenice, che restituisca la sanità al padre loro.

Un'altra finzione fece compagno della Fenice, nel Paradiso terrestre, il pellicano, simbolo anch'esso di Cristo, che dà col proprio sangue la vita ai peccatori.

Certi monaci, della cui leggenda ho già fatto cenno e dovrò dar ragguaglio più oltre, videro nel Paradiso, fra molt'altre meraviglie, "una fontana lunga uno quinto miglio, et era ampia secondo che rispondeva alla grandezza(lunga e larga per spazio di miglia cinque, secondo altre redazioni) et era piena di pesci, i quali cantavano tanto dolcemente, che quasi ogni creatura umana vi sarebbe dormentata, tanto era soave e dolce a udire. E questo canto facevano a certe ore canoniche del dì, quando udivano cantare gli angioli del Paradiso".

E basterà degli abitatori.

CAPITOLO IV. I VIAGGI AL PARADISO TERRESTRE.

Fu comune opinione tra coloro(ed erano di gran lunga i più) i quali ponevano il Paradiso terrestre in questa nostra terra, e lo dicevano tuttavia esistente, che esso, o non si potesse per nessun modo trovare dagli uomini, o, se pur si poteva trovare, fosse loro impossibile di penetrarvi. I Padri sono concordi su questo punto. La impossibilità di penetrarvi si faceva venire, di solito, dal volere divino, per decreto del quale il Paradiso terrestre doveva, dopo il peccato, rimanere inesorabilmente chiuso ai viventi; ma si faceva anche venire da difficoltà naturali, che non lasciavano via da passare a chi avesse in animo di recarvisi. Brunetto Latini, ripetendo quanto molti avevano affermato prima di lui, dice nel Tresor: Et sachiez que après lou pechiéz dou premier hom, cist leus fu clos à touz autres. E nel Tesoretto, parlando di Adamo:

Per quel trapassamento

Mantenente fu miso

Fora delParadiso,

Dov'era ogni diletto,

Senza niuno eccetto

Di freddo o di calore,

D'ira nè di dolore.

E per quello peccato

Lo loco fue vietato

Mai sempre a tutta gente

Che anche Dante avesse il monte del Paradiso in conto d'inaccessibile, sembra risulti dal racconto che Ulisse fa del suo viaggio(folle volo) nell'oceano. Il Geografo Ravennate s'ingegna di mostrare, con ogni maniera di buoni argomenti, come non sia possibile agli uomini penetrare nel Paradiso; e il Mandeville, cui duole di non averlo potuto visitare, dice, ripetendo ancor egli cose già dette da altri, che molti tentarono inutilmente di andarvi, e che l'altezza e l'asprezza dei monti, e le strane fiere che infestano il paese d'intorno, non lasciano che nessun vi s'accosti. Ne' Fioretti della Bibbia si legge: "Questa montangnia si dice ch'è sì alta et dura e aspra fortemente e sì maravigliosa che neuno

huomo per sua bontà non vi potè mai salire, nè là drento intrare, secondo quelli che vi sono stati nel paese". Perciò Fazio degli Uberti lo dice un monte ignoto a tutta gente, e Giovanni di Hese lo descrive altissimo, con le pareti a perpendicolo, a guisa di torre, ita quod nullus potest esse accessus ad illum montem.

Ricordiamoci che per gli antichi gli Elisii erano reclusum nemus, discretae piorum sedes, regna impervia vivis; e che frugando nelle memorie mitologiche e nelle leggende, molti altri esempii si trovano di luoghi o vietati, o inaccessibili. Del paese degl'iperborei dice Pindaro che non vi si può andare nè per terra, nè per acqua. All'isola dov'era l'Orto dell'Esperidi, serbato agli dei, nessuna nave poteva approdare; e al monte Kâf degli Arabi non si perviene se non per arte magica; e all'isola Bulotu, immaginata dagli abitanti di Tonga, non si approda se non per volontà degli dei. Il Mons Romuleus(Rocciamelone), ove un re Romolo raccolse ingente quantità di tesori, è descritto come inaccessibile nel Chronicon Novaliciense; e di una montagna inaccessibile, a poca distanza dalla città di Die, nel Delfinato, parla uno scrittore francese del secolo XVII.

Ma, a dispetto di chi diceva che non ci si poteva andare, e di chi affermava che nessuno di coloro che avevan corsa felicemente tutta la via era poi riuscito a penetrarvi, parecchi, in varii tempi, ebbero desiderio di tentare l'avventurosa impresa; e se di alcuni la leggenda narra che non fu dato loro di passare il formidabile muro di fuoco o di diamante, e la ben custodita porta, di altri narra che superato ogni ostacolo, penetrarono veramente nell'impareggiabil giardino, e vi fecero alcuna breve o lunga dimora, e ne tornarono per dare altrui alcun debole ragguaglio delle sue inenarrabili meraviglie. Ricordiamo, anche a questo proposito, che gli Elisii antichifurono, più di una volta, penetrati da vivi, e che altri consimili esempii si trovano in altre mitologie.

Le leggende che ora io mi accingo ad esporre sono assai varie, non solo per la qualità delle cose che narrano, e pel modo della narrazione, ma ancora pel diverso spirito che le informa, e la ragione ond'hanno principio. Alcune hanno carattere spiccatamente ascetico, e pajono dettate da un indomabile fervore di fede e di desiderio; altre hanno carattere spiccatamente romanzesco, e pajono dettate, più che da altro sentimento o pensiero, da quella immaginosa e inquieta curiosità, da quel vivo amor del meraviglioso che nelle fortunose epopee, nei lunghi romanzi di avventura, si agitano, ma non si appagano. Molte di esse son

figlie tutte ideali della fantasia; ma parecchie ve n'ha, le quali pur solvendosi, come l'altre, in un sogno, muovono tuttavia da alcun che di reale. Nessuno di questi viaggi, per certo, ebbe suo compimento nel Paradiso terrestre; ma più d'uno fu, anzichè immaginato da narratori, impreso davvero da pellegrini e da naviganti. Ben s'intende come queste distinzioni, che io ho accennate, sieno, del resto, assai più agevoli e sicure in teorica che non in pratica; e se nelle pagine che seguono io mi studierò di tenere un ordine che ad esse corrisponda, questa corrispondenza sarà soltanto approssimativa, e quell'ordine avrà tanto di rigore quanto ne può concedere la natura stessa delle cose, e non più.

Ecco qua, anzi tutto, una leggenda celebre, la quale è inspirata bensì da quel fervore di fede e di desiderio che informa l'altre di carattere più risolutamente ascetico; ma vuol essere pure considerata come una naturale espansione e prosecuzione storica, se così posso esprimermi, di un tema leggendario anteriore, in quanto viene ad esplicare ed a compiere, in conformità di certi postulati della coscienza religiosa, una storia mitica non compiuta e non chiusa. Intendo dire la leggenda di Seth, mandato dal padre infermo, e già vicino a morte, al Paradiso terrestre per procacciare l'olio della misericordia. Questa leggenda ebbe a congiungersi poi con quella del legno della croce, e delle due se ne formò una assai complessa, la quale nel medio evo più tardo, a partire dal XII secolo, ebbe così gran diffusione che nessun'altra ebbe l'eguale. Tale leggenda ci pervenne in narrazioni di tutte le lingue parlate da popoli cristiani, conservata in libri d'ogni titolo e qualità, distribuita in numerose versioni, le quali furono dottamente paragonate fra loro e raccolte in gruppi e categorie. Nella esposizione che segue io dovrò attenermi a pochi racconti principali, e rimandare il lettore desideroso di più minuti particolari alle ottime monografie cui essi diedero argomento.

La prima memoria, sinoa noi pervenuta, di un'andata di Seth al Paradiso terrestre, si ha probabilmente in quell'Apocalissi greca da me più volte ricordata nel capitolo precedente, e, senza giusta ragione, intitolata Apocalissi di Mosè. Quivi si logge che Adamo, giunto all'età di 930 anni, e infermo, mandò Eva e Seth al Paradiso terrestre, per ottenere, a sollievo delle sue sofferenze, l'olio di misericordia. Cammin facendo, Seth è morso dal serpente. Giungono alla porta del Paradiso, ma non ne varcan la soglia; l'arcangelo Michele dice loro che non avranno, per ora, quanto desiderano, e li fa tornare addietro, annunziando che in capo di tre dì Adamo si morrà. Nella Vita latina, pure

ricordata nel precedente capitolo, si ha, con lievi differenze, lo stesso racconto: Michele dice ai due pellegrini che l'olio di misericordia non sarà conceduto se non passati 5500 anni; che allora Cristo, figliuol di Dio, scenderà in terra, si farà battezzare nel Giordano, risusciterà Adamo e gli altri morti, e a tutti i credenti in lui largirà l'olio tanto desiderato. Così li accommiata, annunziando che ad Adamo non rimangono se non sei giorni di vita. Si può tener per certo ch'entrambi questi racconti derivino da una fonte più antica, rimasta sinora sconosciuta.

Il racconto della Vita passa nell'Evangelo di Nicodemo, con questa sola diversità di rilievo, che di Eva più non si parla, e Seth compie solo il viaggio, e solo ascolta le rivelazioni dell'angelo. Da indi in poi Eva rimane esclusa dalla leggenda, la quale, come ho detto, si lega all'altra del legno della croce, e fa corpo con essa. Questo congiungimento si può dire che fosse inevitabile, provocato, e in certa maniera imposto, da quel vivo e tenace desiderio cui ho più volte accennato, di raccostare alla caduta la redenzione, di contessere, per così dire, in un'unica trama i fatti dell'una e i fatti dell'altra. Leggende intorno al legno onde fu formata la croce, strumento di redenzione, dovettero sorgere assai per tempo, ed era naturale che alcune, se non tutte, facessero venire quel legno dallo stesso giardino ov'era stato commesso il peccato, e dallo stesso albero che aveva dato esca al peccato. Di più leggende simili, che poi furono sopraffatte da una finzione più rigogliosa, e che meglio appagava il sentimento e la fantasia dei credenti, è rimasta i memoria. "Una tradizione greca narra senza più che un ramo dell'albero nel cui frutto peccò Adamo, fu trasportato a Gerusalemme; e ne sorse un grand'albero, donde fu fatta la croce. Altri dicono che Adamo stesso portò seco dal paradiso un frutto o un rampollo dell'albero. Secondo una terza versione Dio dopo il peccato svelse l'albero e logittò di là dal muro del paradiso. Mille anni più tardi Abramo lo trovò e lo piantò nel suo giardino. Un angelo(o Dio stesso) gli annuncia che su di esso Dio(egli) verrà crocifisso". O prima o poi, una di tali leggende doveva incontrarsi con la leggenda di Seth, e mescendosi con essa, dare origine a una tradizione nuova, secondo la quale l'albero onde fu fatta la croce sarebbe venuto da un virgulto, o da semi che Seth stesso riportò dal Paradiso. E in questa forma la leggenda trionfò.

Non può essere còmpito mio tener dietro alle troppe versioni in cui essa ebbe a spartirsi, e al moto de' suoi varii elementi, i quali senza posa si accozzano insieme, si disgiungono, trapassano da luogo a luogo e gli

uni agli altri sottentrano, come fanno i pezzetti di vetro multicolore nelle mutabili figure del caleidoscopio. Io mi contenterò di dar qui la sostanza di un racconto latino, il quale è certamente anteriore alla fine del secolo XIII, e in cui la leggenda appare in tutta la sua pienezza. Questa, nella forma che in esso consegue, "ottenne straordinario favore, e si diffuse per tutta Europa, dall'Irlanda e dalla Svezia alla Spagna, dalla Cornovaglia alla Grecia", dando luogo a traduzioni e rimaneggiamenti innumerevoli.

Adamo ha vissuto 932 anni nella valle d'Ebron, nella terra d'esilio. Egli è stanco di estirpare i rovi dal suolo, stanco del male e dei mali che vede crescer nel mondo, fra la sua posterità, stanco di vivere. Chiama a sè il figliuolo Seth, e lo manda al cherubino che con la spada fiammeggiante sta a custodia dell'albero della vita, per avere da lui certezza dell'olio della misericordia che Dio promise al peccatore il giorno stesso in cui fu commesso il peccato. Va, dic'egli al figliuolo: tu conoscerai il cammino dalle impronte che noi vi lasciammo, tua madre ed io, venendo in questa valle, e sulle quali non è più cresciuta l'erba. Seth s'avvia, giunge alla porta del Paradiso. Il cherubino saputa la ragione del suo venire, lo invita a mettere il capo dentro alla porta, e a gettar gli occhi sul giardino: tre volte pronunzia l'invito ed altrettante Seth vi si conforma. La prima volta questi contempla la vaghezza del Paradiso, vede le piante e i fiori, il fonte lucidissimo da cui nascono i quattro fiumi, e sopra esso un'arbore ramosa, ma nuda di frondi e di corteccia. La seconda, scorge un gran serpente avvolto al tronco della pianta. La terza, vede l'arbore elevata sino al cielo, e sulla cima un bambino appena nato, e, da basso, le radici, penetrate sin nello inferno, ove gli siscopre l'anima di suo fratello Abele. L'angelo spiega a Seth la visione, gli annunzia la venuta del Redentore, e, nell'accommiatarlo, gli porge tre granella del pomo fatale onde mangiarono i suoi genitori, ingiungendogli di porli sotto la lingua di Adamo, quando, di là a tre dì, questi sia morto. Seth se ne torna, e Adamo, udite da lui le parole dell'angelo, ride per la prima volta in sua vita(deve intendersi dopo il peccato), e muore. Seth gli pone sotto la lingua i tre semi, e sotterra il padre nella valle d'Ebron, e dai tre semi nascono tre virgulti, di cedro il primo, di cipresso il secondo, di pino il terzo, i quali così si rimangono, senza mai crescere oltre l'altezza di un cubito, e senza mai perdere il verde, sino al tempo di Mosè. Questi, giunto col suo popolo, dopo l'uscita dall'Egitto, nella valle d'Ebron, conosce essere nelle tre verghe alcun che di miracoloso, le toglie di terra, sana con esse coloro che erano morsi dai serpenti, e con esse fa

scaturire l'acqua dal sasso; poi, conscio della morte vicina, le ripianta alle radici del monte Tabor, o dell'Oreb, ed entrato, ivi presso, in una fossa, rende l'anima a Dio. Mille anni stanno le verghe in quel luogo, sino a che Davide, per avvertimento del cielo, le viene a levare, e le porta in Gerusalemme, dove, poste in una cisterna, metton radice, e si uniscono in un'unica pianta, cui Davide, per trent'anni di seguito, cinge, ogni anno, di un cerchio d'argento. Davide sa già, per rivelazione divina, che della pianta si farà la croce, per la cui virtù cancellerassi il peccato. E la pianta cresce lo spazio di trent'anni; e sotto di essa piange Davide i suoi peccati, e sotto di essa compone il salterio; poi muore. Salomone gli succede, e dà opera a compiere il Tempio. Un giorno gli artefici, abbisognando di una trave, recidono l'albero miracoloso; ma poi, per quanto si argomentino, non riescono ad adattare il legno ov'era bisogno, e Salomone, chiamato a veder tal miracolo, ordina che il legno sia posto nel Tempio, e da tutti onorato. Una donna per nome Massimilla vi si pone sopra a sedere, e incontanente le sue vesti prendono fuoco, ed ella grida: Signore mio, e Dio mio Gesù; udite le quali parole, gli Ebrei, come bestemmiatrice, la trascinano fuori della città, e la lapidano, facendo di lei la prima martire; poi tolgono la trave dal Tempio, e la gettano nella probatica piscina che, per nuovo miracolo, acquista virtù di sanare gl'infermi. Sdegnati, gli Ebrei tolgon la trave dalla piscina, e la gettano, a mo' di ponte,sul Siloe, perchè sia calcata dai piedi dei passanti. Viene a Gerusalemme la regina di Saba, e ricusa di passare sulla trave, sapendo a che sia serbata, e profetizza il Messia. Venuto il tempo della passione, gli artefici fanno con essa la croce su cui è confitto Cristo.

Ho detto che non intendo tener dietro alle numerose versioni della leggenda; solo ricorderò che in una di esse i viaggi di Seth al Paradiso son due; e che talvolta l'angelo dà a costui, non già le tre granella, come nel racconto testè riferito, ma un ramoscello dell'albero della scienza, e che da quel ramoscello pende ancora, in uno o due casi, parte del frutto morso da Eva.

Il viaggio che nei precedenti racconti si narra di Seth, Gotofredo da Viterbo narra di Jonito(o Jonico) figliuolo di Noè. Jonito, udita dal padre la descrizione delle meraviglie del Paradiso, chiede a Dio in grazia di poterle contemplare con gli occhi suoi proprii, e ottenuto il suo desiderio, ne riporta tre virgulti, di abete, di palma e di cipresso, i quali piantati da lui separatamente, si congiungono in un'arbore sola, che ha tre colori, e le foglie di tre maniere, a simboleggiare la Trinità. Seguono le fortune del

legno(le quali in parte solo concordano con quelle narrate nel racconto precedente) finchè di esso si fa la croce. Gotofredo cita un Atanasio, il quale è probabilmente immaginato da lui, come da lui probabilmente è immaginato il rapimento di Jonito al Paradiso, giacchè della leggenda, in questa forma, non si trova altro vestigio. Bensì è narrato altrove che un figliuolo di Noè, per nome Jerico, desideroso di vedere la tomba di Adamo si recò nella valle d'Ebron, e trovati i tre virgulti, li svelse, poi li ripiantò, come narra il cronista.

Ma prima di passar oltre, fermiamoci a fare qualche considerazione non oziosa sovra un punto della leggenda di Seth e del legno della croce. Seth vede da prima l'albero del peccato, vedovo di fronde e spoglio della sua corteccia, e io ho già avvertito nel capitolo II che quell'albero è descritto assai volte come un albero secco. Ora, di un Albero Secco, posto, di solito, nel remoto Oriente, e per più ragioni mirabile, è frequente ricordo in iscritture del medio evo. Varian molto le descrizioni che se ne fanno; ma io non dubito che, in alcuni casi almeno, esso non sia da identificare con la pianta disseccata del Paradiso, dalla quale, del resto, un poemetto latino, composto circa il 1300, lo fa derivare. Secondo alcune leggende riguardanti la fine del mondo, l'ultimo imperatore appenderà la corona ai rami dell'Albero Secco, o alla croce.

Seth vedepoi la pianta mirabilmente ingrandita, e fatta simile ad uno di quegli alberi cosmogonici che in altre mitologie comprendono fra le radici la terra, e, tra i rami e le foglie, il cielo, quali lo skambha vedico, l'ilpa buddistico, l'irminsul e l'yggdrasil della mitologia germanica. Anche la croce fu considerata come un albero, la quale recò ottimo frutto, e talvolta a dirittura come un albero cosmogonico. Venanzio Fortunato così la saluta in un suo inno:

Arbor decora et fulgida,

Ornata regis purpura,

Electa digno stipite

Tam sancta membra tangere;

e in un altro inno ecclesiastico si legge:

Crux fidelis inter omnes

Arbor una nobilis:

Nulla silva talem profert

Fronde, flore, germine.

Come un albero di dolcissimo e vital frutto, e tutto fragrante di fiori, è invocata spesso la croce nelle laudi, e come albero di vita in un canto latino del sec. XIV:

Salve, Christi crux praeclara,

Arbor astris pulchrior,

Facta reis ex amara

Mellis stilla dulcior;

Vitae nobis viam para.

Dux effeta gratior.

L'albero della croce diventa una pianta meravigliosa, come si può vedere nell'opuscolo di San Bonaventura intitolato Lignum vitae, ove si leggono questi due versi:

O crux, frutex salvificus, viva fonte rigatus,

Cujus flos aromaticus, fructus desideratus.

Ma già in un Hymnus de Pascha, attribuito a San Cipriano, la croce è diventata una specie di albero cosmico, che s'innalza sino al cielo e dalle cui radici scaturisce una mirabil fonte. I frutti di quello dànno la vita eterna; l'acqua di questa lavano d'ogni macchia. Tutta l'umanità trae all'albero meraviglioso. Gerolamo Vida, in un carme In Jhesu Christi crucem, esclama:

Nunc prope numen habes, sancta et venerabilis arbor,

Coelo mixta comas caput inter sidera condis.

Il legno della croce fu fatto derivare di solito dall'albero della scienza del bene e del male, ma talvolta ancora dall'albero della vita, o da un altro albero paradisiaco, detto della salute. Secondo una leggenda siriaca la croce fu fatta del legno di un albero che da indi in poi non cessò più di tremare, la tremula. Abbiam veduto come tre virgulti di specie diversa, ma tutti derivati dal medesimo albero, si ricongiungessero insieme per formar di nuovo un albero solo. Stando ad altre immaginazioni, la croce fu veramente formata di quattro legni differenti, palma, cedro, cipresso, olivo; oppure di tre, cedro, cipresso, pino; palma, cipresso, abete. Il numero di tre simboleggiava la Trinità. Ricorderò da ultimo che, secondo i musulmani, la legge da Mosè recata agli Ebrei era scritta su tavole formate del legno di un albero Sedr, ch'è nel settimo cielo, e che secondo Mosè Bar-Cefa, la lancia con cui fu ferito Cristo era quella stessa del cherubino posto a custodia del Paradiso.

Io qui non parlo di coloro che videro il Paradisoterrestre solamente in ispirito, come suole accadere nelle Visioni; ma di coloro che v'andarono in carne ed ossa; e perciò solò in passando fo cenno della questione agitata per sapere se San Paolo fosse stato rapito in cielo, o nel Paradiso terrestre, o in entrambi. La questione non era ancor risoluta a' tempi di Torquato Tasso, il quale nelle Sette giornate chiedeva:

È ver che 'l terzo cielo, ove fu ratto

Già Paolo col pensier levato a volo,

Sia terren paradiso?

Nella leggenda che or segue noi abbiamo la favolosa istoria di alcuni pellegrini che non muovono propriamente alla ricerca del Paradiso, ma, dopo molte avventure, giungono in luogo prossimo ad esso, e di là se ne tornano indietro. È questa la leggenda, greca di origine, e certo assai antica, dei tre santi monaci Teofilo, Sergio ed Igino, nella quale noi cominciamo a far conoscenza con quei monaci irrequieti ed audaci, che spinti, non meno da curiosità venturiera, che da certo fervor religioso, disertano i chiostri e si dànno a correr le terre ed i mari attraverso a mille casi e mille pericoli. Essa si lega al nome di San Macario Romano, santo misterioso ed oscuro, il quale non si sa in che tempo sia vissuto, e da taluno si dubita che in niun tempo, e ch'egli sia, come tant'altri, un santo mitico.

Tre monaci di un convento di Mesopotamia, posto tra l'Eufrate ed il Tigri, Teofilo, Sergio ed Igino, sedevano un giorno sulla riva di quel primo fiume, e ragionavano devotamente tra loro della umana vita e delle molte tribolazioni che affliggono i servi di Dio. A Teofilo vien nell'animo un desiderio, e lo palesa ai compagni: Io vorrei, egli dice, camminare tutto il tempo della mia vita, e giungere colà ove il cielo tocca la terra. I compagni s'accendono del medesimo desiderio, e nato del desiderio il proposito, tutti e tre, quella stessa notte, si partono dal monastero. In capo di diciasette giorni giungono a Gerusalemme, ove adorano il Sepolcro; dopo cinquanta, passano il Tigri ed entrano in Persia; scorsi quattro mesi, entrano nell'India. Quivi cadono in man degli Etiopi, e soffrono molti maltrattamenti; poi, cacciati dagli Etiopi, rimangono ottanta dì senza prendere cibo alcuno. Andando sempre verso Oriente, attraversano le terre dei Cananei, altrimenti(così il testo) detti Cinocefali; quelle dei Pichiti, alti un cubito; una regione montuosa ed orrenda, tutta popolata di draghi, di aspidi, di basilischi, e altri animali velenosi; un'altra regione, tutta sparsa di rupi asperrime; una gran pianura, ove

pascolano mandrie di elefanti; un'altra, ingombra di dense tenebre, e giungono a un'abside eretta da Alessandro Magno quando inseguì Dario. Vivono la più parte del tempo miracolosamente,senza cibarsi, e, proseguendo il viaggio, trovano un lago pieno di anime dannate; un gigante incatenato fra due monti; una donna avviluppata da un dragone; un bosco di grandi alberi, su cui anime in forma di uccelli chiedono ad alta voce perdono dei loro peccati. Succede a questi orribili e strani luoghi un luogo bellissimo, custodito da quattro vecchi, i quali hanno corone d'oro in capo ed auree palme tra mani; poi viene una regione tutta piena di canti e di odori soavissimi, ove brilla una chiesa di varii colori, d'incomparabil bellezza, e che par fatta tutta di cristallo. Intorno ad essa sono uomini santi, di venerabile aspetto, che cantano, e dall'altare scaturisce un fonte, che sembra di latte. Dopo avere incontrato un altro popolo di pigmei, i tre pellegrini giungono alla spelonca ove da lunghissimo tempo San Macario mena vita anacoretica, a sole venti miglia di distanza dal Paradiso terrestre, e il santo dice loro che non si può passare più oltre, e che il Paradiso è vietato a tutti i mortali. Udita da lui la sua storia, i monaci riprendono la via per cui sono venuti, scortati sino all'abside di Alessandro da due leoni, compagni amorevoli e consueti del santo.

In questo racconto noi abbiamo un evidente influsso delle storie favolose di Alessandro Magno, comprovato da quel ricordo dell'abside da costui edificata. Leggonsi appunto in esse alcune delle meraviglie incontrate da' monaci, e altre molte per giunta, delle quali è frequente ricordo in iscritture del medio evo, e che veggonsi pure raffigurate in parecchie mappe. Non intendo discorrere partitamente di tutte quelle che nella leggenda ascetica si trovano, ma di taluna mi pare opportuno dir qualche cosa.

Di una specie di regione infernale posta in prossimità del Paradiso terrestre abbiamo già trovato altri ricordi, molto meno antichi di quello che hassi nella nostra leggenda . Della regione tenebrosa, per contro, abbiamo ricordi e più recenti e più antichi. Una regione così fatta descrivesi nelle dottrine cosmografiche dell'India. Di là dal fiume oceano si distende, a occidente della terra, secondo Omero ed Esiodo, il tenebroso paese dei Cimmerii; più tardi esso fu posto a settentrione, intorno ai monti Rifei. Alessandro Magno si spinse un tratto in una regione coperta di tenebre, la quale chiudeva in sè il paese dei beati; e di terre ov'è notte perpetua fanno parola Marco Polo, il Mandeville e altri.

Le anime peccatrici, che i tre monaci trovano in sembianza di uccelli appajono molto frequentemente in leggende ascetiche del medio evo, quando come anime dannate, quando come purganti; al qual proposito è da ricordare che nel simbolismo cristiano l'anima è consuetamente rappresentata sotto forma diuccello, e che in una delle saghe della Saemundar Edda, intitolata Solar-liodh, è ricordo di anime in forma di uccelli neri. In una leggenda riferita da San Bonifazio, anime purganti, simili nell'aspetto ad uccelli neri, volano intorno a un pozzo, da cui prorompono fiamme ardenti, e nel pozzo si sprofondano.

Seth potè solamente sporgere il capo dalla porta del Paradiso terrestre, e i tre monaci Teofilo, Sergio ed Igino dovettero fermarsi a venti miglia di distanza da esso. Altri furono più fortunati. Ecco qua la leggenda di tre altri monaci, la quale fa degno riscontro alla precedente, sebbene sia da essa molto diversa.

Sulle rive del Gihon è un monistero abitato da uomini di santa vita. Tre di questi, lavandosi un giorno nel fiume, veggono venir giù, portato dalla corrente, un ramo meraviglioso: "l'una foglia pareva d'oro battuto, l'altra pareva d'ariento, l'altra pareva d'azzurro fino, l'altra vermiglia, l'altra era bianca, e così era isvariato d'ogni colore". Il ramo recava, per giunta, frutti molto dilettevoli a mangiare. Lo traggono fuori dell'acqua, e mentre lo contemplano, pieni di ammirazione e di alleggrezza, senton nascersi in cuore un desiderio smodato d'andarne sin là, all'incantato paese d'onde quel ramo è venuto. E subito, accordatisi in un comune proposito, senza dir nulla a persona, si partono dal convento, e camminando lungo la ripa del fiume, ch'è uno dei quattro del Paradiso, si pongono in viaggio. Giungono, dopo lunga peregrinazione, alla famosa porta custodita dall'angelo, e domandato e ottenuto di varcarne la soglia, s'aggirano fra l'ombre e le delizie del giardino immortale, mangiano di quelle frutta soavissime, bevono di quell'acque miracolose che rinnovano la giovinezza, e ragionano co' due vecchiardi Enoch ed Elia delle cose del cielo. Credono d'essere stati nel beato luogo tre giorni, e vi sono rimasti tre secoli. Tornati al convento, che ancora sussiste, ma dove già dieci generazioni di monaci si son succedute, eglino, con l'ajuto de' vecchi libri memoriali, mostrano e provano la lor condizione, e narrata la storia mirabile del loro viaggio, in capo di quaranta giorni improvvisamente si dissolvono in cenere, e ascendono alla gloria eterna del cielo.

Questa leggenda sembra sia nata in Italia: io non so che si trovi in altri

linguaggi volgari, e nemmeno mi è noto un testo latino da cui le redazioni italiane possano essere derivate. Ed è leggenda schiettamente ascetica. Le descrizioni che delle meraviglie del Paradiso vi si leggono sono come penetrate di un'aura di estasi, partecipano del sogno. Il narratore non trova nel linguaggio degli uomini parole acconce ad esprimere la novità e la bellezza degli spettacoli che si offrono agli sguardi attoniti dei tre pellegrini, a significare lo smarrimento di dolcezza ondesono prese le anime loro; e quando vuol fare intendere altrui, in qualche modo, la virtù rapitrice che muove da un canto non più udito, dice che ogni anima umana vi si sarebbe addormentata, o avrebbe perduto ogni memoria e cognizione di sè. Nella leggenda sono due cose che voglio notare: quel ramo meraviglioso da cui i tre monaci sono allettati al viaggio, e l'error loro quando, essendo dimorati nel Paradiso trecent'anni(settecento, in altre redazioni), stimano esservi rimasti solamente tre dì(altrove, sette). Giovanni de' Marignolli dice che foglie e frutti degli alberi del Paradiso si trovano sovente nei fiumi che da questo derivano. Secondo una tradizione riferita da Mosè Maimonide, Seth riportò dal Paradiso parecchi alberi, tra' quali uno che aveva le foglie e i rami d'oro; e secondo i musulmani l'albero della vita aveva il tronco simile a dell'oro, i rami come argento, le foglie come smeraldi.

Di quell'alterazione nel corso del tempo, o nel giudizio della sua durata, c'è da dire qualche cosa di più. Essa si produce in numerose leggende, la più celebre delle quali è la tedesca del monaco Felice, non più antica, sembra, del secolo XIV. Era costui un monaco cistercense, di ottima indole, di saldissima fede e d'irreprensibili costumi, il quale, leggendo un giorno come la letizia del Paradiso celeste sia eterna, e senza mescolanza alcuna di dolore, cominciò, per la prima volta in sua vita, a entrare in un dubbio, e a disputar seco stesso per che modo possa ciò essere. E il modo gli fece intendere Iddio con un miracolo. Venne dal cielo un augelletto più candido che la neve, il quale si mise a cantare con sì nuova e meravigliosa dolcezza, che il monaco si credette un tratto rapito in Paradiso, e, voglioso di averlo tra mani, si mosse per prenderlo; ma l'augelletto aperse l'ali e sparì. Felice, rimasto pieno di desiderio e di rammarico, ode una campana sonar mattutino, si ricorda del suo convento, e torna addietro. Ma il portinajo non lo riconosce, e non lo vuol lasciare entrare, e gli dà dell'ubbriaco e del pazzo quando gli ode narrare la storiella dell'augelletto bianco che rapiva l'anima col suo canto. Sopraggiungono gli altri frati con l'abate; ma nessuno riconosce colui che afferma d'aver dimorato quarant'anni nel chiostro. Finalmente

il più vecchio della famiglia, il quale v'era stato già ben cento anni, e giacevasi allora infermo, si ricorda che nel tempo in cui egli era novizio, un dei fratelli, per nome Felice, era sparito un giorno di primavera, e non se n'era mai più avuta novella. L'abate fa portare il libro in cui da trecent'anni si registravano le mortidei monaci, e si trova che Felice, il quale credeva d'essere stato assente un'ora, era stato assente un secolo. In altre versioni della leggenda il monaco chiede in grazia a Dio un piccolo saggio della beatitudine del Paradiso, o è travagliato da un dubbio, come mai possa un secolo non parere a Dio maggior di un istante; ma in tutte è quell'error di giudizio circa la durata del tempo; e tale errore si ripete in alcune leggende paradisiache delle quali dirò or ora, e in altre pure, di vario argomento. Narra il Joinville che un principe dei Tartari fu assente tre mesi, e quando tornò credeva l'assenza sua esser durata non più di una sera, ed ebbe nel frattempo una visione, o fu rapito in Paradiso. L'eroe di una leggenda celtica, Oisin, crede di passare in compagnia di una bella fanciulla alcuni giorni solamente, e sono, in realtà, più di trecento anni. Nel racconto di Roberto di Boron, Giuseppe d'Arimatea, sostentato dalla vista del Graal, passa quarant'anni in carcere senz'avvedersene. Secondo Giovanni di Hese, tre giorni passati in quell'isola dilettosa ch'egli chiama Radice del Paradiso, non sembrano durare più di tre ore.

Alla leggenda italiana dei tre monaci credo di dover far seguire la leggenda del giovane principe; sia perchè italiana, come pare, ancor essa di origine; sia perchè presenta con quella dei tre monaci, molta somiglianza nello scioglimento e parecchia nello spirito di che è penetrata. Benchè italiana, essa si legge in latino e in tedesco, nè so che ve ne sia traccia in libri italiani, stampati o manoscritti. La narra, o si vuol che la narri, Eberardo, vescovo di Bamberg, il quale afferma d'averla udita in Italia, dall'abate di un monastero di cluniacensi, posto nelle Alpi. Di vescovi di Bamberg, con quel nome, ce ne furono due, l'uno morto nel 1041, l'altro nel 1172; ma è probabile che il nostro sia il meno antico. Ecco, ad ogni modo, compendiato, il suo poetico racconto.

Il figliuolo di un principe si ammoglia, e invita alle nozze il suo angelo custode. Giunto il vespro del giorno solenne, egli, che religiosissimo è, monta a cavallo, e si reca a pregare a certa chiesa, che sorge su un monte. Al ritorno incontra un vecchio di venerabile aspetto, vestito di candidi panni, circonfuso di luce, e seduto sopra un mulo tutto candido anch'esso. Compreso di affettuosa reverenza, il giovane prega lo

sconosciuto di volere assistere alle sue nozze, e menatolo al castello, quivi il fa signore d'ogni cosa. Si celebrano le nozze pomposamente, e tre giorni dura il banchettare, senza che mai le provvigioni per quanto si profondano, vengano meno. L'ospite finalmente chiedelicenza, e da tutti ringraziato e desiderato, si parte, accompagnandolo il giovane sposo per un tratto di via. Giungono al luogo ove si sono incontrati la prima volta. Il giovane vorrebbe, tanto amore gli ha posto, abbandonare e la sposa e la patria, e andarne con esso lui; ma quegli il dissuade dicendo: Non ora: fra tre dì, se tu vuoi, potrai venirne alla mia stanza. Questo sentiero vi conduce, e qui troverai tu questa mia cavalcatura, la quale ti porterà ove tu brami di essere. Ciò detto si parte. Venuto il giorno segnato, il giovane si accommiata dalla sposa, annunziandole che in breve sarà di ritorno, si mette in via, accompagnato da' suoi cavalieri, giunge al luogo stabilito, trova il mulo, e licenziati i compagni, monta su di quello e segue suo viaggio. Passa una gola tetra ed angusta, e riesce in una campagna di meravigliosa bellezza, piena di ogni maniera di alberi, dipinta di odorosissimi fiori, rallegrata dal canto d'infiniti uccelli. Percorre quattro stazioni, ove sono tabernacoli constellati di pietre preziose, addobbati di seta e di porpora, adorni di tanta ricchezza e splendore che nulla di simile può raffigurare la fantasia. Ciascuna stazione ha numerosi abitatori, vestiti sfarzosamente, raggianti di luce, i quali accolgono con gaudio e con onore il pellegrino. Nella quarta questi trova l'ospite suo, non più solo, ma circondato da molti compagni, tutti vestiti di bianco, tutti fregiati di corone, e più luminosi che il sole. Le accoglienze sono, quanto mai si possa dire, affettuose e magnifiche; il luogo pieno di tanta gloria e di tanta letizia che nessuna parola può darne una immagine. Il giovane vi dimora trecento anni e stima esservi stato tre ore. Indarno la sposa, i congiunti, i cavalieri, i servi, pieni di ansietà e di dolore, aspettano ch'egli torni. Il padre e la madre di lui vanno ad abitare nel luogo ov'egli s'accommiatò dai seguaci, mutano il castello in un chiostro, in una chiesa il palazzo. Volano gli anni: muojono i genitori, muore la sposa, muojono l'uno dopo l'altro tutti i soggetti; le generazioni succedono alle generazioni, ininterrottamente. Scorsi trecent'anni, il giovane, il quale ha serbata incolume intanto la sua giovinezza, chiede licenza e l'ottiene; ma tornato nella sua terra, trova ogni cosa mutata, e nuove genti, che nè lui conoscono, nè sono da lui conosciute. Gli appare il castello mutato in chiostro; gli appar la chiesa eminente e magnifica, guernita di torri, dalle quali scoppia un clamor di campane che fa tremare i monti circostanti, e sulla cui sommità sventola, in luogo del

vessillo con l'aquila, il vessillo con la croce. Il giovane si dà a conoscereal portinajo del convento. Ecco l'abate, ecco i monaci tutti trasecolati di meraviglia; ecco accorrere d'ogni intorno il popolo tratto al grido di così nuovo prodigio. Il principe narra la sua storia, la quale è messa per iscritto; poi l'abate ordina un sontuoso banchetto, raccoglie buon numero d'invitati; ma il principe, come appena ha assaggiato il pan degli uomini, improvvisamente appar vecchio di decrepita, non più veduta vecchiezza. Lo portano in chiesa, e quivi egli, ricevuti i sacramenti, si muore. Il corpo suo, dopo funerali pomposi, è deposto in quello stesso sepolcro ove da secoli già dorme la sposa.

Questa è leggenda risolutamente ascetica, e tale ancora è la leggenda del cavaliere irlandese Owen, che nel 1153, secondo narra Enrico di Saltrey, visitò in carne ed ossa i luoghi di punizione e il Paradiso terrestre, non peregrinando per lunga distesa di terre e di mari, ma scendendo in quel misterioso Pozzo di San Patrizio della cui fama fu pieno per molti secoli il mondo. Vedremo in seguito che anche altri prese, per giungere al Paradiso, quella medesima strada, non certo più comoda, ma molto più breve.

Il cavaliere Owen, dopo una vita di dissipazione e di peccato, fu preso da pentimento, e cercò modo di scontare, mentr'era ancor vivo la pena che troppo temeva di dover pagare dopo la morte. A tal fine si fece introdurre nella cava di San Patrizio, la quale dava adito ai regni dei morti, e cominciò il meraviglioso suo viaggio, del quale fece poi, ritornato nel mondo dei vivi, il racconto. Attraversò da prima varii luoghi di punizione, e vide i castighi a cui erano assoggettate le anime, e n'ebbe la parte che gli toccava, insidiato e deriso per giunta dai diavoli che di quei castighi eran ministri. Giunse ad un ponte periglioso(il solito ponte delle leggende infernali), e passatolo, si trovò in una gioconda campagna, dinanzi ad un muro altissimo e meraviglioso, e ad una porta tutta contesta di metalli preziosi e di gemme. La quale apertasi, ecco venire incontro al pellegrino una gloriosa processione di santi, e fargli lieta accoglienza, e introdurlo nella divina città, e taluno di quelli mostrargliene a mano a mano tutte le meraviglie. Il cavaliere non vorrebbe più partirsi da quel luogo di beatitudine; ma gli è forza tornare al mondo, e purgato d'ogni antica bruttura, ci torna.

Dice San Patrizio, in certa Confessio a lui attribuita, che quelli del suo sangue furono dalla Provvidenza dispersi in qua e in là sino agli ultimi termini della terra. Queste parole, vere o supposte, di un santo di cui la

stessa esistenza fu posta in dubbio, ci richiamano ad un altrogruppo di leggende, nelle quali allo spirito ascetico si accompagnano lo spirito di esplorazione e di ventura, e che hanno per giunta questo comun carattere, d'esser leggende marittime, e di avere ad eroi certi monaci settentrionali che odiano la pace e l'ozio dei chiostri, ardono del desiderio di propagare la fede di Cristo, sognan cose mostruose e terribili, ed essendo, in generale, grandissimi santi, hanno pure in sè qualche cosa del pirata. Costoro fioriscono più particolarmente sulle coste occidentali dell'Irlanda, della Scozia e della Frisia; e campo alle loro imprese è lo sterminato oceano che le bagna di onde perpetuamente in tumulto, e si stende, formidabile e sconosciuto, fino all'estrema plaga del cielo, ove il sole tramonta, fin sotto alla notte del polo; terribile ed infinito oceano che tutto il mondo circonda, scrive Adamo Bremense(m. 1076), oceano pieno d'intollerabile gelo e di caligine immensa.

Esso fu dalla turbata fantasia degli antichi prima, da quella degli uomini del medio evo poi, empiuto di pericoli, popolato di mostri, il terror de' quali fu di non lieve ostacolo alla temeraria navigazion di Colombo, ma non valse a trattenere quegli arditi ed oscuri esploratori del Settentrione a cui devesi la scoperta della Groenlandia, e d'altre terre boreali, e della stessa America forse, molti secoli prima che v'approdasse il grande Italiano. Delle esplorazioni loro molti ricordi, tra storici e favolosi, sono giunti sino a noi, ed io volentieri m'indugio, prima di proceder oltre, intorno a taluno, dacchè essi hanno stretta attinenza con le leggende che verrò poscia esponendo, e servono a determinarne vie meglio il carattere e ad illustrarle.

Di Aroldo, principe di Norvegia, narra il testè ricordato Adamo Bremense come corresse con le sue navi il mare settentrionale, finchè si vide intenebrare dinanzi gli estremi confini del mondo, e come a stento scampasse da un immane baratro dell'abisso. Lo stesso Adamo narra la seguente istoria. Alcuni nobili di Frisia, desiderosi di accertarsi con gli occhi loro se verso Settentrione non vi fosse più terra alcuna, ma solo quel mare che dicesi concreto o viscoso, com'era comune sentenza, si misero in nave e sciolsero le vele ai venti. Lasciando dall'una mano la Danimarca, dall'altra la Brettagna, giunsero alle Orcadi, e seguitando la navigazione loro a occidente della Norvegia(Nordmannia), pervennero alla glaciale Islanda, d'onde, più oltre procedendo, verso il polo, entrarono nella region delle tenebre, e furono travolti, con veementissimo impeto, in quella profonda voragine, che assorbendo,

com'è fama, e rivomitando immensa copia di acque, dà origine al flusso e al riflusso del mare. Parecchie loro navi andarono miseramente perdute con quelli che dentro vi erano; altre, risospinte dal gorgo, uscirono dalle tenebre e dallaplaga del gelo, e giunsero insperatamente ad un'isola, la quale era, a guisa di fortezza, munita tutto intorno di altissimi scogli. Scesi a terra, i naviganti non videro per allora gli abitatori, i quali, essendo l'ora meridiana, si tenevano celati nelle loro spelonche; ma ben videro, davanti agli aditi di queste, molti vasi d'oro, e d'altri metalli che gli uomini stimano preziosi, e tolti di quelli quanti più poterono, lietamente fecero ritorno alle navi. Ma ecco che improvvisamente si videro inseguiti da uomini smisurati, che noi chiamiamo Ciclopi, i quali erano preceduti da cani di molto maggior mole che i nostri non sieno. Raggiunsero coloro uno dei fuggenti, e subito il fecero a brani; mentre gli altri poterono riparar nelle navi, e allontanarsi, non senza che i giganti li inseguissero buon tratto in alto mare, gridando e minacciando. Tornarono a Brema gli esploratori, e narrate le lor fortune al vescovo Alebrando, offersero sacrifici a Cristo redentore e al confessor suo Villecado, in ringraziamento di lor salvezza.

Quell'immane abisso, quella voragine che produce il flusso e il riflusso del mare, è probabilmente il Maelstrom, aggrandito e trasposto dalla fantasia, ed altri ricordi se ne trovano in iscritture del medio evo. Quanto ai Ciclopi è noto che il mito loro fu diffuso così in Occidente come in Oriente, e che nel medio evo esso riappare più di una volta. Del mare concreto o viscoso dirò più innanzi.

Un'altra spedizione, degna d'essere rammemorata, narra Sassone Grammatico. Gormo, re di Danimarca, bramoso di scoprir cose nuove, raccoglie trecento compagni, e alla guida di un tal Torkillo, con tre navi saldamente costrutte, si mette in mare. In capo di certo tempo giungono i naviganti a una terra, ove, essendo già stremati di vettovaglie, fanno strage dei greggi che vi trovano. Le divinità del luogo, offese, non li lasciano partire sino a che non abbiano offerto in sacrificio d'espiazione tre di loro compagnia. Di quivi passano nella Biarnia ulteriore, paese di delusive lusinghe e d'incantamenti diabolici. Torkillo vieta ai compagni di parlare cogli abitanti, di accondiscendere ai loro inviti, questo essendo il solo modo di render vane le loro malie: quattro più incontinenti trasgrediscono il divieto, e rimangono nella terra in una condizione di servitù neghittosa, immemori del passato. Gli altri si partono liberamente, e pervengono a un orribil castello, custodito da cani

famelici, abitato da mostruose e spaventevoli larve. Qui Torkillo ammonisce di nulla temere e di nulla prendere delle cose che s'offrono alla vista, e lusingan la cupidigia; ma egli stesso non sa resistere alla tentazione. Ne segue una terribile zuffa. Al ritorno, dei trecento compagni non ne rimangono più che venti.

Narrazioni consimili ebbero corso ecelebrità fra i Celti, i quali le designarono col proprio nome d'imramha. Fantastica in sommo grado, e lunghissima è quella della navigazione di Maelduin, il quale desideroso di vendicare la morte del padre, ucciso da certi pirati, si mise in mare con più di sessanta compagni, e correndo verso Settentrione e verso Ponente, visitò un numero stragrande di isole, piene d'infinite meraviglie, ed una tra l'altre in cui non s'invecchiava, nè di male alcuno si pativa, e dalla quale era malagevole cosa partirsi. I figliuoli di Conall Dearg Ua-Corra erano stati prima pirati, ma poi, pentitisi, fecero un pellegrinaggio in mare, e videro anch'essi moltissime meraviglie, e tra l'altro alcune isole che facevano officio d'inferno o di Purgatorio, e dov'erano variamente puniti peccatori di più maniere. Avventure in parte simili alle loro, in parte diverse, si hanno nella narrazione del viaggio di Snedhgus e di Mac-Riaghla, e in altri racconti, alcuni dei quali tuttavia inediti. Di Merlino narravasi che fosse andato con una nave di cristallo in traccia dell'Isole Beate.

Fra tanti navigatori erano forse i più ardenti, e non erano i meno audaci, i monaci; sia che li sollecitasse la speranza di piantare la croce in qualche isola incognita, perduta nella immensità dell'oceano; sia che li movesse il desiderio di compiere, a salute dell'anime loro, un pio pellegrinaggio su quel mare pien di pericoli, che si credeva accogliesse, nella più remota sua parte, l'isola arcana del Paradiso. Testimonianze del IX e dell'XI secolo provano che lo zelo dei missionarii fece scoprire parecchie terre nell'Atlantico settentrionale; e Dicuil, nel suo trattato De mensura orbis terrae, parla delle loro spedizioni. I monaci di San Colombano correvano temerariamente l'oceano con barche leggiere, intessute di vimini, coperte di pelli, quali usavano sulle coste d'Irlanda, e uno di essi fu spinto dai venti nell'Oceano settentrionale lo spazio di quattordici giorni e quattordici notti. San Colombano stesso(m. 597) fu un ardito navigatore. Ed eccoci giunti ora a quella famosa leggenda di San Brandano, che acconciamente fu detta una Odissea monastica, e cui il Renan giudicò une des plus étonnantes créations de l'esprit humain et l'expression la plus complète peut-être de l'idéal celtique: la quale non è

punto, come pareva al Greith, un'allegoria mistica intesa a rappresentare la vita claustrale, ma è un racconto fantastico formatosi intorno ad un nucleo reale, e strettamente legato a tradizioni e credenze gaeliche.

San Brandano fu irlandese, e se si debbono tener per sicuri i termini che alla sua vita assegnano i biografi, nacque nel 484, morì nel 576 o 577. Il nome suo si scrisse in latino Brendanus; ma prese poi, col divulgarsi della leggenda per le varie province d'Europa,varie forme: Brandan, Brandanus, Brandon, Brandain, Blandin, Borodon, sotto l'ultima delle quali ebbe forse ad essere confuso con San Barinto(Barint, Barrendeus, Borandon) uno dei suoi precursori. San Brandano(noi useremo questa forma, come quella che occorre più di frequente) fu abate di Llancarvan e di Clonfert e fece veramente un viaggio, e vuolsi che tornato in patria scrivesse un libro De Fortunatis Insulis. Questo viaggio egli compiè, secondo affermano parecchi cronisti, l'anno 561, e la leggenda non dovette tardare a narrarlo in guisa fantastica, sebbene sia da credere che solo a poco a poco essa abbia preso rigoglio e raggiunta quella pienezza con la quale è sino a noi pervenuta. Il racconto più antico, fu probabilmente gaelico, ed è forse, in una forma più o meno alterata, quello stesso che si conserva nel così detto Libro di Lismore, il quale è, per altro, di età assai tarda, essendo stato scritto nel secolo XV. Dal racconto gaelico avrebbe attinto l'autore del primo racconto latino, noto sotto il titolo di Navigatio Sancti Brendani, conservato in un codice della Vaticana, che, a ragione o a torto, fu stimato del secolo IX, e in altri codici assai numerosi dei secoli XI, XII e XIII; e dalla Navigatio dipendono, direttamente o indirettamente, in tutto o in parte, i molti racconti venuti di poi, latini e volgari, in prosa e in verso.

Ridotto in breve, il racconto della Navigatio è il seguente.

Un giorno San Brandano, padre di quasi tremila monaci, ricevette la visita di San Barinto, il quale ebbe a narrargli come fosse andato a visitare un altro sant'uomo, Mernoc, che con più monaci viveva in un'isola dell'oceano, detta Isola Deliziosa; come in sua compagnia fosse andato, verso Occidente, all'Isola della promessione dei santi(terra repromissionis sanctorum), piena di ogni delizia, durata incolume dal principio del mondo, e serbata da Dio ai santi suoi, quando verranno gli ultimi tempi; come quivi avessero trovato un uomo circonfuso di luce, col quale parlarono, e un fiume, che divideva l'isola per mezzo, ed oltre il quale non fu loro conceduto di passare; come tornassero indietro pel già

corso cammino. Udita la narrazione di Barinto, San Brandano arse del desiderio di vedere ancor egli l'isola meravigliosa; e consigliatosi co' suoi monaci, dopo un digiuno di quaranta giorni, presi seco quattordici compagni, e poi altri tre, sopravvenuti senza suo desiderio, si recò nella terra ov'erano i parenti suoi, e costrutta quivi una nave assai leggiera, formata di legname e di pelli, entrò in mare e diedesi a navigare verso Occidente, con prospero vento. Passati quaranta giorni, e venute già a mancare le vettovaglie, giunsero gli esploratori ad un'isola altissima, le cui ripe dipietra erano tutt'intorno tagliate a perpendicolo, men che in un punto, ove s'apriva un seno capace di una sola nave; ed essi entrativi, trovarono un castello, con una gran sala parata, ma vuoto di abitatori, e per tre giorni consecutivi ebbero mensa imbandita e ottimo ristoro. Quivi uno dei tre monaci sopraggiunti da ultimo, rubò, contro l'ammonizione espressa del santo, un freno d'argento, e per questo morì, ma confesso e perdonato, così che l'anima sua fu dagli angeli assunta in cielo. Gli altri, rientrati in nave, ripresero il viaggio, e vennero a un'isola popolata d'innumerevoli pecore bianche, di grandezza maggiori dei buoi; poi ad una che pareva isola ed era invece uno sterminato pesce, detto Jasconius, dal quale i monaci fuggirono precipitosamente quando, sentito il calor del fuoco accesogli sul dorso, quello si cominciò a muovere; poi a un'altra isola, dov'era un infinito numero di uccelli candidissimi e parlanti, sotto alle cui penne si celavano gli angeli che si mantennero neutrali al tempo della ribellione di Lucifero; e quivi San Brandano e i suoi monaci celebrarono la festa di Pasqua, e rimasero sino alla ottava di Pentecoste. Partitisi anche da quella, non videro più, per tre mesi interi, se non l'acqua e il cielo, finchè giunsero a un'isola abitata da ventiquattro monaci santi, i quali si nutrivan di pane largito loro dal cielo, serbavano rigoroso silenzio, non pativano i danni della vecchiezza e dei morbi. Quivi celebrarono i navigatori il Natale, poi, ripreso il mare, visitarono un'isola ov'era un fonte, le cui acque inducevano profondo sopore in chi le beveva; navigando quindi verso Settentrione, trovarono un mare che per troppa tranquillità era quasi coagulato; poi approdarono di nuovo ad alcune delle isole che già li avevano accolti l'anno innanzi, e nell'isola degli uccelli celebrarono la Pasqua. Sette anni durò la meravigliosa navigazione, e tutti gli anni gli esploratori, condotti dalla Provvidenza, tornarono a celebrare il Natale e la Pasqua ne' medesimi luoghi. Noi non terrem dietro a questi ritorni e alle ripetizioni cui dànno argomento; ma noterem solo le nuove cose mirabili onde fa memoria il racconto. In sul principiar del terz'anno i naviganti scamparono da un

gran pericolo. Uno smisurato cete li inseguì gran tratto, e li avrebbe tutti inghiottiti, se un altro mostro marino, che sbuffava fuoco dalla bocca, non fosse venuto con esso a combattimento, e non l'avesse ucciso. I monaci approdarono a un'isola, dove stettero tre mesi, trattenuti dall'imperversare dei venti contrarii, poi, navigando sempre verso Settentrione, giunsero a un'altr'isola, popolata da tre torme, di fanciulli l'una, di giovani l'altra, e di seniori la terza, i quali tutti consumavano il tempo cantando salmi e lodando ilPadre celeste; e quivi si rimase il secondo di quei fratelli che raggiunsero il santo dopo la dipartita sua dal monastero. E sempre meraviglie seguitavano a meraviglie: un'isola tutta densa di alberi di una sola specie, i quali recavan per frutto grappoli d'uva di portentosa grandezza, ove ogni acino era della misura di un pomo; l'uccello griffa, che minacciò di divorare i naviganti, e fu ucciso da un altro uccello; un mare di meravigliosa limpidità, in fondo al quale si vedevano giacer sull'arena infiniti animali, a guisa di greggi; una smisurata colonna di cristallo chiarissimo, la quale sorgeva dal profondo del mare, e pareva toccare con la cima il cielo, e aveva intorno come un gran padiglione, fatto a maglie larghissime e di una sostanza che aveva il color dell'argento. Tanto corsero i naviganti verso Settentrione che raggiunsero le terre dei dannati. E prima videro una isola popolata da orrendi fabbri ferrai, i quali scaraventarono loro dietro sul mare ingenti masse di metallo arroventato; poi un monte ignivomo, dove il terzo ed ultimo di quei monaci avventizii fu rapito dai diavoli. Passati alcuni giorni, trovarono Giuda sedente sopra una pietra in mezzo all'oceano, in una condizione che sembra a lui di riposo e di felicità paragonata con quella della sua dimora ordinaria, nel più profondo abisso d'inferno. Quel refrigerio è a lui conceduto dalla divina misericordia in ciascuna domenica, e nei giorni ancora che vanno dal Natale all'Epifania, dalla Pasqua alla Pentecoste, e dalla purificazione all'assunzion di Maria. Più oltre, navigando verso Mezzodì, trovarono sopra uno scoglio un eremita per nome Paolo, il quale, nutrito miracolosamente da una lontra, aveva raggiunto l'età di centoquarant'anni, e doveva aspettare, vivo, il giorno del Giudizio. Essendo già prossima la fine del settimo anno, San Brandano e i compagni suoi, si videro avvolti un giorno da una densa caligine, e quella attraversata, giunsero a un'isola circonfusa di splendidissima luce. Era quella la terra di promissione, l'isola paradisiaca, da essi con sì tenace desiderio cercata. Scesero su quella spiaggia benedetta, e videro la campagna tutta verde di alberi, e mangiarono di quei frutti deliziosi, e

bevvero di quell'acque dolcissime. Trovarono il fiume che spartiva la terra per mezzo, e oltre il quale non era lecito di passare, e seppero da un giovane che Dio rivelerebbe quella felice stanza ai cristiani quando fossero ricominciate le persecuzioni. Adempiuto il voto, i felici esploratori presero la via del ritorno, dopo avere empiuta la nave di frutti e di gemme, e rividero finalmente la patria, dove San Brandano indi a poco morì, migrando gloriosamente a Dio e alla gloria del cielo.

Tale è il racconto di questo mirabile viaggio, tuttoimpregnato di spirito ascetico, ma penetrato ancora di un certo spirito eroico. I naviganti continuamente si raccomandano a Dio, pregano, digiunano, sono pasciuti miracolosamente, ascoltano rivelazioni e predizioni, e si mostrano in tutto degni del nome di santi; ma sostengono pure enormi fatiche, affrontano spaventosi perigli, e provano di meritare anche il nome di eroi. San Brandano chiama i compagni commilitones e conbellatores; gli autori delle versioni francesi e tedesche li chiamano baruns e degen.

Di quali elementi, e donde venuti, s'ha a dire composto sì fatto racconto? Fu opinione del Cholevius che alcune delle meraviglie in esso narrate sieno di origine classica; ma sebbene questa opinione, presa in sè stessa, non appaja troppo improbabile, quando si pensi al rifiorimento di studii classici onde fu rallegrata l'Irlanda nei secoli VI, VII, e VIII, pure non regge a un diligente e spregiudicato esame. Le immaginazioni ond'è tessuto il racconto dovettero nascere, per la più parte, nella patria stessa di San Brandano; ma non si può escludere la possibilità che alcune di esse sieno orientali di origine, come non si può escludere la possibilità che alcune sieno passate dal racconto latino in racconti orientali.

Tre sono, come ho detto, le redazioni della leggenda di San Brandano: quella del racconto gaelico; quella della Navigatio; quella di alcuni racconti tedeschi e di uno olandese. Veduta per intero la seconda, vediamo ora alcune particolarità per cui dalla seconda si differenziano le altre due.

Nella redazione gaelica manca il racconto di San Barinto. San Brandano sente nascersi dentro spontaneamente il desiderio di visitare la terra di promessione; la contempla anticipatamente da lungi, per grazia che il cielo gli concede, e riceve da un angelo la promessa che il suo desiderio sarà appagato. Prende il mare con tre navi, entro ciascuna delle quali sono trenta de' suoi compagni. Naviga sette anni, e ritorna in

patria, senz'aver veduta la terra beata che l'aveva tratto sui mari. Imprende un secondo viaggio, e dopo altri sette anni giunge finalmente alla terra di promessione, e gli è conceduto di visitarla. Non accade far ricordo delle avventure del doppio viaggio, le quali son quasi tutte diverse da quelle della Navigatio.

Nella redazione che chiameremo tedesca il principio del racconto è di tutt'altra maniera. San Brandano getta nelle fiamme, come opera bugiarda, un libro in cui son narrate appunto quelle meraviglie di cui egli dovrà essere spettatore più tardi. Dio, per punirlo della sua incredulità, gl'impone di compiere il viaggio e di riscrivere il libro. I naviganti incontrano le stesse avventure narrate nel racconto latino; ma anche più altre, di cui non è cenno in questo: sono spinti da una procella nel Mare viscoso, mar formidabile,sparso di navi trattenute quivi in perpetuo; scampano al gran pericolo del Monte della calamita; hanno briga coi grifoni e con le sirene. Queste immaginazioni son derivate da altri racconti romanzeschi.

Nella Navigatio il Paradiso terrestre è descritto con sobrietà che può parere eccessiva, quando si pensi ch'esso porge lo scopo del viaggio, e si consideri la prolissità con cui vi sono descritte o narrate cose di assai minor conto. Questo difetto non incontra nell'altre due redazioni, e non incontra nemmeno in parecchie versioni della Navigatio. Nella redazione gaelica il Paradiso è descritto assai lungamente, e non troppo in breve nella redazione tedesca. Qui si legge che San Brandano e i compagni suoi giunsero a un'isola tenebrosa, il cui suolo era d'oro, tutto sparso di pietre preziose, e dopo essere rimasti quindici giorni immersi nell'oscurità, pervennero, rimontando il corso d'un'acqua, in una sala tutta scintillante d'oro e di gemme, dinanzi alla quale era un fonte, che spandeva quattro rivi, di latte, di vino, d'olio e di miele, e da cui derivavano la lor virtù tutti gli aromi e le spezie. Nella sala erano cinquecento seggi, e quante ricchezze può avere un imperatore: il soffitto era coperto di penne di pavone. Giunsero poi i naviganti a una città di meravigliosa bellezza, raggiante di luce, immune da qualsiasi intemperie, davanti alla cui porta sedevano Enoch ed Elia, ed era un angelo, con una spada di fuoco in mano. Costoro presero uno dei monaci, e lo misero dentro alla città, e subito Enoch chiuse la porta e lasciò gli altri di fuori. Merita d'esser notato che nella redazione tedesca San Brandano e i compagni suoi giungono al Paradiso, non già in fine, ma quasi in principio del viaggio. In qualche rimaneggiamento latino, e

in taluna delle versioni francesi della Navigatio, si descrive il muro tutto sfolgorante di gemme ond'è cinto l'aureo monte del Paradiso, la porta custodita da dragoni, i boschi pieni di selvaggina e le acque popolate di pesci. La versione italiana contiene una descrizione abbastanza diffusa, con particolarità che non appajono altrove.

Soffermiamoci alquanto, chè non sarà senza frutto, a rilevare nella nostra leggenda alcune cose che possono dar materia a indagini e a riscontri.

Il racconto della Navigatio somiglia molto a quelle narrazioni gaeliche di viaggi ricordate più sopra. Il palazzo inabitato, dov'è copia di tutte le cose necessarie alla vita; i frutti portentosi di cui basta uno solo a sfamare e dissetare per lunghi giorni i naviganti; l'isola popolata di fabbri ferrai; il mare limpidissimo di cui si scorge il fondo; la colonna smisurata che si leva dall'acque e nasconde la sommità fra le nuvole, l'isola degli uccelli bianchi; altre meraviglie veduteda San Brandano e da' compagni suoi, si trovano nel racconto delle navigazioni di Maelduin e di Snedhgus e Mac-Riaghla.

Quanto all'isola popolata di pecore, gioverà ricordare che Ulisse trova, vicino al paese dei Ciclopi, l'isola Lachea; ma è questo un riscontro puramente fortuito. Un'isola, dov'era grandissima quantità di montoni, scoprirono anche gli Almagrurini, viaggiatori arabici, la cui navigazione è narrata da Edrîsi e da Ibn-al-Vardi. Notisi che il nome delle isole Färoer è composto di due vocaboli, i quali significano, l'uno pecora, l'altro isola, e che Dicuil dice quelle isole plenae innumerabilibus ovibus.

Il cete scambiato per un'isola si ha nello Pseudo-Callistene, nella narrazione dei viaggi di Sindbad, in un racconto talmudico, altrove; ma questo tema di leggenda ebbe origine probabilmente nel Settentrione, e dal Settentrione, insieme con altri assai, che già diedero materia al poema di Aristeo di Proconneso intitolato 'Αριμάσπεια, si diffuse verso Mezzodì e verso Oriente.

Gli angeli caduti, che San Brandano trova sotto forma di uccelli in un'isola, darebbero luogo a parecchie osservazioni, e argomento a parecchi riscontri; ma di essi mi si porgerà occasione di discorrere altrove.

Nella Navigatio è cenno di un mare quasi coagulatum pre nimia tranquillitate; ma nei racconti tedeschi esplicitamente si parla di un mare glutinoso, che nelle onde innavigabili trattiene prigioniere le navi. Questo mare non fu ignoto agli antichi. I Latini lo dissero mare pigrum,

coenosum, o concretum, ed esso trova un riscontro nel Polmone marino di Pitea e nel Marimarusa di Filemone. Dai Tedeschi fu chiamato Lebermeer, Lebersee(mare jecoreum), Klebermeer, e vedesi ricordato, o descritto, in parecchi de' loro poemi, per esempio nel Herzog Ernst e nell'Orendel. Il mare coagulatum è ricordato pure nella già citata lettera del Prete Gianni all'imperatore Emanuele, come quello che dovrebbe trovarsi a occidente dell'Europa: ma Giovanni di Hese pone il mare jecoreum in Oriente, di là dall'Etiopia, e seguendo l'esempio datogli da altri, ne congiunge il mito con quello del Monte della calamita. Anche Beniamino di Tudela del resto sembra aver posto nel remoto Oriente un mare coagulato.

Prima di giungere al Paradiso terrestre San Brandano e i compagni suoi attraversarono una così densa caligine che appena l'uno poteva scorgere l'altro. Essi passarono probabilmente quell'incognito e tenebroso mare a cui accenna Adamo Bremense, e che già noto agli antichi, vedesi spesso descritto dai geografi arabici; mare che era nell'estremo Occidente e nell'estremo Oriente, perchè confondevasi col misterioso oceano che fasciava tutto intorno la terra. Credettero gli Arabi che fuori dal mar tenebroso occidentale si levasse la smisurata mano di Satana, pronta a ghermire le navi che ci si avventurassero; e nel Pellegrinaggio di tre figli del Re di Serendib, di Cristoforo Armeno, si parla di unaregione dell'India, dove si vedeva uscir dal mare una gran mano aperta, che la notte ghermiva gli abitanti e li trascinava sott'acqua.

I fabbri ferrai non sono già Ciclopi, come parve al Cholevius; ma veri diavoli(e qualcuna delle versioni lo dice espresso), e, assai probabilmente, diavoli martellatori di anime. Così fatti martellatori già compajono nella Visione di Tespesio, riferita da Plutarco, e ricompajono più volte in Visioni e leggende del medio evo. Nella Visione di Tundalo sono fabbri diabolici che con le tenaglie afferrano le anime, le gettano nelle fornaci ardenti, e arroventatele, e appastatene venti, trenta, cento insieme, le martellano a furia sulle incudini. Giovanni Villani, ripetuto da Ricordano Malispini, racconta che Ugo, marchese di Brandeburgo, cacciando un giorno in un bosco, trovò uomini neri e sformati, che tormentavano, con fuoco e con martello, anime dannate, e fu da quelli avvertito che, non emendandosi, gli sarebbe toccata egual sorte.

Alle genti di razza brettone e gaelica doveva parer naturale di porre l'Inferno, anzichè nelle viscere della terra, nelle varie isole mal note e di malagevole accesso, sparse per il burrascoso oceano. Nelle carte

medievali è spesso indicata col nome d'isola dell'Inferno una delle Isole Canarie, e più particolarmente quella di Teneriffa.

Dopochè San Brandano ebbe veduto Giuda sedere sopra una pietra in mezzo all'oceano, più altri esploratori e venturieri, meno reali e storici di lui, ebbero ad incontrarlo, presso a poco nelle medesime condizioni: tali Ugone da Bordeaux e Baldovino da Sebourg. Ugone lo trovò in un gran gorgo di mare, pel quale debbono passare tutte le acque che sono sulla terra:

Toutes les iaves, quanques dix fait en a,

U qu'eles soient par ichi pasera.

Il monte ignivomo di San Brandano è certamente l'Hecla.

Da ultimo è da ricordare che la leggenda marinaresca fiorì già in Grecia in antico e riappar frequente nella letteratura tedesca del medio evo.

L'isola paradisiaca visitata da San Brandano lasciò di sè lungo ricordo e vivissimo desiderio. Durante tutto il medio evo, e per buon tratto di tempo anche dopo, si credette generalmente e fermamente alla sua esistenza. Nelle carte essa fu molte volte indicata, sebbene con differenze grandi, e naturali, di luogo. Quelle più antiche le assegnano presso a poco la latitudine dell'Irlanda, o una latitudine anche più settentrionale; nelle più moderne l'isola scende verso Mezzodì, e appare a ponente delle Canarie, o Isole Fortunate, e con queste, facendosene d'una parecchie, è confusa talvolta, o col gruppo di Madera. Così nella mappa dei Pizzigani, ove si vedono nel mare occidentale le ysole dicte Fortunate S. Brandany, e San Brandano in atto di stendere le braccia verso di esse; così in quella di Grazioso Benincasa, ove pur compajonole Insule fortunate sancti Brandani, e in quella del Genovese Beccaria. Il Maurolico nel Martyrologium, e Onorio Filopono nella Navigatio in Novum Mundum, affermano che San Brandano approdò alle Canarie. Nel globo di Martino Behaira, del 1492, l'isola meravigliosa è situata assai più verso Occidente e in prossimità dell'equatore. Gli abitanti delle isole di Madera, di Palma, di Gomera e del Ferro, ingannati da nubi, o dagli spettri della Fata Morgana, credevano talora di scorgerla dalla parte di Occidente, come perduta fra l'acqua e il cielo. E già essa aveva preso il nome d'isola Perduta, Insula Perdita, e dicevasi, con qualche reminiscenza forse dell'ἀπρόσιτον νῆσον degli antichi, che quando si cercava non si trovava. Nella Image du monde si legge:

Une autre ille est que on ne puet

Veoir comme on aler se veult,

Et aucune fois est veue:

Si l'appelle on l'Ille Perdue.

Celle ille trouva sains Brandains,

Qui mainte merveille vit ains.

Ma quest'isola Perduta, visitata da San Brandano, non si diceva poi che fosse il Paradiso terrestre. Onorio d'Autun l'aveva descritta come la più amena e la più fertile di quante ne sono in terra: "Est quaedam Oceani insula dicta Perdita, amoenitate et fertilitate omnium rerum prae cunctis terris praestantissima, hominibus ignota. Quae aliquando casu inventa, postea quaesita non est in venta, et ideo dicitur Perdita". Rodolfo da Ems dice che l'Isola Perduta è il più bel paese del mondo, dopo il Paradiso terrestre, e che San Brandano v'andò,

der vil wunderliche gotes degen;

ma a nessun altr'uomo fu più conceduto di ritrovarla. Pietro Bersuire riferisce questa stessa immaginazione alle Isole Fortunate, così dette da alcuni "quia casu et fortuna quandoque reperiuntur; si autem a proposito quaerantur, raro aut nunquam inveniuntur". In un trattato dell'arte di navigare di Pietro di Medina, autore spagnuolo del secolo XVI, l'Isola Perduta si confonde con la famosa Antilia, da cui venne il nome alle Antille.

L'Isola Perduta e introvabile fu cercata da molti, specie dopo che la scoperta del Capo di Buona Speranza e dell'America, ebbe acceso negli animi la febbre delle remote esplorazioni; e qualcuno pretese anche di averla trovata. Ad ogni modo era comune speranza che dovesse, un dì o l'altro ritrovarsi; e quando, il 4 di giugno del 1519, Emanuele di Portogallo rinunziò alla Spagna, col trattato d'Evora, ogni suo diritto sull'Isole Canarie, l'Isola Perduta, o Nascosta, fu espressamente compresa nella rinunzia. Nel 1569 Gerardo Mercator segnava ancora sulla sua mappa l'isola misteriosa, e nel 1721 partivano in traccia di essa gli ultimi esploratori.

La leggenda di San Brandano n'ebbe poche pari in celebrità. Essa fu introdotta, in forma più o meno svolta, secondo le redazioni, nella Image du monde, che diffusissima essastessa, ajutò a diffonderla sempre più. Un frate Filippo di Cork la inserì, non so se per disteso o in ristretto, in un suo trattato provenzale delle meraviglie dell'Ibernia, che si conserva tra'

manoscritti del Museo Britannico; Pietro de Natalibus nel suo Catalogus Sanctorum; Wynkyn de Worde nella sua Golden Legend, ecc. Ricordi se ne trovano nel Lohengrin, nel Wartburgkrieg, e in altri poemi tedeschi. Essa era divenuta un tema consueto di narrazione e di recitazione, e in un luogo della prima rama del Renard si trova ricordata insieme con istorie romanzesche del ciclo brettone. Inni di religiosi sonarono in onore del santo che aveva corsi i mari, e preghiere si recitarono, che dissero composte da lui fra i perigli della temeraria navigazione. Giovanni di Hese ebbe fantasia di emularlo, e accrebbe con brandelli della leggenda di lui l'ingegnoso tessuto delle sue innocenti bugie. Nel presente secolo poeti inglesi si ricordarono del santo morto da dodici secoli, e presi d'ammirazione, ne ricantarono in vario modo le meravigliose avventure.

Di queste avventure pochissimi si mostrarono disdegnosi nel medio evo, e di questi pochissimi fu Vincenzo Bellovacense. Egli dice d'avere escluso affatto dall'opera sua la storia della peregrinazione di San Brandano a cagione dei vaneggiamenti ond'essa è piena, propter apocripha quaedam deliramenta que in ea videntur contineri. Ora, sì fatto rigore ha alquanto dello strano, perchè se la fama onde Vincenzo gode presso i posteri è, per più rispetti, onorevole, non però è fama di uomo in cui abbondi lo spirito critico e naturalmente avverso a raccontar fanfaluche. E più sembra strano quando si vede ch'egli, mentre ricusa di narrare la storia di San Brandano, narra poi la storia non molto meno miracolosa di San Maclovio.

San Maclovio o Macute, o Macuto(il Saint Malo dei Francesi) fu irlandese ancor egli; ma ottenne poca celebrità in patria, e divenne per contro un santo famoso tra gli Armoricani, i quali si studiarono di allargarne e adornarne quanto più poterono la leggenda, e l'allargarono e l'adornarono, sembra, a spese di San Brandano; e dico sembra, perchè la cronologia, in tutte queste storie di santi, è assai oscura ed incerta, e può dar luogo a opinioni contraddittorie. Nei ricordi più antichi San Maclovio è soltanto uno dei monaci di San Brandano, e un compagno de' suoi viaggi, i quali sono ricordati solamente di volo; ma poi usurpa il luogo del suo superiore e diventa il capo della spedizione, e San Brandano diventa uno dei seguaci. San Maclovio imprende due viaggi per ritrovare l'isola d'Ima, la quale non è il Paradiso, ma ha col Paradiso moltissima somiglianza. Nel secondo ha compagno San Brandano, e chiede a ungigante da lui risuscitato notizie dell'isola di cui va in traccia. Il gigante ricorda d'aver visitato una volta un'isola, la quale, cinta di un

aureo muro, splendeva come uno specchio, ed era vuota di abitatori. Pregatone, egli, ch'è di smisurata altezza, entra nell'oceano profondo, e si trae dietro la nave dei monaci, per andare alla scoperta dell'isola beata; ma insorge una furiosa burrasca, e debbon tutti tornarsene onde sono venuti. Poco dopo il gigante, che ha ricevuto il battesimo, si muore. Sigeberto Gemblacense narra anch'egli il viaggio di San Maclovio; ma dice che questi fu sollecitato, oltrechè dal desiderio proprio, dall'esempio del suo maestro ed abate Brandano, il quale ardeva non men di lui della brama di trovar l'isola felice, e fu il promotore della peregrinazione, ut scriptura vitae ejus demonstrat. Mette in dubbio che l'isola da essi cercata sia il Paradiso terrestre, e dice che, stando alla fama, è un'isola copiosa di tutti i beni e abitata da cittadini del cielo, che menan quivi santa e gioconda vita. Anche San Maclovio scese co' suoi compagni sopra il dorso di una balena, credendola un'isola, e vi celebrò una messa. Quanto al gigante risuscitato e battezzato da lui, sarà opportuno avvertire che nel racconto gaelico della navigazione di San Brandano, questi risuscita e battezza una gigantesca fanciulla bionda, la quale misura ben cento piedi d'altezza, e che richiesta, dopo il battesimo, se voglia tornare fra' suoi, o andarne subito in Paradiso, elegge la sorte più felice, e ricevuto il viatico, incontanente rimuore.

Gli esempii di San Barinto e di San Mernoc, di San Brandano e di San Maclovio, dovettero scaldare la fantasia e turbare i sonni a molti monaci di buona volontà, non meno provveduti di fede che di coraggio. Gotofredo da Viterbo, che parla della esploratrice curiosità di certi monaci dell'Armorica,

Qui marium fines scrutantur et ultima terrae,

Ut valeant populis post tempora longa referre

Quas ibi materies, quae loca mundus habet,

narra, fondandosi su certo Libro d'Enoch ed Elia, a noi sconosciuto, una storia, che reca novella prova di quei desiderii irrequieti. Cento frati in una volta si cacciano a navigar per l'Oceano:

Vela vehunt validis erecta per aequora ventis.

His super alta maris per tempora longa retentis,

Sola poli facies, aequora sola patent.

Corrono fra cielo ed acqua tre anni, poi si scontrano in certe statue emergenti dai flutti, le quali col braccio teso additano loro la via. Arrivano finalmente a una montagna odorosissima, tutta d'oro, sulla cui

vetta è una città aurea, e una chiesa, d'oro essa pure, tempestata di gemme sfolgoranti, e nella chiesa, sopra un altare prezioso, un'immagine di Maria col bambino. È quello il Paradiso terrestre. I naviganti,pieni di meraviglia, cercano da ogni banda se non vi sia persona viva, e da ultimo scoprono, in una celletta splendida e riposta, due vecchioni con barbe e chiome lunghe e candidissime, Enoch ed Elia.

Inclyta barba senum fuerat, longique capilli,

Candida caesaries; nautisque petentibus illis,

Surgentes pariter verba dedere senes.

I due santi dicono loro come in quel luogo sia variata la ragione del tempo; come, al tornare che faranno in patria, troverannosi vecchi, e vedranno mutate le generazioni, e tutt'altra la condizion delle cose. Per ingiunzione di quei due si celebra allora una messa, alla quale séguita una general comunione. I naviganti si partono, e rifanno in cinque giorni la via in cui prima consumaron più anni; ma tornati in patria non trovan più nulla di quanto già vi lasciarono. Sparita è la loro chiesa, sparita è ancor la città, e ad un popolo nuovo nuovo re dà legge novella. L'assenza loro durò trecent'anni.

Quelle statue che mostran la via hanno qualche riscontro; ma è più frequente il caso di statue, o di colonne, che avvertono altrui di non passare più oltre. Esse si moltiplicano sulle rive, o nelle men remote isole di quel formidabile Atlantico, che fu teatro alle audaci imprese dei nostri esploratori. Già le famose Colonne d'Ercole vietavano il passo gaditano. I geografi arabici, Ibn-al-Vardi Yakut, Edrîsi, Masûdi, il Geografo Nubiense, parlano di statue colossali poste in Cadice e nelle Canarie, o anche nelle Isole del Capo Verde, le quali facevan cenno di non passare più oltre; e quella di Cadice è ricordata anche nella Cronaca detta di Turpino. Nel Mare amoroso, attribuito a Brunetto Latini, si fa cenno di un passo di mare

Che fie chiamato il braccio di Saufi,

Ch'à scritto in sulla man: niuno ci passi,

Per ciò che mai non torna chi vi passa;

e nella mappa dei Pizzigani è una figura in atto di respingere i naviganti che vorrebbero inoltrarsi sull'oceano. Il Camoens ebbe a ricordarsi di queste fantasie quando immaginò il suo gigantesco Adamastore, che tenta di far tornare indietro Vasco di Gama. Ma fu pur detto che nell'isola di Corvo, la più settentrionale dell'Azore, fosse la

statua di un cavaliere che con la destra indicava l'Occidente, quasi per additare il cammino agli scopritori del Nuovo Mondo.

Dalle spiagge dell'Irlanda e dell'Armorica passiamo ora in Asia, o, se meglio piace, in Ispagna per incontrarvi l'ultimo di questi santi esploratori, Sant'Amaro, di cui narra le avventure una leggenda spagnuola. Chi fu Sant'Amaro? in che tempo viss'egli? Confesso schiettamente di non saperlo, e dubito forte non appartenga ancor egli a quella abbastanza numerosa famiglia di santi, che vivissimi nella fantasia popolare, non furono mai vivial mondo. Un santo Amaro d'ossa e di polpe ci fu, nativo, credesi, di Francia, fermatosi poi in Burgos, e già venerato in Ispagna nel secolo XV; ma egli, che attese tutto il tempo di vita sua a curar gli ammalati e servir i poveri di quella città, nulla ha da spartire col nostro. Sia come si voglia, la leggenda di questo è assai moderna, e forse di poco anteriore al 1558, del quale anno se ne ha una stampa, col titolo: La vida del bienaventurado sant Amaro y de los peligros que posò hasta que llegò al Parayso terrenal. Nelle altre letterature non se ne ha traccia; ma in Ispagna essa entrò a far parte della letteratura popolare, e leggesi tuttavia. Io la riferisco di su un pliego suelto stampato in Madrid, senz'anno, ma recentissimo.

Amaro fu d'Asia(non si dice di quale città o provincia) uomo devotissimo, caritativo, e tutto preso dal desiderio di vedere una volta il Paradiso terrestre, di cui sempre chiedeva novelle, ma inutilmente, ai molti pellegrini che gli capitavano in casa. Una notte, stando in orazione, udì una voce che gli disse: "Amaro, abbandona la tua casa, va al porto, entra in una nave, lasciala andare dove la Provvidenza la condurrà, e vedrai ciò che desideri". La dimane il santo distribuì ai poveri le sue ricchezze, solo quel tanto ritenendone che poteva bastare alla sua navigazione, e il terzo dì, accompagnato da due servitori, e da quattro amici che non vollero andasse solo a quell'impresa, si recò al porto più vicino, comperò una buona nave, la fornì del necessario, e spiegò le vele, lasciandosi menare dai venti. Trovò da prima un'isola, chiamata Deserta, ma subito se ne dilungò, avvertito da una voce del cielo che quella era terra di peccatori. Attraversò il Mar Rosso, e giunse a una seconda isola, detta Fuen-Clara, fertilissima e deliziosa, abitata da uomini di bonissima indole, i quali vivevano centocinquant'anni, senza conoscere infermità o disagio alcuno. Non si sa come, i naviganti, dopo lungo tempo, si trovarono nei mari polari, e per poco non rimasero prigionieri dei ghiacci, dai quali venne loro fatto di scampare per un buon

suggerimento che diede a Santo Amaro la Vergine Maria. Approdarono ad altre due isole, nell'una delle quali vivevano tredici monaci in una badia murata, difendendosi a gran pena da innumerevoli e formidabili fiere, e nell'altra era un sant'uomo, chiamato Leonita, perchè viveva in compagnia di sei leoni, mansueti come agnelli. Giunsero finalmente a una spiaggia deliziosa, ove nè caldo si pativa nè freddo, e quivi Sant'Amaro ebbe finalmente notizia della terra beata di cui andava in traccia, prima da dueeremiti, poi da una santa donna per nome Baralides, la quale era badessa di un chiostro ivi presso, e l'aveva veduta una volta di lontano. Guidato da costei per un tratto di via, Sant'Amaro, i cui compagni erano rimasti addietro, nel luogo ove avevano preso terra, risalì una valle, superò alti e dirupati monti, e giunse da ultimo in vista di un meraviglioso palazzo, munito di altissime torri, cerchiato di saldissimo muro, formato il tutto di gemme d'ogni colore, le quali ardevano di luce incomparabile. Fuor del palazzo, alla cui porta vegliava un gagliardo giovane con una spada in pugno, correvano quattro fiumi. Era quello il Paradiso terrestre. Accostatosi alla porta magnifica, Sant'Amaro chiese al guardiano se gli fosse lecito d'entrar dentro; ma quegli rispose che no, e che si contentasse di ciò che poteva vedere standosi sulla soglia. Obbedendo al precetto, Sant'Amaro vide gli alberi pieni di frutti, e quello, fra gli altri, del cui frutto mangiarono Adamo ed Eva; e vide cori di bellissime donzelle, coronate di fiori, le quali cantavano dolcissimamente, e sonavano varii strumenti, e servivano con somma riverenza e vivissimo amore la Vergine. Sant'Amaro credette di aver fruito di quel divino spettacolo un'ora, ed erano passati dugent'anni. Tornato al luogo dove aveva lasciato i compagni, trovò una bella città, che essi avevan fondata, e finì i suoi giorni in un monastero che gli abitatori di quella edificarono appositamente per lui.

Ma lasciamo oramai i santi, co' quali ci siam trattenuti così a lungo, e accostiamoci a un'altra schiera, formata di conquistatori e di venturieri, i quali, o deliberatamente muovono in traccia del Paradiso terrestre, con animo, talvolta di assoggettarlo al loro dominio, o, quasi senza pensarvi, a forza di girare il mondo, lo trovano, e riescono, o non riescono, secondo i casi, a penetrarvi. E come ragion vuole cominciamo da colui che la leggenda consacrò principe e modello dei venturieri e degli eroi, da Alessandro Magno.

In un racconto latino, intitolato De itinere ad Paradisum, si legge

quanto segue. Alessandro, di ritorno dalla conquista dell'Indie, si ferma sulle rive del Gange, il quale è qui tutt'uno col Fison, e contemplando alcune foglie mirabili venute dal Paradiso, esce in tale lamento: "Nulla io feci nel mondo, e nulla stimo la gloria mia, se di tali delizie non godo". E subito, raccolti cinquecento seguaci, salita una gran nave, si mette a navigare su per il fiume. In capo di trentaquattro giorni ecco appar loro una gran città, le cui mura, tutte coperte di musco non lasciano scorgere adito alcuno, e sembrano essere di grandissima antichità. Per tre giorni cercano gli esploratori tutto all'ingiro, e finalmente scoprono unapostierla angusta e sbarrata. Alessandro manda suoi messi a intimar l'obbedienza ed a chieder tributo, essendo egli signore del mondo. Al picchiar di coloro, uno di dentro apre l'usciolo, e alle parole minacciose e superbe risponde con voce blanda e tranquilla l'aspettino alquanto fin ch'ei ritorni. Va e torna, recando una gemma di singolare qualità e bellezza, e dice loro la dieno al lor re, perchè conosciutane la natura, tosto smetterà ogni ambizioso pensiero. Alessandro, veduta la gemma, udita la risposta, incontanente si parte, e raggiunge le sue genti, insieme con le quali se ne va poscia a Susa. Quivi un vecchio Ebreo gli fa conoscere la virtù della gemma, e gliene svela il misterioso, simbolico significato. La gemma, messa nel piatto di una bilancia, vince di peso ogni maggior copia d'oro che le si contrapponga, ma, coperta di un pizzico di polvere, diventa più leggiera di una piuma. Stupisce Alessandro, e l'Ebreo gli dice: "Questa gemma è immagine dell'occhio umano, che vivo di nessuna cosa si appaga, morto e coperto di terra più nulla vagheggia". Alessandro intende l'ammaestramento, e represso ogni ambizioso affetto, e licenziati i compagni d'arme, si ritrae in Babilonia, dove dal tradimento è troncata la gloriosa sua vita. La città murata e chiusa è la dimora dei giusti, ove soggiorneranno sino al dì del Giudizio.

Questo racconto, pervenuto sino a noi in una redazione che probabilmente appartiene al XII secolo, è, senza dubbio, di origine molto più antica, e scaturisce da fonte giudaica. Nel trattato Tamid del Talmud di Babilonia se ne legge uno che ha con esso colleganza strettissima, anzi si può dir quel medesimo, salvo che il latino deriva da una redazione più larga e più antica. Nel racconto talmudico, l'andata di Alessandro al Paradiso si rannoda con l'avventura della fontana di giovinezza, e l'eroe riceve dagli abitatori del Paradiso, non una gemma simbolica, ma un vero occhio umano, il quale si comporta del resto come la gemma. La leggenda passò nell'Alexander del Tedesco Lamprecht, ma

con alcune particolarità diverse da quelle pur ora vedute, e ch'egli, o poneva di suo, o toglieva da scrittura a noi incognita. Alessandro e i compagni suoi risalgono l'Eufrate(non il Fison) sostenendo grandi fatiche, e terribili procelle, che mettono a dura prova il loro coraggio e la loro perseveranza. Alessandro ha fermo nell'animo di conquistare il Paradiso, e infiamma i commilitoni alla gloriosa impresa. Dopo lunga navigazione giungono a un muro altissimo, tutto costruito di pietre preziose, del quale non viene lor fatto di vedere la fine. Trovano da ultimo la porta, fanno la intimazione a quei di dentro, ricevono la gemma. I più giovani contendono co' piùvecchi e savii: questi consigliano ad Alessandro di tornare; quelli di seguitar l'impresa incominciata. Prevale il consiglio dei primi. Tornato in Grecia, Alessandro fa vedere la gemma a molti che non sanno conoscerne la virtù, finchè un vecchio Ebreo, da lui fatto venire appositamente, gliela scopre, servendolo per giunta di una lunga ammonizione. Con quest'avventura finisce il poema.

L'avventura fu pure narrata da Tommaso di Kent nel Roman de toute chevalerie, e introdotta da un interpolatore nel poema di Lambert li Tors e Alessandro da Bernay, e ripetuta nella compilazione intitolata Faits des Romains, nei Fatti di Cesare nostri, dal Mandeville, da Pietro Paludano nel suo Thesaurus novus. Giovanni di Hese dice che vicino al Paradiso terrestre è un monte, sul quale fu Alessandro, che soggiogato tutto il mondo, dallo stesso Paradiso volle avere tributo. La novella dell'occhio umano, o della gemma che lo simboleggia, si trova anche separatamente dal racconto del viaggio di Alessandro al Paradiso.

Gli Arabi e i Persiani, che tante favole meravigliose narrano del Macedone, parlano bensì di una spedizione ch'ei fece in cerca della fontana di giovinezza, ma ignorano la sua andata al Paradiso. Solo Nizâmi, il quale fa compiere all'eroe un viaggio nell'Oceano Atlantico, dice ch'ei seppe, da certi selvaggi abitatori d'un deserto posto di là dal mare, come fosse, nella regione dove più non brilla il sole, una città magnifica, abitata da uomini di santa vita, i quali, senza mai invecchiare, vivevano cinquecent'anni; e il poeta conduce l'eroe a una terra felice, posta verso Settentrione, popolata da genti scevre di ogni malizia. A questo proposito non parrà superfluo ricordare come Firdusi narri dell'andata di Rustem all'Alburz.

Di Alessandro Magno, che presunse di assoggettare persino il Paradiso terrestre, ebbe forse a ricordarsi l'Ariosto, quando attribuì il pensiero temerario di così gran conquista al suo Senapo, che ne fu punito con la

cecità e con le Arpie. Il Senapo

Inteso avea che su quel monte alpestre,

Ch'oltre alle nubi e presso al ciel si leva,

Era quel Paradiso che terrestre

Si dice, ove abitò già Adamo ed Eva.

Con cammelli, elefanti, e con pedestre

Esercito, orgoglioso si moveva,

Con gran desir, se v'abitava gente

Di farla alla sua legge ubbidiente.

Un autore spagnuolo del secolo XVI, Giovanni Gonzalez di Mendoza, narra, traendola non so d'onde, la storia di un re del Bengala, il quale mandò gente, con molte barche, su per il Gange, ordinando loro d'andarne alla scoperta del Paradiso terrestre. Gli esploratori navigarono più mesi a ritroso del fiume, e giunsero finalmente a un luogo ove era mitissima la corrente, e già molti segni apparivano della prossimità della felice dimora; ma per quanti sforzi facessero non poterono passar piùoltre, sebbene non ci si vedesse impedimento alcuno.

Tornando per un istante ancora ad Alessandro Magno, ricorderò, per opportunità di riscontro, come nello Pseudo-Callistene si racconti l'andata di lui, attraverso a un paese tenebroso, ov'è la fontana di giovinezza, sin presso alle sedi dei beati, dalle quali lo fanno allontanare due uccelli parlanti; e come nel racconto di Giulio Valerio, sia dato il nome di Paradiso al luogo dove gli Alberi del Sole e della Luna diedero all'eroe il famoso responso. Nel Titurel, due principi indiani, che si vantano discendenti da Alessandro, descrivono il loro paese, che si chiama Paradiso, senza però esser quello dei primi parenti.

Ecco ora farcisi innanzi parecchi eroi della leggenda cavalleresca medievale. Di Merlino si narra che movesse con una nave di cristallo in traccia dell'isole beate. Di Ugone da Bordeaux si può dire che, se non fu nel Paradiso terrestre, fu in luogo molto a quello somigliante. Un grifone lo trasportò sopra una montagna che non conosce le tempeste, e dove sono alberi bellissimi e tutti i frutti della terra, e la fontana di giovinezza. Gesù Cristo vi si riposò e la benedisse. Per comando di un angelo, il cavaliere tolse tre pomi, che avevano virtù di far ringiovanire. Ma ben giunse al Paradiso terrestre un altro eroe, Baldovino da Sebourg. Spinti da una furiosa procella, Baldovino e Poliban passarono il mar d'Inghilterra, passarono il mare d'Irlanda, e corsero oltre finchè si offerse

loro agli sguardi un giardino meraviglioso, murato tutto intorno di cristallo, splendente come l'oro. Era quello il Paradiso terrestre. Approdarono i naviganti, e sulla porta trovarono Enoch ed Elia, i quali, non vecchi già, ma parevano essere nel fiore della giovinezza, e accolsero i cavalieri molto benevolmente, e li misero dentro. Qui le solite meraviglie: uccelli che cantano dolcissimamente, tra' quali alcuni che nascono da un raggio di sole e sono detti salamandre; serenità perpetua; alberi sempre verdi e carichi di frutti; l'albero del peccato, tutto secco. Elia fece tornare il re Poliban di trent'anni, dandogli a mangiare di certo pomo. Baldovino, ch'era giovane, avendo voluto far ancor egli l'esperimento, contrariamente all'ammonizion del profeta, divenne in un momento vecchissimo, e pien d'acciacchi, e non racquistò la gioventù perduta se non quando Enoch gli ebbe dato a mangiare di un altro pomo del giardino. I cavalieri seppero dai profeti che nel Paradiso avverrà il Giudizio universale. Quando se ne partirono, sembrava loro di esserci stati due giorni, e c'erano invece rimasti due mesi.

Un eroe più illustre di Baldovino, e anche di Ugone, fu Uggeri il Danese, del quale pure si narra che andasse al Paradiso terrestre. In uno dei poemi francesi cuila sua storia porge argomento, il poeta lo conduce, non nel Paradiso propriamente, ma in quelle vicinanze:

Car le Danois s'en va ou chastel d'aimant,

Qui siet par faerie les Avalon le grant,

Et Paradiz terrestre est un petit avant,

Dont Enoc et Elie vont le saint lieu gardant,

Et y furent ravy en char de feu ardant,

Et la sont tous en vie, et sont jusqu'à tant

Qu'Antecrist regnera, et cil deux dieu sergant

Le meteront a fin: on le treuve lisant

En la sainte escripture qui pas ne va mentant.

Segue poi il racconto del lungo soggiorno che fece l'eroe in quel paradiso dei cavalieri che fu l'isola di Avalon. Il medesimo si ha nel romanzo in prosa, calcato sul poema; ma moltiplicando e affastellandosi sempre più le avventure dell'eroe, gli era naturale che venisse a cacciarsi tra queste anche un vero e proprio viaggio al Paradiso. Di tale viaggio è ricordo nei Fioretti dei paladini. Giovanni d'Outremeuse narra che Uggeri volle conquistare il Paradiso terrestre, e con un esercito di

ventimila uomini passò regioni popolate di serpenti, attraversò la valle tenebrosa, vide molte isole, molti strani e spaventosi animali, mangiò dei frutti degli Alberi del Sole e della Luna, e giunse al Paradiso, il quale è tutto cinto di monti altissimi, ed ha un'unica entrata, guardata da fiamme, che non lasciano passare nessuno.

Uggeri non pare che sia penetrato nel luogo vietato, ma bene vi penetrò un altro cavaliere, il quale ebbe anche la ventura di visitare l'Inferno, Ugo d'Alvernia. Dopo molte e molte avventure, le une più strane delle altre, Ugo giunge al Paradiso terrestre, vede la fonte da cui nascono i quattro fiumi, e presso a quella l'albero disseccato, che pare tocchi con la vetta il cielo, e tra i rami dell'albero la Vergine, con in braccio il bambino; poi trova Enoch ed Elia, i quali si comunicano con cert'ostie ch'egli ebbe dal papa, e portò seco nel viaggio. Così nel testo italiano del poema, che manoscritto si conserva nella Nazionale di Torino, e così ancora, secondo ho ragion di credere, nel franco-italiano della Biblioteca Regia di Berlino. Nel romanzo in prosa di Andrea da Barberino il racconto corre alquanto diverso. Ugo risalì, cavalcando, verso le sorgenti del Nilo, accompagnato da alcuni grifoni, suoi fedeli ajutatori: "trovò una nugola, come tenebra scura, ed era come un muro, e alta, e tagliata insino all'aria, e divideva la luce". Quivi presso era un pilastro, con una scritta, la quale avvertiva chiunque non fosse mondo di peccato di non andare più oltre. Ugo penò tre giorni ad attraversar quelle tenebre, dopo di che giunse a un bel pratofiorito, pieno d'alberi, ch'era la Terra Santa di Promissione: Vide Enoch ed Elia, e un luogo cerchiato di muro, ch'era più propriamente il Paradiso terrestre, dove i santi dissero che nessun uomo vivo poteva entrare; e non ben s'intende se all'eroe sia conceduto d'entrarvi.

Molta somiglianza morale ha con Ugo d'Alvernia Guerino il Meschino, e molta somiglianza spesso è tra le loro avventure. Guerino giunge al Paradiso terrestre scendendo nel Pozzo di San Patrizio. Uscito dall'Inferno, il cavaliere perviene, in compagnia di molti spiriti vestiti di bianco, davanti a un muro, che gli sembra d'oro massiccio, tempestato di gemme, ed è alto sino al cielo, e splende a guisa di fuoco ardente. S'apre una porta, e n'esce un soavissimo odore, e uno di quegli spiriti porge al cavaliere un pomo molto odorifero, da cui questi si sente tutto riconfortare. Soppraggiungono Enoch ed Elia, i quali menano il cavaliere in giro per una felice campagna che si stende tutto all'intorno. Nel Paradiso stesso nessun uomo mortale può entrare. Più oltre Guerino

vede una città risplendente, cinta di un muro di fuoco, e ode il canto degli angeli, ond'è rallegrata, ed ha, attraverso una porta, un'assai strana visione della Trinità. Non s'intende bene se questo sia il Paradiso terrestre o il celeste; ma è probabile sia il celeste. Tullia di Aragona rinarra tutto ciò, con alcune differenze, nel suo poema, e pone ad abitare nel Paradiso terrestre, insieme con Enoch ed Elia, anche San Giovanni.

Con la storia di Ugo d'Alvernia e di Guerino ha molta affinità la storia di un Fortunato, che non ha nulla di comune con quello celebre della leggenda popolare, al quale la Fortuna aveva fatto dono della borsa che mai non si votava. Tale istoria porge materia a un ponderoso romanzo in prosa, che si conserva fra i manoscritti palatini di Firenze. Come Guerino, il nostro Fortunato va in cerca del padre, che non conosce; compie il solito viaggio in remote regioni; vede le solite meraviglie; e giunge, con alcuni compagni alle falde del monte del Paradiso, il quale è "tanto altissimo, che la fine dell'altezza" non si può vedere, e nemmeno il mezzo; e così erto, che non ci si può salire da quella parte. I viaggiatori son venuti su per il Fison, e si trovano nella provincia d'Etiopia, confusa spesso, come s'è già notato, con l'India. Dopo molt'altri giorni di viaggio, confessatisi e comunicatisi a una badia, salgono il monte dalla parte opposta, e trovano "molte ville e abitanti," da' quali sono ricevuti con onore, finchè, a un certo punto, vedono il monte "cerchiato di fuoco infino all'aria," e un angelo "tutto focoso, conuna spada in mano," dice loro che a nessun uomo mortale è lecito salir più su, e li invita a mandare un sacerdote che battezzi le genti da essi convertite alla fede cristiana.

Gli è strano che l'altro Fortunato, quello la cui storia compare in tutte quasi le letterature d'Europa, non esclusa l'italiana, non giunga ancor egli al Paradiso terrestre, dappoichè la leggenda lo fa scendere nel pozzo di San Patrizio, visitare il paese del Prete Gianni, e correre tutto il mondo.

Gli ultimi cavalieri da noi incontrati ci hanno quasi ricondotti nel mondo monacale ed ascetico, tanto è spiccato in essi il carattere religioso, tanta la devozione con cui lungo tutto il corso degli strani lor viaggi, e in mezzo a mille avventure e a mille pericoli, si raccomandano a Dio, gridano i loro peccati, digiunano, si macerano, e si confessano ogni qual volta è data loro occasione di poterlo fare. Perciò sarà da ricordare qui la saga di Eirek, figlio di Thrand, re di Drontheim, saga che manifestamente intende alla edificazione. Partitosi dalla sua terra, Eirek giunge, in compagnia di un suo amico, a Costantinopoli; ha con

quell'imperatore un colloquio di argomento religioso; attraversa la Siria, entra in mare, giunge in India, e a un ponte guardato da un drago. Di là dal ponte è il Paradiso. Eirek vi penetra, gettandosi nella bocca spalancata, passando attraverso il corpo del mostro. Trova una campagna fiorita, corsa da rivi di miele, e una torre sospesa in aria, a cui sale su per una scala leggiera, e dove gli si offre una tavola apparecchiata. Tornato in patria dopo sette anni di assenza, narra, a confusion dei pagani, le sue avventure, poi sparisce, rapito miracolosamente, e di lui non si ha più notizia.

Ricorderò ancora Hélias, o il Cavalier dal Cigno, dei poemi francesi, la figliuola della Reina d'Oriente, e il buon Astolfo. Del primo fu detto che venisse dal Paradiso terrestre quando comparve sulla navicella incantata, cui traeva per l'onde il candido uccello. La seconda ci fu fatta andare dal Pucci. Il terzo ci fu condotto dall'Ariosto. Astolfo, chiusa la bocca dell'Inferno, e imprigionate per sempre le tetre Arpie, si lava da capo a piè:

Poi monta il volatore, e in aria s'alza,

Per giunger di quel monte in su la cima,

Che non lontan con la superba balza

Dal cerchio della luna esser si stima.

Tanto è il desir che di veder lo 'ncalza,

Ch'al cielo aspira e la terra non stima.

Dell'aria più e più sempre guadagna,

Tanto ch'al giogo va della montagna.

Quivi fiori che pajon gemme, alberi sempre fecondi, uccelletti di tutti i colori che cantano dolcemente, ruscelli elaghi che vincono di limpidezza il cristallo, un'aura soave che va predando ai fiori il profumo, uno smisurato palazzo

in mezzo alla pianura,

Ch'acceso esser parea di fiamma viva:

Tanto splendore intorno e tanto lume

Raggiava, fuor d'ogni mortal costume.

Enoch, Elia, San Giovanni accolgono amorevolmente il cavaliere, lo alloggiano in una stanza, gli dànno di quelle frutta che non hanno simili in terra, provvedono buona biada all'ippogrifo. Il dì seguente l'eroe si leva, e dopo aver discorso con San Giovanni

Di molte cose di silenzio degne,

venuta la sera, entra con l'apostolo in un carro, tratto da quattro destrieri più rossi che fiamma, e sale al mondo della luna per ricuperare il senno d'Orlando.

Astolfo fu l'ultimo visitatore del Paradiso terrestre. Fausto, l'inquieto ed insaziabile scrutator delle cose, figura e simbolo di una nuova età, dopo aver corso in compagnia di Satana tutta la faccia della terra, e penetrato gli abissi, pervenne, secondo il popolare racconto, alle fatali giogaje del Caucaso, e vide, da lungi, fiammeggiare la spada ardente del cherubino; ma, come tratto da nuova cura, non si fermò e passò oltre. E dopo di lui nessuno più vide la porta meravigliosa sognata da tanti, e da così pochi varcata; la porta d'oro e di gemme ormai chiusa per sempre.